376 anni dopo l’eccidio dei martiri di quel 20 agosto 1647. Per non dimenticare mai

20 agosto
Furono archibugiati il 20 agosto 1647 alle odierne ore 15 (anticamente ore 19) in località “Ranfa”, in un canneto dietro la chiesa dei Paolotti, ove oggi vi è Via Umberto Maddalena. Dopo archibugiati gli furono tagliate le teste. “…detti preti non mancarono, da che uscirono dal Castello, dove stavano carcerati, in sino all’ ora della morte salmeggiare e dire diverse divozioni, dandosi animo uno con l’ altro, e dicendo di continuo Pater ignosce illis quia nesciunt quid faciunt, nec statuas illis hoc peccatum, tra li quali D. Francesco Maria Gaballone, non cessò mai di dire Conceptio Tua Dei Genitrix Virgo gaudium annuntiavit Universo Mundo, ed essendo quasi morti si sentivano flebilmente dire delle parole. Questo fatto fu ad ora circa nove… Nell’ istessa notte fu ammazzato il barone Pietro Antonio Sambiasi a pugnalate, essendo questo di anni novantasette; morto che fu l’ appesero per piedi alle furche in mezzo alla piazza e le teste delli preti le misero sopra il Seggio e gli corpi distesi a terra nella Piazza, attorno allle furche…”

(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto I”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce. I fatti sono tratti da un manoscritto di G.B. Biscozzi che, secondo quanto sostiene il De Simone, si conserva in casa degli eredi del Not. Francesco Bona).

“…circa le ore 20 de’ venti agosto fece appiccare ad un palo per piede sotto dell’ orologio il detto Baroncello Sambiasi, e circa le ore 23 del detto giorno fece archibugiare nella strada detta Ranfa l’ abbate Donantonio Roccamora, l’ abbate Giancarlo Colucci, l’ abbate Gianfilippo de Nuccio, don Francesco Maria e chierico Giandomenico Gaballone, alli cadaveri de’ quali erano rimasti insepolti, fu data sepoltura a ventidue del detto mese. Assisteva all’ infelici da Confalone l’ abbate Benedetto Trono; il quale quando vidde che stava per essere archibugiato l’ ultimo de’ suddetti preti, che fu l’ abbate Roccamora, alzò le voci al cielo, e piangenndo disse: Signore lava da questa terra tanto sangue innocente e sacro, e ciò dicendo, stando il cielo sereno, subito cominciò a piovere, e piovve solamente per detta sola strada di Ranfa. Avuta la notizia il Conte della morte de’ detti preti, e del Baroncello, e fatto certo del miracolo occorso con detta pioggia, fece arrestare l’ abbate

Benedetto Trono, e col medesimo fu carcerato D. Filippo de Nuccio, che d’ ordine del Conte fu legato nudo ad un palo dentro il giardino del detto Casino, esposto alli cocentissimi raggi del sole, unto di mele alle morsicature delle mosche e vespe, e da un soldato gli venivano tirati ad uno ad uno i peli della barba che portava lunga, per essere un Prete di Santa Vita, e perciò detto volgarmente il Prete peloso. All’ abbate Benedetto Trono vari e molti furono li tormenti che li si dettero sotto de’ quali a 28 agosto se ne morì.
L’ anzidetto abbate Gian Filippo de Nuccio che fu archibuggiato era fratello cugino al mentovato D. Filippo che morì esposto al sole, e questo era stato lo scrittore del detto memoriale.

L’ abbate Trono non aveva altro delitto che d’essersi concertato e scritto in casa sua lo detto memoriale. Corsero la medesima fortuna due fratelli Sacerdoti di famiglia Pomponio per aver pigliato le difese dell’ abate Trono. Il solo bombardiere fiammingo fuggì la morte, giacchè nel suo esame disse che con arte avea fatto fallire il colpo, e ne fece le pruove; poichè posto nel medesimo luogo ove stava il Conte quando il tirò la bombarda ad un uomo di paglia con in capo la berretta del Conte, il fiammingo tirò dove avea tirato la prima, e gli fe’ volare da testa la barretta; indi li tirò nel petto, li riuscì felicemente e tirata la terza volta, con la prevenzione, che dovea colpirlo in fronte, li riuscì con molta ammirazione de’ circostanti. Allora il Conte li donò la vita, lo regalò, e lo tenne sempre presso di sè, e lo casò in Nardò…”

(cfr. De Simone, in “appunti da servire per la storia di Nardò; appunto II”, in vol.20 sez. Manoscritti Bibl. Prov. Lecce).

 

L’olocausto di Nardò. Un tributo doveroso ai suoi Martiri, a 375 anni dalla loro tragica fine – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

20 agosto 1647. L’olocausto di Nardò (seconda parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

20 agosto 1647. Per non dimenticare mai – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Un’allucinazione collettiva ed individuale legata alla rivolta di Nardò del 1647? – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Il Libro d’annali de successi accatuti nella Città di Nardò, notati da D. Gio: Battista Biscozzo – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

NARDÒ RIVOLUZIONARIA. Protagonisti e vicende di una tipica ribellione d’età moderna – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

 

Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Alessandro VII, un papa già vescovo-fantasma di Nardò, e il suo vice

di Armando Polito

Credo che la grandezza di un uomo, tanto più di un papa, sia direttamente proporzionale al modo in cui ha gestito il potere, qualunque esso sia, che la sorte gli ha concesso di esercitare e sfruttato, seguendo l’insegnamento di Cristo, per il bene comune il prestigio e l’autorevolezza (non l’autorità che è tutt’altra cosa …)  dei vari titoli che nel tempo ha collezionato, più che all’indubbio effetto e alla suggestione che possono suscitare le testimonianze artistiche di cui fu sponsor e pure quelle che post mortem  ne hanno perpetuato la memoria1. Nel caso del nostro, poi, esse furono tante che seguono riprodotte solo quelle firmate, tra i vari,  dal più famoso  artista dell’epoca: Gian Lorenzo Bernini (1598-1680).

 

 

busto di Alessandro VII, Palazzo Chigi Zondadari, Siena immagine tratta da http://www.scultura-italiana.com/Galleria/Bernini%20Gian%20Lorenzo/imagepages/image13.html
busto di Alessandro VII, Palazzo Chigi Zondadari, Siena
immagine tratta da http://www.scultura-italiana.com/Galleria/Bernini%20Gian%20Lorenzo/imagepages/image13.html
Roma, Piazza della Minerva/stemma dei Chigi alla base del Pulcino della Minerva, monumento realizzato dal Bernini nel 1667, a poco più di un mese dalla morte di Alessandro VII che glielo aveva commissionato. immagini tratte, rispettivamente da Google Maps e da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/30/COA_Alexander_VII_Chigi.jpg?uselang=it
Roma, Piazza della Minerva/stemma dei Chigi alla base del Pulcino della Minerva, monumento realizzato dal Bernini nel 1667, a poco più di un mese dalla morte di Alessandro VII che glielo aveva commissionato.
immagini tratte, rispettivamente da Google Maps e da http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/30/COA_Alexander_VII_Chigi.jpg?uselang=it

 

 

Sepolcro di Alessandro VII, Basilica di S. Pietro, Roma. immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:0_Monument_fun%C3%A9raire_du_pape_Alexandre_VII_-_St-Pierre_-_Vatican_(1).jpg
Sepolcro di Alessandro VII, Basilica di S. Pietro, Roma.
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:0_Monument_fun%C3%A9raire_du_pape_Alexandre_VII_-_St-Pierre_-_Vatican_(1).jpg

Anche se il recentissimo post Alessandro VII papa dal 1655 al 1667 (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/28/alessandro-vii-papa-dal-1655-al-1667/) di Lucio Causo non indulge sfacciatamente a toni apologetici, mi pare doveroso, per amore della storia e ancor più della verità, ricordare, al di là dell’accusa di nepotismo contestastagli e fino ad ora non smentita,  tre fatti incontrovertibili ed uno, l’ultimo, con beneficio d’inventario:

1) Com’è noto Fabio Chigi fu nominato vescovo di Nardò l’8 gennaio 1635, consacrato il 1 giugno dello stesso anno  e si dimise dalla carica solo il 19 febbraio 1652. Non mise mai piede nella diocesi e delegò subito le sue funzioni a Giovanni Granafei nominato vicario generale l’8 giugno 1635. Domanda: Fabio Chigi, essendo,  poco dopo la sua nomina a vescovo di Nardò, impegnato a Malta  come generale inquisitore e delegato apostolico ed essendo stato nominato alla fine del giugno 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere e successivamente, mentre ancora era a Colonia, prelato domestico ed assistente al soglio pontificio, perché, di fronte ad un siffatto numero di cariche, mantenne formalmente per tanto tempo quella di vescovo di Nardò sapendo che nella sostanza non avrebbe potuto assolverla nemmeno con l’aiuto di Dio?2  C’è da meravigliarsi a questo punto se, in ossequio al proverbio neretino ogni ppetra azza parete (ogni pietra eleva il muro), dal 1643 al 1654 fu pure rettore dell’abbazia di Santa Maria de Cesarea? Se si potesse difendere il buon Fabio oggi direbbe: – E allora, come la mettiamo con Antonio Mastrapasqua? -. Lascio la risposta a Mingo …

2) Durante gli anni del suo formale episcopato ci fu la brutale repressione dei moti del 16473 nel corso della quale né il Granafei né lui mossero un dito a difesa della popolazione e a condanna di tanta brutalità. Lo fecero, forse, per evitare per la popolazione guai peggiori (?) e per loro semplicemente guai?

3) Nel 1666 Fabio Chigi, dal 1655 papa col nome di Alessandro VII,  nominò arcivescovo il Granafei. Qui manifestò almeno buon gusto, (non so se calcolato …) nell’attendere che da quello spargimento di sangue innocente passasse quasi un ventennio.

4) In Pier Giacinto Gallizia, Vita di S. Francesco da Sales, Pezzana, Venezia, 1762 (quinta edizione) , pagg. 314-316 si legge quanto segue4: Essendo notissima al mondo la divozione, che professava al sant’uomo Fabio Chigi, ognuno presagiva, che Alessandro VII null’avrebbe risparmiato per canonizzarlo. Ed affinché sappiano i divoti del Santo donde procedesse quella speciale divozione, che gli aveva questo gran Pontefice, raccontandosi variamente da molti, sarà a proposito, che io narri qui ciò, che vi ha di più certo, essendo stato confidato dal Papa ad un gran Personaggio. Deve dunque sapersi, ch’essendo il Chigi partito da Siena sua patria per andare a Roma, ancor irrisoluto sopra lo stato di vita, ch’egli prenderebbe, incontrò a caso Francesco di Sales in un’osteria, dove ritornando da Roma soggiornava quella sera. S’abbattè poi di passare davanti a lui, e di salutarlo nel primo arrivo, il che diede motivo al buon Prelato di dirgli, che dopo, che col riposo si sarebbe rifatto delle fatiche del viaggio, si lasciasse vedere: la benignità, e dolcezza, con cui parlò, l’opinione, che correva per il mondo, della sua santità, la maestà soave del suo sembiante fecero abbracciare al Chigi con piacere l’occasione di trattare seco, e perciò non mancò di portarsi al più tosto da lui, stimandosi fortunato nel suo incontro. Parlarono di cose virtuose, e sante, ed osservò il Chigi, che le sue parole gli penetravano il cuore. Dopo varj discorsi gli dimandò qual fosse il suo fine nell’andare a Roma, n’ebbe per risposta, non avesse alcun disegno fisso, bensì giunto che fosse in Roma pensare di consultarsi co’ suoi amici, per appigliarsi a quella professione di vita, ch’essi giudicherebbe più propria. Allora soggiunse il Santo, se non avere anche preso consiglio da Dio; e senz’aspettare risposta disse, volersi consigliare egli pure per lui, e che se ne conosceva il volere glie l’avrebbe notificato prima di partire. La mattina seguente, visitato di bel nuovo dal Chigi, gli disse chiaramente, ch’abbracciasse pure lo stato Ecclesiastico, e perciò giunto, che fosse in Roma, s’applicasse allo studio della Sacra Scrittura, e de’ Canoni; come egli promise subito di fare. Stando poi per partire, nel licenziarsi, Francesco presolo in disparte, gli disse:- Giacché vel mi promettete d’abbracciare lo stato Ecclesiastico, promettetemi anche una cosa molto necessaria per la vostra salvezza, ed è di non ricercare giammai alcun benefizio Ecclesiastico-. Glielo promise il Chigi, ed allora il Santo abbracciandolo con grande cordialità, soggiunse: -Se voi osservate fedelmente la promessa, che fate presentemente a Dio, vi prometto per parte sua, che averete un dì il più grande benefizio della Chiesa-. Come poi il successo verificasse la perfezione, ognuno le vede. Intanto il Chigi non dimenticò mai più i divoti ragionamenti uditi dal Santo, il quale e con qusti, e con le sue incomparabili maniere gli aveva rapito il cuore: andò in Roma, s’appplicò agli studi, maneggiò quegli affari, che furono commessi alla sua abilità; ma non si smarrì la memoria di Monsignor di Geneva. Tutto questo racconto è dell’Anonimo al c.14 del lib. 5 della vita del Santo. Cita egli in margine chi accertò averlo udito dalla bocca del Papa medesimo, a cui fa dire che riesce di grande consolazione ad un Sommo Pontefice, quando mette nel numero de’ Santi quel giusto, della virtù di cui può egli produrre pruove, e argomentare da ciò che vide, e udì, ch’era ripieno dello Spirito d’Iddio. Eppur è forza di confessare che l’incontro sia seguito altrove che nel ritornare il Santo da Roma: o che siansi mal intese le parole del Papa. Francesco non fu in Roma che prima d’esser Vescovo, ed allora Fabio Chigi appena contava due anni. Ben potrebb’essere che la predizione fosse fatta al padre, e non a lui, come dicono alcuni, e che nel vederlo fanciullo, gli fosse manifestata la sua futura dignità; il che accordò il Signore a S. Vincenzo Ferreri, e a S. Francesco di Paola. Se poi è arrivato in altro tempo l’incontro, devonsi cambiare nel racconto alcune circostanze, e potrebb’esser seguito nel 1613 quando già aveva il Chigi 15 anni, e fece Francesco il viaggio di Milano. E quantunque ben si sappia che da Siena si va a Roma senza toccare Milano, che fa se ivi non aveva il Chigi qualche interesse, oppure che prima di portarsi a quella Città che è Capo del Mondo, non abbia voluto visitare il Sepolcro di S. Carlo canonizzato di fresco, o vedere Milano che con Roma pretese già di gareggiare? Comunque siasi, allorché Fabio ritrovò la Filotea, non cessava di leggerla, e successivamente ne fece altrettanto de’ libri del santo, esaltando fin alle stelle, com’era dovere, la sapienza celeste, che contengono, ed il profitto, che se ne ricava, come si vede da una lettera da me, portata in altro luogo. Fatto poi da Innocenzo X Nunzio in Colonia, ed inviato Plenipotenziario della pace, che si doveva trattare in Munster, passando in Annisi trattò con la madre di Chaugì, la quale gli disse, di sapere, che il suo Venerabile Fondatore gli aveva predetto il Sommo Pontificato, e che sperava di vederne ben presto l’effettuazione col pensiero, che l’avrebbe favorevole per metterlo sugli Altari, soggiungendo, che sperava di più, cioè a dire, che anco prima d’allora si sarebbe degnato di procurare la sua Canonizzazione con tutti quei mezzi, che gli sarebbero stati possibili. Promise il Chigi ogni sua opera, e conchiuse il suo discorso con queste parole: — Se sarò fatto Papa, lo dichiarerò per Santo-. Rinnovò pure la promessa fatta di adoperarsi per la sua Canonizzazione, quando da Munster mandò al Monastero d’Annisi grossa somma di contante per contribuire alla fabbrica della Chiesa, dicendo di avere sperimentati nella propria persona gli effetti dell’intercessione di Francesco, per mezzo di cui era guarito da pericolosa, e mortale malattia, per lo che a titolo di gratitudine inviava quel danaro. Or essendo salito sul trono di S. Pietro, la Chaugì, nel felicitarlo, lo supplicò a degnarsi di aver memoria della sua promessa, ed altrettanto fece la madre di  Montmorencì, (già Duchessa, della Casa degli orsini di Roma), e le Religiose d’Annisi; onde il Papa incominciò a pensar seriamente a questo grande affare. Fu poi anche determinato dalle sollecitazioni delle maestà Cristianissime, assicurandolo la Regina Madre, che oltre al dovere a Francesco la guarigione del fu re Luigi XIII di gloriosa memoria, allorché in una sua pericolosa infermità gli fu applicato il suo cuore, gli doveva altresì la vita di Luigi XIV, suo figlio, dicendo, ch’era stato risanato dal vajuolo, e conservato alla Francia per la sua intercessione. Alle sollicitazioni di queste Maestà, unirono poi anche le proprie, Enrichetta Regina d’Inghilterra, il Duca di Savoia, e la Duchessa madre, gli Elettori di Treviri, Magonza, e Baviera, ed altri senza numero, contandosi otto Principi, dieci Duchi, sette Duchesse, quattro Marescialli, venti Titolati, settant’otto Città, venticinque Parlamenti, trent’otto Arcivescovi, e Vescovi, ventinove Collegiate, sette Generali d’Ordini, venti Abati, quaranta case Religiose di varj Istituti, e sessantanove Monasterj della Visitazione. Non poteva un Pontefice sì affezionato al Santo resistere a tante istanze, ma resisteva all’esecuzione di questo, ardirei dire, comune desiderio, il decreto con cui Urbano VIII proibì alla Congregazione de’ Riti il procedere nelle cause della Beatificazione, e Canonizzazione de’ servi di Dio, se non se dopo passato l’anno cinquantesimo dal dì della morte loro. Perciò convenne al Sommo Pontefice di dispensare da detto decreto, per anni quattordici, privilegiando Francesco di Sales, sicché prima di tale scorsa di tempo potesse la Sacra Congregazione aprire i processi, esaminarli, e fare le formalità solite, e necessarie in casi consimili. Ma nel decreto, con cui derogò a quel di Urbano, adduce tali motivi, che facendo molto onore al Santo, devono qui aver luogo. Dice adunque, che si moveva per ragioni efficaci, che forse in altro tempo avrebbe dichiarate: per compiacere il Re, e tutto il Clero della Francia, ed anche molto più per cagione del singolar ossequi professato da Francesco alla Santa Sede, di cui ne’ tempi di Clemente VIII, Paolo V e Gregorio XV aveva eseguiti con tanta puntualità, e giubbilo gli ordini: per li segnalati meriti, che aveva verso la Religione Cattolica, alla quale aveva acquistati settantadue mila seguaci ritolti all’Eresia; e finalmente per avere con la sua pastorale sollecitudine convertiti alla fede Cattolica Borghi, Città, e Provincie confinanti a Geneva. Tal decreto spedito fu a’ 20 di Giugno 16595. Testimonio il Papa nel Concistoro segreto de’ Cardinali, che essendo egli in Munster Nunzio Appostolico, fu tagliato per guarirlo dal male di pietra, e che stando per ispirare, attesa la violenza dell’operazione, col raccomandarsi a Francesco di Sales, lo vide davanti a sé, e ricevutane la benedizione, si ritrovò in un subito risanato.   

Ammesso che sia attendibile quanto ho appena finito di citare, mi chiedo: Fabio Chigi avrebbe lo stesso santificato Francesco se quest’ultimo non gli avesse predetto l’ascesa al soglio pontificio, e se, come lui stesso sembrerebbe aver dichiarato, non avesse potuto, voluto o dovuto compiacere una caterva di pezzi grossi, tra cui, come sempre succede, alcuni molto grossi, uno grossissimo? Tralascio il miracolo di cui sarebbe stato beneficiario perché, se non ci fosse stato, certamente non avrebbe potuto proclamare santo nessuno, come per lo stesso motivo sarebbe stato più improbabile poterlo fare se avesse dovuto rispettare il decreto di Urbano VIII (infatti, essendo morto Francesco di Sales nel 1622, avrebbe dovuto attendere il 1672, cioè il suo 73° anno; e non si sbagliava, perché morì nel 1667); si può perciò escludere che il suo decreto ante tempus sia stato pure un egoistico espediente per garantirsi di passare alla storia prima di passare al mondo dei più?

Più avanti, a pag. 318 si legge: Nella chiesa cattedrale poi di Nardò, di cui egli [il Chigi] fu molti anni vescovo fu altresì fabbricata una cappella famosa, in cui si conserva un dito indice della sua [di S. Francesco di Sales] mano é, onde se ne celebra solennemente la festa. È ora quella Chiesa governata da Monsignor D. Antonio Sanfelice…

Di questa cappella6 e della inevitabile epigrafe che avrebbe dovuto accompagnarla, nonché della reliquia,  non resta traccia, ma, se la notizia corrisponde al vero, essa fu testimonianza di autentica devozione o personale desiderio di Alessandro VII di essere ricordato nella città di cui era stato il vescovo-fantasma?

Non posso chiudere questo post senza spendere poche parole su Giovanni Granafei al quale il Chigi, in tutt’altre faccende affaccendato, aveva delegato, come s’è detto all’inizio, la funzione vescovile. Nel suo piccolo anch’egli volle lasciare testimonianza visiva del suo passaggio terreno. Tra le tante epigrafi perfettamente conservate che lo riguardano mi piace ricordare, paradossalmente per motivi che saranno chiarissimi solo alla fine, proprio quella malridotta, come il resto della fabbrica che la ospita,  ancora visibile nella chiesetta di Santa Maria delle Grotta nel territorio rurale di Nardò (tutte le foto che seguono sono mie)7.

Sulla parete destra della parte ipogea, il cui ingresso è evidenziato dalla freccia e riproposto dall’interno nella foto a fianco, è ancora visibile lo stemma del Granafei e al di sotto di questo l’epigrafe in questione.

 

D. O. M. JOA(N)NES GRANAFEUS BRU(N)DISINU(S)/U(NUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERALIS) HOD(IE)/D(OMINI) FABII CHISII  NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)/HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HANC ECCL(ESIAM)/[……………/……………/…….] ANNO DOMINI MDCXL

 

A DIO OTTIMO MASSIMO GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI

DOTTORE DI ENTRAMBI I DIRITTI PROTONOTARIO APOSTOLICO PREPOSTO REGOLARE VICARIO GENERALE OGGI DEL SIGNOR FABIO CHIGI VESCOVO DI NARDÒ E IN GERMANIA OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO QUESTA CHIESA [………./………/……] NELL’ANNO DEL SIGNORE 1640.

 

L’epigrafe, dunque, fu apposta sette anni prima dell’eccidio ricordato e sicuramente quando il Chigi era stato nominato nunzio apostolico, cioè dopo la fine del giugno 1640. Il suo stato attuale e quello dell’intero fabbricato, mi ricordano lo strazio non di pietre ma di carne umana del 1647. Vandalismo a parte, sic transit gloria mundi….

 

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1 Oltretutto il personaggio di cui si parla nacque particolarmente favorito, nel senso che apparteneva ad una famosissima e facoltosissima famiglia di banchieri, i Chigi; i suoi nipoti Mario e Agostino acquistarono dagli Aldobrandini quello che sarebbe diventato palazzo Chigi, poi, dopo la vendita allo Stato italiano nel 1916, sede definitiva dal 1963 della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

2 Si legge in Sforza Pallavicino, Della vita di Alessandro VII,  Fratelli Giachetti, Prato, 1849, libro I, a pag. 77:  Appena il Chigi ritrovavasi a Messin, che seppe essergli stato destinato dal Papa in cambio di Nicastro Nardò, chiesa di congrua dote, la quale poi gli è stata d’opportuno sovvenimento per supplire a’ grossi e necessarj dispendj della straordinaria nunziatura alemanna.

Sempre nello stesso libro alle pagg.  91-92: Con più grave jattura della sua borsa deliberava di far un’altra azione, la qual riputava non di magnanimità, ma di giustizia e di convenienza. Aveva egli posseduta per tre anni la chiesa di Nardò, ma con l’animo, e non col piede, e si vedea destinato ad altra occupazione rimota di luogo, e diuturna di tempo [nomina a Nunzio in Colonia]: gli venne però in animo di rinunziarla, parendogli ingiusto godere i frutti assegnati per ricompensa del servigio, e non prestarlo. Benché l’impedimento fosse legittimo per l’obbedienza debita al superiore, e sincera da ogni sua richiesta ed industria, ciò nondimeno scusarlo bensì dall’adempimento dell’assistenza tacitamente promessa nel matrimonio spirituale, non già dall’obbligazion di riporre, quant’era in lui, la sua sposa in libertà, insieme con la dote, acciocché fosse provveduta d’altro sposo non impedito ed assiduo. Ne prese consiglio da persona religiosa a lui confidente, e questa l’interrogò, se la chiesa, stando egli lontano, pativa molto in quelle cose, in cui non sogliono patire le chiese che hanno presente il pastore; imperocché se ciò era, e non vi fosse rimedio per altra via, doveva egli procurar la rinuncia: ma il Chigi rispose di no. Più oltre fu interrogato, se il suo vicario governava la chiesa punto men bene di quel che sogliono governarla i presenti lor vescovi; perciocché in tale evento, quantunque picciol fosse stato il vantaggio, era opera non già d’obbligazione, ma di perfezione di procurare alla sua chiesa accrescimento di buon governo col rinunziarla; ed anche in questa parte rispose di no; perché egli, non potendo servire alla sua chiesa personalmente avea usate esquisite diligenze per provederla d’un buon vicario, e trovandovelo messo dalla s. Sede, ve lo confermò, facendogli larghe condizioni, onde i popoli, e ‘l clero unitamente n’erano soddisfatti, ed il commendavano assai, e secondo la qualità comune de’ vescovi, che a quella chiesa sarebbono potuti toccare, non era verisimile, ch’ella fosse da loro meglio amministrata, che dal suo presente vicario. Udito ciò, quel religioso il confortò, che la ritenesse con ogni tranquillità di coscienza: e così fece, ma sempre in modo, che non usò mai opera per aver nuovo uffizio, o per continuar nell’antico, sicché la residenza gli venisse impedita; anzi sempre desiderò d’esercitarla disegnado di far vita comune co’ suoi canonici ad uso de’ santi vescovi. E qualora quelli della sua diocesi diedero memoriale al pontefice per riaver o piuttosto per avere una volta il loro pastore sempre assente, egli non solo non contraddisse, ma fe’ rispondere, ch’essi aveano ragione, e che a lui sarebbe piaciuto , che fosse lor fatta.

Nel libro II, a pag. 175: Né il Papa [Innocenzo X] nel dargli questi onorati pesi [dopo la nomina a cardinale avvenuta il 19 febbraio 1652 gli vennero assegnate quattro Congregazioni: del Sant’Uffizio, del De propaganda fide,  per l’esame dei vescovi, di Stato] trascurò di sovvenirlo a sostenere altri pesi più molesti, che alla nuova dignità venivano congiunti. Per le spese straordinarie dei primi giorni gli diede un sussidio di tremila scudi e disse al cardinal Pamfilio: – A quest’uomo conviene che pensiamo noi, perché egli niente pensa a se stesso-. Volle anche fornirlo stabilmente d’entrate, e oltre a qualche cosa che gli avea dato innanzi alla promozione, gli aggiunse pensioni e benefici di nuovo. Ma deliberò di sciorlo dal vescovado di Nardò, non gli parendo dicevole, che in quell’abito egli rimanesse vescovo d’una piccola città baronale nel regno di Napoli. Ed in cambio gli offerse ad arbitrio di lui o la chiesa d’Imola assai principale nella Romagna, ovvero in luogo d’essa  tanto d’annua ricompensa (come altri per quella mitra esibiva) quanto n’agguagliasse tutte le rendite. E di più gli diè facoltà di nominare chi gli paresse alla chiesa di Nardò con ogni patto a suo favore più vantaggioso. Alla prima parte rispose, che né poteva mostrarsi inclinato a prendere la nuova chiesa, mentre sua Santità non voleva che andasse alla residenza, come per se stesso era pronto; né dall’altra banda gli pareva conveniente quella maniera d’imporre altrui la soma del vescovado, ed accettare la ricompensa di tutte l’entrate costituite dalla pietà de’ fedeli per sostentamento del vescovo. Dover bene le chiese particolari contribuire a mantenere i senatori della chiesa universale, ma non esser equa contribuzione dare il tutto. Le considerazioni contro la seconda parvero più valevoli, che quelle contro la prima. Avvegnaché il cardinale sarebbe stato assente dal vescovado per le ragioni approvate dal concilio di Trento, ed anche da lungi l’avrebbe amministrato meglio, che altri di presenza; e così di fatto il pontefice diede al cardinale la chiesa d’Imola. Intorno a quella di Nardò egli accettò dal Papa il disporne, ma sotto condizione, purché s’inducesse a pigliarla uno a cui pensava, e della cui attitudine era sì certo, che con l’elezione d’esso credeva di rendere qualche gratitudine alla sua sposa, la cui dote avea posseduta molt’anni con trarne opportuno aiuto nelle sue nunziature

3 https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/08/16/lolocausto-di-nardo-un-tributo-doveroso-ai-suoi-martiri-a-363-anni-dalla-loro-tragica-fine/

4 Lo trascrivo integralmente per fugare nel lettore qualsiasi dubbio di aver estrapolato ad arte ciò che mi faceva più comodo.

5 La bolla di canonizzazione emessa in data 19 aprile 1665 è riportata integralmente alle pagg. 318-325. Il testo del Gallizia è reperibile all’indirizzo

http://books.google.it/books?id=bVN-Q2_tIMAC&printsec=frontcover&dq=gallizia+sales&hl=it&sa=X&ei=gXfAUM2RHsaXtAbki4DoDg&ved=0CDYQ6AEwAQ#v=onepage&q=indice&f=false

6 In realtà la cappella fu fatta costruire da Giovanni Francesco Cristaldi, personaggio legato alla famiglia Chigi,  che nel 1668 commissionò a Pietro Lucatelli (pittore romano del XVII secolo) proprio per la cappella un dipinto, non più rintracciabile, raffigurante il santo.

7 Sulla fabbrica: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/note-storiche-e-decrittive-della-chiesetta-di-santa-maria-della-grotta-in-agro-di-nardo/

Sull’epigrafe più dettagliatamente: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/14/non-ci-sono-alibi-2/

Non ci sono alibi…

santa maria della grotta

di Armando Polito

La tecnologia mette oggi a nostra disposizione strumenti preziosi per conoscere e conservare le testimonianze del passato. Indagini impensabili fino a qualche decennio fa sono rese possibili da sofisticatissimi strumenti che trovano nell’informatica il partner ideale per l’elaborazione e la comparazione dei dati, alla ricerca di verità nascoste o offuscate dalle offese del tempo. Da qui le ricostruzioni in realtà virtuale che consentono di rivivere il passato, sia pure con i rischi di spettacolarizzazione che nell’era dell’immagine sono sempre in agguato. E sul piano della conservazione? Il discorso qui è molto più complicato perché coinvolge risorse umane ma, soprattutto, finanziarie. In un paese, come l’Italia, che detiene una parte notevolissima del patrimonio culturale dell’umanità il problema non è stato mai particolarmente sentito, nemmeno quando erano i tempi delle vacche grasse, figuriamoci oggi! Se gli affreschi a Pompei lentamente ma inesorabilmente svaniscono (ma qualcuno è pure svanito in un istante nel nulla…), se ai graffiti antichi si sovrappongono quelli moderni di visitatori idioti, che importa? Ci sono ben altri problemi da risolvere! Se penso ai cassintegrati ed alla schiera di giovani in cerca di un lavoro che non comporti lo sfruttamento schiavistico delle loro competenze, finisco, non guardando alle responsabilità oggettive che stanno a monte della crisi, per essere anch’io d’accordo con questo atteggiamento. Allora, se Pompei è destinata ad andare in rovina, se è fatale che manoscritti e libri antichi siano oggetto dell’attenzione privilegiata dei topi e delle muffe, se un fabbricato antico diventato nel corso del tempo rudere fra dieci anni dovrà essere solo un ammasso informe, perché non procedere sistematicamente almeno alla riproduzione digitalizzata del suo stato attuale? Nell’era del decentramento basterebbe che ogni amministrazione comunale utilizzasse le stesse attrezzature riservate ad immortalare, per lo più,  le gesta della maggioranza di turno; gli operatori, poi, potrebbero essere, naturalmente a titolo gratuito, quei numerosi cittadini che in ogni centro danno prova di amore disinteressato per la loro città e per la sua cultura. Ogni riproduzione, ancora, prima di essere immessa in un catalogo generale, dovrebbe essere certificata dalle istituzioni competenti per evitare il rischio dell’intrufolamento di qualche immagine falsa o ritoccata da parte del solito idiota. Tutto ciò comporta preliminarmente l’abolizione di tutti i lacciuoli e le esclusive che attualmente impediscono al privato cittadino di effettuare riprese fotografiche in edifici  aperti al pubblico di qualcosa che è, in fondo, patrimonio di tutti. Il consenso alla ripresa, insomma, resterebbe solo nel caso di edificio privato…non in palese stato di totale abbandono.

Per dare spessore concreto al mio discorso prenderò in esame l’epigrafe presente in un ambiente di quella che era la fabbrica della chiesa di Santa Maria della Grotta1, nell’immediata periferia di Nardò.

La mia foto in basso, elaborata per accrescerne la leggibilità, risale al 2006.

L’epigrafe consta di sette linee, delle quali sono ancora agevolmente leggibili le prime quattro contenenti, come vedremo, il nome dell’intestatario e la brava serie di titoli suoi e del suo “principale”; purtroppo le condizioni del manufatto degradano irrimediabilmente nella metà inferiore (molto probabilmente perché più soggetta alle conseguenze di qualche dissennata attività di tiro a segno o, addirittura, di sovrascrittura), proprio quella che doveva contenere le motivazioni che avrebbero potuto darci qualche ulteriore lume sulla storia della chiesa, sicchè pare un colpo di fortuna che nell’estremo lembo destro si sia  conservata appena leggibile l’indicazione dell’anno.

Eccone la trascrizione:

J(ESUS) H(OMINUM) S(ALVATOR)2 JOANNES GRANAPHEUS BRU(N)DIS(INUS)

U(NIUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERA)LIS HOD(IE)

D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)

HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HA(N)C ECCL(ESIAM)

……………A REPR……….O

…………..ANTE…….

AN(NO) DOM(INI)3 (?) MDCXL

Va subito detto che molto probabilmente la tendenza all’abbreviazione delle parole fu conservata anche nelle linee ora illeggibili, sia pure in misura ridotta, dal momento che non vi dovevano comparire, come nella parte precedente, titoli ma solo indicazioni circa l’intervento effettuato sulla chiesa.

Traduzione:

GESÙ SALVATORE DEGLI UOMINI.  GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI4,

DOTTORE DI ENTRAMBE LE LEGGI, PROTONOTARIO APOSTOLICO, PREPOSITO REGOLARE, OGGI VICARIO GENERALE

DEL SIGNOR FABIO CHIGI5 VESCOVO DI NARDÒ ED IN GERMANIA

OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO, QUESTA CHIESA

…………………

…………………

NELL’ANNO DEL SIGNORE(?) 1640

Lascio al lettore immaginare cosa sarà dell’epigrafe fra qualche decennio e cosa sarebbe stato possibile a quella data ricostruirne senza l’ausilio di una foto più o meno datata.

______

1 Il lettore che abbia interesse all’argomento può trovarne ampia e dettagliata notizia in Emilio Mazzarella, Nardò  sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina,  1999, pagg. 377-378 e figg. 116-122.

2 JHS è il trigramma, acronimo rivisitato dell’originale greco IHS, abbreviazione di IHSOUS (Gesù).

3 Il dubbio riguarda solo se la formula era riportata in modalità estesa o abbreviata.

4 Nativo di Mesagne, marchese di Carovigno, dottore delle due leggi e protonotario apostolico, inviato a Nardò dalla S. Sede quale vicario apostolico, fu poi fatto nominare vicario generale da Fabio Chigi e l’8 giugno 1635 prese possesso della diocesi. Nel 1636 fu nominato canonico della Cattedrale e nel 1639 preposito.

5 Ordinato sacerdote nel 1634, vescovo di Nardò dal  9 gennaio 1635 al 13/5/1652,  non mise mai piede nella diocesi né mai conobbe Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico, alla fine del 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere. Mentre era a Colonia fu nominato prelato domestico ed assistente al soglio pontificio. Dal 1655 al 1667 fu Papa col nome di Alessandro VII.

Non ci sono alibi…

di Armando Polito

La tecnologia mette oggi a nostra disposizione strumenti preziosi per conoscere e conservare le testimonianze del passato. Indagini impensabili fino a qualche decennio fa sono rese possibili da sofisticatissimi strumenti che trovano nell’informatica il partner ideale per l’elaborazione e la comparazione dei dati, alla ricerca di verità nascoste o offuscate dalle offese del tempo. Da qui le ricostruzioni in realtà virtuale che consentono di rivivere il passato, sia pure con i rischi di spettacolarizzazione che nell’era dell’immagine sono sempre in agguato. E sul piano della conservazione? Il discorso qui è molto più complicato perché coinvolge risorse umane ma, soprattutto, finanziarie. In un paese, come l’Italia, che detiene una parte notevolissima del patrimonio culturale dell’umanità il problema non è stato mai particolarmente sentito, nemmeno quando erano i tempi delle vacche grasse, figuriamoci oggi! Se gli affreschi a Pompei lentamente ma inesorabilmente svaniscono (ma qualcuno è pure svanito in un istante nel nulla…), se ai graffiti antichi si sovrappongono quelli moderni di visitatori idioti, che importa? Ci sono ben altri problemi da risolvere! Se penso ai cassintegrati ed alla schiera di giovani in cerca di un lavoro che non comporti lo sfruttamento schiavistico delle loro competenze, finisco, non guardando alle responsabilità oggettive che stanno a valle della crisi, per essere anch’io d’accordo con questo atteggiamento. Allora, se Pompei è destinata ad andare in rovina, se è fatale che manoscritti e libri antichi siano oggetto dell’attenzione privilegiata dei topi e delle muffe, se un fabbricato antico diventato nel corso del tempo rudere fra dieci anni dovrà essere solo un ammasso informe, perché non procedere sistematicamente almeno alla riproduzione digitalizzata del suo stato attuale? Nell’era del decentramento basterebbe che ogni amministrazione comunale utilizzasse le stesse attrezzature riservate ad immortalare, per lo più,  le gesta della maggioranza di turno; gli operatori, poi, potrebbero essere, naturalmente a titolo gratuito, quei numerosi cittadini che in ogni centro danno prova di amore disinteressato per la loro città e per la sua cultura. Ogni riproduzione, poi, prima di essere immessa in un catalogo generale, dovrebbe essere certificata dalle istituzioni competenti per evitare il rischio dell’intrufolamento di qualche immagine falsa o ritoccata da parte del solito idiota. Tutto ciò comporta preliminarmente l’abolizione di tutti i lacciuoli e le esclusive che attualmente impediscono al privato cittadino di effettuare riprese fotografiche in edifici  aperti al pubblico di qualcosa che è, in fondo, patrimonio di tutti. Il consenso alla ripresa, insomma, resterebbe solo nel caso di edificio privato…non in palese stato di totale abbandono.

Per dare spessore concreto al mio discorso prenderò in esame l’epigrafe presente in un ambiente di quella che era la fabbrica della chiesa di Santa Maria della Grotta1, nell’immediata periferia di Nardò.

La mia foto in basso, elaborata per accrescerne la leggibilità, risale al 2006.

L’epigrafe consta di sette linee, delle quali sono ancora agevolmente leggibili le prime quattro contenenti, come vedremo, il nome dell’intestatario e la brava serie di titoli suoi e del suo “principale”; purtroppo le condizioni del manufatto degradano irrimediabilmente nella metà inferiore (molto probabilmente perché più soggetta alle conseguenze di qualche dissennata attività di tiro a segno o, addirittura, di sovrascrittura), proprio quella che doveva contenere le motivazioni che avrebbero potuto darci qualche ulteriore lume sulla storia della chiesa, sicchè pare un colpo di fortuna che nell’estremo lembo destro si sia  conservata appena leggibile l’indicazione dell’anno.

Eccone la trascrizione:

J(ESUS) H(OMINUM) S(ALVATOR)2 JOANNES GRANAPHEUS BRU(N)DIS(INUS)

U(NIUSCUIUSQUE) I(URIS) D(OCTOR) PROT(ONOTARIUS) AP(OSTOLICUS) PRA(EPOSITUS) RE(GULARIS) VIC(ARIUS) G(ENERA)LIS HOD(IE)

D(OMINI) FABII CHISII NERIT(ONENSIS) EPI(SCOPI) ET IN GER(MANIA)

HESPERIORI NUN(TII) APOS(TOLICI) HA(N)C ECCL(ESIAM)

……………A REPR……….O

…………..ANTE…….

AN(NO) DOM(INI)3 (?) MDCXL

Va subito detto che molto probabilmente la tendenza all’abbreviazione delle parole fu conservata anche nelle linee ora illegibili, sia pure in misura ridotta, dal momento che non vi dovevano comparire, come nella parte precedente, titoli ma solo indicazioni circa l’intervento effettuato sulla chiesa.

Traduzione:

GESÙ SALVATORE DEGLI UOMINI.  GIOVANNI GRANAFEI DI BRINDISI4,

DOTTORE DI ENTRAMBE LE LEGGI, PROTONOTARIO APOSTOLICO, PREPOSITO REGOLARE, OGGI VICARIO GENERALE

DEL SIGNOR FABIO CHIGI5 VESCOVO DI NARDÒ ED IN GERMANIA

OCCIDENTALE NUNZIO APOSTOLICO, QUESTA CHIESA

…………………

…………………

NELL’ANNO DEL SIGNORE(?) 1640

Lascio al lettore immaginare cosa sarà dell’epigrafe fra qualche decennio e cosa sarebbe stato possibile a quella data ricostruirne senza l’ausilio di una foto più o meno datata.

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1 Il lettore che abbia interesse all’argomento può trovarne ampia e dettagliata notizia in Emilio Mazzarella, Nardò  sacra, a cura di Marcello Gaballo, Congedo, Galatina,  1999, pagg. 377-378 e figg. 116-122.

2 JHS è il trigramma, acronimo rivisitato dell’originale greco IHS, abbreviazione di IHSOUS (Gesù).

3 Il dubbio riguarda solo se la formula era riportata in modalità estesa o abbreviata.

4 Nativo di Mesagne, marchese di Carovigno, dottore delle due leggi e protonotario apostolico, inviato a Nardò dalla S. Sede quale vicario apostolico, fu poi fatto nominare vicario generale da Fabio Chigi e l’8 giugno 1635 prese possesso della diocesi. Nel 1636 fu nominato canonico della Cattedrale e nel 1639 preposito.

5 Ordinato sacerdote nel 1634, vescovo di Nardò dal  9 gennaio 1635 al 13/5/1652,  non mise mai piede nella diocesi né mai conobbe Nardò, impegnato a Malta come generale inquisitore e delegato apostolico, alla fine del 1640 nunzio apostolico a Colonia con potere di legato a latere. Mentre era a Colonia fu nominato prelato domestico ed assistente al soglio pontificio. Dal 1655 al 1667 fu Papa col nome di Alessandro VII.

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