Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Il campanile della chiesa matrice di Copertino

 

Note documentarie intorno alla torre campanaria della chiesa Matrice di Copertino (XVI sec)

 

di Giovanni Greco, foto di Fabrizio Suppressa

La questione su chi ha inventato il campanile è abbastanza controversa almeno quanto la “scoperta” delle campane che, secondo la tradizione, si deve a San Paolino da Nola nel V secolo. I primi campanili della storia cristiana furono eretti intorno al VII secolo e fu indubitabile l’influsso dei minareti, anche se pare che il manufatto cristiano debba la sua forma soprattutto alle torri di guardia che gli abitanti dei borghi medioevali costruivano nei pressi delle chiese o dei monasteri per rifugiarsi in caso di assedio.

Nel 1577, Carlo Borromeo nel suo trattato De fabrica ecclesiae codificò per primo i canoni per la costruzione dei campanili: dovevano essere posti sulla facciata della chiesa, staccati da essa e sulla destra di chi entra; inoltre, dovevano avere preferibilmente forma quadrata e possibilmente essere dotati di un orologio. Più tardi, secondo il trattato di Francesco Cancellieri, sulla parte terminale, cuspide o loggiato che fosse, avrebbero trovato posto una croce o la sagoma metallica di un gallo, simbolo dei predicatori che svegliano chi giace nel regno delle tenebre.

In Terra d’Otranto, per quel che rimane, la tradizione dei campanili inizia con la grande guglia di Soleto del 1397 replicata, ma in modo incompiuto, mezzo secolo dopo a Corigliano dalle stesse maestranze che realizzarono il coro di Santa Caterina a Galatina. In epoca seicentesca, sulla linea del manufatto di Soleto, si innestarono quelli della Cattedrale di Lecce del 1682 e delle parrocchiali di Sternatia, di Maglie e di Lequile, per citarne alcuni. Nella seconda metà del Cinquecento ha inizio una seconda maniera, del tutto indipendente, con i campanili dell’Immacolata e di S. Domenico di Nardò, con quelle delle matrici di Galatone, Monteroni e Copertino, tutti della “maniera tarantinesca” in netta contrapposizione con i campanili della cosiddetta “serie leccese”.

Le principali caratteristiche di questa seconda serie saranno l’assenza di rastrematura progressiva nei singoli piani sovrapposti; l’assenza di coronamento a cupolino (difatti sono troncati); presentano, inoltre, delle semicolonne che possono essere due o quattro per lato che mancano nei campanili della “serie leccese”.

Osserviamo, ora, attraverso le fonti archivistiche, le vicende relative alla costruzione della torre campanaria della chiesa Matrice di Copertino, accennando preventivamente a due significativi progetti che, insieme al campanile, costituirono l’ambizioso piano di intervento voluto dal Clero e dall’Universitas, durato circa vent’anni e finalizzato all’ampliamento della Parrocchiale.

Nel 1561 la “Terra di Cupertino” contava poco più di 2300 abitanti e un crescendo benessere economico. Due aspetti che convinsero l’Universitas a favorire una serie di interventi urbanistici, tra cui l’ampliamento della Parrocchiale. Il notabilato locale che si alternava di anno in anno alla guida della comunità non era rimasto insensibile alla sua “ricettività” che, soprattutto in quel secolo raccoglieva centinaia di benefici ecclesiastici. Ovvero, beni mobili e immobili che sarebbero rimasti al riparo dal fisco per molti anni. Sicché, la classe benestante, per esprimere la propria gratitudine verso questa particolare “accoglienza”, promosse e finanziò l’ampliamento della chiesa per ingraziarsi il clero, ma soprattutto per ostentare la propria autorevolezza dei confronti del potere feudale.

La conferma di questa gratitudine porta la data dell’8 febbraio 1569, allorquando l’Universitas guidata da Giovan Francesco Morelli, stabilì di sostenere con 250 ducati la costruzione delle navate laterali affidandone i lavori al clan di costruttori guidato da Marco Antonio Renzo di Lecce. Successivamente, un atto di notar Antonio Russo del 6 ottobre 1576 ci rivela che le quattro dignità capitolari (l’arciprete Antonio Bove, l’arcidiano Cesare Desa, il primicerio Massenzio Bono il vicario foraneo Donato Gatto), per mezzo del procuratore del capitolo, Giovanni Maria della Mamma, acquistarono per 300 ducati da Margherita Boniurno e da Laura e Porzia Gambroy, un comprensorio di case per realizzare il vano absidale della chiesa. Gli immobili consistevano in una casa palazziata e cocina, camera terragna et orticello et altra camera chiamata lo Furno et conseguenti alia camera, cortilio et stalla intus detto cortilum, supportico et superiori domus, scala lapidea, cisterna et ali membri. Secondo un altro documento del 16 maggio 1579 le dignità si rivolsero al monastero di S. Chiara per avere a censo 100 ducati che servirono per beneficio della majore ecclesia pro amplianda […] per la fabrica del coro seu trabona. A margine citiamo un atto del 12 febbraio 1586 dal quale rileviamo che avendosi già finita e constructa la trabona le dignità vendettero per 55 ducati quella parte di caseggiato appartenuto ai Gambroy e che dieci anni prima era stato acquistato per la realizzazione del coro. Con la costruzione dell’abside – il cui impianto pentagonale si richiama alle cinque piaghe di Cristo, mentre la stella che deriva dal pentagono è schema del corpo umano in molti trattati del ‘4-500 – compare sulla scena artistica copertinese la figura di Giovanni Maria Tarantino, un mastro muratore neritino alla cui “maniera” si rifanno successivamente i clan di costruttori dei Pugliese, degli Spalletta, dei Bruno e degli Schirinzi.

particolare del campanile con lo stemma di Copertino

 

La prova che il Tarantino fu l’autore di questa insolita quanto ingegnosa costruzione – rintracciabile in modo quasi speculare in quel che resta dell’antica parrocchiale di Cursi – si legge in due note di introiti ed esiti presentate dai procuratori della fabbrica (i canonici Belisario Menga ed Angelo Pascali), al revisore dei conti don Giovanni Maria della Mamma, relativi all’amministrazione capitolare del 1579-80. Nella prima nota del 4 marzo 1580 leggiamo testualmente: Consignati a mastro Joanni Maria Tarantino et mastro Gio Francesco de lo Verde de la città de Nerito, mastri fabbricatori che fabricano in ditta fabrica d. 145. Nella seconda, del 15 ottobre seguente, è scritto: E più se poneno essi predetti Venerabili procuratori havere consegnati a mastro Giovanni Maria Tarantino in conto dello stancio de la fabrica della trabona d’essa ecclesia d. 106.

Ma chi era Giovanni Maria Tarantino di cui si sono occupati i maggiori studiosi salentini a partire da Luigi Maggiulli nella sua monografia su Muro Leccese nel 1871? Chi era questo genio della pietra che seppe ribellarsi all’oblio della storia, emergendo dal nulla in forza della firma apposta su almeno due delle sue opere (a Muro e a Morciano), nelle quali egli, quasi analfabeta, si dichiara “maestro” e dimostra di saper scrivere perlomeno con lo scalpello? Lo studioso Giovanni Cosi che si è occupato di lui nel 1981 in occasione delle vicende relative alla costruzione di San Domenico a Nardò, afferma che nel 1571 sposò Alessandra Manieri; che nel 1582 impegnò una dote di 6 ducati per la figlia Virginia; che nel 1593, nel 1611 e nel 1613 operò a Galatone; che nel 1616 la sua seconda moglie Prudenza Romano era già vedova.

Nel 1988, l’architetto Mario Cazzato, nel segnalare i rapporti tra centro e periferia relativamente al caso di Nardò, Galatone e Seclì oltre ai già citati centri di Muro e Morciano, individua la presenza del Tarantino anche a Minervino, Presicce, Latiano, Leverano, Tricase e Copertino. Più tardi autorevoli precisazioni verranno da Mario Manieri Elia che, tra l’altro, definirà il Tarantino una figura sulla quale – sin dal primo impatto con l’architettura salentina – sembra precipitare la parte più significativa della produzione locale della fine del Cinquecento.

A Copertino, in particolare, la bravura del Tarantino si confermò con la costruzione della torre campanaria della Matrice. Difatti, il Nostro vi fece ritorno otto anni dopo la costruzione dell’abside per aggiudicarsi l’assegnazione dei lavori.

L’erigenda torre campanaria si propose come un’opera d’arte che avrebbe sostituito il vecchio campanile a vela con tre campane del 1452 e che un bozzetto del carmelitano Angelo Rocca del 1584 ce lo mostra accresciuto di un’altra vela che insieme alla prima formava un angolo retto, alla cui sommità vi si poteva accedere per mezzo di una scala lapidea pro campanis pulsandis.

E’ il 4 settembre 1588 quando l’Universitas delibera l’incarico ai magnifici Giovan Francesco Morelli, Virgilio della Porta e Giulio Ruggiero di seguire tutte le fasi relative alla costruzione del nuovo campanile della maiore ecclesia.

Tra i compiti preliminari della terna era compreso anche quello di bandire in Copertino e nei paesi limitrofi la costruzione del campanile e di approvare il progetto più bello al costo più basso. Il 30 ottobre seguente, nella sacrestia della chiesa del convento di San Francesco intra moenia, alla presenza di notar Antonio Russo e di Colella Preyte, giurato della corte del Capitano a cui spettava di convalidare i bandi e di presiedere le aste pubbliche, si diedero appuntamento due gruppi di costruttori. Il primo era composto dai mastri neritini Giovanni Maria Tarantino, Allegrazio Bruno, Tommaso Rizzo, Angelo Spalletta e Gio. Francesco de lo Verde; il secondo dai mastri muratori galatinesi Pompeo Gugliese e Giacomo D’Amato. Insieme a loro era presente la terna deputata dall’Universitas e un nucleo rappresentativo del clero locale tra cui l’arciprete don Antonio Bove, don Bernardino Grittaglie, don Giacomo Maria Greco, il suddiacono Gio. Vincenzo Zurlo e i chierici Alfonso Zurlo, Giacomo Morello, Gio. Donato Bove e Donato Antonio Verdesca. Il giurato Colella, rivolto ai presenti disse ad alta voce: chi vole fabricare dicto campanaro, e dar migliore conditione comparga e ci mostri il suo modello e manifesta la sua offerta!.

Si fece avanti per primo il Tarantino il quale presentò un campanile in charta reali fabrice, ossia disegnato e dipinto in tutti i suoi particolari, accompagnato da pactis et capitolationibus. E’ interessante confrontare questo testo con l’oggetto cui ha dato luogo. La descrizione definisce, infatti, i vari ordini partendo dal basso e fissando dimensioni e prezzi unitari.

Guardando il modo in cui il campanile si pianta nel tessuto urbano con il forte parallelepipedo del suo basamento, riquadrato nobilmente nella faccia esposta e segnato al centro da una rosetta, impressiona la distanza tra autorità di concezione e il tono dimesso con cui le parti basamentali venivano proposte al committente in termini di pura quantità. Altrettanto vale per i successivi blocchi sovrapposti la cui dialettica proporzionale risulta condizionata dal prezzo per canna (misura equivalente a m. 2.10) o per blocco di tufo lavorato su una o su due facce.

Ma è il momento di osservare analiticamente l’offerta del Tarantino. Dapprima disse che ogni canna di fabrico relativa alla costruzione del primo ordine doveva essere retribuita a 23 grana; inizialmente l’altezza del primo ordine fu prevista di 60 palmi (cm. 26,36) poi stabilita in 70. Ogni blocco di tufo lavorato doveva essere retribuito a 3 carlini. Sei carlini, invece, furono richiesti per la lavorazione dei blocchi impiegati negli angoli. Il grosso cornicione aggettante compreso nel primo ordine (quello composto da archetti che i maestri definivano a cavalluccio), lo offrivano a 9 carlini il palmo, mentre il cosiddetto scorniggiato volevano che si pagasse il doppio.

Gli angoli di tutte la costruzione sarebbero stati costruiti in modo rinforzato a doppio concio. Fu precisato che l’intaglio che entrerà in detta opra si debba pagare a giudizio degli esperti eligendi per ambi parti a patto puro che lo detto intaglio si debbia fare a volontà delli predetti magnifici deputati e soprattutto che non s’esca da lo disegno. Si osserverà che, pur non essendoci alcuna indicazione sulla soluzione architettonica o sull’apparato iconografico, alla fine dell’opera questi risultarono assai densi e ricchi di significati.

Si può dedurre che gli elementi dell’intaglio, venivano eseguiti via via, su richiesta dei magnifici deputati o previa discussione con essi di ogni soluzione da adottare; tant’è vero che la stessa valutazione del compenso – per il quale era previsto l’arbitraggio – dipendeva dal gradimento del risultato finale da parte della committenza che evidentemente giudicava in relazione al testo iconografico.

Continuando nel capitolato proposto del Tarantino troviamo che per la squadratura semplice di un palmo di tufo fu proposto 1 tornese, mentre per quella relativa alle cornici fu richiesto il doppio. Fu precisato che il compenso per la squadratura dei tufi che si eseguiva a terra non doveva essere incluso nel canneggio della muratura in verticale. Ai mastri costruttori e ai manipoli che sarebbero stati impegnati nell’opera non doveva competere alcuna prestazione di materie prime. I deputati della fabbrica avrebbero dovuto condurre in loco tutto l’occorrente. Ossia, che il legname per l’impalcatura e i blocchi di tufo necessari dovevano essere scaricati nel cortile della chiesa esclusi quei pezzi che fino a quel giorno erano stati depositati per strada, fuori dal cortile.

Altro onere per i deputati sarebbe stato quello di dover provvedere all’alloggio delle maestranze, nonché ad un letto per ciascuno di loro escluse le lenzuola. Alle maestranze sarebbero state versate giornalmente 13 grana la canna relativamente al primo ordine (70 palmi), mentre il secondo ordine si sarebbe pagato, anche in questo caso giornalmente, a ragione di 2 carlini.

Per tutti gli altri ordini della costruzione, fino alla sua conclusione, il prezzo proposto fu 23 grana. Inoltre, si disse che, conforme alle norme in uso nelle piazze di Terra d’Otranto, l’Universitas avrebbe dovuto garantire il saldo dei lavori al termine di ogni ordine. Dal canto loro le maestranze garantivano il completamento della fabbrica entro 5 anni e ne bloccavano i prezzi pattuiti. All’Universitas, infine, sarebbe spettato il compito di scavare e svuotare le fondamenta ad una profondità che sarebbe stata stabilita dai costruttori.

Avendo consegnato il disegno ed offerto le loro condizioni, fu accesa la tradizionale candela vergine. E fino alla sua estinzione si sarebbero potuti presentare altri progetti ed altre offerte. Trascorso un tempo opportunamente lungo si fecero avanti Pompeo Gugliese e Giacomo D’Amato i quali proposero di eseguire il disegno del Tarantino a costi inferiori, cioè da 23 a 22 grana la canna. Si prestarono ad eseguire la lavorazione e la posa in opera di tutti i cosiddetti quadrelli, nonché la copertura della lamia al prezzo di 29 grana. La riquadratura del cornicione aggettante relativo al primo ordine la offrivano a 5 carlini (4 in meno rispetto al Tarantino). Infine, offrirono gratuitamente tutto l’intaglio riportato nel disegno del concorrente, esclusi i capitelli e le figure.

Al termine delle offerte il Colella chiese se vi fossero altri mastri in grado di fare proposte migliori. A quel punto entrò nuovamente in gioco l’equipe neritina che ribassò sensibilmente le offerte dei galatinesi. Proposero di fare quadrelli a 28 grana (uno in meno), e di eseguire, fare et osservare et complire tutto quello ch’anno offerto li detti mastri di S. Pietro in Galatina. In più offrirono idonea e sufficiente garanzia nell’esecuzione dei lavori e la maggior sicurezza possibile alla fabbrica.

Il 20 novembre seguente il sindaco, Giovanni Maria Caputo, convocò un pubblico reggimento durante il quale Giulio Ruggiero in rappresentanza della terna deputata per l’erigendo campanile comunicò che il partito della fabrica era stato concluso a favore di mastro Gio. Maria Tarantino e compagni di Nardò. Quindi, sollecitò la redazione di un apposito rògito notarile. Ma altro percorso restava ancora da fare.

Nel 1591, infatti, ritroviamo le dignità capitolari alle prese con l’acquisto di una porzione di suolo necessario. In un rogito di notar Antonio Russo si legge che alcuni mesi prima il Capitolo, pro amplianda Rev.da Ecclesia et construere de novo campanile, aveva acquistato per 142 ducati e mezzo dalla vedova di Pirro Li Nuci, Geronima Calia, una casa vocata la Specciaria con cantina inferiore, horto retro, camerino et camera, cisterna sita in loco dell’Ospitale da occidente, l’apotheca del quondam Giovanni Maria Chiarello da oriente, la strata pubblica da borea. Sicchè, don Agostino Chiarello, incaricato dal Capitolo, il19 agosto si accinse a stabilire con la Calia le debite cautele.

Non sappiamo quando avvenne la posa della prima pietra né se i costi subirono variazioni in corso d’opera. Se consideriamo il “1579” inciso sul lato nord del piano basamentale potremmo dire che a partire da quel 1588 ci vollero 9 anni prima che l’opera venisse compiuta. Quasi certamente essa iniziò a svolgere le sue funzioni nel 1603, come ricorda un’iscrizione lapidea posta alla base delle colonne centrali della facciata ovest, su cui è scritto che per volontà del sindaco dell’epoca, Filippo Ventura, furono collocate le campane restaurate.

A distanza di 420 anni, questa imponente opera di edilizia sacra che dall’alto dei suoi 35 metri osserva l’evolversi della storia copertinese, è ancora lì intatta, austera e simile ad una sentinella. Come un gigantesco mènhir abbrunito si erge nel cielo, si contrappone all’arcigno torreggiare del maschio angioino e sottolinea l’emergenza più significativa del profilo urbanistico di Copertino.

Bibliografia essenziale

S. Calasso, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966;

V. Zacchino, L’attività copertinese di Giovanni Maria Tarantino, in “La Zagaglia, XIV, 1972 n. 54;

G. Cosi, Spigolature su Nardò, in “La voce del Sud”, Ottobre 1981;

M. Paone, Aneddoti di storia salentina, in “Nuovi orientamenti”, a. XIV, 1984;

M. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Guida, Napoli 1988;

M. Cazzato, Rapporti tra centro e periferia: il caso di Nardò, Galatone, Seclì, Nardò 1988;

M. Manieri Elia, Barocco leccese, Electa, Milano 1989;

M. R. Tamblè, Fonti diocesane per la storia delle strutture ecclesiastiche in Copertino: benefici e legati pii (secc. XV-XIX), in “Copertino in epoca moderna e contemporanea”, vol. 1, Congedo, Galatina 1989

G. Greco, Chiesa e clero a Copertino alla fine del ‘500, Bibliotheca Minima, Copertino 1996;

R. Beretta, Il campanile torna in piazza, in “Avvenire” 17 aoprile 1997, pag 19.

 

Fonti archivistiche

Archivio di Stato Lecce, atti di notar Antonio Russo, coll. 29/2

Archivio Chiesa Collegiata Copertino, Spoglio dè protocolli fatto per me d. Pietrantonio Montefuscoli, arciprete di Cupertino, t. 1°

relazione tenuta dall’autore nella sala civica a Copertino il 9 ottobre 1997 in occasione dei 400 anni della costruzione della torre campanaria.
E’ stata pubblicata ne “il Castello”a. VII 1997, n. 1 e ripubblicata nel libro “Frammenti di storia copertinese, 2007

Il palazzo ducale dei D’Amato a Seclì (Lecce)

Seclì, palazzo ducale

di Marcello Gaballo

Qualche anno addietro l’ Amministrazione Comunale di Seclì ha concluso una lunga trattativa per l’ acquisizione di uno dei più bei complessi esistenti in questo Comune, indissolubilmente legato alla sua storia ed alle sue vicende feudali: il palazzo dei duchi D’ Amato, poi dei Severino, quindi dei Papaleo, che hanno favorevolmente concluso la trattativa.

E’ lungimirante il gesto compiuto dagli Amministratori, che certamente avrebbero potuto investire in nuovi faraonici progetti, magari conclusi dopo decenni e senza il sapore dell’ antico e del vissuto, trascurando dunque le proprie radici e le motivazioni profonde che hanno portato all’ attuale.

L’ occasione è motivo di riflessione per tutti, cittadini e non del piccolo centro, per meditare sui beni culturali, specie in questi momenti di risveglio che sembrano attuarsi nel letargico Salento.

Il godimento e l’ uso responsabile di un bene come il palazzo d’ Amato, che dovrà essere adibito a sede municipale e centro polivalente, è un monito per molti altri centri, considerati assai più all’ avanguardia e poco sensibili al fascino dei propri centri storici.

Non è per niente copiosa la bibliografia di Seclì e le poche notizie storiche che la riguardano e sinora pubblicate sono spesso incerte e dubbie. Occorreranno appassionati cultori delle proprie memorie storiche andare alla ricerca delle fonti, per capire finalmente che non si tratta poi di un borgo così insignificante, come spesso si lascia intendere.

Posseduta per più secoli dai baroni Sambiasi di Nardò, Seclì nel 1399 era stata tolta al filofrancese Mello Sambiasi per essere ceduta a Nicola Pezzullo di Lacedonia, dal quale fu ricomprata dalla stessa famiglia e quindi venduta per 1000 ducati, nel 1567, a Sigismondo, capostipite salentino di una facoltosa schiatta napoletana, i d’ Amato, giunti in Terra d’ Otranto per motivi di parentela e feudatarii.

Da Sigismondo il possesso passa al figlio primogenito Guidone (detto anche Guiduccio o Guido), che in un atto dello stesso periodo si dichiara utili domino et patrono terre Secli, residente anch’ esso, come il padre ed il fratello Cesare, a Nardò nel vicinio di S. Maria della Misericordia.

Fu quest’ ultimo ad iniziare i lavori di costruzione del palazzo di famiglia, probabilmente servendosi delle celebri ed assai valide maestranze neritine, senza escludere possibili interventi dell’ ormai noto Giovanni Maria Tarantino.

Se il palazzo fosse sorto sulle rovine di un preesistente fortellitio è difficile da appurare, ma è possibile ipotizzarlo, vista la sua ubicazione nel centro di Seclì, nelle immediate vicinanze della chiesa matrice dedicata a S. Maria delle Grazie, che lo stesso Guidone fece ampliare. Per volontà della moglie Giulia Spinelli fu invece eretto nel 1592 il monastero di S. Maria degli Angeli, extra moenia, officiato dai frati Minori Osservanti [1], sebbene la coppia, residente a Nardò, già cinque anni prima avesse donato ai frati Domenicani della stessa città 100 ducati per la costruzione e ornamento di una cappella dedicata sempre a S. Maria degli Angeli.

A Guidone successe nel titolo di baroni di Seclì il figlio Ottavio, da cui il primogenito Francesco, che col suo strategico matrimonio celebrato nel 1612 con Caterina d’Acugno dei signori della Foresta di Gallipoli, accresce il prestigio della sua famiglia e, forte degli appoggi a livello centrale, riesce ad ottenere il titolo ducale su Seclì.

Dai due nacquero Antonio, primogenito, Blasco, Livia, Anna, clarissa, Adriana e Isabella, anche questa clarissa a Nardò, più nota come suor Chiara d’ Amato di S. Caterina da Siena dei duchi di Seclì, morta nel 1693 in concetto di Santità.

Già di Francesco nel 1639, Antonio d’Amato nel 1659 riceve conferma del titolo ducale con Real Privilegio ed a lui succede il fratello Blasco, da cui passò alla nipote ex sorore Porzia, duchessa di Seclì nel 1693.

Forse per il matrimonio di quest’ ultima con un esponente della nobile famiglia Severino o per vendita, il titolo passò a questi ultimi, che lo tennero sino al 1796, quando il feudo diventò dei Rossi, signori della terra di Caprarica, la cui ultima discendente, Angiola Rossi, lo trasmise al consorte Giacomo Papaleo da Bagnolo.

Le stringate vicende storiche sono occasione per meglio comprendere il palazzo di nostro interesse, prossima sede municipale, che risulta tra i più interessanti del territorio per l’ originale e bella soluzione angolare esterna, ubicata sul piano superiore, e fortunatamente sopravvissuta con ben poco altro.

particolare del palazzo con lo stemma di famiglia (ph M. Gaballo)

“Ardito montaggio di due arcate marcatamente ogivali -scrive l’ arch. Mario Cazzato- che dovevano contenere altrettante aperture balaustrate; in prossimità dello spigolo dell’ edificio l’ arcata relativa poggia su una cornice sostenuta da colonne ravvicinate impostate su un unico piedistallo. Questa soluzione gira sull’ altro lato dello spigolo realizzando una specie di edicola composta da un’ apertura quadrata, ora murata, inquadrata da due colonne per lato analoghe anche per le cornici e i piedistalli alle precedenti”.

Nell’ interno del palazzo, alla singolare soluzione corrispondeva una loggia tardo-cinquecentesca, le cui aperture, nonostante le varie modifiche apportate in più riprese, sono ancora identificabili e sottolineate da un fregio coevo scolpito che attraversa anche tutta la volta.

Sovrasta la cornice angolare esterna un importante stemma elmato, quindi nobiliare, purtroppo mutilo per un terzo, sul quale campeggiano due leoni controrampanti, di buona fattura.

Quasi certamente esso fu aggiunto in successivi lavori di ristrutturazione del palazzo, non coincidendo con l’ arme della famiglia ducale dei D’ Amato, dipinta in inquarto su una delle volte lunettate ed affrescate nell’ interno.

Qui, in ambiente completamente stravolto dai rimaneggiamenti di epoche diverse, fino a poche mesi fa era conservata un’ interessante tela raffigurante S. Oronzo, restando invece i soffitti di due delle stanze, affrescati, anche se ormai scoloriti e bisognevoli di importante restauro. Uno dei soffitti riporta lo stemma anzidetto, policromo ed inquartato, inserito centralmente tra decorazioni classiche ed arabeschi; l’ altro, lunettato, riporta i ritratti dei duchi d’ Amato e di numerosi imperatori dell’ antica Roma e di Spagna, inseriti in medaglioni tra figure allegoriche e putti, sempre dipinti.

mangiatoie recuperate di recente a pianterreno del palazzo

Piuttosto integri sono rimasti il bellissimo basolato dell’ atrio interno e gli ampi locali voltati a botte, sempre a pianterreno, di recente recuperati, un tempo adibiti a frantoio, palmento e deposito, nei quali potrebbero trovare posto uffici o esercizi di vario genere, magari collegati con l’ esteso giardino retrostante. Tra questi vani merita particolare studio quello situato, sempre a pianterreno, a lato della scala in muratura, che al suo interno lascia intravedere parte di un affresco policromo, ricoperto da incrostazioni e pitturazioni successive, raffigurante la Vergine col Bambino e con alcune iscrizioni da interpretare.

Seclì, recenti restauri del palazzo ducale e rinvenimenti nel pavimento del salone a pianterreno

Degna di menzione infine è pure la cappella privata al primo piano, di cui in vero resta ben poco dell’ originario, fatta eccezione per delle colonne con capitelli delimitanti l’ altare, pitturate di verde e probabilmente traslate da altre parti del palazzo. Su di esse risaltano enigmatici volti semivegetali, uno per parte, già visti per tre volte all’ esterno, ed in particolare sulla facciata del S. Domenico di Nardò.

L’ inevitabile richiamo alle similari decorazioni in carparo del più noto edificio neritino, sollecitano ipotesi su cui occorrerà certamente lavorare ed indagare, per meglio definire l’ attività del magister Jo: Maria Tarentino de Nardo, che, come accennato sopra, potrebbe avervi prestato la sua maestranza.

Sempre in questa cappella si conserva una imponente e piuttosto recente statua in cartapesta policroma raffigurante la Madonna degli Angeli, che, come ricorda l’ epigrafe marmorea collocata a destra entrando dai Papaleo, sarebbe apparsa alla predetta suor Chiara.


[1] gli anni passati era guardiano del monastero padre frà Giuseppe da Seclì. Il convento possedeva in Galatone una casa in loco detto Spirito Santo, che poi vendette a Pietro Marini (atti not. De Magistris di Galatone (39/2) 1647, c.95). Nell’ atto si legge che il convento, extra moenia, è dell’ Ordine di S. Francesco d’ Assisi degli Zoccolanti.

[2] Cedolari di Terra d’ Otranto , vol.21, f.32.

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