Tra bastioni e feritoie.  Le armi dei Castriota nel castello di Copertino

 

di Giovanni Greco

Del castello di Copertino si conosce quasi tutto. Fu abitato da esponenti della dinastia sveva, seguiti da quella angioina e dalla stirpe dei Brienne. Tra le sue mura dimorò saltuariamente la contessa Maria d’Enghien e sua figlia Caterina Orsini del Balzo, andata in sposa al cavaliere francese Tristano di Clermont.

La tradizione vuole che tra queste mura abbia visto la luce la loro figlia Isabella che impalmata da re Ferrante d’Aragona divenne a sua volta regina di Napoli.

Agli inizi del XVI secolo, quando i titolari del maniero divennero i Granai-Castriota fu il marchese Alfonso, figlio del conte Bernardo e  di Maria Zardari, uomo dai miti e gentili costumi abbelliti dalle lettere come lo ricorda il Galateo nella sua epistola “Ad Pyrrum Castriotam”; giureconsulto di cappa corta, marchese di Atripalda, duca di Ferrandina e conte di Copertino, che nel decennio compreso tra il 1530-40, affidò al noto architetto militare Evangelista Menga, l’incarico di progettare la trasformazione della struttura 400esca in una fortezza che dimostrasse la sua potenza sul piano economico, giuridico e militare, ma soprattutto capace di respingere qualsiasi assalto armato.

Difatti, fu costruita secondo i canoni architettonico-militari imposti dalla scoperta della polvere da sparo. Ovvero, un profondo fossato scavato nella roccia, una spessa muraglia, quattro imponenti bastioni lanceolati e novanta feritoie distribuite su tre ordini di costruzione (fig. 1 e 2).

Fig. 2, il cortile interno del castello oggi

 

Essendo una struttura difensiva Don Alfonso si premurò di dotarla di un’adeguata guarnigione e un discreto apparato di armi da fuoco: cannoni, colubrine, schioppi e armi bianche di vario genere. Ma in che misura quegli armamenti avrebbero consentito di respingere il nemico è difficile stabilirlo. E soprattutto di quante unità era composta la guarnigione che presidiava il castello? Un’idea in tal senso la si potrebbe ricavare da un atto notarile del 21 febbraio 1553 allorquando il castellano nonché governatore di Copertino, Hernando de Bolea, originario di Saragozza consegnò al suo vice, Stefano de Ayala nativo di Toledo, una quantità di beni alimentari tra cui diversi tomoli di grano, orzo, fave, 700 barili di vino, 10 di aceto, 10 di sarde salate contenenti ciascuno  25.900 unità, 600 forme di formaggio e 100 staia di olio destinati a sfamare la guarnigione e la servitù presente nel castello, per un arco temporale presumibilmente lungo. Essendo le cronache del tutto avare di avvenimenti riconducibili ad attività militari abbiamo ragione di ritenere che da quelle feritoie non fu mai sparato un solo colpo di arma da fuoco e per lungo tempo i soldati dovettero restare pressoché inattivi, fino ad una verosimile riduzione numerica. (fig. 3)

Fig. 3, il mastio

 

Ipotesi non del tutto peregrina se il 17 aprile dello stesso anno avvenne la cessione di armature di cavalleria leggera a favore di militari dislocati nel castello di Lecce. Per ordine di Ferdinando Loffredo, vicerè delle province di Otranto e Bari, Hernando de Bolea incaricò Tommaso Caputo e Mauro Greco a trasportare 25 spalle (spallacci) e piedi (scarpe d’arme) con le corchette (uncini), 25 calotte, 25 brazzali e spallarde (avambracci e cubitiere), 25 morioni (elmetto di origine spagnola) e diademi; 13 elmi di ferro e mezze calotte alla burgognone.

Più tardi, il 16 maggio è ancora Stefano de Ayala che provvede al trasferimento di importanti pezzi di artiglieria. Il regio commissario di Terra d’Otranto, Ascanio de Maya, infatti, prese in consegna una quantità di armi spedite da Copertino che fece trasportare nel castello di Brindisi dove si registravano intermittenti rivolte popolari a cui gli Aragonesi rispondevano anche con armi da fuoco. Si trattava di due cannoni, gli unici di cui era dotato il castello che sarebbero stati spostati lungo la spessa muraglia a seconda dei dispacci che avrebbero annunciato imminenti pericoli.  Uno dei due cannoni era adatto al lancio di palle di pietra ed era contrassegnato con l’aquila bicipite, l’arma dei Castriota, mentre l’altro, idoneo allo sparo di palle di ferro, era marchiato con il leone di S. Marco. Unitamente ai due cannoni fu trasportata anche una quantità di palle in ferro e di pietra e una colubrina (fig. 4).

Fig. 4, rappresentazione grafica di cannoni e colubrine

 

Ecco il testo: Uno cannone petrero et le arme castriote, due casce ferrate e due rote ferrate. Un altro cannone di bronzo  serpentino et le arme di S. Marco  et casce e rote ferrate. Una mezza colubrina di ferro et una cascia ferrata  e più palle di ferro, grocchi, cintruni, sarandri. Palle 64 di ferro curate del cannone serpentino e palle 105 di petra del cannone petrero. (Fig. 5).

Fig. 5, falconetto del XVI sec

 

Intanto, scomparsi anche gli ultimi eredi di Don Alfonso la Contea tornò sotto la giurisdizione del Viceregno. A nulla valsero gli forzi del sindaco Virgilio Della Porta di lasciarla nell’amministrazione del Regio Demanio perché nel frattempo il genovese Uberto Squarciafico l’aveva acquistata per 29.700 ducati.

Un passaggio di consegne del 1556 tra il castellano uscente Stefano de Ayala e il suo successore Pedro Lopez de Marca inviato da Ludovico de Bariento, consente di conoscere tanto la consistenza delle riserve alimentari quanto i dispositivi destinati alla difesa del maniero.

In primis viene descritta un’asta con lo stendardo sul quale erano riportate le insegne di Carlo V (l’aquila imperiale con un Crocifisso in mezzo alle due teste); una campana collocata sopra lo campanile di detto castello che serve a fare la guardia di notte” (si tratta della campana situata nell’edicola al vertice del portale d’ingresso).

Tutta l’artiglieria in bronzo che consisteva in un falconetto di nove palmi (due metri e mezzo); altro falconetto di tre palmi e mezzo con le insegne di S. Marco; un carro di otto palmi e mezzo con cassa dotata di ruote di ferro nuove; un carro rinforzato di dieci palmi e mezzo; un curtaldo (piccolo cannone trainato da cavalli) di sette palmi; 27 smerigli (piccoli pezzi di artiglieria) di varie grandezze su alcuni dei quali è incisa la figura di S. Barbara, un altro smeriglio rinforzato di poco meno di cinque palmi, uno scudo e una croce. Dell’artiglieria in ferro facevano parte: 5 bombarde, 26 mascoli grandi e altri 26 più piccoli, 26 archibugi (fig. 6), 24 fiaschette (piccoli recipienti per conservare polvere da sparo), 46 tenaglie, altri 98 archibugi, 53 chilogrammi di polvere da sparo, 2000 chilogrammi di salnitro contenuto in cinque casse, 23 cantàre di zolfo e 70 palle di ferro.

Fig. 6, soldato spagnolo con archibugio

 

Tra le armi bianche si contavano alabarde, lance e punte di lance. E ancora: zappe, picconi, numerosi attrezzi in ferro, corde, funi, 2800 fascine, 29 carrette di legna e 362 canestri.  Non appaia inverosimile, dunque, la notizia riportata dall’anonimo cronista del ‘700 contenuta nelle  “Memorie dell’antichità di Copertino” secondo cui “Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artigliaria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro.

Nell’aprile del 1557 a Hernando de Bolea subentrò un altro spagnolo,  il governatore Bartolomeo Diez al quale, il 23 maggio seguente, su disposizione di Carlo V, fu ordinato di consegnare ai marinai Giorgio de Candia e Marco de Michele una quantità indefinita di munizioni per essere trasportate, via mare nel porto di Pescara a disposizione della guarnigione di soldati presenti nella fortezza pentagonale progettata dall’architetto militare Gian Tommaso Scala e terminata di costruire proprio il 1557.

Ma, se il castello cominciò a perdere la funzione difensiva le sue mura continuarono ad offrire un tetto a coloro che a vario titolo erano stati destinati alla sua difesa tra cui Giovanni de Sisegna, alfiere di armatura pesante della compagnia del duca di Urbino; il suo collega Gaspare della Porta, soldato di armatura pesante; il lombardo Alessandro de Valbona che aveva servito Hernando de Bolea; Pietro de Valandia, spagnolo di Ordegna e Stefano de Ayala che nel frattempo aveva sposato Laura Roccia di Gallipoli.

Quando nel maggio del 1603 la genovese Nicoletta Grillo – vedova di Cosimo Pinelli iunior, II duca di Acerenza, III marchese di Galatina e V conte di Copertino – stabilì di procedere all’inventario dei beni presenti nel castello di Copertino, armi e armature si erano notevolmente ridotte. L’incarico fu affidato a notar Pietro Torricchio  che il 2 giugno inventariò  16 pietti forti da combattere (fig. 7), dispensati ad altrettanti soldati a cavallo incaricati di sorvegliare le campagne del feudo e 50 pistole con altrettanti foderi.

Fig. 7, pettorale in cuoio

 

Dissolto il pericolo turco  e nella certezza che il castello non sarebbe mai stato al centro di assalti gli Squarciafico scelsero di renderlo più accogliente facendo edificare nuovi ambienti e una cappella intitolata a S. Marco al cui interno collocare i loro sarcofagi. Nel 1602, essendo già scomparsi Livia e suo figlio Cosimo Pinelli, il maniero e le possessioni feudali passarono a Galeazzo Pinelli che, data la tenera età, furono amministrati dalla madre, la genovese Nicoletta Grillo. L’anno dopo costei – che nel frattempo con la figlia Clementina aveva eletto a residenza stabile la lussuosa dimora di Giugliano in provincia di Napoli – stabilì di procedere all’inventario dei beni del palazzo marchesale di Galatone (dimora preferita dai suoi predecessori) e quelli presenti nel castello di Copertino.

Il documento ci restituisce la presenza di arredi e attrezzi di uso comune presenti negli ambienti destinati alla preparazione dei cibi e delle sale destinate al riposo notturno il cui mobilio risentiva delle influenze stilistiche spagnole e veneziane che non si modificarono mai del tutto e rapidamente. I costi, la scarsezza della materia prima, l’assenza di maestranze locali specializzate ne rendevano difficile l’aggiornamento e gli arredi erano rimasti pressoché quelli del secolo precedente. Non sappiamo se la trabacca  principale fu la stessa sulla quale Alfonso Castriota ci dormì con la prima moglie Cassandra Marchese, sposata il 1499. Ma non possiamo escludere che dovette preferire queste mura lontane dagli occhi indiscreti della corte partenopea per incontrarsi con la gran dama napoletana, Giulia de Gaeta. Di certo l’imponente dimora rinascimentale la dovette includere tra le tappe del viaggio di nozze con la seconda moglie, Camilla Gonzaga il cui rito nuziale fu celebrato il 1518 nel castello di Casalmaggiore.

Fig. 8, una sala del piano nobile

 

La camera da letto situata al piano nobile (fig. 8) era arredata con  elementi in cuoio turchino e oro con fregi rossi. Alle finestre e ai vani di porta vi erano in tutto sette tende lavorate in oro e argento. Il  proviero (padiglione del letto con cortina e zanzariera) era di seta verde di Calabria con cappitella (copertura), tornaletto  (larga striscia di tessuto decorato posto intorno al letto). Tre teli di cuoio  di colore rosso con frange in oro; tre materassi ripieni di lana finissima, mentre altri sette erano destinati alla servitù.  Vi erano due coperte di lana bianca fine, una di lana rossa, cinque coperte di lana paesana bianca, un capizzale di lana (stretto guanciale che va da un lato all’altro del letto), cinque cuscini di dimensioni diverse foderati di taffetà verde ed altri due di tipo ordinario. Il mobilio era costituito da una trabacca a mezze colonne di noce, alle cui estremità vi erano pomi e barre indorate. Altre due trabacche  di noce, semplici e a mezze colonne erano dislocate in altra stanza, insieme a due lettère (letti costituiti da tavole poggiate su tristelli); un torciero di legno per la sala; una torcia; tre appendiabiti in ferro;  undici sedie imperiali di noce; quattro sedie veneziane vecchie di legno; tre sedie di velluto verde; due sedie di velluto giallo; cinque tavolini di noce usati; due banchi di noce lunghi con ferri indorati; due sgabelli di noce lavorati; un tavolo di noce lungo un metro e mezzo sorretto da piedi con catene; una seditoia di legno con il suo vaso da notte; un tavolino di legno con tre piedi.

Notevole la quantità di attrezzi e utensili presenti nei locali a piano terra adibiti a lavanderia e cucine. Nell’elenco vengono riportati un porta coltelli di legno; due grandi cofanaturi di creta per fare la colata e una pressa di legno per strizzare salvietti e musali; due alari di cucina grandi; uno scaldacrusca; un grande stipo per contenere alimenti; tre appendiabiti; due canestri per contenere sprovieri. Al centro dell’ampia cucina c’era un grande tavolo da lavoro in legno poggiato su due tristelli in ferro. Il camino era dotato da un paio di capifuoco con pomi in ottone, due palette, un grosso ciocco, un paio di molle, due treppiedi di misure diverse, una zagaglia. E ancora: un grande calderotto in rame; una grattugia; un recipiente in rame per contenere vino; cinque fiaschi in rame; due grandi bracieri di diversa misura di cui uno con base di legno. La preparazione e la somministrazione del cibo non avveniva in stoviglie di creta bensì in contenitori di rame. Quindi vi erano tre vecchie teglie, trenta piatti tra grandi e piccoli; due contenitori di liquidi destinati alla servitù; due scalda vivande di ottone;  due saliere in peltro; tre coperchi per pignatte; due coperchi per teglie; una cucuma di rame grande per scaldare acqua;  altra cumumella in latta bianca; un secchio di rame con rispettiva catena e una carrucola per attingere acqua dal pozzo; una grande cassa di legno destinata al contenimento di orzo.

Nei decenni successivi l’imponente fortezza veniva lentamente svuotata. Non sapremo mai se si trattò di saccheggi o dispersioni agevolate da guardiani distratti. Ai “distaccati” Pinelli seguì la dinastia dei Pignatelli che si legò ai marchesi Di Sangro e ai Ravaschiero. Infine fu la volta dei principi Granito di Belmonte a cui vanno ascritti i tentativi di “rianimare” il castello tra cui il conte Angelo Granito che vi dimorò con i figli e la moglie Adelaide Serra di Corsano. Costoro affittarono diversi ambienti a contadini e artigiani del luogo i cui ricavi non furono mai abbastanza per consentire il ritorno del castello agli sfarzi di un tempo (fig. 9 e 10). Da qui ebbe inizio il lento declino del maniero che si arrestò solo nel 1885 quando fu dichiarato Monumento nazionale, seguito con l’acquisizione al demanio dello Stato il 1956.

Fig. 9, scorcio del cortile interno del castello agli inizi del ‘900

 

Fig. 10, facciata della cappella di san Marco nel castello agli inizi del ‘900

Fonti essenziali

ARCHIVIO DI STATO LECCE, notar Bernardino Bove, coll. 29A, atto del 16 giugno 1553, cc 191v-192r; 175r-176v;  atto del 17 aprile 1553, 152r ;  atto del 21 febbraio 1553 cc 67r-69r.

S. CALASSO, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966.

A. LAPORTA, Copertino, Suppl. in “Rassegna Salentina”, a, III, n, 1 1978.

AA. VV. Fonti per il Barocco Leccese, a c. di C. Piccolo Giannuzzi, Congedo , Galatina 1995.

AA. VV. I castelli della difesa Otranto – Copertino, a cura di M. Milella, Martano Editrice, Lecce 2003.

M. CAZZATO, Evangelista Menga e l’architettura del Cinquecento copertinese, Besa, Nardò, 2002.

Libri| Arte barocca nella chiesa del Rosario di Copertino

 

ARTE BAROCCA NELLA CHIESA DEL ROSARIO DI COPERTINO

di Marcello Gaballo, Giovanni Greco e Alessandra Marulli, per la collana Analecta Nerito Gallipolitana,  Grenzi Editore, Foggia (pagine 115, copertina cartonata, riccamente illustrato a colori con foto di Lino Rosponi e rilievi di Fabrizio Suppressa)

 

Questa sera 12 dicembre 2022 alle ore 19, nella chiesa del Rosario di Copertino, Via Cosimo Mariano, si terrà la presentazione del volume che illustra la scultura barocca dei due maestosi altari realizzati tra metà 600 e inizi ‘700 da Ambrogio Martinelli e Giuseppe Longo. Nel volume, dopo le vicende storico-artistiche dell’edificio anticamente officiato dai padri Domenicani, si illustrano anche le coeve emergenze pittoriche, tra le quali l’imponente tela della Madonna del Rosario dipinta dal celebre pittore Gian Domenico Catalano.

particolare di uno degli altari esaminati nel volume (foto Lino Rosponi)

 

L’iniziativa editoriale, corredata di una mostra didattica curata da Alessandra Marulli, è stata promossa dal parroco don Antonio Pinto, che nella prefazione scrive come dal lavoro, ricco di rimandi archivistici e nuove fonti documentarie, siano “emerse inaspettate e inusuali immagini e simbologie recondite che incantano per la loro resa plastica e per la delicata e incisiva policromia… Solo ora si può finalmente godere del tripudio di angeli e angioletti festanti, nelle loro mutevoli pose, che si inerpicano in ogni dove delle due barocche macchine d’altare, a solennizzare incredibile sequenza di santi e sante che proiettano efficacemente l’uomo nello spazio divino”.

Santa Caterina da Siena, particolare della tela della Madonna del Rosario dipinta da Gian Domenico Catalano (foto Lino Rosponi)

 

L’odierna presentazione del volume, sarà preceduta dai saluti istituzionali del vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli, mons. Fernando Filograna, dal sindaco Sandrina Schito, dal presidente della provincia di Lecce Stefano Minerva e dall’assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione Sebastiano Leo.

Particolare della tela di San Domenico, dipinta dal Carella, nell’altare di Ambrogio Martinelli (foto Lino Rosponi)

 

Gli interventi sono affidati a mons. Giuliano Santantonio, vicario generale e direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi; Luigi De Luca, funzionario della Regione Puglia e direttore del polo Bibliomuseale di Lecce; Aldo Patruno direttore generale del Dipartimento Turismo, economia della cultura  e valorizzazione del territorio. Modera il parroco don Antonio Pinto, mentre gli intermezzi musicali sono a cura del M° Maurizio Coppini.

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (III parte)

Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d’Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

di Giovani Greco

 

Della bravura artistica di frà Angelo dovette sentir parlare Sstefano II Gallone di Tricase. Difatti, quando nel 1651 costui fu nominato principe da Filippo IV di Spagna[1], approfittando della presenza del nostro nel convento dei cappuccini del paese, gli dovette commissionare un grande dipinto per la chiesa dei frati raffigurante S. Antonio da Padova. Il quadro è attualmente collocato nella piccola chiesa dei Cappuccini[2]. Nell’ala sinistra, all’interno della prima delle tre cappelle comunicanti, troviamo l’imponente tela dove frà Angelo raffigurò il Taumaturgo in piedi, quasi di profilo, con la mano sinistra appoggiata sul tavolo mentre con la destra abbraccia Gesù Bambino. Ai lati del Santo sono raffigurati degli angeli, in basso a sinistra il busto del committente Stefano II Gallone e in basso a destra lo stemma della famiglia principesca.

Nella parrocchiale di Casarano il bellissimo altare barocco degli Astore[3] nel transetto destro, è decorato da una grande tela centinata raffigurante L’Assunta[4] che frà Angelo dovette dipingere quando stanziava nel convento dei cappuccini di quella città. La ripartizione netta dei dipinto in due campi (quello inferiore riservato alla raffigurazione degli apostoli e ai busti dei committenti -gli Astore padre e figlio – e quello superiore in cui trova posto l’Assunta trasportata da uno stuolo di angeli), peculiarità artistica ancora priva dell’esperienza romana, gli angeli danzanti, il volto della Vergine assolutamente identico a quello delle sante raffigurate nel dipinto autografo nella collegiata di Copertino, l’elaborazione di una scala cromatica già vista consentono di datare l’opera tra il 1645-50.

La disposizione delle figure, la composta ripartizione delle masse e il sicuro controllo dei sentimenti rivelano la sorprendente bravura di questo frate che a Martina Franca subentra ad Antonio Donato d’Orlando portando a termine l’altare maggiore della chiesa dei cappuccini. Qui infatti vi dipinse L’Angelo custode, La Maddalena e l’Eterno del fastigio che, insieme alla grande tela del d’Orlando del 1589 raffigurante l’assunzione di Maria, completano l’allestimento pittorico dell’altare nel pieno rispetto degli insegnamenti della Controriforma[5].

Dai cappuccini di Martina passò a quelli di Nardò per eseguire l’intero arredo iconografico dell’altare maggiore della chiesa collocando al centro il grande dipinto raffigurante Il Perdono di Assisi e due tele laterali nelle quali sono raffigurati L’Angelo custode e San Michele Arcangelo, noto esempio di devozione che si trova spesso nelle chiese dei cappuccini. Nell’opera principale frà Angelo traccia idealmente due diagonali a colloca alle estremità della prima due gruppi di angeli musicanti, mentre alle estremità della seconda dispone S. Francesco che in ginocchio riceve il perdono da Gesù e la Vergine[6].

Poco più tardi lo troviamo alle prese con un altro grande quadro raffigurante la Regina Martirum[7] collocato nel transetto sinistro della collegiata di Copertino, sull’altare consacrato a San Sebastiano. L’impostazione del dipinto sembra procedere per percorsi obbligati: partendo dal nucleo figurativo in primo piano nel quale spicca la composizione anatomica e la luminosità dell’incarnato di S. Sebastiano si passa, quasi obbligatoriamente a S. Francesco che allevia i dolori delle anime purganti; si sale in alto dove ventitré santi, tra cui S. Lorenzo, S. Domenico, S. Carlo Borromeo, S. Antonio da Padova, S. Agata, S. Lucia e Santa Caterina popolano i lati destro e sinistro della Vergine col Bambino. L’opera, commissionata dall’Università locale è una delle poche giunte fino a noi firmata e datata. In basso a destra infatti reca la seguente iscrizione: F. ANGELUS A CUPERTINUS CAPUCCINUS A.D. 8bris 1655.

Nel 1668, di ritorno da Roma dove aveva concluso il prestigioso incarico in Vaticano, mons. Gerolamo De Coris gli commissionò S. Gerolamo morente[8] che volle collocare tra le sei colonne barocche del suo altare eretto nella navata laterale destra della cattedrale di Nardò[9]. Un’opera in cui frà Angelo manifesta pienamente le sue ambizioni compositive nel raggruppamento dei personaggi la cui connotazione drammatica è affidata non soltanto all’espressione esangue di S. Gerolamo, ma soprattutto ad una scala di accordi cromatici, da cui emergono il bianco e il vermiglio dei panneggi che avvolgono il Santo, e ad un rigore chiaroscurale sapientemente elaborato nell’incarnato. Quest’opera rappresenta, senza ombra di dubbio, il risultato pittorico più eccellente di frà Angelo: frutto dei frequenti contatti con la pittura romana e in modo particolare con le opere del Caravaggio.

Un altro momento della maturità di frà Angelo lo si può cogliere nella chiesa del convento dei Cappuccini di Alessano dove, ancora una volta svolge un tema molto caro ai frati: Il perdono di Assisi. La tela è collocata sull’altare in legno che occupa l’interra parete di fondo della chiesa. Come hanno dimostrato i lavori di restauro eseguito nel 1986, il dipinto è precedente alla costruzione dell’altare. Nella parte inferiore sono raffigurati i santi Chiara, Francesco d’Assisi, Leonardo e Antonio da Padova che implorano l’indulgenza di Cristi e della Vergine seduti maestosamente in alto e circondati da uno stuolo di angeli musicanti, L’opera, che per sua superba composizione cromatica sarebbe ascrivibile al periodo post-romano del Nostro, fu donata alla chiesa verso la seconda metà del Seicento da Laura Guarini, signora di Alessano e grande benefattrice dei capuccini, in occasione della nascita del primo figlio atteso per oltre sei anni[10].

Scolpito dal copertinese Ambrogio Martinelli per conto della famiglia De Magistris, il quarto altare della navata laterale destra della Cattedrale di Gallipoli custodisce il dipinto raffigurante l’Immacolata, altra opera ascrivibile alla maturità artistica di frà Angelo. La tela, non firmata, è stata attribuita da alcuni al clan dei Genuono e da altri ad un cappuccino di nome Facis[11]. Non si sa da chi e su quali basi fu fatta quest’ultima attribuzione. Tuttavia nell’ipotesi che sul dipinto esistesse questa sigla si potrebbe pensare ad un monogramma in cui è racchiuso il nome di frate Angelo cappuccino il quale dovette realizzare il dipinto durante un soggiorno nel locale convento dei cappuccini. La raffigurazione della Vergine appare impostata in un cerchio il cui perimetro è segnato da uno stuolo di angeli danzanti nonché altri due ai lati che reggono ciascuno la turris eburnea e la domus aurea. L’impostazione delle masse sembra ricondurci idealmente ad un ostensorio al cui centro vi è l’Immacolata, mentre la base è costituita da S. Agata a destra e S. Leonardo a sinistra.

Per evidenti analogie stilistiche con la produzione certa del pittore, anche la Madonna del Carmine nella chiesa parrocchiale di Melendugno potrebbe, secondo Giovanni Giangreco, appartenergli nonostante il dipinto non sia coevo all’altare.

Le opere che al ritorno da Roma dovettero impegnare maggiormente frà Angelo, vista l’imponenza scenografica elaborata su ampie superfici, furono senza dubbio la S. Anna e la Sacra Famiglia (1671) e la Traditio clavuum collocate attualmente nel coro della parrocchiale di Galatina. Nel primo dipinto la Vergine in posizione seduta guarda amorevolmente il Figlio già adolescente, raffigurato in piedi e in atto di leggere un libro aperto su un leggio. A sinistra sono rappresentati S. Anna e S. Gioacchino seduti e S. Giuseppe: a destra, una fanciulla in atto di sollevare un grappolo d’uva da un cesto ricolmo di frutta. La parte apicale del dipinto è riservata all’Eterno circondato da angeli e cherubini. Nella zona centrale della seconda opera è raffigurato Gesù nell’atto di chinarsi per porgere le chiavi a S. Pietro il quale, inginocchiato, le prende con un atto di profonda devozione. Nella parte superiore un nimbo di angeli regge il triregno e la croce astile. In basso sono raffigurati S. Domenico e S. Tommaso d’Aquino. Relativamente al primo dipinto l’attribuzione a frà Angelo fu fatta dall’Arditi il quale rivelò di aver attinto la notizia dalla “Relazione di S. Pietro in Galatina” di A. Tommaso Arcudi del 1793. Nel “Dizionario Bio-Biblioghrafico degli uomini chiari in T.d’O.” il quadro si reperta come una delle migliori opere del cappuccino. Più recentemente il Montinari descrive ambedue le opere e attribuisce la Sacra Famiglia alla “scuola napoletana della seconda metà del XVII secolo”.

Ma ci vorranno i recenti studi di Mario Cazzato per restituire a frà Angelo la paternità delle due opere. Lo studioso, definendo il nostro come il più importante pittore della seconda metà del Seicento, rivela che quando nel 1671 l’arcivescovo Adarzo de Santander concesse agli Arcudi una sepoltura nella chiesa Matrice di Galatina lo fece a condizione che dovesse realizzare l’immagine di qualche santo. Sicchè, per onorare una cosi solenne condizione chiamarono frà Angelo da Copertino che dipinse un quadro grande con l’immagine della gloriosa sant’Anna[12].

A Sogliano, nella chiesa dell’ex convento degli agostiniani (1617) dedicata alla “Madonna del Riposo”, esiste un altro dipinto di frà Angelo raffigurante l’Immacolata eseguito tra il 1668 e il 1670. Difatti, quando nel 1667 i frati concessero a Crisostomo Coia una cappella dedicata all’Immacolata all’interno della loro chiesa, questi si impegnò di fare il quadro seu ancona in essa cappella dell’Immacolata Concettione, et altre cose necessarie per farci celebrare , et fare la sua sepoltura. Nel bellissimo dipinto è raffigurata la Vergine che, insieme agli angeli e a Dio Padre, occupa buona parte della superficie pittorica. In basso, secondo la volontà del committente che si fece raffigurare in un angolo a destra, trovano posto S. Gioacchino, S. Domenico, S. Francesco di Sales e Santa Teresa. Attualmente l’opera è collocata nel coro della chiesa di fronte ad un’altra notevole tela raffigurante la Madonna della Cintura che Cazzato attribuisce al cappuccino copertinese[13].

A Lecce la presenza di frà Angelo è attestata nella chiesa di S. Francesco d’Assisi[14] (detta anche S. Francesco della Scarpa) dove, in occasione del suo rifacimento, nel 1682 dipinse il quadro autografo raffigurante l’Immacolata[15]. Nella seconda metà del Settecento il dipinto fu oggetto di un contenzioso tra la Confraternita dell’Immacolata[16] che aveva sede nella chiesa e i frati, lite seguita da Gaetano Jotti della Regia Udienza di Lecce. Quest’ultimo acquisì agli atti alcune interessanti dichiarazioni fatte a vario titolo da personaggi leccesi di età compresa tra i cinquanta e i sessant’anni . In una declaratio del 21 gennaio 1757 il patrizio leccese, Ignazio Panzini, sostenne di abitare vicino al convento dei francescani e per aver di continuo visitata la di loro chiesa come anche divoto della Vergine Immacolata, sa benissimo che il quadro della medesima esisteva prima dell’altare che ora trovasi dedicato al SS. Crocifisso e così ancora chiamato. L’altare, sostenne il Panzini, fu edificato dal defunto don Gaetano Cardamone nel 1720 quindi, fu nel medesimo altare collocato il quadro che prima esisteva nella cappella del Crocefisso, indi poi dall’istesso don Gaetano fu migliorato e posto in oro come di presente si trova[17]. Stessa affermazione fu fatta il 24 gennaio seguente dai reverendi Francesco Favilla e Isidoro Santoro, sacerdoti mezionarij nella Cattedral Chiesa della Città di Lecce[18]. Il 18 febbraio seguente furono raccolte inoltre, le dichiarazioni del magnifico Filippo Pintabona, del sacerdote don Nicola Calenda, del falegname del convento, Santo Naie r del barbiere dei frati, Gregorio Tamburelli i quali dissero di sapere benissimo che l’altare della Conc.ne di Maria Immacolata sistente dentro detta chiesa, ove al presente da fratelli dell’Oratorio si solennizza la festa della Conc.ne di Maria Immacolata fu edificato a proprie spese da don Gaetano Cardamone e dopo migliorato e fatto in oro[19]. Giova ancora ricordare un atto del 7 marzo seguente con il quale la baronessa leccese Lucrezia Scaglione, vedova di Antonio Personè, per devozione verso la Vergine donò il suo abito ricco e propriamente una Andria di drappo in oro col fondo color latte e fiori in oro e seta a condizione che venisse usato per vestire la statua dell’Immacolata per tutto il periodo che si solennizzava tale festività e in particolare durante la processione che si svolgeva l’8 dicembre di ogni anno[20].

Quasi certamente l’ultimo decennio della vita (1675-85) frate Angelo lo dovette trascorrere nei conventi di Scorrano e di Salve. Nella chiesa dei cappuccini di Scorrano intitolata a S. Maria degli Angeli e costruita in soli due anni dal 1598 al 1600 dal copertinese Evangelio Profilo[21] il pittore, ormai settantenne, realizzò il grande quadro raffigurante Il Perdono di Assisi, opera che dovette portare a termine con l’aiuto di Giuseppe Andrea Manfredi di Scorrano, un prete pittore che quasi certamente seguì frà Angelo quando questi lavorò nella parrocchiale di Salve[22]. Ai lati del Perdono, collocato sull’altare maggiore della chiesa, vi sono altre due tele: a sinistra una Maddalena penitente e a destra l’Angelo Custode attribuibili al Manfredi. Alcune discrasie anatomiche , infatti (si veda nella Maddalena l’angelo in caduta libera il cui collo non è affatto in asse con il tronco), fanno pensare più ad un principiante come Manfredi che ad un pittore esperto quale era frà AAngelo.

Secondo i Ruotolo , il nostro “eseguì quadri pregevoli in diverse chiese di Salve”[23]. Nella cappella intitolata a S. Antonio Abate esisteva un dipinto raffigurante il Santo[24]. Nella parrocchiale in brandita tra il 1596 e il 1669 e consacrata a S. Nicola Magno il 15 ottobre 1677 da mons. Antonio Carafa, le pitture degli altari laterali dedicati all’Immacolata e alla Vergine del Rosario erano state realizzate dal nostro cappuccino e andate perdute. Secondo uno zibaldone del 1750 , nel monastero dei cappuccini, eretto sotto il titolo di S. Maria della Misericordia, vi erano sette altari compreso il maggiore ed erano dotati di ottimi quadri alcuni dei quali dipinti da frà Angelo e ci cui fino a noi è giunto solo quello raffigurante La visione di S. Francesco che adorna l’altare maggiore[25]. Secondo l’autore dello zibaldone a Salve frà Angelo eseguì numerosi dipinti tra cui S. Michele Arcangelo, Sant’Orsola, l’Immacolata, l’Assunta, La Madonna del Rosario, Lo Spirito Santo, S. Antonio Abate ed altri quadri raffiguranti scene della Passione di Cristo[26].

La presenza di questo cospicui numero di dipinti non solo attesta la lunga permanenza del pittore a Salve, ma lascia presumere che proprio nel locale convento dei cappuccini si dovette concludere la sua esistenza terrena.

Ma cosa ne è stato di quei quadri che si trovavano presso il convento dei cappuccini, tra cui certamente quelli raffigurante la Passione di Cristo? Secondo quanto mi racconta l’architetto Maria Rosaria Sperti Peluso – alla quale indirizzo un doveroso ringraziamento – suo padre, Camillo Sperti, affermava che i suoi antenati custodivano nella loro casa di Salve una ricca quadreria e una biblioteca nelle quali erano confluiti i volumi e le tele del locale convento al momento della soppressione. Purtroppo la cura nel custodire queste ricchezze venne meno intorno alla metà del degli anni Trenta in seguito alla morte di suo nonno , l’avvocato Giovanni Sperti, il quale lasciò la moglie e quattro figli in tenera età che, per negligenza e trascuratezza, dispersero tutto e andarono via da Salve. Fortunatamente, però, una tela della serie della Passione raffigurante la VI stazione della Via Crucis, ovvero Cristo asciugato dalla Veronica fu ritrovata nel giardini retrostante la casa di suo nonno che fungeva da riparo ad un pollaio. La tela fu quindi recuperata da Camillo Sperti che la portò nella sua casa di Martignano e in seguito trasferita in quella della figlia Maria Rosaria. Camillo Sperti, sempre ben informato sulle vicende della sua famiglia, ricordava di aver sempre letto alla base di questo quadro l’inscrizione: “Frà Angelo da Cupirtinu p.”. Frase rimastagli sempre impressa per la tipica lectio dialettale con cui era menzionato il nome del paese; purtroppo questa firma autografa è scomparsa insieme al lembo inferiore della tela.

Nel 1682 frà Angelo dipinse un’ariosa pala d’altare raffigurante la Vergine, il Bambino e S. Giuseppe Patriarca circondati da uno stuolo di angeli di cui uno regge un cartiglio con la scritta SALUS INFIRMORUM. Nella zona inferiore sono raffigurati S. Francesco e S. Antonio da Padova in posizione orante e sullo sfondo S. Chiara. In basso a sinistra si legge l’iscrizione. F. ANGELUS A CUPERTINU CA. [PPUCCI]NUS . PE SUA DEVOTIONE PINGEBAT 1682. Questo dipinto è stato segnalato per la prima volta nel ’96 da Mario Cazzato[27] e attualmente collocato nella cappella di S. Maria delle Grazie in Copertino. Nonostante i suoi 73 anni qui frà Angelo dimostra una mano ferma e felice nell’equilibrio delle masse e nell’armonizzazione della scala cromatica. Ed è del periodo post-romano la tela raffigurante S. Francesco che riceve le stimmate, collocata nella medesima chiesa, esemplata su quella del Barocci osservata dal nostro in Vaticano. Nonostante il pessimo stato di conservazione è possibile osservare l’emergenza più significativa di questi dipinto affidata alla figura del Cristo che assume le sembianze dell’Angelo e che frà Angelo ripropone attingendo alla vasta iconografia medievale[28] . Questo dipinto – in cui Cristo compare privo della croce e munito di sei penne ad ognuna delle quali Alano da Lilla assegnò un titolo che riassume ciò che singolarmente significano, e cioè: confessio, satisfactio, carnis munditia, puritas mentis, dilectio proximi, dilectio Dei – è, quindi, una seicentesca raffigurazione delle stimmate di S. Francesco[29] eseguita da frà Angelo per assecondare l’incessante devozionismo francescano della popolazione.

Concludendo questa breve quanto provvisoria indagine si può affermare che frà Angelo, insieme con Giovanni Donato Chiarello, Ambrogio Martinelli ed Evangelio Profilo i primi due per la scultura e il terzo per l’architettura, fornirono un valido contributo all’evoluzione dell’arte in Terra d’Otranto nel XVII secolo, riprendendo quel repertorio figurativo di cui la chiesa del periodo controriformistico continuò a servirsi per consolidare la propria egemonia.

Frate Angelo da Copertino non mancò di lasciare l’impronta della sua pittura in quasi tutti i centri di Terra d’Otranto dove sorgeva una comunità di cappuccini e in un periodo in cui l’arte era divenuta efficace strumento di propaganda religiosa. Potremmo affermare infine che, la sua sensibilità artistica, nutrita dai colti moduli napoletani e romani fu talmente alta nel disegno e nelle espressioni cromatiche da offrirci risultati pittorici che superano i limiti di una produzione artigianale di carattere locale e devozionale.

 

Note

[1] Su Stefano Gallone cfr. A. Raeli, Aneddoti di storia tricasina, a cura di M. Paone (Galatina 1951, 59.

[2] Sui Cappuccini di Tricase si veda il saggio di G. Sodero, ‘Per la storia dell’ex complesso monumentale dei Frati Cappuccini di Tricase’, Leucadia, a cura della Società di Storia Patria per la Puglia sez. di Tricase, (Miggiano 1986), 63-80.

[3] ACVN, Visite Patorali di A. Sanfelice, A/13, 1719, c. 64v. Il 21 aprile 1719 il vescovo visitò l’ “Altare Beatam Mariae Virginis sub tit. Assumptionis et laudavit”. Nella zona acroteriale dell’altare osservò un’iscrizione lapidea la quale attesta che nel 1711 l’altare fu assegnato al chierico Vito Antonio de Astore, che con atto di notar Antonio Vergario, vi fondò un beneficio ecclesiastico.

[4] L’opera è stata pubblicata in AA. VV. Pittura in Terra d’Otranto, tav. 63 e attribuita ad un anonimo pittore meridionale della fine del XVI secolo.

[5] N. Marturano, Tradizioni pittoriche, 80. Cfr. anche M. Rutigliano, Chiesa di S. Antonio ai Cappuccini (Locorotondo 1973), 45.

[6] Una copia speculare del Perdono fu eseguita molto più tardi da un anonimo pittore locale per il coro del convento della claustrali di Santa Chiara di Nardò. Ringrazio Rosetta Fracella per avermi messo a disposizione una riproduzione del dipinto.

[7] De Giorgi, La Provincia di Lecce, II, 239. Cazzato, Guida di Copertino, (Galatina 1996), 82. Cfr. anche A S L, Dizionario biografico degli uomini illustri. Il dipinto è stato restaurato nel 1973 per volontà dell’arciprete d. Giuseppe Marulli.

[8] Cfr. Mazzarella, 197.

[9] Si veda il recente contributo di Stefano Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per frà Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò, in Il delfino e la mezzaluna, (Nardo 2014), pp.79-96.

[10] A. Caloro-A.Melcarne-V.Nicolì, Alessano storia, arte, ambiente (Tricase 1994), 33. Le altre tele che adornano l’altare sono settecentesche e raffigurano Il Profeta Isaia, Sant’Anna e la Vergine Bambina, mentre nel tondo del fastigio è raffigurato S. Giuseppe, antico titolare della chiesa. Queste tre tele sono attribuite al pittore alessanese Aniello Letizia. Cfr. anche Caloro, Guida di Leuca. L’estremo Salento tra storia arte e natura a cura di M. Cazzato (Galatina 1996+), 72-73

[11] S. Verona, Gallipoli e i suoi monumenti, (Gallipoli 1983), 55; pur riconoscendo l’eccellenza, la tela di Gallipoli è attribuita ad un “ignoto pugliese”, in Virgo Beatissima. Interpretazioni mariane a Brindisi (Brindisi 1990), fig. 7 del saggio di M. Gustaella che è anche curatore dell’opera.

[12] Arditi, 191. De Giorgi, II, 423, M. Montinari, Storia di Galatina, testo ampliato e annotato a cura di A. Antonaci (Galatina 1972), 168-69. M. Cazzato L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche. Dinamiche storiche di un’area del Salento (Galatina 1989), 306-9. Id. ‘Galatina, la storia’ Guida di Galatina, (Galatina 1994), 49.

[13] Cfr. Cazzato, L’area galatinese, 309-11. Sulla presenza degli agostiniani cfr. G. Castellani, ‘Gli insediamenti agostiniani della Puglia meridionale’, Puglia e Basilicata ecc. Miscellanea in onore di Cosimo Damiano Fonseca (Galatina 1988), 83-4.

[14] La chiesa sorse nel 1273 e fu ricostruita nel 1600. Nell’Ottocento fu annessa al regio Liceo Palmieri. Cfr De Giorgi, II, 96-9.

[15] Purtroppo di quest’opera e del crocifisso ligneo di Vespasiano Genuino si sono perse le tracce . Cfr. Paone, Chiese di Lecce, II, (Galatina 1979), 238. Sulla chiesa di S. Francesco d’Assisi cfr anche G. C. Infantino, Lecce Sacra (Lecce 1634), 96-9.

[16] La chiesa di S. Francesco della Scarpa fu un importante centro di pietas; in essa vi erano tre confraternite di antica data: quella dei Terziari, detta anche del Cordone di S. Francesco che si estinse con l’espulsione dei frati avvenuta con decreto del 12 aprile 1913; quella dell’Immacolata, detta volgarmente della Madonna del tuono e quella del Nome di Dio, chiamata in seguito del SS.mo Nome di Gesù la più antica di tutte le confraternite e arciconfraternite di Lecce. La confraternita dell’Immacolata fu posta sotto il Regio Patronato fin dal 1561 e l’8 dicembre di ogni anno celebrava la festività della Vergine con il contributo del Regio Fisco pari a 40 ducati. Cfr. G. Barrella, San Francesco della scarpa in Lecce 1219-1918 (Lecce 1921), 19.

[17] A S L , atti di notar Lorenzo Carlino 46/78, a 1757, c. 14v.

[18] A S L, Ivi, c.16r.

[19] A S L, Ivi, c 62rv

[20] A S L,Ivi, c. 80v. La Scaglione stabilì inoltre che l’abito doveva conservarsi nella sagrestia del convento in una “cassa asciutta quale cassa debba stare dentro uno stipo della sacrestia e le chiavi si debbano tenere dall’Ordinario dell’Oratio e dal Priore del Convento”. Che se in futuro la destinazione d’uso dell’abito fosse stata modificata sarebbe dovuta rimanere comunque in favore del “cappellone ed altare dell’Immacolata”. Se la confraternita si fosse trasferita altrove, dell’abito si sarebbero dovuti fare “paliotti, paramenti sacri ed altre cose simili per uso ed ordinamento di detto Cappellone”. Infine, stabilì che l’abito non si sarebbe dovuto assolutamente “Vendere, alienare, permutare, donare, imprestare”.

[21] G. Giangreco, “Scorrano tra cultura e tradizione. S. Maria degli Angeli. Convento dei Frati Minori Cappuccini”, Libera Voce, n. u. (Scorrano 1997), 1 e 3.

[22] Giuseppe Andrea Manfredi lasciò diverse tracce della sua pittura in Scorrano nella chiesa di S. Maria della Neve. Ai primi del Settecento lo troviamo impegnato nella parrocchiale di Salve dove, tra il 1704-5 per volontà di don Andrea Tommaso Lecci, indorò e affrescò i medaglioni della volta poi crollata nel 1938. Cfr. G. Cardone, Vita del Servo di Dio don Alessandro Cardone, a cura di Nicola Corciulo (Galatina 1969), 33- 4. Secondo lo Zibaldone salvese del 1750, il Manfredi “fu poi dipingitore maggiore dell’Arcivescovado di Napoli”. Cfr. A. Simone, Salve. Storia e leggende (Milano 1981), 105-8-11. Del Manfredi , che divenne molto amico del cardinale Pignatelli, cfr. il mio 1723 Viaggiatori barocchi da Copertino a Napoli (Galatina 1995), 50. L’anonimo cronista del viaggio però, lo chiamava erroneamente Giovanni.

[23] G. Ruotolo, Ugento, Leuca, Alessano, (Siena 1969), 253-4-5

[24] La cappella doveva far parte di un piccolo comprensorio di case sita in via S. Maria e costituenti un piccolo ospizio. Cfr. Simone, 128.

[25] Giuseppe Maria Venneri nel suo Cenno storico sul comune di Salve del 1860 aggiunge che posteriormente alla chiesa i frati costruirono una sacrestia preceduta dal coro dei Terziari, mentre nella parte anteriore vi era il coro dei sacerdoti e un organo che, andati via i monaci, fu portato nella chiesa di Ruggiano. Cfr. Simone, 123-124. Sulla chiesa dei cappuccini restaura negli anni trenta del Novecento a cura dell’arciprete Francesco de Filippi, poi arcivescovo di Brindisi, si veda anche Ruotolo, 255.

[26] Simone, 104.

[27] Cazzato, Guida, 51.

[28] Per questa particolare iconografia che discende da uno dei miracoli occorsi in via a S. Francesco, cfr M. Meiss, Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera. Arte, religione e società alla metà del Trecento (Torino 1982), specialmente 177-182.

[29] C. Frugoni, S. Francesco e l’invenzione delle stimmate (Torino 1993). AA.VV. S. Francesco in Italia e nel Mondo (Milano 1990).

Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158

Per la prima parte:

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)

Per la seconda parte:

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (II parte)

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (II parte)

di Giovani Greco

 

3 . L’esiguità delle fonti archivistiche non consente, fin qui, una completa ricostruzione biografica di frà Angelo. Tuttavia, in questa sede, si è in grado di fornire alcune inedite notizie che potranno costituire una significativo punto di partenza per un’analisi filologica delle sue opere. Il 4 marzo 1609, in Copertino, in un’abitazione nelle adiacenze della cappella intitolata a San Pietro Caposotto[1],Lucia Turi, moglie di Bartolomeo Tumolo, dette alla luce Giacomo Maria. Il giorno successivo l’infante fu condotto nella parrocchiale e l’arciprete, don Giovanni Maria Caputo, alla presenza dei padrini, i magnifici G. Francesco e Giacomo Racanata, gli somministrò il sacramento del battesimo[2].

Il documento che ci consente di risalire all’atto di battesimo è una Donatio fatta per frà Angelo da Cupertino del notaio leccese Giuseppe Garrapa del 7 febbraio 1632[3]; a questa data, nel convento dei cappuccini di Rugge in Lecce, alla presenza del notaio e degli opportuni testimoni “frate Angelo de Cupertino, al presente novizio dell’ordine dè Frati Minori di S. Francesco d’Assisi Capucinorum, al secolo Jacoby Maria filius legittimo di Bartolo Tumulo de Cupertino spontaneamente asserì come l’anni passati (quattro anni prima) si deliberò abbandonare il mondo e servire tutto il tempo di sua vita il Signore Dio per acquistare tesori celesti, et acciò più commodamente patire e seguire si claustrò dentro detta Religione di San Francesco e pigliò l’habito di Cappuccino dove al presente si ritrova, et persistendo à detta sua bona e santa voluntà intende à detta Religione professare et morire e dovendo de prossimo fare detta professione et avanti di quella fare la Renunzia e rifiuta dè suoi beni ha supplicato l’Ill.mo di questa Città si concedi la licenza di poter fare detta rinuncia di detti suoi beni servata la forma dell’ordine S.T.C. (Sacro Tridentino Concilio).

Il 1628, all’età di 19 anni, Giacomo Maria Tumolo abbandonò gli abiti secolari per quelli francescani abbracciando la rigida regola cappuccina nell’antico convento di Rugge, unica sede del noviziato.

Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
  1. Da questo momento di frà Angelo si perde ogni traccia. A differenza della vocazione religiosa di cui ora siamo in grado di saperne di più, l’assenza di documenti non ci consente di stabilire come, dove e quando rivelò quella per l’arte. Possiamo solo immaginare che appena adolescente sia rimasto affascinato dalle opere del suo concittadino, Gianserio Strafella, e si sia applicato con ogni mezzo a perfezionare il disegno e ad affinare il linguaggio delle luci, delle ombre e dei colori.

Ma usciamo dalla sfera delle ipotesi e cerchiamo di percorrere, per quanto è possibile, le sue vicende artistiche che potremmo dividere sin d’ora in due periodi: il pre e il post romano.

Di sicuro siamo in grado di stabilire che a 27 anni era già in grado di esprimere una certa conoscenza cromatica, stilistica ed iconografica che lo poneva fra le emergenze artistiche più interessanti di Terra d’Otranto. E mi riferisco all’opera di Ruffano raffigurante L’apparizione del Bambino a Sant’Antonio di Padova nella quale è emersa recentemente la seguente iscrizione: “FRAT[ER] ANG [E]LUS A CUPA[RTI]NO / PINGEBAT 1636”. Quasi certamente il dipinto fu chiesto dai cappuccini di Ruffano ad un altro monastero in seguito al mutamento del Santo protettore del paese da S. Francesco d’Assisi a Sant’Antonio di Padova, avvenuto nel 1683 sotto Ferrante II Brancaccio, principe di Ruffano[4].

 

Note

[1] Sarà utile ricordare che la chiesa intitolata a San Pietro Caposotto sorse nel XVI secolo e dal 1707 mutò il nome in Madonna delle Grazie.

[2] Archivio della Chiesa Collegiata di Copertino, (ACCC), Liber Baptizatorum, 3, c. 216r.

[3] A S L, atti di notar Giuseppe Garrapa, 46/23, a. 1632, cc. 17r-18r.

[4] Cfr A. de Bernart, ‘Il convento dei Cappuccini di Ruffano’, in Nuovi Orientamenti, XIII, 75, (Gallipoli 1982). Id. Culto e iconografia di S. Antonio da Padova in Ruffano, (Galatina 1987. AA.VV. Pittura in Terra d’Otranto, tav. 314. A. de Bernart – M. Cazzato, Ruffano una chiesa un centro storico, (Galatina 1997), 50-51 e passim.

 

Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158

Per la prima parte:

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)

Seicento pittorico sconosciuto

Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) 

di Giovani Greco

Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino. Museo Diocesano di Nardò

 

E’ noto che frà Angelo da Copertino, come pittore dell’ordine dei minori cappuccini di Terra d’Otranto attivo nel XVII secolo, emerse dall’oscurità nel corso dell’Ottocento, quando l’interesse per la storia locale ebbe un eccezionale incremento quantitativo attraverso gli scritti dell’Arditi[1] e del De Giorgi[2]. Ma quelle segnalazioni furono ben poca cosa a fronte del prestigio che il frate ebbe in vita. Infatti nel 1710 il vescovo di Nardò, Antonio Sanfelice, in occasione della visita pastorale a Copertino, affermò per la prima volta che nel decennio compreso tra il 1658 e il 1668, essendo pontefice Alessandro VII, il nostro fu addirittura nominato “conservatore” delle pitture vaticane[3]. Carica eccezionale, questa, che per gli storici salentini dell’Otto-Novecento costituì l’unico dato biografico dell’artista. Invano si attesero gli sviluppi della critica più qualificata[4] la quale, in alcuni interventi ricognitivi sulla pittura del Seicento in Terra d’Otranto, concentro le sue attenzioni su figure come quelle del Catalano, del Coppola, del Finoglio, dei Fracanzano: presenze artistiche decisamente emergenti ma non tali da oscurare l’opera di frate Angelo.

Una recente nota d’archivio segnalata da Mario Cazzato – al quale esprimo in questa sede particolare gratitudine – mi ha convinto ad intraprendere un’indagine su frà Angelo nel tentativo di restituire all’attenzione degli studiosi la sua attività permeata di quegli interessanti fermenti manieristici introdotti da Gianserio Strafella e diffusi secondo i canoni controriformistici[5], da Donato Antonio d’Orlando[6]. Frà Angelo infatti seppe sintonizzarsi con l’atmosfera del secolo, il Seicento, ricco di implicazioni devozionali, adottando un modo di dipingere che, come ha osservato il Marturano[7], per i suoi effetti chiaroscurali per quella predilezione per le sue tinte scure e per una sottile vena di sensualità che percorre soprattutto certe immagini femminili, si potrebbe agevolmente collegare al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca.

 

  1. Come è stato appena accennato, i primi indizi su frà Angelo risalgono al 1710 grazie ad Antonio Sanfelice il quale, tra l’altro, negli atti delle sue Sante Visite annota che nel 1668 il suo predecessore Girolamo de Coris, per l’altare di S. Girolamo nella cattedrale di Nardò, aveva fatto eseguire da frà Angelo la pala raffigurante il santo omonimo che riceve l’Eucarestia[8].

Nel 1885 si registra l’intervento di Giacomo Arditi che, citando i copertinesi che si distinsero in ogni ramo di virtù e di sapere, include frà Angelo tra i pittori, definendolo autore di pregevoli dipinti[9].

 

San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Cosimo De Giorgi, nei suoi “Bozzetti di viaggio” del 1888, non può fare a meno di citare frà Angelo[10] confermando quanto aveva sostenuto l’Arditi.

Più ricca appare la coeva nota riportata nel “Dizionario bio-bibliografico degli uomini chiari di Terra d’Otranto”; l’anonimo estensore cita cinque dipinti eseguiti dal nostro, tra cui una non meglio definita tela conservata nella chiesa di San Giuseppe da Copertino, sostenendo che “molte e molte altre [opere] si son perdute tra cui, credo, quella della Vergine col Bambino con frate orante ai piedi, forse il suo ritratto, collocato nella chiesa dei Cappuccini di S. Maria dell’Alto in Lecce ed oggi nella cappella privata del signor Vito Prete di Copertino, alla cui base, vi si legge il nome dell’autore e quanto resta del millesimo 16…”[11]

Agli inizi di questo secolo, Pietro Marti, ne redigere un elenco a stampa di pittori, architetti e scultori salentini include frà Angelo e lo definisce pittore di qualche merito[12].

Nel 1930 Amilcare Foscarini tenta di smontare la notizia del soggiorno romano di frà Angelo, sostenendo che “il frate non era un pittore di tanta importanza da essere Conservatore delle pitture degli illustri artisti che ornavano il Vaticano” in quanto, nel decennio in questione, frà Angelo era “già abbastanza vecchio”[13]. Se il Foscarini si fosse documentato presso l’archivio neritino, avrebbe ricavato che Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per sdebitarsi verso la diocesi di Nardò – della quale fu eletto vescovo il 1 giugno 1635 – quando fu elevato alla somma dignità della chiesa (7 aprile 1655), non dimenticò la “sua “ diocesi per la quale manifestò in più occasioni particolare predilezione[14]. Sicché, informato dal vicario apostolico, Giovanni Granafei, dei raggiunti traguardi artistici di frà Angelo (basti pensare che proprio nell’ottobre di quell’anno aveva termina la Regina Martirum per l’altare di S. Sebastiano nella collegiata di Copertino), Alessandro VII decise di chiamarlo a sé per offrirgli il prestigioso incarico di “conservatore” delle pitture vaticane.

Nel “Dizionario Biografico degli Italiani”, troviamo una nota su frà Angelo a firma di M. Pepe la quale suggestionata probabilmente dal Foscarini, respinge la tesi secondo la quale il nostro non poté svolgere l’incarico affidatogli da Alessandro VII in quanto la morte lo colse intorno al 1650[15]. A parte una serie di inesattezze contenute nella nota, alla biografa sarebbe bastato verificare il millesimo riportato sulla tela della Regina Martirum (1655) per ricredersi sull’anno della scomparsa del pittore.

 

Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158

Sull’argomento vedi anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/26/lattivita-pittorica-fra-angelo-copertino-sec-xvii-terra-dotranto/

http://www.treccani.it/enciclopedia/angelo-da-copertino_(Dizionario-Biografico)/

 

Note

[1] G. Arditi, La corografia fisica e storica della Provincia di Terra d’Otranto (Lecce 1885), 146-154.

[2] C. De Giorgi, La Provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio (Lecce 1888), II, 329-423.

[3] Cfr. Archivio della Curia Vescovile di Nardò (ACVN), A/11, Visite pastorali di mons. A. Sanfelice, (1710-1718), 1, c. 5r. “Visitavit successive in eodem latere versus boream altare sub titulo S. Sebastiani protectoris huius terrae com icone eiusdem sancti nec non sanctorum S. Francisci Assisij ed Animarum Purgatorij depicta a celebre pictore Angelo de Cupertino ordinis capucinorum qui ab anno 1658 usque ad annum 1668 sub pontificatu sanctae memoriae Alexandri VII conservator fuit pictutarum Vaticani”.

[4] Si veda L. Galante, “Sintonia e varianti della pittura salentina nell’incontro con la pittura metropolitana”, AA. VV. Barocco leccese. Arte e ambiente del Salento da Lepanto a Masaniello (Milano 1979), 247-97. L. Mortari, “Appunti sulla pittura dei Sei-Settecento in Puglia”, AA:VV: Ricerche sul Sei-Settecento in Puglia (Fasano 1980), 5-61. AA.VV. Pittura in Terra d’Otranto secc. XVI-XIX, a cura di L. Galante (Galatina 1993).

[5] Cfr. E. Male, L’art reliogeux apres le Concile de Trento (Parigi 1932), Cfr. anche L. Galante ‘Aspetti dell’iconografia sacra dopo il Concilio di Trento nell’area pugliese’, AA.VV. Ordini religiosi e società nel Mezzogiorno moderno a cura di B. Pellegrino e F. Gaudioso (Galatina 1987), II, 515-34.

[6] La figura del d’Orlando è stata definita sul piano della identità storico-artistica da M. Cazzato “Sulla via delle capitali del Barocco. Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII sec.) (Aradeo 1986). Giova aggiungere qui L. Manni “L’Annunziata di Corigliano: un dipinto (1588) scomparso di Donato Antonio D’Orlando, pittore di Nardò, Il Bardo, VII, 2, (Copertino 1997), 9.

[7] Crf. N. Marturano, ‘Tradizioni pittoriche e plastiche a Martina dal XV al XIX secolo’, Guida di Martina Franca (Alberobello 1983), 80.

[8] E. Mazzarella La sede vescovile di Nardò, (Galatina 1972, 197.

[9] Arditi, La Corografia,cit.

[10] De Giorgi, La Provincia di Lecce cit. 329-423.

[11] Archivio di Stato di Lecce (ASL), Dizionario biografico degli uomini chiari di Terra d’Otranto, ‘Angelo da Copertino’.

[12] P. Marti, La Provincia di Lecce nella storia dell’Arte, (Manduria 1922), 113

[13] A. Foscarini, Artisti salentini, ms. 329 BPL, 5-6

[14] Fabio Chigi accolse con cordialità o due canonici inviati dal capitolo e dal clero per congratularsi della sue alezione a Pontefice, offrendo loro diversi doni per ornamento della cattedrale. Beneficò non pochi cittadini della diocesi di Nardò tra cui Giovanni Francesco Cristaldi, Francesco Antonio Coriolano, padre Giovanni Lorenzo Cristiano dell’ordine carmelitano. Cfr. Mazzarella, 175-191.

[15] M. Pepe, ‘Angelo da Copertino’ Dizionario Biografico degli Italiani, 3, 226-27.

Un’opera del Settecento nel castello di Copertino

di Giovanni Greco

Rappresentato privo di vita, con le palpebre abbassate; con il capo reclinato sulla spalla destra nell’atto di esalare l’ultimo respiro. La folta chioma caratterizzata da riccioli ondulati, scende sulla spalla destra lasciando scoperto il collo.

Ecco, finalmente restaurato e fruibile ai visitatori del castello di Copertino, il “Cristo ligneo del XVIII secolo”, opera di ignoto maestro meridionale, intagliata in tronco di latifoglia, alta 64 centimetri e larga 67.

L’intervento conservativo, avviato nell’ottobre scorso, è stato realizzato attraverso il progetto “Opera tua” con investimenti della Coop Alleanza3.0, e votato dal 53% dei soci Coop, vincendo così la tappa di Puglia e Basilicata. L’esecuzione del restauro è avvenuta ad opera della Cnido di Alessandro Burgio, in particolare della restauratrice Chiara Muschitiello, in collaborazione con Fondaco Italia, società attiva nella valorizzazione dei beni culturali italiani che coadiuva l’Associazione beni italiani patrimonio mondiale Unesco.

Il Crocifisso, che da oggi è possibile ammirare in una delle sale di palazzo Pignatelli del castello, rappresenta il primo esemplare di una collezione di opere d’arte provenienti da sequestri del Nucleo per la tutela del patrimonio artistico. L’opera in questione infatti è un manufatto erratico recuperato presso un rigattiere della zona dalle forze dell’ordine durante un’operazione di sequestro di beni sottoposti a vincolo storico-artico.

Tant’è che le condizioni precedenti il restauro lasciavano intravedere un passato molto travagliato, sottolineato da interventi arbitrari e discutibili. La parte strutturale si presentava gravemente compromessa, priva di due chiodi e del supporto ligneo con funzione portante. Quella scultorea priva di diverse parti e oggetto di profonde abrasioni in corrispondenza della mani e dei piedi.

La policromia visibile prima dell’intervento conservativo non era quella originale: eseguita in modo grossolano, presentava plurime lacune; le indagini diagnostiche condotto da geologo Davide Melica hanno permesso di fare chiarezza sulla stratigrafia dell’opera e sugli interventi pregressi. La restituzione grafica dettagliata in scala del manufatto è stata realizzata da Annachiara Riccardo, studentessa presso il Liceo artistico di Galatina. Alla cerimonia di presentazione c’erano la direttrice del castello, Filomena Barbone; Aldo Pulli, presidente dell’area Coop del meridione d’Italia; Enrico Bressan di Fondaco Italia e i restauratori Burgio e Muschitiello.

Dimore storiche a Copertino. Palazzo Venturi

di Giovanni Greco

Il 500esco palazzo, disposto su due piani, si sviluppa ad angolo tra le attuali vie Margherita di Savoia e I° Maggio. Appartenne alla famiglia dè Ventura, poi Ventura e infine Venturi, stabilitasi a Copertino da Salerno, nel XIV secolo, con Raguzio dè Ventura. All’origine si estendeva su circa 450 mq ed era tra le più eleganti dimore rinascimentali della città.

Riscontri in tal senso sono visibili sul lato sud a primo piano dove si intravedono tracce di beccatelli (tagliati) e alcuni estradossi (tagliati) che incorniciavano due finestre e la porta d’ingresso al palazzo, al quale si accedeva attraverso uno scalone che principia nel cortile interno.

Un ingresso di servizio si trovava in vico del Crocifisso (via S. Palma), preceduto da una cappella interamente affrescata, scorporata dal palazzo negli anni ‘90 e trasformata in centrale termica a servizio del cinema Centrale.

Tornando in via I° maggio troviamo un elegante loggiato costituito da una bifora. Su una architrave delle due finestre si legge ancora una parziale iscrizione umanistico-barocca: “Attende tibi et latra…” .

Altre iscrizioni sono disseminate su architravi interne del palazzo. Tra cui quella situata in un sottoscala che recita “Deus in nomine tuo” (In nome di Dio), probabile accesso ad una cappella privata.

cortile interno

 

All’origine, la copertura del palazzo era a tegole sorrette da capriate. Poi, nel XVIII sec. diversi vani furono voltati a botte con lunette poggianti su eleganti peducci rinascimentali. Gli ambienti a primo piano erano riservati ai proprietari mentre i locali a pianterreno, dove erano ubicati un forno per cuocere il pane, un pagliaio, le stalle e le cucine vi dimorava la servitù.

Altro intervento di epoca 700esca fu la creazione dell’artistico portale decorato a stucco, sovrapposto al precedente che era più ampio e a pianta semicircolare.

stemma della famiglia Venturi

 

Consolidata la posizione economico-finanziaria sul finire dell’800 i Venturi abbandonarono questo palazzo e acquistarono quello in piazza del Popolo di proprietà dei Cosma, presso il quale avviarono il primo istituto di credito cittadino.

Da allora, per la storica dimora ha inizio il declino. I coloni che lo abitarono unitamente agli affittavoli ai quali erano stati concessi i locali a piano terra, ne accelerarono la decadenza. Tant’è che, nel dopoguerra, per agevolare il transito dei carri carichi di concimi l’attuale portale d’ingresso fu scriteriatamente allargato. L’area adiacente, in direzione sud-est dove esisteva un ampio agrumeto, nel 1949 fu utilizzata dal trio Venturi-Del Prete-Verdesca per costruirvi il cinema Centrale.

Per la valorizzazione della storica dimora bisognerà attendere il 4 settembre 1946 quando, con atto di notar Francesco Buonerba, fu acquistata per la simbolica cifra di 100 lire dalla parrocchia S. Maria ad Nives che ne fece un centro di formazione morale e religiosa.

Il culto di santa Apollonia a Copertino

TRACCE DI ANTICHE TRADIZIONI CULTUALI

di Giovanni Greco
Tra i santi di tradizione greca, Copertino annovera anche quello di “Santa Apollonia”. Soppiantata dai più efficaci antibiotici, anticamente questa santa era invocata da quanti soffrivano il mal di denti. Nell’iconografia è raffigurata come una giovane che in una mano regge la palma del martirio e nell’altra una tenaglia che stringe un dente. In Copertino si contano almeno 5 di queste raffigurazioni databili tra il ‘600 e la prima metà del secolo successivo.

Nella zona superiore del vano absidale della chiesa della Clarisse, liberato di recente da scialbature stratificate, sono venuti alla luce una serie di riquadri affrescati. In uno di questi presenti sul lato destro compare, tra gli altri, s. Apollonia mancante della parte inferiore in corrispondenza dell’apertura di un cavità (poi tamponata), realizzata agli inizi del ‘900.

Un’altra raffigurazione di questa santa la ritroviamo nella cappella Venturi (1719), lungo l’attuale via Bengasi, intitolata a s. Maria della Grazia. Sul lato sinistro del piccolo vano sono riportati due riquadri affrescati in uno dei quali sono raffigurate s. Marina (a destra) e s. Apollonia (a sinistra), attribuibili al pittore copertinese, Bernardino Greco.

 

Un terzo affresco dedicato alla santa è presente nella chiesa dedicata alla Madonna delle Grazie, lungo la via omonima, che nel 2014 gli eredi Galbiati-Cacciapaglia hanno trasferito tra le proprietà della chiesa Matrice. Anche in questo caso s. Apollonia appare circoscritta in un riquadro sul lato destro dell’altare (in quello sinistro è presente s. Agata). Entrambi gli affreschi versano in un pessimo stato. Una vasta sezione dell’intonaco in cui è affrescata s. Apollonia presenta vistosi segni di distacco che, insieme ad una estesa macchia di umidità alla base ne stanno compromettendo seriamente le condizioni. Non se la passa meglio l’affresco di s. Agata attraversato da una vistosa crepa della larghezza di un centimetro.

 

 

Una quarta rappresentazione la si ritrova nel vano scala di una abitazione privata in piazza del Popolo, un tempo tra le servitù della scomparsa cappella di Santo Stefano. Si tratta del lacerto di un affresco databile alla fine del ‘600, realizzato nell’intradosso di una nicchia votiva dedicata alla Madonna del Carmine.

Di chiara epoca 600esca è infine l‘immagine della santa, scolpita in bassorilievo nel primo basamento della colonna destra dell’altare di s. Domenico (1657), nella chiesa del Ss.mo Rosario. Opera di Ambrogio Martinelli sottoposta a recente restauro.

Il campanile della chiesa matrice di Copertino

 

Note documentarie intorno alla torre campanaria della chiesa Matrice di Copertino (XVI sec)

 

di Giovanni Greco, foto di Fabrizio Suppressa

La questione su chi ha inventato il campanile è abbastanza controversa almeno quanto la “scoperta” delle campane che, secondo la tradizione, si deve a San Paolino da Nola nel V secolo. I primi campanili della storia cristiana furono eretti intorno al VII secolo e fu indubitabile l’influsso dei minareti, anche se pare che il manufatto cristiano debba la sua forma soprattutto alle torri di guardia che gli abitanti dei borghi medioevali costruivano nei pressi delle chiese o dei monasteri per rifugiarsi in caso di assedio.

Nel 1577, Carlo Borromeo nel suo trattato De fabrica ecclesiae codificò per primo i canoni per la costruzione dei campanili: dovevano essere posti sulla facciata della chiesa, staccati da essa e sulla destra di chi entra; inoltre, dovevano avere preferibilmente forma quadrata e possibilmente essere dotati di un orologio. Più tardi, secondo il trattato di Francesco Cancellieri, sulla parte terminale, cuspide o loggiato che fosse, avrebbero trovato posto una croce o la sagoma metallica di un gallo, simbolo dei predicatori che svegliano chi giace nel regno delle tenebre.

In Terra d’Otranto, per quel che rimane, la tradizione dei campanili inizia con la grande guglia di Soleto del 1397 replicata, ma in modo incompiuto, mezzo secolo dopo a Corigliano dalle stesse maestranze che realizzarono il coro di Santa Caterina a Galatina. In epoca seicentesca, sulla linea del manufatto di Soleto, si innestarono quelli della Cattedrale di Lecce del 1682 e delle parrocchiali di Sternatia, di Maglie e di Lequile, per citarne alcuni. Nella seconda metà del Cinquecento ha inizio una seconda maniera, del tutto indipendente, con i campanili dell’Immacolata e di S. Domenico di Nardò, con quelle delle matrici di Galatone, Monteroni e Copertino, tutti della “maniera tarantinesca” in netta contrapposizione con i campanili della cosiddetta “serie leccese”.

Le principali caratteristiche di questa seconda serie saranno l’assenza di rastrematura progressiva nei singoli piani sovrapposti; l’assenza di coronamento a cupolino (difatti sono troncati); presentano, inoltre, delle semicolonne che possono essere due o quattro per lato che mancano nei campanili della “serie leccese”.

Osserviamo, ora, attraverso le fonti archivistiche, le vicende relative alla costruzione della torre campanaria della chiesa Matrice di Copertino, accennando preventivamente a due significativi progetti che, insieme al campanile, costituirono l’ambizioso piano di intervento voluto dal Clero e dall’Universitas, durato circa vent’anni e finalizzato all’ampliamento della Parrocchiale.

Nel 1561 la “Terra di Cupertino” contava poco più di 2300 abitanti e un crescendo benessere economico. Due aspetti che convinsero l’Universitas a favorire una serie di interventi urbanistici, tra cui l’ampliamento della Parrocchiale. Il notabilato locale che si alternava di anno in anno alla guida della comunità non era rimasto insensibile alla sua “ricettività” che, soprattutto in quel secolo raccoglieva centinaia di benefici ecclesiastici. Ovvero, beni mobili e immobili che sarebbero rimasti al riparo dal fisco per molti anni. Sicché, la classe benestante, per esprimere la propria gratitudine verso questa particolare “accoglienza”, promosse e finanziò l’ampliamento della chiesa per ingraziarsi il clero, ma soprattutto per ostentare la propria autorevolezza dei confronti del potere feudale.

La conferma di questa gratitudine porta la data dell’8 febbraio 1569, allorquando l’Universitas guidata da Giovan Francesco Morelli, stabilì di sostenere con 250 ducati la costruzione delle navate laterali affidandone i lavori al clan di costruttori guidato da Marco Antonio Renzo di Lecce. Successivamente, un atto di notar Antonio Russo del 6 ottobre 1576 ci rivela che le quattro dignità capitolari (l’arciprete Antonio Bove, l’arcidiano Cesare Desa, il primicerio Massenzio Bono il vicario foraneo Donato Gatto), per mezzo del procuratore del capitolo, Giovanni Maria della Mamma, acquistarono per 300 ducati da Margherita Boniurno e da Laura e Porzia Gambroy, un comprensorio di case per realizzare il vano absidale della chiesa. Gli immobili consistevano in una casa palazziata e cocina, camera terragna et orticello et altra camera chiamata lo Furno et conseguenti alia camera, cortilio et stalla intus detto cortilum, supportico et superiori domus, scala lapidea, cisterna et ali membri. Secondo un altro documento del 16 maggio 1579 le dignità si rivolsero al monastero di S. Chiara per avere a censo 100 ducati che servirono per beneficio della majore ecclesia pro amplianda […] per la fabrica del coro seu trabona. A margine citiamo un atto del 12 febbraio 1586 dal quale rileviamo che avendosi già finita e constructa la trabona le dignità vendettero per 55 ducati quella parte di caseggiato appartenuto ai Gambroy e che dieci anni prima era stato acquistato per la realizzazione del coro. Con la costruzione dell’abside – il cui impianto pentagonale si richiama alle cinque piaghe di Cristo, mentre la stella che deriva dal pentagono è schema del corpo umano in molti trattati del ‘4-500 – compare sulla scena artistica copertinese la figura di Giovanni Maria Tarantino, un mastro muratore neritino alla cui “maniera” si rifanno successivamente i clan di costruttori dei Pugliese, degli Spalletta, dei Bruno e degli Schirinzi.

particolare del campanile con lo stemma di Copertino

 

La prova che il Tarantino fu l’autore di questa insolita quanto ingegnosa costruzione – rintracciabile in modo quasi speculare in quel che resta dell’antica parrocchiale di Cursi – si legge in due note di introiti ed esiti presentate dai procuratori della fabbrica (i canonici Belisario Menga ed Angelo Pascali), al revisore dei conti don Giovanni Maria della Mamma, relativi all’amministrazione capitolare del 1579-80. Nella prima nota del 4 marzo 1580 leggiamo testualmente: Consignati a mastro Joanni Maria Tarantino et mastro Gio Francesco de lo Verde de la città de Nerito, mastri fabbricatori che fabricano in ditta fabrica d. 145. Nella seconda, del 15 ottobre seguente, è scritto: E più se poneno essi predetti Venerabili procuratori havere consegnati a mastro Giovanni Maria Tarantino in conto dello stancio de la fabrica della trabona d’essa ecclesia d. 106.

Ma chi era Giovanni Maria Tarantino di cui si sono occupati i maggiori studiosi salentini a partire da Luigi Maggiulli nella sua monografia su Muro Leccese nel 1871? Chi era questo genio della pietra che seppe ribellarsi all’oblio della storia, emergendo dal nulla in forza della firma apposta su almeno due delle sue opere (a Muro e a Morciano), nelle quali egli, quasi analfabeta, si dichiara “maestro” e dimostra di saper scrivere perlomeno con lo scalpello? Lo studioso Giovanni Cosi che si è occupato di lui nel 1981 in occasione delle vicende relative alla costruzione di San Domenico a Nardò, afferma che nel 1571 sposò Alessandra Manieri; che nel 1582 impegnò una dote di 6 ducati per la figlia Virginia; che nel 1593, nel 1611 e nel 1613 operò a Galatone; che nel 1616 la sua seconda moglie Prudenza Romano era già vedova.

Nel 1988, l’architetto Mario Cazzato, nel segnalare i rapporti tra centro e periferia relativamente al caso di Nardò, Galatone e Seclì oltre ai già citati centri di Muro e Morciano, individua la presenza del Tarantino anche a Minervino, Presicce, Latiano, Leverano, Tricase e Copertino. Più tardi autorevoli precisazioni verranno da Mario Manieri Elia che, tra l’altro, definirà il Tarantino una figura sulla quale – sin dal primo impatto con l’architettura salentina – sembra precipitare la parte più significativa della produzione locale della fine del Cinquecento.

A Copertino, in particolare, la bravura del Tarantino si confermò con la costruzione della torre campanaria della Matrice. Difatti, il Nostro vi fece ritorno otto anni dopo la costruzione dell’abside per aggiudicarsi l’assegnazione dei lavori.

L’erigenda torre campanaria si propose come un’opera d’arte che avrebbe sostituito il vecchio campanile a vela con tre campane del 1452 e che un bozzetto del carmelitano Angelo Rocca del 1584 ce lo mostra accresciuto di un’altra vela che insieme alla prima formava un angolo retto, alla cui sommità vi si poteva accedere per mezzo di una scala lapidea pro campanis pulsandis.

E’ il 4 settembre 1588 quando l’Universitas delibera l’incarico ai magnifici Giovan Francesco Morelli, Virgilio della Porta e Giulio Ruggiero di seguire tutte le fasi relative alla costruzione del nuovo campanile della maiore ecclesia.

Tra i compiti preliminari della terna era compreso anche quello di bandire in Copertino e nei paesi limitrofi la costruzione del campanile e di approvare il progetto più bello al costo più basso. Il 30 ottobre seguente, nella sacrestia della chiesa del convento di San Francesco intra moenia, alla presenza di notar Antonio Russo e di Colella Preyte, giurato della corte del Capitano a cui spettava di convalidare i bandi e di presiedere le aste pubbliche, si diedero appuntamento due gruppi di costruttori. Il primo era composto dai mastri neritini Giovanni Maria Tarantino, Allegrazio Bruno, Tommaso Rizzo, Angelo Spalletta e Gio. Francesco de lo Verde; il secondo dai mastri muratori galatinesi Pompeo Gugliese e Giacomo D’Amato. Insieme a loro era presente la terna deputata dall’Universitas e un nucleo rappresentativo del clero locale tra cui l’arciprete don Antonio Bove, don Bernardino Grittaglie, don Giacomo Maria Greco, il suddiacono Gio. Vincenzo Zurlo e i chierici Alfonso Zurlo, Giacomo Morello, Gio. Donato Bove e Donato Antonio Verdesca. Il giurato Colella, rivolto ai presenti disse ad alta voce: chi vole fabricare dicto campanaro, e dar migliore conditione comparga e ci mostri il suo modello e manifesta la sua offerta!.

Si fece avanti per primo il Tarantino il quale presentò un campanile in charta reali fabrice, ossia disegnato e dipinto in tutti i suoi particolari, accompagnato da pactis et capitolationibus. E’ interessante confrontare questo testo con l’oggetto cui ha dato luogo. La descrizione definisce, infatti, i vari ordini partendo dal basso e fissando dimensioni e prezzi unitari.

Guardando il modo in cui il campanile si pianta nel tessuto urbano con il forte parallelepipedo del suo basamento, riquadrato nobilmente nella faccia esposta e segnato al centro da una rosetta, impressiona la distanza tra autorità di concezione e il tono dimesso con cui le parti basamentali venivano proposte al committente in termini di pura quantità. Altrettanto vale per i successivi blocchi sovrapposti la cui dialettica proporzionale risulta condizionata dal prezzo per canna (misura equivalente a m. 2.10) o per blocco di tufo lavorato su una o su due facce.

Ma è il momento di osservare analiticamente l’offerta del Tarantino. Dapprima disse che ogni canna di fabrico relativa alla costruzione del primo ordine doveva essere retribuita a 23 grana; inizialmente l’altezza del primo ordine fu prevista di 60 palmi (cm. 26,36) poi stabilita in 70. Ogni blocco di tufo lavorato doveva essere retribuito a 3 carlini. Sei carlini, invece, furono richiesti per la lavorazione dei blocchi impiegati negli angoli. Il grosso cornicione aggettante compreso nel primo ordine (quello composto da archetti che i maestri definivano a cavalluccio), lo offrivano a 9 carlini il palmo, mentre il cosiddetto scorniggiato volevano che si pagasse il doppio.

Gli angoli di tutte la costruzione sarebbero stati costruiti in modo rinforzato a doppio concio. Fu precisato che l’intaglio che entrerà in detta opra si debba pagare a giudizio degli esperti eligendi per ambi parti a patto puro che lo detto intaglio si debbia fare a volontà delli predetti magnifici deputati e soprattutto che non s’esca da lo disegno. Si osserverà che, pur non essendoci alcuna indicazione sulla soluzione architettonica o sull’apparato iconografico, alla fine dell’opera questi risultarono assai densi e ricchi di significati.

Si può dedurre che gli elementi dell’intaglio, venivano eseguiti via via, su richiesta dei magnifici deputati o previa discussione con essi di ogni soluzione da adottare; tant’è vero che la stessa valutazione del compenso – per il quale era previsto l’arbitraggio – dipendeva dal gradimento del risultato finale da parte della committenza che evidentemente giudicava in relazione al testo iconografico.

Continuando nel capitolato proposto del Tarantino troviamo che per la squadratura semplice di un palmo di tufo fu proposto 1 tornese, mentre per quella relativa alle cornici fu richiesto il doppio. Fu precisato che il compenso per la squadratura dei tufi che si eseguiva a terra non doveva essere incluso nel canneggio della muratura in verticale. Ai mastri costruttori e ai manipoli che sarebbero stati impegnati nell’opera non doveva competere alcuna prestazione di materie prime. I deputati della fabbrica avrebbero dovuto condurre in loco tutto l’occorrente. Ossia, che il legname per l’impalcatura e i blocchi di tufo necessari dovevano essere scaricati nel cortile della chiesa esclusi quei pezzi che fino a quel giorno erano stati depositati per strada, fuori dal cortile.

Altro onere per i deputati sarebbe stato quello di dover provvedere all’alloggio delle maestranze, nonché ad un letto per ciascuno di loro escluse le lenzuola. Alle maestranze sarebbero state versate giornalmente 13 grana la canna relativamente al primo ordine (70 palmi), mentre il secondo ordine si sarebbe pagato, anche in questo caso giornalmente, a ragione di 2 carlini.

Per tutti gli altri ordini della costruzione, fino alla sua conclusione, il prezzo proposto fu 23 grana. Inoltre, si disse che, conforme alle norme in uso nelle piazze di Terra d’Otranto, l’Universitas avrebbe dovuto garantire il saldo dei lavori al termine di ogni ordine. Dal canto loro le maestranze garantivano il completamento della fabbrica entro 5 anni e ne bloccavano i prezzi pattuiti. All’Universitas, infine, sarebbe spettato il compito di scavare e svuotare le fondamenta ad una profondità che sarebbe stata stabilita dai costruttori.

Avendo consegnato il disegno ed offerto le loro condizioni, fu accesa la tradizionale candela vergine. E fino alla sua estinzione si sarebbero potuti presentare altri progetti ed altre offerte. Trascorso un tempo opportunamente lungo si fecero avanti Pompeo Gugliese e Giacomo D’Amato i quali proposero di eseguire il disegno del Tarantino a costi inferiori, cioè da 23 a 22 grana la canna. Si prestarono ad eseguire la lavorazione e la posa in opera di tutti i cosiddetti quadrelli, nonché la copertura della lamia al prezzo di 29 grana. La riquadratura del cornicione aggettante relativo al primo ordine la offrivano a 5 carlini (4 in meno rispetto al Tarantino). Infine, offrirono gratuitamente tutto l’intaglio riportato nel disegno del concorrente, esclusi i capitelli e le figure.

Al termine delle offerte il Colella chiese se vi fossero altri mastri in grado di fare proposte migliori. A quel punto entrò nuovamente in gioco l’equipe neritina che ribassò sensibilmente le offerte dei galatinesi. Proposero di fare quadrelli a 28 grana (uno in meno), e di eseguire, fare et osservare et complire tutto quello ch’anno offerto li detti mastri di S. Pietro in Galatina. In più offrirono idonea e sufficiente garanzia nell’esecuzione dei lavori e la maggior sicurezza possibile alla fabbrica.

Il 20 novembre seguente il sindaco, Giovanni Maria Caputo, convocò un pubblico reggimento durante il quale Giulio Ruggiero in rappresentanza della terna deputata per l’erigendo campanile comunicò che il partito della fabrica era stato concluso a favore di mastro Gio. Maria Tarantino e compagni di Nardò. Quindi, sollecitò la redazione di un apposito rògito notarile. Ma altro percorso restava ancora da fare.

Nel 1591, infatti, ritroviamo le dignità capitolari alle prese con l’acquisto di una porzione di suolo necessario. In un rogito di notar Antonio Russo si legge che alcuni mesi prima il Capitolo, pro amplianda Rev.da Ecclesia et construere de novo campanile, aveva acquistato per 142 ducati e mezzo dalla vedova di Pirro Li Nuci, Geronima Calia, una casa vocata la Specciaria con cantina inferiore, horto retro, camerino et camera, cisterna sita in loco dell’Ospitale da occidente, l’apotheca del quondam Giovanni Maria Chiarello da oriente, la strata pubblica da borea. Sicchè, don Agostino Chiarello, incaricato dal Capitolo, il19 agosto si accinse a stabilire con la Calia le debite cautele.

Non sappiamo quando avvenne la posa della prima pietra né se i costi subirono variazioni in corso d’opera. Se consideriamo il “1579” inciso sul lato nord del piano basamentale potremmo dire che a partire da quel 1588 ci vollero 9 anni prima che l’opera venisse compiuta. Quasi certamente essa iniziò a svolgere le sue funzioni nel 1603, come ricorda un’iscrizione lapidea posta alla base delle colonne centrali della facciata ovest, su cui è scritto che per volontà del sindaco dell’epoca, Filippo Ventura, furono collocate le campane restaurate.

A distanza di 420 anni, questa imponente opera di edilizia sacra che dall’alto dei suoi 35 metri osserva l’evolversi della storia copertinese, è ancora lì intatta, austera e simile ad una sentinella. Come un gigantesco mènhir abbrunito si erge nel cielo, si contrappone all’arcigno torreggiare del maschio angioino e sottolinea l’emergenza più significativa del profilo urbanistico di Copertino.

Bibliografia essenziale

S. Calasso, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966;

V. Zacchino, L’attività copertinese di Giovanni Maria Tarantino, in “La Zagaglia, XIV, 1972 n. 54;

G. Cosi, Spigolature su Nardò, in “La voce del Sud”, Ottobre 1981;

M. Paone, Aneddoti di storia salentina, in “Nuovi orientamenti”, a. XIV, 1984;

M. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Guida, Napoli 1988;

M. Cazzato, Rapporti tra centro e periferia: il caso di Nardò, Galatone, Seclì, Nardò 1988;

M. Manieri Elia, Barocco leccese, Electa, Milano 1989;

M. R. Tamblè, Fonti diocesane per la storia delle strutture ecclesiastiche in Copertino: benefici e legati pii (secc. XV-XIX), in “Copertino in epoca moderna e contemporanea”, vol. 1, Congedo, Galatina 1989

G. Greco, Chiesa e clero a Copertino alla fine del ‘500, Bibliotheca Minima, Copertino 1996;

R. Beretta, Il campanile torna in piazza, in “Avvenire” 17 aoprile 1997, pag 19.

 

Fonti archivistiche

Archivio di Stato Lecce, atti di notar Antonio Russo, coll. 29/2

Archivio Chiesa Collegiata Copertino, Spoglio dè protocolli fatto per me d. Pietrantonio Montefuscoli, arciprete di Cupertino, t. 1°

relazione tenuta dall’autore nella sala civica a Copertino il 9 ottobre 1997 in occasione dei 400 anni della costruzione della torre campanaria.
E’ stata pubblicata ne “il Castello”a. VII 1997, n. 1 e ripubblicata nel libro “Frammenti di storia copertinese, 2007

La cappella di S. Maria di Costantinopoli nel centro storico di Copertino

BAROCCO NASCOSTO: LA CAPPELLA DI S. MARIA DI COSTANTINOPOLI

 

testi e foto di Giovanni Greco

Solitamente esclusa dal tradizionale itinerario turistico la cappella di S. Maria di Costantinopoli, detta anche dell’Iconella per la presenza di una piccola icona della Vergine col Bambino di epoca 500esca, costituisce uno dei numerosi esempi di spiritualità mariana presenti in Copertino.
La cappella, attualmente tra le proprietà della famiglia Galbiati, è a pianta rettangolare.
Secondo l’epigrafe collocata nella parte superiore della facciata, fu realizzata nel 1576 durante il sindacato di Scipione de Ventura con il contributo spontaneo dei copertinesi sei anni dopo la memorabile sconfitta dei Turchi a Lepanto (1571), in segno di gratitudine verso l’intercessione della Vergine invocata dalla flotta pontificia.
Sorge al centro dell’antico nucleo bizantino di Copertino, a ridosso del castello intorno al quale si sviluppò il primo impianto urbano della città.
Il prospetto è animato da un portale sormontato da un rosone e, alla sommità, da un campanile a vela di epoca 700esca.
La volta ottagonale è stata dipinta a tempera nel 1645, come risulta dal millesimo riportato all’interno poco sopra il rosone, da un artista dotato di buona esperienza e commissionata dalla famiglia Mongiò dell’elefante, entratane in possesso 69 anni dopo l’edificazione.
Le pareti interne sono pressoché spoglie. In quella centrale è presente un modesto altare al centro del quale campeggia il tondo che racchiude l’affresco della Vergine. Ai lati, due ovali al cui interno sono dipinti a tempera due composizioni floreali di pessima fattura.

Quasi certamente all’origine contenevano due dipinti sacri poi asportati. Il paliotto, invece, è decorato da una tela tardo 800esca raffigurante il Cristo morto.
La volta è un tripudio di angeli (ben 37 in tutto), che insieme a decorazioni in forma di foglie di acanto circoscrivono l’arma del committente e le raffigurazioni sacre. Chiaro esempio di arte barocca che allude allo spazio infinito e alla natura-spettacolo.

La SS. Trinità

Nella sezione centrale la Trinità corredata alla base di un lungo cartiglio parzialmente leggibile.
Un’altra sezione della volta è dedicata all’estasi di San Francesco confortato da un angelo musicante, esemplato su un dipinto di Guido Reni del 1605 presso la Pinacoteca di Bologna. In alto campeggia un ovale in cui è raffigurato l’Angelo custode. La lettura, o perlomeno ciò che resta di un cartiglio alla base sinistra potrebbe svelare l’autore delle decorazioni.
Non meno suggestiva è la raffigurazione del “Riposo durante la fuga in Egitto” il cui refrigerio l’autore lo contestualizza ai piedi di un albero di corbezzoli a cui sembra attingere il canuto S. Giuseppe.

San Girolamo

 

Altro riquadro è quello dedicato a S. Girolamo penitente in cui sono presenti tutti gli elementi della tradizionale iconografia di questo dottore della Chiesa. In alto l’arma dei Mongò. Sorprende, inoltre, l’immagine di S.Lucia racchiusa in un ottagono che rimanda all’impianto della cappella, al pari della raffigurazione del “Riposo”. Un’auspicabile analisi ravvicinata del dipinto consentirebbe di stabilire se sia coevo alla costruzione dell’edificio o perlomeno antecedente alle decorazioni del 1645.


Infine, lo stemma dei Mongiò dell’elefante con la torre, famiglia giunta nel Salento al seguito degli angioini alla fine del XIV sec. e divisa in due rami nel XVI sec. nei Mongiò del giglio e dell’elefante, appunto.

stemma dei Mongiò dell’Elefante
Il Cristo morto sul paliotto dell’altare

Copertino. Alcune vicende intorno alla colonna di S. Sebastiano

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di Giovanni Greco

A distanza di trent’anni dall’abbattimento della porta del Malassiso, Giovanni Nicolaci (fratello uterino di Giuseppe Trono che insieme ad altri aveva acquistato e poi abbattuto il convento di San Francesco intra moenia), avanzò al Comune la richiesta di voler costruire a proprie spese una colonna per ricollocarvi la statua di San Sebastiano, attribuita allo scultore copertinese, Ambrogio Martinelli, originariamente situata sulla sommità della porta omonima e parcheggiata nel frattempo nella chiesa dei Domenicani. Accertato che la colonna, tre metri di base e dieci di altezza non avrebbe creato intralcio alla circolazione, sul finire del 1924 il Comune deliberò a favore della costruzione.

Ma l’iniziativa divenne subito oggetto di scontro fra la popolazione locale che si divise tra favorevoli e contrari.

Il 27 febbraio 1925, a lavori già iniziati, un gruppo di copertinesi inviò al prefetto di Lecce una vibrante protesta. Ne riportiamo uno stralcio. “Trent’anni e più or sono si sentì la necessità di abbattere la porta di S. Sebastiano (Malassiso). Fu un respiro per questa nostra cittadinanza che di giorno in giorno si estendeva specie al di là della porta suddetta […] Ad opera di un ricco ignorante si è voluto costruire una colonna in cemento armato per collocarvi la statua di S. Sebastiano […]. I lavori sono iniziati. V. S. Ill.ma non può immaginare lo sconcio che è per verificarsi […] volendo innalzare un mausoleo cosi ingombrante. Eppure vi è la piazza in uno dei lati della stessa non verrebbe nessun fastidio […]. Dove ora si cerca di piantarla non solo storpia e deturpa una via, ma è fonte di grave pericolo per i veicoli di qualsiasi genere”.

Quindi, invocano l’intervento delle autorità locali, della prefettura e del Genio civile. Dal canto loro i sostenitori dell’iniziativa, venuti a conoscenza della protesta passarono al contrattacco e in 219 sottoscrissero la loro accorata lettera al prefetto affermando che “non vi è altro posto più adatto del prescelto per speciale ubicazione del paese, storia, tradizioni, volontà e concorso di popolo. L’asserzione che possa nuocere al transito è ridicola perché la colonna avrà d’ambo i lati strade di metri 6.60 ciascuna”.

Il prefetto, dopo aver assunte informazioni dal sindaco, stabilì di inviare un ingegnere del Genio Civile il quale, al termine dell’apposita perizia affermò che la struttura era tecnicamente solida, che non vi sarebbe stato alcun pericolo per la incolumità pubblica e che il traffico non ne avrebbe sofferto. La querelle era chiusa. I lavori potevano completarsi.

Il mese di luglio del 1925 sulla colonna, ingabbiata da una fitta impalcatura di legno, con l’ausilio di funi e carrucole venne issata la statua di S. Sebastiano. Per ricordare ai posteri il suo gesto il filantropo Nicolaci fece incidere la seguente epigrafe:

A/San Sebastiano/Giovanni Nicolaci/esaudendo fervido voto di popolo/questo monumento/eresse/a.d. MCMXXV.

Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino

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di Giovanni Greco

Evangelista Menga, progettista del castello di Copertino, a cui si attribuiscono i lavori di quelli di Mola e Barletta nonchè le fortificazioni di Malta, fu anche tra gli architetti che si alternarono nella fabbrica del Castel nuovo di Reggio Calabria.

La sensazionale rivelazione, a firma di Francesca Martorano, direttore del Dipartimento patrimonio, architettura, urbanistica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, consente di allargare ulteriormente gli orizzonti circa la conoscenza di questo architetto militare originario di Francavilla Fontana e naturalizzato copertinese, per anni al servizio di Carlo V.

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particolare dell’ingresso del castello di Copertino

 

Il nome di Evangelista Menga compare tra i progettisti che contribuirono alla ricostruzione del complesso quadro dell’architettura fortificata in Calabria, richiesta dalle grandi incursioni autorizzate dal sultano ottomano. Una rete difensiva che costò enormi sacrifici da parte della popolazione in termini di uomini, mezzi, denaro. Nel XVI secolo, quando anche in territorio calabrese l’attenzione del potere centrale si spostò dalla singola fortificazione al territorio nel suo insieme, diversi ingegneri e architetti inviati dalla Corona Spagnola, si avvicendarono nella rimodellazione di una serie di opere militari. Antonello da Trani, Giovanni Maria Buzziccarino, Gian Giacomo dell’Acaja, Evangelista Menga, Ambrogio Attendolo, Benvenuto Tortelli, Gabrio Cerbellon sono i nomi di coloro di cui esiste ampia documentazione.

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cortile interno del castello di Copertino (ph Khalil Forssane)

 

A Reggio Calabria i documenti ritrovati qualificano il Menga “capomastro”. Ma doveva trattarsi di un capomastro particolare se il 16 gennaio 1547 gli vennero anticipati dalla Regia Corte 600 ducati di salario. In altri documenti viene definito “architettor dela fabbrica”. La cifra che gli veniva corrisposta non era da poco, se la paga usuale per la qualifica di capomastro era di 8 ducati al mese. Altri pagamenti al Menga vengono registrati per tutto il 1547 e fino al maggio dell’anno successivo.

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L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto

Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino
Battesimo di Gesù, di frà Angelo da Copertino

 

di Marcello Gaballo

Giovanni Greco, storico e giornalista copertinese, il 28 dicembre prossimo, alle ore 19, presso il salone dell’ex Seminario, di fronte alla Cattedrale di Nardò, sarà uno dei due relatori che si alterneranno nella serata dedicata alle opere “ritrovate”, che troveranno degna collocazione nel Museo Diocesano di Nardò.

Il titolo del suo intervento è “L’attività pittorica di fra’ Angelo da Copertino (sec. XVII) in Terra d’Otranto”, in considerazione che una delle opere è il Battesimo di Gesù, di recente restaurata dall’Impresa Leopizzi 1750, proveniente dalla chiesa copertinese delle Clarisse.

L’opera pittorica del frate cappuccino, Angelo da Copertino, al secolo Giacomo Maria Tumolo (Copertino 1609 – 1682 ?), oltre ad apparire sintonizzata con l’atmosfera del Seicento, si ricollega al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca, di cui questo frate rimase “contaminato” nel decennio 1658-68, allorchè fu chiamato a Roma da Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per rivestire la carica di conservatore delle pitture vaticane.

Rimasto a lungo ai margini della critica, frà Angelo è stato riscoperto sul finire dell’800 dagli storici locali, che lo annoverarono tra i pittori di pregevoli dipinti.

Studi e ricerche hanno comprovato la sua presenza in diverse comunità di frati cappuccini di Terra d’Otranto, dove lasciò l’impronta della sua pittura in un periodo in cui l’arte era divenuta efficace strumento propagandistico di prestigio.

Attraverso la pittura questo frate-pittore fornì un valido contributo all’evoluzione dell’arte in Terra d’Otranto nel XVII secolo, riprendendo quel repertorio di cui la Chiesa del periodo controriformistico continuò a servirsi per consolidare la fede cristiana.

Senza ombra di dubbio possiamo affermare che la sua sensibilità artistica, nutrita dai colti moduli napoletani e romani, fu talmente alta nel disegno e nelle espressioni cromatiche tanto da offrire risultati pittorici decisamente fuori dei limiti di una produzione artigianale di carattere devozionale, così da dovergli riconoscere un ruolo primario nell’ambito della pittura francescana del suo secolo.

Giovanni Greco, nel suo prezioso lavoro Seicento pittorico sconosciuto: frate Angelo da Copertino (1609-1685)[1], aveva già segnalato numerosi dipinti autografi del religioso: Sant’Antonio di Padova (1636) nella chiesa dei Cappuccini di Ruffano, la prima opera a lui attribuita[2]; la Regina Martirum (1655) nella chiesa matrice di Copertino[3]; la Salus infirmorum (1682) nella chiesa Santa Maria delle Grazie di Copertino[4]; l’Immacolata (1682) nella chiesa San Francesco della Scarpa di Lecce (opera dispersa); il Perdono di Assisi (1684) nella chiesa dei Cappuccini (ora nella chiesa matrice) di Salve.

Privi di firma e data sono: il Sant’Antonio di Padova nella chiesa dei Cappuccini di Tricase; l’Angelo Custode, la Maddalena penitente e il Padreterno nella chiesa dei Cappuccini di Martina Franca; il Perdono di Assisi, l’Angelo Custode e San Michele Arcangelo nella chiesa dei Cappuccini di Nardò; il Perdono di Assisi nella chiesa dei Cappuccini di Alessano; il San Girolamo morente nella cattedrale di Nardò; l’Immacolata e santi nella cattedrale di Gallipoli; la Madonna del Carmine nella chiesa matrice di Melendugno; Sant’Anna e la Sacra Famiglia e la Traditio clavuum nella chiesa matrice di Galatina; San Francesco stimmatizzato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie di Copertino.

San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)
San Girolamo, di frà Angelo da Copertino, cattedrale di Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Altri studi hanno assegnato al nostro cappuccino la Trinità nella chiesa di Sant’Oronzo di Campi Salentina[5]; l’Immacolata e santi e Sant’Anna e la Vergine col Bambino nella chiesa matrice di Maglie[6].

Di recente ne ha trattato ampiamente anche Stefano Tanisi, per il quale è da “considerarsi un pittore “popolare”, poiché il suo linguaggio espressivo e compositivo comunicava ai devoti illetterati un’immediata e comprensibile narrazione visiva delle storie sacre. Le immagini, in linea con le finalità dell’arte riformata e, dunque, dell’ambiente cappuccino, del quale fra’ Angelo ne è chiaramente fautore, dovevano avere chiari intenti dottrinali, rispecchiando la dignità e la santità dei modelli, in modo da suscitare nel credente atti di fede e commozione”[7].

Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d'Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)
Il perdono di Assisi, di frà Angelo da Copertino, chiesa di S. Francesco d’Assisi a Nardò (ph Stefano Tanisi)

 

Lo stesso Tanisi riporta la stima nutrita per il frate dal vescovo di Nardò Antonio Sanfelice (Napoli 1660 – Nardò 1736), che nella visita pastorale del 1710 “rileva il dipinto con le immagini di San Francesco e le anime del Purgatorio collocato sull’altare di San Sebastiano nella matrice di Copertino, segnalando che l’opera è stata “depicta a celebre pictore frate Angelo de Cupertino ordinis capucinorum qui ab anno 1658 usque ad annum 1668 sub pontificatu sanctae memoriae Alexandri VII conservator fuit picturarum vaticani”, e che dunque il pittore, fra il 1658 e il 1668, fu nominato “conservatore delle pitture vaticane”.

Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)

 

Sempre Tanisi arricchisce il profilo scrivendo “nel 1719 il Sanfelice continuava a individuare e lodare diverse opere del pittore francescano: nella matrice di Casarano annota opere di fra’ Angelo, una nella cappella dello Spirito Santo, dipinta dal “celeberrimi Pictoris Cupertinensis, vulgo dicti del Capuccino”, e l’altra nella cappella delle Sante Anime del Purgatorio, che dal “celeberrimo Pictore Cupertinensi depicta est”[8].

E per concludere, lo stesso, nella sua lunga elencazione delle opere attribuite, annota il San Girolamo nella cattedrale di Nardò (sull’altare omonimo, secondo a destra), che il Sanfelice fa riportare nella visita come il dipinto sia “picta manu F. Angeli Capuccini Cupertinensis Pictoris aetate sua excellentissimi”[9].

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[1] In “Studi in onore di Aldo de Bernart”, Galatina 1998, pp. 43-56.

[2] Firmata e datata “Fra Ang. A Cup.no pingebat 1636”.

[3] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertinus Capuccinus A.D. 8bris 1655”.

[4] Firmata e datata “F. Angelus A Cupertino Ca[ppuci]nus per sua devozione pingebat 1682”.

[5] Cfr. P. A. Vetrugno, Arte e Fede nel Salento del secolo XVII: la Ss. Trinità di Frate Angelo da Copertino, in “Lu Lampiune”, a. XVI, 1, pp. 119-126.

[6] cfr. E. Panarese – M. Cazzato, Guida di Maglie, Galatina 2002, p. 128.

[7] Cfr. S. Tanisi, Nuove acquisizioni pittoriche per fra’ Angelo da Copertino (1609-1685 ca.). La Comunione di san Girolamo nella cattedrale di Nardò, in “Il Delfino e la Mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto”, n°3 (2014).

 

[8] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale chiesa matrice di Casarano, c. 61v.

[9] ASDN, Visite Pastorali, Antonio Sanfelice, anno 1719, visita pastorale cattedrale di Nardò, c. 59.

Le opere “ritrovate” nel museo diocesano di Nardò

Un evento importante per la storia dell’arte quello del 28 dicembre prossimo, quando saranno presentate al pubblico alcune opere “ritrovate”, che troveranno degna collocazione nel Museo Diocesano di Nardò, che oramai si ritiene a pieno titolo uno degli “scrigni” pugliesi, visto il consistente patrimonio raccolto in questi anni e qui esposto.

L’incontro, avrà inizio alle ore 19, presso il salone dell’ex Seminario (Sala Roma), in piazza Pio XI, di fronte alla Cattedrale di Nardò, con interventi di Mons. Giuliano Santantonio (direttore del Museo Diocesano), di S. E. Mons. Fernando Filograna (vescovo di Nardò-Gallipoli), dell’Arch. Maria Piccarreta (soprintendente ABAP Lecce-Brindisi-Taranto), della Dott.ssa Caterina Ragusa (storico dell’arte).

Due le relazioni che saranno presentate, delle quali la prima tenuta dal Dott. Paolo Giuri, storico dell’arte, che illustrerà gli affreschi recuperati dalla Soprintendenza negli anni ’50 del secolo scorso e provenienti dalla chiesa di S. Maria dell’Umiltà in Parabita, esposti nella sede rappresentativa della Regione Puglia nella Capitale. Pur trattandosi di frammenti, tuttavia sono ben identificabili le figure rappresentate: la Madonna della Coltura, un S. Antonio abate e due santi vescovi.

Lo storico e giornalista Giovanni Greco si soffermerà invece sulla tela del Battesimo di Gesù di recente restaurata dall’Impresa Leopizzi 1750, proveniente dalla chiesa copertinese delle Clarisse. Egli tratterà del cappuccino Angelo da Copertino, al secolo Giacomo Maria Tumolo (Copertino 1609 – 1682 ?), la cui attività si ricollega al filone della grande pittura barocca romana postcaravaggesca, di cui questo frate rimase “contaminato” nel decennio 1658-68, allorchè fu chiamato a Roma da Fabio Chigi (poi Alessandro VII), per rivestire la carica di conservatore delle pitture vaticane.

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Il teologo Maritati di Copertino

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di Giovanni Greco

 

Percorrendo via Matteotti, nel centro storico di Copertino, si incrocia via Teologo Maritati. Mi sono sempre chiesto perché di questo studioso di teologia si scelse di omettere il nome. Forse perché fu talmente famoso che bastò ricordarlo ai posteri con il solo titolo accademico. E poiché queste figure operano normalmente nelle università, in seminari o scuole pubbliche ho pensato che di lui potessero esserci anche delle pubblicazioni. Le ho cercate, per quanto mi è stato possibile, ma la ricerca è risultata finora infruttuosa.

Non rimaneva che guardare in altre direzioni per saperne di più su questo copertinese che si guadagnò l’onore della toponomastica cittadina. Il suo nome era Vincenzo Maria e fu il quarto di cinque fratelli, figlio del notaio Lazzaro Domenico e di Serafina Margarito, entrambi originari di Nardò.

Nel 1740 la coppia si trasferì a Copertino dove il notaio rogò fino al 1777. Dal loro matrimonio nacque Giuseppe Tommaso Leonardo che fu battezzato per procura l’11marzo 1758 nella chiesa Matrice di Copertino dall’abate Felice Cicala di Nardò. A somministrare il battesimo fu l’arciprete Cataldi.

Il 30 gennaio 1761 nacque Elisabetta Francesca Salesia Marina e il 13 novembre di due anni dopo venne alla luce, Francesco Saverio Leonardo. Il 31 luglio, don Pietrangelo Tumolo battezzo il Nostro. Padrini furono il reverendo don Giuseppe Margarito, rappresentato per procura dall’abate Salvatore Del Prete di Nardò, giusto atto notarile di Tommaso Trotta del 30 luglio. Il 5 marzo 1770, infine, nacque il quinto fratello, Oronzo Maria. Vincenzo Maria Maritati, fu sacerdote e teologo.

Dal 1° dicembre 1812, all’età di 46 anni, fu il secondo arciprete regio della Collegiata di Copertino, carica che conservò fino alla morte sopraggiunta all’età di 73 anni il 16 febbraio 1839. Fu autore di una lunga serie di “Stati di Anime” di Copertino, dal 1823 al 1830, ricca di puntuali annotazioni sul movimento migratorio del paese e sulle “condizioni civili” della popolazione.

Di questi censimenti (otto anni in tutto), oggi non resta che qualche prospetto conservato presso l’archivio della Curia vescovile di Nardò.

Donato Maria Capece Zurlo di Copertino, poeta e … agente del fisco.

di Armando Polito

L’immagine stereotipa del poeta, anche moderno, è quella di un uomo che, pur senza essere un astronauta, ha sempre la testa nelle nuvole, come se la più nota figura retorica, cioè la metafora, non avesse come punto di partenza la realtà diventandone, forse, una delle sue più profonde interpretazioni possibili e come se pure il poeta per poter esser tale non avesse bisogno di avere la pancia, se non piena, almeno non completamente vuota … I puntini di sospensione del titolo tradiscono l’omaggio momentaneo, pure da parte mia, a questa consolidata opinione per cui sarebbe difficile immaginarsi un macellaio-poeta e tanto meno, come nel nostro caso, un agente del fisco-poeta, prigionieri del pregiudizio che ci fa pensare, chissà perché, che un macellaio e un agente delle tasse siano persone poco sensibili e, per giunta incapaci, di dare, a quel poco, espressione efficace. Se applicassimo coerentemente questo principio, non dovremmo riconoscere a priori nemmeno a Virgilio il titolo di poeta, essendo egli stato, in fondo, uno dei leccaculo di Augusto; tanto meno dovremmo farlo con una miriade di autori di ogni epoca, la cui produzione abbia un intento celebrativo che vada al di là dell’immancabile dedica iniziale, quella che in passato coinvolgeva re, principi, papi e cardinali e che oggi rivive nella citazione, pur sinteticamente espressa, dello sponsor privato e delle istituzioni pubbliche patrocinanti. E poi, nel caso del nostro letterato di Copertino, se non ci fosse stato un documento galeotto (ancor più galeotto chi lo scrisse …), mi sarei pure risparmiato questa introduzione e sarei passato direttamente a parlarne, come faccio ora. Di Donato Maria Capece Zurlo non conosco dati biografici se non quelli che ho desunto in ordine sparso da testimonianze indirette a lui contemporanee, ragionevolmente attendibili. Per evitarmi il fastidio della trascrizione le riporterò in formato immagine con le indicazioni bibliografiche e il link relativo, dove il lettore interessato potrà trovare l’intera opera.

1) Comentari del canonico Giovanni Mario Crescimbeni custode d’Arcadia, intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, v. III, p. 263 (http://books.google.it/books?id=rkwTAAAAQAAJ&pg=PA263&lpg=PA263&dq=donato+maria+capece+zurlo&source=bl&ots=iXhu0KnVpD&sig=bm2eKXphb2s5SdoY4gaCU5C-v-Y&hl=it&sa=X&ei=c35HVMjtOozXPJDAgPAJ&ved=0CD4Q6AEwCDgK#v=onepage&q=donato%20maria%20capece%20zurlo&f=false) La scheda ci informa che il nostro fece parte di una delle colonie (così erano chiamate le sedi staccate), la Sebezia (di cui si dirà dopo)  dell’accademia dell’Arcadia, col nome di Alnate Driodio. Riporto ora un passo da Vita degli Arcadi illustri, De’ Rossi, Roma, 1708, v. I, pp. 47-48, dal quale risulterebbe la parentela con gli Zurlo di Napoli; l’egli del primo rigo è Francesco d’Andrea, altro arcade. (http://books.google.it/books?id=3YjxFKAkKx4C&pg=PA48&lpg=PA48&dq=donato+maria+capece+zurlo&source=bl&ots=GnmvGhWRns&sig=2TmxOBncSXcvoZgm4dvqPYx9Y0k&hl=it&sa=X&ei=c35HVMjtOozXPJDAgPAJ&ved=0CCAQ6AEwADgK#v=onepage&q=donato%20maria%20capece%20zurlo&f=false) Ecco ora il frontespizio della raccolta di Lucca stampata l’anno 1709. So che la quantità non è sinonimo di qualità; tuttavia non sarà stato un caso che il nostro è presente nella raccolta con 28 sonetti, numero che non sfigura rispetto a quello esibito dagli altri poeti della silloge, indicato tra parentesi tonde dopo il rispettivo nome nell’elenco che segue. Agostino Spinola genovese (6), Alessandro Guidi pavese (32), Alessandro Marchetti pistoiese (24), Angelo paolino Balestrieri lucchese (10), Angelo Antonio Somai di Rocca Antica (8), P. Antonio Tommasi lucchese (32), Antonio Gatti pavese (11), Antonio Zampieri imolese (8), Basilio Giannelli napoletano 21), Biagio Maioli De Avitabile napoletano (13), Domenico Moscheni lucchese (12), Donato Maria Capece Zurlo leccese (28), Eustachio Manfredi bolognese (6), Ferdinando Passarini di Spello (4), Francesco Passarini di Spello (7), Francesco Maria Baciocchi veronese (32), Gaetana Passarini di Spello (9), P. Giovanni Battista Cotta Tendasco agostiniano della congregazione di Genova (21), Giovanni Battista Riccheri genovese (27), Giovanni Bartolomeo Casaregi genovese (12), Giovanni Benedetto Gritta genovese (5), Giovanni Battista Zappi imolese (8), Giovanni Battista di Vico napoletano (3), Giovanni Giuseppe Felice Orsi bolognese (10), P. Giovanni Tommaso Baciocchi genovese (16), Giuseppe Lucina napoletano (24), Giuseppe Paolucci di Spello (7), Giuseppe Maria Tommasi lucchese (10), Giovanni Mario Crescimbeni maceratese (11), Girolamo Maria Stocchetti lucchese (14), Giulio Cesare Grazini ferrarese (12), Lorenzo De’ Mari genovese (19), Matteo Franzoni genovese (14), Matteo Egizi napoletano (6), Matteo Regali lucchese (9), Niccolò Garibaldi genovese (12), Niccolò Cicognari parmigiano (2), Niccolò Di Negro genovese (5), Niccolò Amenta napoletano (13), Paolo Antonio Del Negro genovese (18), Petronilla Paolini Massimi romana (7), Pompeo Figari genovese (9), Prudenza Gabrielli Capizucchi romana (8), Salvator Squarciafico genovese (16), Teresa Grilli Panfili romana (1), Tiberio Carrafa napoletano (12), Vincenzo da Filicaia fiorentino (15), Vincenzo Nieri lucchese (2), Vincenzo Leonio da Spoleti (12), Virginio Maria Gritta genovese (15). Di questo volume uscì una seconda edizione nel 1720 per i tipi di  Venturini a Lucca.

Dei 28 sonetti commemorativi di personaggi importanti del copertinese mi piace riportarne due per ragioni che il lettore non faticherà a comprendere (la trascrizione a fronte è il solito espediente per aggiungervi le mie note): A riprova del fatto che il Crescimbeni era considerato all’epoca un punto di riferimento (magari da sfruttare senza citarlo …) debbo far notare che il sonetto da lui prima riportato Esca mia dolce … (celebrazione dello sguardo dell’amata come fonte di gioia e dolore, un topos della poesia d’amore già percorso, tra gli altri, sia pure con sensibilità diverse, da Guittone d’Arezzo, Giacomo da Lentini, Guido Cavalcanti, Dante, Petrarca) compare da solo in Annibale Antonini, Rime de’ più illustri poeti italiani, Musier all’Insegna dell’Uliva, Parigi, 1732, p. 77  (http://books.google.it/books?id=t4sHAAAAQAAJ&pg=RA1-PA77&dq=%22Donato+Maria+Capece+Zurlo%22&hl=it&sa=X&ei=PplHVIy0DsLmyQOapoA4&ved=0CCQQ6AEwATgU#v=onepage&q=%22Donato%20Maria%20Capece%20Zurlo%22&f=false) ripubblicato sempre a Parigi per i tipi di Prault nel 1744 nel secondo tomo di Raccolta di rime italiane (http://books.google.it/books?id=lPRdAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:yxfnnjQ_E8gC&hl=it&sa=X&ei=eaJHVNygFobOygPU7oCYCw&ved=0CCoQ6AEwAQ#v=onepage&q&f=false).

2) Comentari del canonico …, op. cit. v. VI, Basegio, Venezia, 1730, pp. 424 e 286 (http://books.google.it/books?id=mHjNAAAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:p2jmoLdqLUAC&hl=it&sa=X&ei=F79IVLmXG-qrygP7pICwDQ&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false). Natura, finalità e regole dell’accademia dell’Arcadia sono estesamente espresse dallo stesso Crescimbeni in L’Arcadia, De’ Rossi, Roma, 1708 (http://books.google.it/books?id=ez4dFjf-xsMC&pg=PA212&dq=crescimbeni+arcadia&hl=it&sa=X&ei=7RRKVNi1MY7YPMiLgeAJ&ved=0CCwQ6AEwAg#v=onepage&q=crescimbeni%20arcadia&f=false). Al momento dell’adesione all’accademia l’interessato riceveva dall’assemblea un nuovo nome il cui primo componente veniva assegnato per sorteggio mentre il secondo veniva da lui liberamente scelto e convalidato dall’assemblea a patto che facesse riferimento o a un luogo o ad un ricordo mitologico della regione greca di cui l’accademia portava il nome. Dalla prima scheda sopra riprodotta abbiamo la conferma della notizia che il nostro aveva assunto lo pseudonimo di Alnote Driodio. Per Alnote non son riuscito ad individuare il suo rapporto con il greco; Driodio è forma aggettivale dal greco δρίος (leggi drios)=boschetto. La seconda scheda reca lo stemma della colonia di appartenenza con il simbolo particolare (il fiume Sebeto) e quello comune (la siringa) tratto dall’insegna dell’Accademia (immagine in basso tratta dalla stessa opera, p. 283). Va aggiunto che ogni colonia aveva dei propri rappresentanti e va sottolineato che il nostro è l’unico salentino tra quelli della colonia Sebezia, come deduco dall’elenco completo che traggo da Il catalogo degli Arcadi per ordine alfabetico colla serie delle colonie e rappresentanze arcadiche, s. l., s. d., pp. 152-153 (tuttavia la data di pubblicazione dovrebbe collocarsi attorno al 1720; l’intero volume è consultabile e scaricabile in http://books.google.it/books?id=Iioj0mUX5qsC&pg=PR117&lpg=PR117&dq=sorasto+trisio&source=bl&ots=IHYz04R8dW&sig=eb3ZuBa6Z3Tnd5PSKoyMREpfYoM&hl=it&sa=X&ei=BGhnVLWDHcPgyQODvIK4CQ&ved=0CC0Q6AEwAg#v=onepage&q=sorasto%20trisio&f=false. 3) Componimenti in lode del nome di Filippo V monarca delle Spagne, recitati dagli Arcadi della Colonia- Sebezia il dì 2 di Maggio del 1706, nel Regal Palagio, e pubblicati per ordine di Sua Eccellenza dal dottor Biagio Majola De Avitabile, Vice-Custode della stessa Colonia, Parrino, Napoli, 1706, s. p. (http://books.google.it/books?id=lPRdAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:yxfnnjQ_E8gC&hl=it&sa=X&ei=eaJHVNygFobOygPU7oCYCw&ved=0CCoQ6AEwAQ#v=onepage&q&f=false). Viene ribadita la nobile origine e, quindi, una parziale conferma della parentela con i Capece Zurlo di Napoli, il cui stemma riproduco di seguito , tratto da http://www.nobili-napoletani.it/Capece-Zurlo.htm 13Per dare un quadro forse completo della produzione del nostro va ricordato che il volume appena citato contiene 8 suoi sonetti  (i primi 7 alle pp. 40-46, l’ultimo a p. 59) e due componimenti in latino alle pp. 60-62.

4) Giovanni Mario Crescimbeni, Notizie istoriche degli Arcadi morti, De Rossi, Roma, 1703,  tomo II, p. 173 (http://books.google.it/books?id=kDGwVjrOzgEC&pg=PA173&dq=%22Donato+Maria+Capece+Zurlo%22&hl=it&sa=X&ei=Ho5HVPzuN6j6ywOejoDYCg&ved=0CE8Q6AEwCTgK#v=onepage&q=%22Donato%20Maria%20Capece%20Zurlo%22&f=false), a proposito della morte di Bartolomeo Ceva Grimaldi, avvenuta nel 1707, a p. 173: 5) Un manoscritto dal titolo 1723. Difesa delle ridecime a favore del Capitolo di Cupertino custodito nell’Archivio capitolare della chiesa madre della città, pubblicato da Giovanni Greco per i tipi di Congedo a Galatina nel 1995 col titolo 1723: Viaggiatori barocchi da Copertino a Napoli, descrive il viaggio compiuto a Napoli da una delegazione del clero locale per difendere presso la Camera della Sommaria gli antichi privilegi negati dall’agente baronale che si chiamava Donato Maria Capece Zurlo. Tasse o non tasse, il documento è prezioso perché mi consente di affermare senz’ombra di dubbio, che il nostro a quella data era ancora vivo. Se poi qualche lettore copertinese riuscisse a desumere la data di nascita e di morte dalla lettura dei relativi registri e ce la comunicasse io gli sarei grato ma, quel che più conta, la biografia del nostro non resterebbe priva di due elementi fondamentali1.

__________

1 Domenico De Angelis in Le vite de’ letterati salentini, parte prima, s. n., Firenze, 1710 verso la fine del volume in un Catalogo degli Autori, che si conterranno nella Prima parte dell’Istoria de’ scrittori salentini include anche il nome del nostro. L’opera annunziata, però, non vide mai la luce e non si sa neppure se ne sopravvive il manoscritto.

Multinazionali del gas nel Salento

di Giovanni Greco

 

tap
Gli italiani in Italia da tempo immemorabile stanno a sentire e vedere i politici italiani che si azzuffano fra loro; e mentre la palla e lo stadio sono gli unici motivi di felicità e distrazione, nei piccoli comuni brulicano gli interessi più sommersi.

E nel Salento di sommerso ce ne è tanto: c’è ad esempio che nei fondali del mar Adriatico le multinazionali VORREBBERO creare un GASDOTTO, progettato dalla TAP (Trans Adriatic Pipeline) con la apparente e oscura complicità di alcune persone locali; e nel mare sono ben visibili le piattaforme impegnate nelle indagini geofisiche sui fondali al largo di San Foca … in concreto si potrà devastare l’ambiente!!!

Con un tubo del diametro di circa due metri sommerso in acqua e nel sottosuolo lungo 500 km … ma anche in tratti sarebbe un tubo a vista fra le campagne salentine … brulicano gli interessi ! brulicano gli interessi !
Infatti ecco la strada regionale 8, la strada del Gasdotto che si trova in LECCE-ZONA INDUSTRIALE VERNOLE-SAN FOCA. E’ in fase di lavori di ampliamento. Nulla di strano, se non fosse che vorrà collegarsi alle arterie stradali del centro nord per favorire l’idea di sviluppo obsoleta imposta dalle politiche dei petrolieri e legate alla ipotesi di realizzazione di un Gasdotto lungo le coste salentine.

San Foca un piccolo comune che vive di turismo, agricoltura e pesca sarà quindi stravolto dopo la realizzazione del gasdotto e simil sorte avrà in poco tempo Vernole, la cui zona industriale fa da ponte di collegamento tramite il comune di Melendugno. “… l’Amministrazione Comunale di Vernole rispetto alla realizzazione di un gasdotto denominato Trans Adriatic Pipeline (TAP) con insediamento finale di un terminale di ricezione (Prt) sul territorio comunale, il Gruppo di Maggioranza ribadisce la netta, perentoria ed insindacabile contrarietà dell’Ente ad ogni tipologia di ipotesi progettuale. …”.
La vicenda sembra davvero torbida oltre che sommersa. Dal mare infatti alcuni giorni fa i pescatori denunciavano che il passaggio della piattaforma per la TAP aveva causato la distruzione delle loro reti. Voci queste, che un tempo non avrebbero sortito grande eco, ma che oggi sono interpretate dall’intera comunità come il primo allarme dell’arrivo del “Trans Adriatic Pipeline” (TAP) ossia il progetto per la costruzione di un gasdotto transadriatico che intende collegare la Grecia con le coste meridionali dell’Italia passando attraverso l’Albania e dentro il mar Adriatico. In questo modo il gas che proviene dalla regione del mar Caspio raggiungerebbe San Foca e i mercati europei (partendo dalla San Foca Vernole appunto). Certo però i lavori sembrano iniziati in gran fretta … almeno sino a inizio febbraio gli scienziati stanno ancora sondando il fondale marino per cercare il punto migliore dove iniziare la loro opera. Che poi dovrebbe proseguire con il completamento della rete lungo tutta Italia.

da laterradipuglia.it
da laterradipuglia.it

Il nesso fra la realtà concreta e gli affari futuri è da vedersi negli interessi economici e nelle Royalties promesse, in quanto la strada in questione è una strada da ritenersi di periferia, ma che allargandosi vorrà vedere il trasporto necessario di veicoli con carichi eccezionali, e per far ciò, ossia per superare le attuali barriere naturali (legate alla fisiologia e conformazione dell’attuale territorio), allora è più semplice spianare tutto e andare avanti, sbancare il terreno da rotatorie, masserie, scuole, alberi secolari …

Ma si può consentire che tutto ciò che la nuova arteria incontri di fronte a se venga (e verrà) rasa al suolo nell’apparente indifferenza delle istituzioni locali come anche degli organi di stampa regionali?
Certo i lavori sembrano già a buon punto dicevo, come dimostrano tanti altri interventi fuori legge che ogni giorno affliggono la terra del Salento … una terra in cui oltre all’arrivo del Gasdotto, qua e là in questo fazzoletto di una terra chiusa fra il mare Jonio e Adriatico, c’è lo sradicamento di ulivi, pini e gelsi secolari, che erano sparsi anche nell’entroterra sino a metà gennaio; e che soprattutto lungo quella strada Vernole – San Foca dominavano il paesaggio storico e rurale del luogo; si aggiungono in questa terra contesa da tutti, anche tanti altri interessi, strani sbancamenti della collinetta di Galatina (sull’altro versante Jonico del Salento), la distruzione di un pineto per farne trucciolato  … soprattutto sono stati distrutti Pini autoctoni delle specie Pinus halepensis e P. pinea, (Zappini e Pini ad ombrello da pinoli, parlando più comunemente), e Cipressi mediterranei delle varietà horizzontalis e pyramidalis. E sorprendono anche le relazioni tecniche che consentono la distruzione di tutti quegli alberi, le quali per legittimare tagli si giustificano frettolosamente sostenendo che sono tutte piante malate … certo  …

Ecco che, a macchia di leopardo, qualcuno oltrepassa facilmente gli standart minimi di sostenibilità ambientale. E accade che a tutti i livelli (politici, sociali, economici …) chi detiene un minimo di potere agisce indiscriminatamente a favor delle sue idee, spesso purtroppo senza tenere in conto le valutazioni di impatto ambientale, ad esempio.
Dunque la Puglia e il sud Salento sono nelle mani delle grandi holding internazionali che mirano a trivellare il suolo calcareo di una terra bellissima spesso paragonata alle isole tropicali. Intanto la popolazione attiva, i comitati No Tap, i contadini, i pescatori e tanti singoli cittadini stanno pian piano facendo emergere la loro voce in difesa degli alberi e del mare e per tutelare e salvaguardare una terra a vocazione turistica e balneare, che siamo sicuri ha e avrà poco o nulla di buono da spartire con la quantità di denaro che ruota attorno ai Gasdotti.

Lecce. Il lampione in via Idomeneo, ultimo testimone di volontà di progresso di fine Ottocento

 

Lecce, via Idomeneo in una foto degli anni Sessanta del Novecento (foto Giampaolo Buscicchio)

di Giovanni Greco

 

Nell’epoca in cui il governo centrale propone la diminuzione dell’illuminazione pubblica, a causa di questa crisi economica incombente, poco conta se da una viuzza del centro storico di Lecce è sparita la base in ghisa di un vecchio lampione. Era nello slargo antistante alla chiesa della Nova, quello da qualche tempo occluso da una cancellata e in questo periodo cantierizzato a causa delle “Opere urgenti di consolidamento statico e bonifica umidità 1° stralcio” commissionate dalla Confraternita del SS. Sacramento e Gesù Flagellato (così come da cartello esposto). Si spera che sia stata asportata per essere restaurata in previsione della riapertura a breve della chiesa.

Ma perché tanta attenzione? In fondo era solo un lampione; con decorazioni in ghisa e stemma della città di Lecce, del 1873. Perché ci “illuminava” sulla voglia di progresso “a dimensione umana”, che si prefigurava nel trentennio di fine ‘800 leccese. E questa attuale “presa della città” e la scomparsa di questi piccoli monumenti all’ingegno, smemorizzano tristemente la storia della stessa città.

Nel 1998 in www.belsalento.com ho pubblicato alcuni stralci della mia tesi di laurea proprio su l’archeologia industriale e la tramvia leccese. In particolare sull’illuminazione a gas nelle vie leccesi (http://www.belsalento.com/ARCHEOLOGIA%20INDUSTRIALE%20NEL%20SALENTO%20-%20ILLUMINAZIONE%20A%20LECCE%20A%20GAS%20DI%20PETROLIO%20NEL%201873.htm).

Certo le memorie del passato, sono appunto memorie. Ma vanno anche conservate quando queste servono a ricordarci quanto sia stata potente la volontà di una comunità del passato, nel cercare soluzioni per il suo futuro. In questo caso quel palo in ghisa era una di quelle memorie che servivano per recuperare la forza di volontà della cittadinanza leccese di fine Ottocento, che è stata capace di voler cavalcare le onde del progresso al pari di altre metropoli europee, tant’è vero che i sindaci del tempo vedevano determinanti, ad esempio, un congiungimento con il mare e relativa bonifica verso la marina di San Cataldo; e per realizzare il tutto fu costruita una tranvia elettrica (che vinse anche una medaglia d’oro per essere la più lunga dell’epoca – 1888, tre vagoni in tutto, 12 metri di lunghezza totale).

“La nuova illuminazione venne considerata dai nostri concittadini come un indice di civiltà e di progresso; e la nostra Atene pugliese non volle esser da meno delle altre sue consorelle italiane. La parola progresso applicata alle altre del secolo dei lumi correva allora sulle bocche di tutti ed era ripetuta sino alla noia sui giornali leccesi di quel tempo” (Cosimo De Giorgi, Numero Unico per le Feste Inaugurali del giugno 1898, Tipografia Editrice Salentina, fratelli Spacciante, 1898).

Particolare del lampione di via Idomeneo con lo stemma di Lecce (foto Giovanni Greco)
Furono anni dettati da menti sveglie, che volevano una “sana” illuminazione cittadina; in quel periodo affascinante, l’ingegno degli INTRAPRENDITORI aveva un libero sfogo e nei locali di ritrovo dei cittadini leccesi del 1870, si discutevano le stesse appassionate visioni del futuro al pari dei salotti contemporanei milanesi o parigini … e in quel periodo, nella illuminazione pubblica di Lecce, si passava dall’uso dell’olio che era luce fioca, puzzava e faceva fumo, all’illuminazione a gas e poi a gas di petrolio e poi elettrica, migliorando quindi la qualità della luce emessa.

Fra ottobre e novembre 1873, i Municipi di Copertino, Torchiarolo, Alezio, Trepuzzi, Castellaneta, Taviano, Brindisi, Massafra oltre ad alcuni privati, chiesero la cessione, a prezzo di estimo, dei vecchi fanali a petrolio. Lecce effettuò una vendita pubblica nel maggio del 1873, e un’altra l’anno seguente (come da manifesto conservato presso l’Archivio Storico Comunale di Lecce). I lavori dell’impianto del nuovo sistema di illuminazione a gas di petrolio – appaltato dal Comune di Lecce, sindaco Carlo D’Arpe, all’industriale belga Cassian Bon, fondatore delle acciaierie di Terni – iniziarono nel febbraio del 1873 e si conclusero nel marzo del 1874, trasformando la fisionomia della città. L’illuminazione a gas di petrolio giungeva nelle vie per mezzo di solidi bracci in ghisa, inchiodati ai muri dei palazzi (con tubatura connessa), o con colonnine come nella foto.

L’impianto a gas funzionò sino al 1898, quando durante l’amministrazione del sindaco Giuseppe Pellegrino, subentrò l’illuminazione elettrica.

Sino a poco tempo fa, di questo genere di strutture (400 fanali distribuiti nelle piazze e nelle vie principali), permaneva in situ quella colonnina finemente decorata in ghisa, databile, al 1873, che si trovava di fronte la chiesa S. Maria della Nova in via Idomeneo (erano due per la verità, ma una è già sparita da qualche anno). In essa, era rappresentato lo stemma della città, così come era previsto all’art. 13 del capitolato datato 1872. Quel lampione aveva la caratteristica di avere lo stemma stampato al contrario: in quanto la lupa guarda sempre a Ovest mentre in questi lampioni in ghisa era rivolta a Est. Le figure araldiche, infatti, seguono questo andamento perché sullo scudo erano ritratte in maniera tale da affrontare l’avversario nella stessa direzione del guerriero che lo imbracciava. Per questo l’allora amministrazione ne bloccò immediatamente la fornitura.

Di questo mondo, restava quel palo, ultima rappresentanza di quella volontà di tecnologia e “progresso”, appunto. E ci dispiace che lo abbiano smantellato!!! … E invece bisogna dare un apprezzamento storico sulle opere industriali che hanno contribuito a fare grande la comunità locale del sud Italia. Cosa ne penserebbe l’amministrazione Pellegrino del 1898!

 

 

Libri/ Frammenti di storia copertinese

Giovanni Greco,
Frammenti di storia copertinese

Copertino 2007,
pp. 268

Questo è l’ultimo volume di Giovanni Greco sulle peculiarità storiche di Copertino. Giornalista e studioso di storia locale, di cui si conoscono passione ermeneutica e rigore epistemico a cui si aggiungono onestà intellettuale, capacità di giudizio e imparzialità: le tre qualità fondamentali che la Storia esige dai suoi redattori, Greco ha “regalato” agli studiosi di cose patrie un lavoro di ricerca e di selezione di documenti archivistici, taluni passati necessariamente al setaccio della letteratura e della storia, che permettono l’identificazione e la specificazione dei reperti appartenuti alla “civitas” copertinese. Peraltro, l’analisi storiografica di inedite vicende cittadine, pervenendo ad una lettura originale dei fatti e rimanendo lontana da una funzione meramente celebrativa, rende il lavoro di grande interesse e di appagante lettura.

L’autore ha fermato in queste pagine il racconto di un “grande amore” per la sua città, la vita, lo studio capillare di esistenze e di luoghi che non sono passati invano e che in ogni angolo di strada indicano l’esserci e l’aver vissuto prima di noi. La storia autentica di una memoria che viene consegnata anche al lettore disattento, all’osservatore distratto e a quanti non conoscono le radici, le vicende e gli intrecci di una straordinaria umanità. Questi Frammenti di storia copertinese, in parte già pubblicati nell’arco di circa vent’anni, rappresentano l’impegno pluridecennale che Greco ha dimostrato e continua a dimostrare nei confronti della “storia” di Copertino, intesa nel suo significato più vasto e perciò più pregnante. “Essi – scrive l’autorevole Mario Cazzato nella presentazione – riguardano la “storia totale” del centro a partire dalle sue prime attestazioni sicure che, per forza di cose, e per non rimanere nel campo di un’archeologia che stenta a farsi storia per essere unicamente autoreferenziale, non possono essere che medievali”. Ecco, dunque, l’intervento sui “giudei” e sui loro traffici commerciali tra Copertino, Venezia e l’Oriente che segneranno un rilevante progresso di Copertino nel secolo successivo e nel quale si colloca la vicenda storica e umana del cavaliere francese Tristano di Clermont, sfrondata di quella lunga tradizione di falsi e invenzioni che ne avevano quasi fatto un altro personaggio rispetto a quello che veramente fu.

Non potevano mancare i saggi sulla dinamica urbanistica del ‘500, sugli impianti monastici del ‘600 e sui principali aspetti socio-economici del ‘700. Naturalmente c’è altro. “Basti sottolineare come ogni sezione di questo volume, anche la più leggera – scrive ancora Cazzatoè condotta con lo stesso scrupolo documentario, con la medesima capacità di rendere significativo il mero dato erudito: nel particolare non può esserci nient’altro che il particolare, ma questo può illuminarci l’intorno”.

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