Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco

Fig.1. La facciata

 

di Maria Elena Petrelli

La storia di una comunità è inestricabilmente legata ai suoi luoghi ed ogni luogo può restituire al presente i frammenti di un’identità collettiva in costante ridefinizione. Ciò che siamo stati non ci dice tutto su ciò che saremo ma è certamente il punto da cui partire per costruire le basi del nostro futuro. From roots to routes. Dalle radici sotterranee alle strade da percorrere. Dalle memorie già scritte alle storie ancora da scrivere.

Carmiano è un piccolo comune in provincia di Lecce che da anni sembra in attesa di una svolta. Tra i tesori che i giovani carmianesi hanno ereditato dal passato ci sono fotografie sbiadite di una chiesa cinquecentesca demolita negli anni ’60 del secolo scorso e la facciata decadente di un palazzo baronale abitato per tre secoli e mezzo dai Padri Celestini. Il destino di questo palazzo sembra essere stato ormai decretato da una sentenza non scritta: per anni l’indifferenza e la rassegnazione hanno relegato questo bene architettonico, il cui valore è stato riconosciuto anche dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali, Artistici e Storici della Puglia, ai margini della strada provinciale per Lecce, percorsa ogni giorno da moltissimi cittadini inconsapevoli.

Recuperare la storia di questo edificio significa ridare senso ai luoghi che abitiamo, assumendo consapevolezza di ciò che ci circonda e restituendo al presente l’importanza che indubbiamente questo luogo ha rappresentato nel corso dei secoli per l’intera comunità locale.

Fig.2. Una delle due statue della facciata

 

I Celestini giunsero a Lecce nel 1353 per volontà del conte di Lecce e duca di Atene Gualtieri VI di Brienne e furono dotati di un consistente patrimonio immobiliare[1]. Segno tangibile del loro passaggio sono le opere leccesi di Santa Croce e del monumentale palazzo adiacente, oggi sede della Prefettura e dell’Amministrazione Provinciale. Nel 1448 i Celestini acquistarono i feudi di Carmiano e Magliano dal principe Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, figlio della regina Maria d’Enghein, come testimonia l’atto rogato il 29 settembre di quell’anno dal notaio Adamo Argenteriis di Lecce[2].

lo stemma dei Celestini sulla facciata

 

Occorre precisare che, a partire dal XV secolo, la frantumata geografia feudale in Terra d’Otranto fu caratterizzata da una marcata precarietà del possesso: tale instabilità nel mercato della terra era stata causata dal diffuso sistema della compravendita che rendeva precaria la presenza delle famiglie nobili nei vari feudi; l’investimento signorile era stato per molte casate un modo per consolidare la propria ascesa sociale oltre che lo strumento per collocare e valorizzare le fortune economiche[3]. Questo fenomeno di precarietà non toccò la feudalità ecclesiastica che non si lasciò coinvolgere dalla compravendita feudale e non rimase implicata nella crisi che aveva invece investito l’antica nobiltà laica[4]. La durata della titolarità signorile per le istituzioni religiose non ebbe alcuna interruzione temporale, terminando il suo ciclo vitale con le leggi francesi del 1806 che sancirono l’abolizione della feudalità nel Regno di Napoli; i Celestini di Santa Croce sono un esempio evidente di questa tendenza, in quanto rimasero i signori del feudo di Carmiano e Magliano sino al 1807[5].

È chiaro che, nel corso di quasi quattro secoli, tra Lecce e Carmiano venne ad instaurarsi un intreccio di rapporti molto stretto, riconducibile non solo al semplice esercizio del governo feudale ma riguardante anche la vita interna dell’istituzione religiosa.

Fig.4

 

La presenza della baronia celestiniana lasciò il segno nella storia di Carmiano e Magliano non soltanto sui luoghi ma anche sul carattere e sul vissuto religioso della comunità: il monaco celestino veniva guardato sempre con rispetto e con timore in quanto da un lato celebrava gli uffici divini e dall’altro si occupava di riscuotere le decime, amministrare la giustizia e dettare le regole del comportamento civile. L’amministrazione ecclesiastica non si differenziava da quella degli altri baroni feudali tuttavia, in alcuni casi, i Celestini si dimostrarono sensibili alle necessità della popolazione, spesso infatti permisero concessioni enfiteutiche di case e terre, credito per i proprietari, affitto di beni rustici e arrendamento di introiti: ciò che veniva raccolto con le entrate feudali tornava in parte agli stessi contribuenti sotto forma di finanziamenti[6]. Effettuando un bilancio complessivo della loro permanenza feudale a Carmiano, è certamente innegabile il contributo apportato dai Padri allo sviluppo locale e alla formazione morale della comunità.

lo stemma dell’ordine religioso nell’interno della chiesa di Carmiano

 

Uno dei primi obiettivi perseguiti dal monastero fu quello di far crescere l’impianto urbanistico del casale e di sostenere attivamente il popolamento del territorio, fatto che avrebbe certamente incrementato il gettito decimale. Le circostanze storiche furono favorevoli a tale iniziativa poiché la pressante minaccia turca sul litorale salentino per tutto il XV e XVI secolo favorì la concentrazione demografica verso l’interno della provincia[7]. Secondo alcuni studi, fu proprio con la presenza strutturata dei Celestini che le due comunità di Carmiano e Magliano acquistarono la piena configurazione di universitas civium, sebbene non si escluda, già nel periodo precedente, l’esistenza dei due insediamenti umani non ancora solidi perché minacciati dalla presenza dei lupi e non in grado di avviare lavori di dissodamento della foresta circostante[8].

Quando i Celestini decisero di costruire la propria residenza baronale a Carmiano scelsero una zona distante da quella del primo nucleo abitativo, stanziandosi nell’immediata periferia del paese, lungo un’importante arteria di comunicazione con la città di Lecce, la cosiddetta via dell’Osanna[9]. La scelta non fu affatto casuale poiché veniva in questo modo facilitato il trasporto delle merci come olio, grano e vino verso i depositi, inoltre la posizione era anche ideale per raggiungere facilmente la comunità di Magliano, anch’essa sotto la giurisdizione feudale dei Padri[10].

Fig.6

 

Secondo alcune ipotesi, il palazzo baronale venne ampliato e rimodernato da parte dei Celestini nel corso del tempo a partire da un nucleo preesistente[11]. La facciata del monastero venne iniziata nel 1659, come dimostra un’iscrizione, oramai non più visibile, incisa sul cornicione del semiprospetto inferiore e, secondo quanto riportato da un’altra iscrizione incisa sull’estremità opposta, essa venne terminata nel 1695[12]. Molto probabilmente contribuì alla costruzione della facciata anche il famoso architetto del barocco leccese Giuseppe Zimbalo che nel 1667 era certamente a servizio dei Celestini[13].

Fig.7

 

Lo Zimbalo era nato a Lecce nel 1620 da Sigismondo e Lucrezia Lecciso, forse originaria di Carmiano; grazie agli insegnamenti dello zio paterno Francesc’Antonio e di Cesare Penna, egli venne qualificato, all’età di soli diciotto anni, come «mastro scoltore di pietra» mentre lavorava già da tempo alla chiesa e al convento delle Carmelitane Scalze[14]. Giuseppe nel 1644 sposò Vittoria Indricci proprio nel casale di Carmiano dove risiedette con certezza documentaria a partire dal 1656, quando acquistò «una casa terranea scoverta, con l’uso per l’uscita alla curte sita dentro Carmiano nel luogo detto volgarmente del trappeto vecchio»[15].

Quasi sicuramente appartengono allo Zimbalo le due statue lapidee presenti nelle nicchie che affiancano il portale cinquecentesco del palazzo baronale (figg.1, 2). Nonostante l’avanzato stato di degrado delle statue e la bassa qualità della pietra utilizzata nella costruzione, è possibile evidenziare una somiglianza con le due figure dalle folte capigliature poste sulla facciata della chiesa di Santa Croce a Lecce, quest’ultima opera indubbia dello Zimbalo: si tratta delle virtù dell’Umiltà e della Sapienza, caratterizzanti l’ordine monastico dei Celestini[16]. Alla metà degli anni cinquanta del ‘600 appartengono anche l’altare maggiore, che tuttavia nella configurazione attuale mostra un certo rimaneggiamento, e il portale, entrambi appartenenti alla chiesa dell’Immacolata, il primo edificio di Carmiano in cui è possibile notare la presenza di alcuni elementi formali tipici del linguaggio zimbalesco. Gli interventi operati dallo Zimbalo in questa chiesa suburbana sono testimonianza del processo di integrazione che l’architetto visse all’interno della comunità locale. Il prestigio attribuitogli non derivava soltanto dai rapporti molto stretti che egli aveva instaurato con i “baroni” locali ma soprattutto dal ruolo di primo piano che egli aveva ormai assunto sulla scena artistica provinciale[17]. Il legame che lo Zimbalo aveva instaurato con la comunità di Carmiano rimase molto forte come testimonia un episodio del 1668: di fronte all’usurpazione di una strada pubblica da parte di due sacerdoti, si decise di ricorrere alla Regia Udienza ma, poiché l’Università di Carmiano si trovava oppressa da debiti e vessazioni, fu proprio Giuseppe Zimbalo a rendersi disponibile per il pagamento di tutte le spese a sostegno della causa fino alla sentenza definitiva[18].

Fig.8

 

Per questa importante presenza dello Zimbalo a Carmiano, possiamo affermare che Palazzo dei Celestini fu anche un cenacolo culturale, all’interno del quale l’architetto attinse le grandi conoscenze teologiche e concettuali che ispirarono la sua arte barocca.

Fig.9

 

Il palazzo baronale di Carmiano si erge con imponenza e questo grazie alle sue ragguardevoli dimensioni pari a 45,50 metri di lunghezza e 13 metri di altezza. Alla seconda metà del XVI secolo è riconducibile l’insegna della Santa Croce al centro del portale catalano-durazzesco: tale datazione viene ipotizzata per la presenza dei nastri laterali, utilizzati in quel periodo nella decorazione degli scudi gentilizi ecclesiastici; anche la cornice del portale è interrotta alla sommità per far posto allo stesso stemma[19] (fig. 3).

Una porta – che risulta più bassa rispetto alle altre della facciata e, dunque, presumibilmente più antica – immette all’interno di una chiesetta dedicata a San Donato, ormai spoglia del corredo religioso ma ricca ancora di un altare fregiato da stucchi e marmi di vario colore (fig. 4). All’interno di questa cappella erano precedentemente collocate due opere dei primi decenni del Seicento, attribuibili a Paolo Finoglio: La Madonna di Loreto e santi, tela dell’altare maggiore, e L’incoronazione di S. Carlo Borromeo[20].

Nell’atrio del palazzo è presente un affresco che rappresenta la glorificazione dell’ordine Benedettino: vi sono dipinti quattro tondi disposti simmetricamente e collegati a quello centrale rappresentante lo stemma della Santa Croce sorretto da due angeli; questo è sormontato da una corona reale, dal mitra e dalla pastorale e ciò indica che il palazzo era posto sotto la giurisdizione della massima autorità dei Celestini presenti in Terra d’Otranto[21] (fig. 5).

Il primo dei quattro tondi circostanti raffigura la vegliarda immagine di San Benedetto seduto sul trono abaziale e circondato dai suoi seguaci ai quali mostra il libro della Regola come l’unica strada da seguire per poter raggiungere il cielo[22]. Nell’altro tondo troviamo la raffigurazione di Santa Scolastica in abiti monacali che nella mano regge il pastorale; sopra il suo capo compare una colomba che si dirige verso il cielo e tale simbologia si riferisce ad un episodio miracoloso: San Benedetto, fratello della santa, nel momento della morte di lei vide l’anima della sorella raggiungere il paradiso sotto forma di colomba[23] (fig. 6). Nel terzo tondo campeggia una delle prime immagini raffigurate in Italia di Santa Gertrude, la quale, a differenza dell’iconografia tradizionale, non indossa gli abiti cistercensi ma è rappresentata come una monaca benedettina. In questo dipinto Santa Gertrude appare inginocchiata e con lo sguardo rivolto al cielo; accanto a lei è possibile notare un tavolino su cui poggia una clessidra e un crocifisso[24] (fig. 7). Infine, nel quarto tondo è raffigurata l’immagine di San Celestino che, in abiti pontificali, è intento a compiere il famoso e coraggioso gesto del rifiuto: il volto sembra segnato dalla sofferenza ma nello stesso tempo il gesto di allontanare la tiara pontificia mostra una grande risolutezza e forza spirituale[25]. A compensare la staticità dei medaglioni troviamo gli affreschi circostanti caratterizzati da un movimento di nastri annodati ad un anello che svolazzano nell’aria ed anche la raffigurazione dinamica di cinquantadue angeli che si affannano a tirare corde cariche di fiori e di frutta e a reggere simboli di potere, come ad esempio una corona regale (figg. 8, 9); due di questi angeli, posizionati nella lunetta interna al di sopra del portone dell’atrio, sorreggono anche un cartiglio contenente un’iscrizione latina, dove la data del 1688 indica probabilmente l’anno in cui venne affrescato l’atrio[26] (fig. 10). Il dipinto nel suo complesso vuole dimostrare la continuità tra passato e presente e nello stesso tempo esaltare la storia dell’Ordine: dalla raffigurazione dei fondatori, San Benedetto e Santa Scolastica, si passa a quella dei rinnovatori e mistici, San Celestino e Santa Gertrude, ma è la presenza della nuova comunità dei Padri Celestini a garantire la continuità con la grandezza dei vecchi tempi: la rievocazione del passato è nello stesso tempo celebrazione del presente[27].

Fig.10

 

In una stanza adiacente alla cappella di San Donato compare sul muro un altro affresco che riproduce la Madonna del Riposo, conosciuta anche come Maria col Bambino dormiente, in cui il sonno del fanciullo diventa metafora della sua futura morte (fig. 11).

Nell’affresco, oggi in pessime condizioni, la figura della Madonna è profondamente umanizzata, lontana da una forma di esaltazione eroica ed idealizzante, infatti viene raffigurata come una madre qualunque che cerca di far addormentare il figlio con dolcezza[28]. Tuttavia, un velo di malinconia traspare dal suo volto: Maria tiene in braccio quel bambino come se volesse difenderlo dal mondo, proteggendolo da un destino inevitabile; lei sa bene che non potrà mai essere una madre come le altre e che quel figlio prezioso, tenuto stretto tra le braccia, non è soltanto suo ma appartiene al mondo.

Nel soggiorno, che è la stanza più danneggiata, troviamo la presenza di un camino decorato con due putti che reggono una cornice ellittica; le loro membra sembrano bloccate ma questa staticità delle figure contrasta con il fluttuante drappeggio che cade alle loro spalle[29] (fig. 12).

Fig.12

 

Il chiostro, che appartiene al nucleo più recente dell’edificio, è dominato da un pozzo del XVII secolo decorato con grande fastosità barocca. Il pozzo è formato da quattro colonne sormontate ciascuna da un capitello ionico. Al di sopra dei capitelli, presi a due a due, è posizionata una balaustra scanalata in pietra leccese (figg. 13, 14).

Fig.13

 

Fig.14

 

Il pozzo era, inoltre, sormontato da un blocco superiore contenente due stemmi: sul lato nord quello della Santa Croce, recante la data del 1627, e sul lato sud un’insegna con tre figure – la fascia, le rose e la stella – (fig. 15); oggi il pozzo si presenta privo di tale blocco in seguito ad un furto avvenuto nel 1991. Presso il lato sud del cortile è possibile individuale la presenza di un portale, ora murato, affiancato da una colombaia a muro[30] (fig. 16).

Fig.15

 

Fig.16

 

Infine, il piano superiore del palazzo comprende una serie di stanze comunicanti con un ampio e luminoso salone ricoperto da stucchi eleganti che incorniciano le porte di accesso ed alcuni riquadri ormai spogli di tele (fig. 17).

Fig. 17

 

Come accennato precedentemente, i Padri Celestini furono spodestati del loro feudo nel 1807 e alcuni di loro trovarono ospitalità a Carmiano nella dimora attigua alla chiesa dell’Immacolata, dove vissero in eremitaggio. Alla loro morte furono sepolti nella stessa chiesa, dove esistono ancora le loro tombe[31].

Con la fine della feudalità si svilupparono nuove forme contrattuali di conduzione della terra ed ebbe avvio la diffusione della piccola proprietà contadina che contribuì alla crescita economica e sociale della popolazione[32]. A Carmiano la presenza dei monaci aveva anche inciso sull’indole della cittadinanza, alimentando la diffusione di sentimenti come rassegnazione distaccata e accettazione apatica della realtà: la fine della feudalità contribuì a scuotere la popolazione, risvegliando le coscienze e indirizzandole al raggiungimento di nuovi traguardi di libertà[33].

In seguito alla cacciata dei Celestini e alla soppressione degli ordini religiosi possidenti e mendicanti[34], il palazzo baronale seguì il destino dei feudi di Carmiano e Magliano che, in un primo momento, vennero affittati a privati per poi essere messi in vendita con un’asta pubblica.

Il palazzo venne acquistato nel 1832 da Luigi Giusso, negoziante di origini genovesi che domiciliava a Napoli, per poi essere venduto alla fine del’800 alla famiglia Foscarini che lo utilizzò come residenza fino ai primi anni del ‘900, modificandone sensibilmente gli ambienti nel corso del tempo[35]. Infine, il palazzo venne acquistato nel 1931 dalla famiglia Portaccio di Lecce che riunificò lo stabile, adibendolo a locale di essicazione e di deposito di tabacco[36] (fig. 18).

Fig.18

 

Non era insolito che locali di grandi dimensioni, appartenuti agli ordini religiosi soppressi, vedessero cambiare la loro destinazione d’uso originaria: anche i conventi di San Domenico intra moenia ed extra moenia di Lecce, ad esempio, vennero riutilizzati, il primo, come Regia Manifattura dei Tabacchi e, il secondo, come mattatoio, poi come stabilimento vinicolo ed infine come Consorzio Agrario provinciale[37].

La prima licenza di coltivazione del tabacco fu rilasciata ai coniugi Portaccio nel 1929 quando l’ex palazzo baronale divenne “magazzino generale”, all’interno del quale avvenivano tutte le diverse fasi di produzione del tabacco. Come scrive Antonio Monte:

Fig.19

 

Negli 11 ambienti del piano terra erano ubicati la caldaia, i depositi delle casse e del tabacco sciolto, il vano scala e il monta carichi; nei 23 vani del primo piano vi erano le stufe, i depositi delle casse, del tabacco in colli e degli attrezzi, gli spogliatoi, la sala di allattamento, la caldaia della stufa a legna, le latrine, il vano scala e il monta carichi. Mentre nella nuova costruzione di recente realizzazione, collocata al secondo piano, erano ubicati un grande ambiente dove avveniva la lavorazione delle foglie, il corpo scala e il monta carichi[38].

Fig.20

 

Nel magazzino lavoravano circa 130 persone tra tabacchine e operai che seguivano il seguente orario di lavoro giornaliero: dalle 7.30 alle 15.30 nel periodo invernale e dalle 7.00 alle 15.00 durante il periodo estivo[39]. In quelle stesse stanze affrescate che un tempo avevano ospitato abati ed artisti, era possibile ora sentire l’odore acre del tabacco che rendeva amare le mani infaticabili delle lavoratrici. Molto probabilmente quegli ambienti – dove erano echeggiati, nel corso dei secoli, gli inni sommessi degli abati, le discussioni importanti di amministratori ed intellettuali, ma anche i segreti di giovani contesse – venivano adesso riempiti col fruscio logorante delle foglie di tabacco e con il canto disperato delle tabacchine. Costoro ebbero una funzione fondamentale nel processo di emancipazione della donna, affermandosi come ceto sociale produttivo nel corso del Novecento: il loro ruolo era duplice poiché si occupavano sia di produrre ricchezza per l’intera società salentina, in quanto il tabacco levantino era destinato al mercato mondiale, sia di procurare risorse per la sopravvivenza della propria famiglia. Tuttavia, a Carmiano, come nel resto del Salento, il lavoro delle tabacchine restava un lavoro stagionale mal pagato.

Il magazzino di Carmiano rimase attivo fino al 1974-75 quando finì la lavorazione e lo stabile chiuse definitivamente. In questo periodo vennero apportate delle modifiche architettoniche che servirono ad adattare l’ex residenza baronale dei Celestini ad una fabbrica di tabacco[40]. Ancora oggi all’interno dell’edificio è possibile notare la presenza di macchine ed attrezzature per la lavorazione del tabacco che necessiterebbero di essere pulite e restaurate in quanto rappresentano un’importante documentazione di storia locale (figg. 19, 20). Nel 1991 il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali dichiarò l’immobile d’interesse particolarmente importante ai fini della Legge n.1089 (1° giugno 1938), per via dell’attività produttiva che era stata svolta al suo interno per oltre cinquant’anni[41].

 

Come abbiamo dimostrato attraverso questa breve trattazione, il palazzo baronale è stato nel corso dei secoli un luogo centrale per la comunità di Carmiano: durante la baronia celestiniana rappresentò il luogo cardine dell’amministrazione feudale e fu anche cenacolo culturale di grande rilievo, soprattutto per la presenza di intellettuali e artisti del calibro di Giuseppe Zimbalo; successivamente assunse un notevole ruolo socio-economico, diventando la fabbrica di tabacco più importante del paese e radunando al suo interno un grande numero di operai e tabacchine. Questo palazzo, dunque, ha accompagnato la nascita e lo sviluppo di una comunità, partecipando al destino amaro della sua popolazione e diventando espressione di un cammino faticoso e contraddittorio verso il presente.

Di fronte a queste certezze storiche e constatando l’attuale stato di abbandono e decadenza in cui versa Palazzo dei Celestini, vogliamo oggi interrogarci provocatoriamente sul futuro: questo luogo può ancora essere un centro di aggregazione sociale e culturale attorno a cui radunare la comunità? La risposta a questa domanda dipende soltanto dalle scelte che avremo il coraggio di compiere.

Oggi la ristrutturazione di questo luogo è quanto mai urgente e necessaria: senza un intervento tempestivo, le tracce della storia di una comunità saranno smarrite per sempre. Non si tratta di perdere semplicemente un pezzo importante della nostra memoria, il rischio è quello di sprecare un’opportunità sociale, economica e culturale per le generazioni future.

Gli affreschi di un palazzo, l’odore del tabacco, il legame con l’evoluzione artistica del barocco leccese sono tutti frammenti organici di una stessa storia che le nostre coscienze civili non potranno continuare a rinnegare per lungo tempo.

From roots to routes: sta a noi adesso scegliere la rotta giusta.

Appendice fotografica

 

Bibliografia

A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008.

M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 313-334.

M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 77-91.

S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 63-76.

A.Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 137-148.

A.R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005.

G.Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000.

M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, pp. 97-122.

M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 19-61.

R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 93-136.

A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, pp. 155-174.

 

La maggior parte delle foto in appendice è stata gentilmente messa a disposizione da Antonio Vadacca.

Note

[1] A. Caputo, Il ciclo di vita di una baronia ecclesiastica, I, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce tra Lecce e Carmiano, 2 voll., Galatina (Le), Edizioni Panico, 2008, p. 13.

[2] Ivi, p. 103. Tuttavia, di questo atto, segnalato solo all’inizio del XVII secolo, non è stata ancora trovata alcuna traccia: in mancanza di documenti certi, è lecito presumere che non si trattò di un vero e proprio acquisto ma di una forma surrettizia di donazione effettuata in merito ad accordi precedenti e/o per disposizione di Maria d’Enghein. Cfr. M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce di Lecce nel feudo di Carmiano e Magliano (secc. XV-XIX), in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza signorile a manifattura tabacchi, II, da M. Spedicato (a cura di), I Celestini di Santa Croce…cit., p. 26.

[3] A. Caputo, op. cit., pp. 9-10.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Ivi, pp. 155-157.

[7] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria e potere locale a Carmiano tra XVI e XVIII secolo, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità salentina in epoca moderna. Carmiano tra XV e XIX secolo, Galatina (Le), Congedo editore, 1991, p. 98.

[8] M. Spedicato, La signoria dei Celestini di S. Croce…cit., pp. 19, 25.

[9] M. Spedicato, Feudalità, crisi finanziaria…cit., p. 104.

[10] S. Macchia, Sul sito del Palazzo baronale dei Celestini, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p.70.

[11] M. De Luca, Il Palazzo dei Celestini a Carmiano: un’emergenza architettonica in disuso, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 77.

[12] M. Cazzato, L’abate e l’architetto. Giuseppe Zimbalo (1620-1710) e i Celestini di S. Croce tra Lecce e Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Una comunità…cit., p. 323.

[13] Ibidem.

[14] Ivi, p. 313.

[15] Ivi, p. 318.

[16] Ivi, pp. 324-325.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, p. 327.

[19] M. De Luca, op. cit., p. 81.

[20] Ivi, pp. 84-85.

[21] Ibidem. Bisogna anche ricordare che questo palazzo godeva dell’immunità ecclesiastica: chiunque fosse ospitato in esso passava sotto la tutela dell’abate di S. Croce.

[22] A. R. Pati, Le epigrafi latine di Carmiano, Tipografia Schirinzi, Carmiano, 2005, pp. 49-53.

[23] M. De Luca, op. cit., pp. 86-88.

[24] Ibidem.

[25] Ibidem.

[26] M. Cazzato, op. cit., p. 323.

[27] P. A. Vetrugno, L’arte in «Regola». Il programma iconografico del Palazzo dei Celestini di Carmiano, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 166.

[28] Ivi, p. 165.

[29] M. De Luca, op. cit., p. 83.

[30] Ivi, p. 84.

[31] G. Paticchia, Carmiano e Magliano. Compendio di storia patria, Galatina (Le), Libri Mitos, 2000, p. 40.

[32] A. Caputo, op. cit., pp.155-157.

[33] Ibidem.

[34] La soppressione degli ordini religiosi nel Regno di Napoli avvenne ad opera di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat con ripetuti decreti, il primo emesso il 2 luglio 1806, poi il 13 febbraio 1807, il 12 gennaio 1808 fino a quello del 7 agosto 1809. Cfr. A. R. Trianni, Da residenza baronale a luogo di produzione. La storia di Palazzo dei Celestini dalla soppressione napoleonica ai primi del ‘900, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., p. 93.

[35] Ivi, passim.

[36] Ivi, pp. 104-105.

[37] A. Monte, Tra storia feudale e archeologia industriale. Il Palazzo-fabbrica per la lavorazione del tabacco, in M. Spedicato (a cura di), Il palazzo baronale da residenza…cit., pp. 146-147.

[38] Ibidem.

[39] Ibidem.

[40] Ibidem.

[41] Ivi, p. 148.

Qui il link per poter votare Palazzo dei Celestini sul sito del Fai: https://www.fondoambiente.it/luoghi/palazzo-celestini?ldc

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (III ed ultima parte)

maria d'enghien

di Alfredo Sanasi

 

Dopo la morte di Giovanna II Durazzo, avvenuta nel 1435, e il trionfo di Alfonso I, celebrato a Napoli nel 1443, il principe di Taranto fu il primo consigliere del Re ed il personaggio più autorevole e più vicino al sovrano. Durante questi anni Maria d’Enghien fu sempre accanto al figlio e se egli potè interessarsi totalmente degli avvenimenti bellici ciò gli fu permesso grazie alla diplomazia e al prestigio che la regina mostrò nella guida politica e amministrativa del suo “regno nel regno”. Il suo amore per l’arte, sempre presente in lei sin da quando era stata accanto a Raimondello nella costruzione della torre di Soleto e di Santa Caterina con annesso ospedale a Galatina, si manifestò ancora più decisamente in questo lungo periodo, tanto che volle dotare la Basilica di Santa Caterina di affreschi vasti e importanti che gareggiassero con quelli di Napoli voluti dalle due regine d’Angiò Durazzo. Vera mecenate, incline allo splendore e alla grandezza, ella non badò a spese e forniture di materiali preziosi:lapislazzuli per i fondi azzurri, foglie d’oro per le corone dei santi, foglie d’argento per le stelle delle volte. Era la rivincita di Maria d’Enghien sulla regina Giovanna II e su quanti l’avevano ingiustamente avversata. Maria d’Enghien considerava la basilica, dice giustamente Fernando Russo, cui si devono gli splendidi restauri, non secondo la prospettiva del fedele, ma secondo un’ottica tutta politica, quindi ella operava un’ identificazione fra sè e Santa Caterina. Aggiungiamo che con gli affreschi voluti da Maria d’Enghien il Salento cominciò ad uscire da un lungo medioevo ed ad aprirsi a correnti artistiche e culturali d’ogni parte d’Italia. A Napoli la regina era venuta a contatto ed aveva conosciuto artisti napoletani, toscani, marchigiani, emiliani che sicuramente volle far venire a Galatina e di tali scuole sono evidenti i segni e le caratteristiche in molti affreschi galatinesi. Se poi scendiamo ad osservare alcune scene dipinte nella navatella destra del tempio orsiniano (il crollo degli idoli e gli idoli spezzati) scopriamo che esse si ritrovano soltanto nelle vetrate della cattredale di Chartres e quindi non azzardiamo troppo nel credere che Maria d’Enghien aprì i suoi cantieri pittorici ad artisti venuti dalla Francia e da altre parti d’Europa. Si ha insomma l’impressione che il “cantiere galatinese” fu un luogo d’intrecci, di scambi e di confronti, una situazione in perpetuo movimento, con pittori che si mettono in viaggio per vedere cose nuove ed altri che arrivano da lontano. Maria d’Enghien fu l’anima attiva di Lecce e del principato di Taranto; anche quando il figlio Giannantonio Orsini, tra vittorie e sconfitte, rimase prigioniero delle armi genovesi ella mostrò un animo indomito e rimase la figura più rappresentativa della Puglia, pur tra i continui fatti che la addolorarono, prima la morte della diletta figlia Caterina, contessa di Copertino e poi dei due figli di costei, Raimondello e Antonia. Grande gioia provò invece quando tra un festoso corteo vide partire per Napoli l’altra sua nipote Isabella di Chiaromonte, perché, affermando sempre più la sua discendenza, la inviava sposa a Ferrante d’Aragona, figlio del re Alfonso, destinata a salire successivamente a quel trono che certo a lei personalmente non aveva portato molta fortuna.

Nata, come sostengono alcuni, a Copertino, muore a Lecce nel 1446, onorata con esequie regali: come si doveva ad una regina la sua bara fu coperta da broccato rosso carminio, seta celeste e pallio d’oro e fu sepolta nell’antico monastero di Santa Croce, in un’arca ornata di statue e marmi preziosi: intorno alla regina seduta erano collocate le statue della Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, Fede e Carità, quasi a significare che quelle virtù si erano manifestate in sommo grado in tutti gli atti della sua vita. Questa donna eccezionale non ebbe però pace lunga neppure dopo la sua morte, perché l’imperatore Carlo V nel 1537 distrusse chiesa e monastero per costruire sul posto l’ampliamento e le fortificazioni del castello tutt’ora esistente. Il mausoleo di Maria d’Enghien venne ricostruito nel transetto sinistro della attuale chiesa di Santa Croce. Ma anche qui Maria d’Enghien non riposò in pace. Per fare posto alla cappella della Arcifraternita della Trinità tale mausoleo, ridotto forse alla sola statua della Regina, venne distrutto e la statua venne gettata in un giardinetto, poi in un fossato e ridotta in frantumi. Maria d’Enghien, valorosa guerriera, accorta amministratrice di una contea e di un principato vasto come un regno, dispensiera e ispiratrice di provvedimenti e statuti, dedita a grandi opere d’arte e di fede, nobile mecenate del primo Rinascimento, fu presto e ingiustamente per lunghissimi tempi completamente dimenticata.

 

 

Bibliografia

 

Cassiano A., Santa Croce a Lecce, Storia e Restauri, a cura di A. Cassiano e M. Cazzato, Galatina 1999.

Congedo U., Maria d’Enghien, Lecce 1899.

Coniger, Cronache, in “Raccolta di varie cronache, diarii, etc”, Napoli 1872, t. V.

Cutolo, Maria d’Enghien, Galatina 1977.

De Blasiis G., Tre scritture napoletane del XV secolo, in «Archivio storico per le province napoletane», vecchia serie, IV.

De Sassenay, Le Briennes de Lecce e d’Athenes, Parigi 1869.

Marciano C., Descrizione, origini e successi della Provincia di Otranto, Napoli 1855.

Marsicola C., S. Caterina a Galatina, Milano 1984.

Pastore M., Il Codice di Maria d’Enghien, Galatina 1979.

Presta T., S. Caterina d’Alessandria in Galatina, Galatina 1991.

Profilo A., La Messapografia, Lecce 1875, vol. II.

Russo F. , La parola si fa immagine, Venezia 2005.

Vigner N., Histoire de la maison de Luxembourg, Parigi 1617.

 

Pubblicato su Spicilegia Sallentina-

Le due parti precedenti si possono leggere cliccando sui seguenti link:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/30/da-contessa-di-lecce-maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino-ii-parte/

 

 

 

Lecce. Trasformazioni e ampliamenti del convento di Santa Maria del Tempio

di Giovanna Falco

 

Come tutti i leccesi appassionati di storia locale, attendo la relazione degli scavi archeologici preventivi nell’area dell’ex Caserma Massa (eseguiti sotto la direzione dello staff composto da esperti di Archeologia Classica del Prof. Francesco D’Andria), per apprendere la natura dei cunicoli riportati alla luce, il tipo di reperti che hanno custodito per tanto tempo e da quale area del sito proviene il capitello fotografato dall’esterno del cantiere da più persone tra fine marzo e inizio di aprile, probabile testimonianza della fase architettonica più antica di questo ex edificio.

Riscuotono un certo fascino le gallerie sotterranee voltate a botte emerse dal sottosuolo, attorniate dai vari piani di calpestio dell’immobile, testimonianza delle varie trasformazioni cui è stato sottoposto tra il 1432 e i primi decenni del Novecento. Com’è possibile definirle non rilevanti? Non sono forse state realizzate antecedentemente e/o in contemporanea di tante glorie monumentali presenti in città?

Purtroppo non vi è più l’alzato dell’edificio, ma la peculiarità di questo sito sta proprio nel fatto che l’area è sgombera di strutture sovrastanti ed è ubicata fuori dal perimetro storico della città: è un interessantissimo percorso a vista di storia dell’architettura.

Cunicoli del convento emersi nei recenti lavori

Le dicerie che sono circolate in città, attorno a quest’area, sono dovute al fatto che molte persone non conoscono la storia del convento di Santa Maria del Tempio, più noto come ex Caserma Massa. Finalmente sabato 2 luglio 2012 Valerio Terragno ha pubblicato su il Paese Nuovo una bella sintesi delle sue vicende storiche, fugando dunque qualsiasi leggenda metropolitana.

L’ex convento di Santa Maria del Tempio – poi Caserma Massa – attuale ginepraio di cunicoli, è stata una grande e gloriosa struttura, le cui vicende costruttive possono essere sintetizzate in quattro fasi principali legate alla sua storia, magistralmente raccontata da padre Benigno Francesco Perrone nel primo volume di I Conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590 – 1835) (Congedo Editore Galatina 1981).

Stratificazioni del piano di calpestio

Fondato nel 1432 come convento dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia dipendente da Santa Caterina in Galatina, assorbita nel 1514 dalla Provincia minoritica di San Nicolò (diventata già nel 1446 Vicaria di San Nicolò di Puglia), nel 1591 passa ai padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, diventandone nello spazio di alcuni decenni la casa provinciale più grande. Allontanati i frati una prima volta nel 1811, costoro tornarono nel 1822 per abbandonare il convento definitivamente il 14 settembre 1864. Concesso al comando distrettuale nel 1872, in seguito l’immobile fu adibito a sede della Caserma del Tempio, dedicata nel 1905 a Oronzo Massa. L’1 febbraio 1971 l’edificio è stato demolito.

È preliminare a queste quattro fasi e alla nascita della fondazione monastica, l’inventario dei beni posseduti a Lecce dai Templari stilato nel 1308, recentemente analizzato da Salvatore Fiori nel suo I Templari in Terra d’Otranto. Tracce e testimonianze nell’architettura del Basso Salento (Edizioni Federico Capone, Torino 2010). Ebbene, l’area dov’è sorto il convento era il Feudum Domus Templi, una delle proprietà più importanti dell’ordine cavalleresco nel basso Salento. Il feudo era prospiciente un importante asse viario (attuale via San Lazzaro), che conduceva all’Ospedale di San Lazzaro nei cui pressi s’incanalava la strada verso l’entroterra salentino.

Alla soppressione dei Templari, avvenuta nel 1310, probabilmente il feudo diventò di dominio dei conti di Lecce: nel 1634 Giulio Cesare Infantino in Lecce Sacra, confidando nella tradizione, attribuisce ai conti la proprietà di un’antichissima cappella ubicata in uno dei fertili giardini di pertinenza del convento (da non confondere con la chiesa ipogea di Santa Lucia, l’attuale misero buco pieno di erbacce occultato da un muro, situata di fronte all’area in questione).

Non si conoscono ancora documenti che si riferiscono al passaggio di proprietà a Nuzzo Drimi: costui nel 1432 volle erigere nel suo podere una piccola chiesa e conventino, che dedicò alla Presentazione della Vergine al Tempio e affidò ai francescani dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia, gli stessi frati che gestivano il monumentale complesso di Santa Caterina in Galatina fondato dai principi di Taranto.

Giovanni Antonio Orsini del Balzo, erede universale di Drimi, volle donare al convento leccese una teca d’oro, ottenuta dalla fusione di una sua collana, dove fu custodita la reliquia di un chiodo della Croce. L’Orsini del Balzo, inoltre, nel 1449 presentò a Nicolò V una petizione affinché intercedesse presso il vescovo di Lecce, per far sì che nella chiesa extraurbana fosse sepolto il cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni. Nel 1440 il convento fu ingrandito grazie alle elemosine offerte dai leccesi. Il complesso monastico, all’epoca, era costituito da un convento la cui area è stata inglobata dall’infermeria seicentesca e da una piccola e bassa chiesa che custodiva una miracolosa immagine della Vergine molto venerata.

Un secondo e più significativo ampliamento fu voluto a partire dal 1508 da padre Riccardo Maremonti, ministro della Provincia di S. Nicolò in Puglia dal 1515, nonché architetto che progettò un quadriportico sul lato nord della chiesa medievale. Costui fece abbattere l’antico convento e tra il 1508 e il 1517, realizzò il lato sud e l’ala est su cui si affacciavano le cucine e le officine. Il portico era formato da sei archi ogivali per lato, sostenuti da possenti colonne sormontate da capitelli decorati da quattro semplici volute (così come si può riscontrare nelle fotografie pubblicate nel libro di Perrone). Maremonti che realizzò, così come ha già illustrato Terragno, anche la sacrestia, il refettorio, e, al primo piano, un corridoio su cui si aprivano dodici stanze, volle ornare i gradini delle scale e le soglie delle stanze con un materiale di pavimentazione duro, adoperato in seguito come modello per lastricare le strade di Lecce.

Subentrati nel 1591 i padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, costoro vollero apportare nuove modifiche allo stabile, dettate dalla necessità di accogliere un maggior numeri di frati e novizi, oltre agli ammalati provenienti da altri conventi. La grande infermeria, menzionata nel 1634 da Infantino, era allineata al prospetto della chiesa ed era dotata di refettorio, cucina, dispensa, farmacia e un numero cospicuo di celle per gli ammalati e di un piccolo chiostro. Prima del 1641 furono completati i due bracci mancanti del portico, realizzati secondo lo stile di Maremonti. Al piano superiore furono costruite nuove celle per i frati e fu aggiunto il corridoio sul lato nord, così da arrivare a ospitare fino a settanta religiosi. A fine secolo fu realizzata una grande biblioteca a uso dei novizi che si acculturarono in questi luoghi. Risale a questa fase l’ingrandimento della chiesetta medievale, essendo state aggiungente le cappelle laterali; la nuova chiesa comprendeva tredici altari e un coro superiore.

Il convento di Santa Maria del Tempio diventò la più grande struttura di tutta la provincia francescana. L’edificio è rimasto sostanzialmente immutato sino alla soppressione del 1864, e nell’inventario redatto per l’occasione, sono elencati i vari vani dello stabile.

materiale emerso durante i lavori

Adibito nel1872 a caserma, nell’edificio furono apportate profonde modifiche dettate dalla nuova destinazione d’uso con le relative esigenze funzionali.

in primo piano uno dei capitelli emersi durante gli scavi

Bisignano e Nardò. I Sanseverino e gli Acquaviva

di Roberto Filograna

Sia la città di Bisignano (l’antica, medioevale Visinianum), sia la città di Nardò (l’antichissima, messapica Naretinon), legano buona parte della loro storia più recente, dal XV secolo sino ai tempi dell’eversione della feudalità, al nome di due grandi famiglie che detennero il potere feudale ed amministrativo delle due città: i Sanseverino a Bisignano e gli Acquaviva a Nardò.

La famiglia Sanseverino e la famiglia Acquaviva appartenevano al gruppo delle sette famiglie più importanti del regno, assieme ai Ruffo, ai d’Aquino, agli Orsini del Balzo, ai Piccolomini e ai Celano. Ambedue le famiglie, improntarono la storia, l’economia, la cultura e la vita economica e sociale dei due centri, con alterna fortuna per gli stessi e secondo direzioni prevalentemente parallele ma che in

S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento

Riproponiamo il saggio di Luciano Antonazzo sulla chiesa e convento di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento. La scorsa notte, tra il 15 e 16 febbraio 2011, sconosciuti hanno appiccato un incendio nella sagrestia della chiesa, distruggendo molti dei sacri paramenti e una antica statua di Cristo morto in cartapesta. Sembra che le fiamme non abbiano arrecato danni al prezioso coro ligneo dei Fratelli Candido di Lecce.

Sull’entità del danno e sull’identificazione degli autori stanno indagando i Carabinieri e le Autorità competenti.

Spigolature Salentine si associa allo sgomento e al dolore della popolazione di Ugento per così grave e inqualificabile gesto.

 

 

Intorno alla fondazione del convento  e della chiesa di S. Maria della Pietà dei frati Minori Osservanti di Ugento[1]  

 

di Luciano Antonazzo

SS. Cosma e Damiano, affresco del convento di Ugento (ph Stefano Cortese)

Molto poco si conosce della storia degli edifici civili e sacri di Ugento  e quel poco è sovente frutto di affermazioni non supportate da alcuna indagine storica o critica.

Paradigma di tale modo di procedere e che ha assunto dignità di verità acquisita è la data di fondazione del convento, con annessa chiesa, dei Francescani Minori Osservanti.

La loro erezione dagli scrittori locali si fa risalire al 1400, ma questa datazione è la conseguenza di una errata lettura del De Origine Seraphicae Religionis del 1587 di Francesco Gonzaga. Questi aveva testualmente scritto che nel 1430  l’“Illustrissima, atque Franciscanae Observanti familiae addictissima Bauciorum prosapia[2] aveva fondato entro la cerchia muraria della città il convento “sub invocatione B. Mariae de Pietate”, senza indicare il nome di chi lo volle.

Padre Bonaventura da Fasano nelle sue Memorabilia[3] riferì invece, seguito in ciò dal Wadding,[4] che ad erigerlo era stato Raimondello Orsini del Balzo.[5]

Gli scrittori posteriori presero per buona l’indicazione di quel nome, ma avvedutisi dell’anacronismo per cui Raimondello non poteva essere il fondatore del convento in quanto egli era deceduto nel 1406 ritennero di superare tale discrasia anticipandone l’erezione al 1400.

Raimondello nel 1391, al ritorno di una campagna in oriente per combattere i turchi, avendo sperimentato la bontà ed assistenza caritatevole offerta dai francescani, aveva voluto loro testimoniare la sua gratitudine facendo costruire in Galatina la superba Basilica di Santa Caterina d’Alessandria,

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