Uno stemma dei Del Balzo D’Orange in San Pietro in Bevagna

MINIMA ICONOGRAPHICA

di Nicola Morrone

Come avemmo modo di osservare qualche tempo fa, per ricostruire il contesto storico in cui un dato bene culturale è stato prodotto, si può partire anche da alcuni dati minimi, come gli elementi araldici che, eventualmente, lo contrassegnano.

Nel santuario di San Pietro in Bevagna vi è uno stemma gentilizio, più volte segnalato dagli studiosi, che, se correttamente interpretato, può fornire importanti indicazioni di carattere storico-cronologico circa la dinamica costruttiva della chiesa stessa. L’emblema, collocato sopra l’arco ogivale che qualifica la parete est dell’attuale presbiterio, è stato scoperto nel 1991, in seguito ad una campagna di saggi condotti dalla Soprintendenza ai Monumenti di Taranto, miranti a fare chiarezza sulle fasi storiche del complesso chiesa-torre[1].

Stemma Del Balzo d'Orange nel santuario di San Pietro in Bevagna
Stemma Del Balzo d’Orange nel santuario di San Pietro in Bevagna

 

L’emblema in oggetto, di cui forniamo un’immagine[2], è dipinto a tempera. Esso è sormontato da una corona reale e circondato da un nastro nero, ed è qualificato nella parte superiore dalla presenza di una stella a sedici raggi su campo chiaro e un corno azzurro legato su campo rosso, che si invertono nella parte inferiore[3].

Dello stemma si era già occupato lo storico locale L.Tarentini, che ne aveva dato una descrizione, tra l’altro imprecisa[4]. Un altro storico locale, il Lopiccoli, aveva riprodotto l’emblema nel suo compendio storico su Manduria, fornendone anch’egli una breve descrizione. Da ultimo , F.Musardo Talò ha dedicato allo stemma un’attenta disamina, finalizzata ad una contestualizzazione dello stesso nell’ambito della bimillenaria storia del santuario petrino[5]. La studiosa, sulla base di alcuni confronti , riferisce lo stemma alla famiglia gentilizia degli Orsini Del Balzo, che governò il Principato di Taranto a partire dal sec.XV.

Secondo la studiosa , la presenza dello stemma nella cappella di Bevagna potrebbe giustificarsi sulla base di un intervento di restauro operato per volontà di G.A. Orsini, principe di Taranto (+ 1463), che avrebbe voluto così lasciare un ricordo perenne della sua munificenza nei confronti del santuario petrino.

Tale stemma , operando come una sorta di “marcatore territoriale”, potrebbe inoltre rimandare alla definitiva inclusione del santuario nelle terre del Principato di Taranto. Tale ricostruzione, puntigliosa ed in parte accettabile, si fonda però su un’errata interpretazione dello stemma in oggetto. Infatti,in corrispondenza dell’arco ogivale dell’area presbiteriale della chiesa di San Pietro in Bevagna non è dipinto lo stemma degli Orsini Del Balzo, ma quello dei Del Balzo D’Orange, nobile casata di origine francese, che solo più tardi si imparenterà con quella degli Orsini[6].

Nell’emblema di Bevagna mancano, di fatto, le insegne della famiglia Orsini, cosicchè la cronologia della vicenda va ricostruita in modo differente.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone del Balzo Orsini, tratto da commons.wikimedia.org

I Del Balzo d’Orange governarono il Principato di Taranto nella seconda metà del sec.XIV: titolare del grande feudo fu Giacomo Del Balzo, che lo tenne dal 1374 al 1383[7]. Fu Giacomo del Balzo , dunque, e non G. A. Orsini , a voler legare la memoria della sua famiglia a quella del santuario bevagnino. Quest’ultimo, evidentemente, ricadde nei territori del Principato ben prima della metà del sec.XV, epoca della nota controversia tra Taranto ed Oria circa il controllo della piccola fiera (il “paniere”) che si svolgeva da tempo immemorabile nei pressi della piccola cappella, di cui riferisce il Coco[8].

Precisata l’attribuzione dello stemma, restano da chiarire le motivazioni della presenza di quest’ultimo nella cappella di Bevagna. In questo senso , concordiamo sostanzialmente con le ipotesi formulate dalla Talò: lo stemma dei Del Balzo d’Orange dovette fungere da “marcatore territoriale”, ribadendo visivamente che la cappella petrina , oggetto di una devozione secolare, era collocata nei domini del Principato. Verosimilmente, il feudo di Bevagna, pur in capite ai Benedettini d’Aversa , dovette ricadere nei territori del Principato già a partire dal 1381-82, cioè dagli anni in cui Giacomo Del Balzo si impossessò con la forza del Principato, pretendendo dagli abitanti delle terre occupate il giuramento di fedeltà e l’omaggio [9]. Lo stemma principesco fu quindi dipinto al tempo del “restauro” della zona absidale della cappella medievale di Bevagna, corrispondente all’area presbiteriale della chiesa attuale.

L’abside originaria fu parzialmente tompagnata con un arco ogivale (di cultura, cioè, gotica) probabilmente per ragioni statiche. Si distinguono tuttora i differenti profili delle nicchie: a tutto sesto quella primitiva (secc. X-XI), a sesto acuto quella posticcia (sec. XIV).

Partendo dall’ interpretazione di un indizio “minimo”, quale può essere uno stemma, abbiamo voluto ricostruire il contesto storico e politico in cui esso trova la sua ragion d’essere. La vicenda proposta ci pare confermi quanto asserisce lo studioso B. Vetere , il quale magistralmente sostiene che “attraverso la serie di figure e segni di cui si serve l’araldica è possibile leggere parti di un libro che narra, con la storia di famiglie importanti per i ruoli di natura pubblica di cui furono investite, le vicende di ben più ampie realtà che non quelle semplicemente familiari. Nel linguaggio simbolico di quelle figure e di quei segni, accostati nei quarti in cui si divide uno scudo nobiliare, viene fissata la memoria di potenziamenti di natura politica, di ampliamenti territoriali, di nuovi equilibri ed alleanze tramite i meccanismi di strategie matrimoniali rispondenti molto spesso a concreti progetti di natura politica”[10].

 

[1]Cfr. A.Ressa, Torre-Santuario di San Pietro in Bevagna. Problematiche di restauro, in “Quaderni Archeo”, 1 (1996), pp.13-15.

[2] La foto è tratta da V.M.Talò, San Pietro in Bevagna, un bene culturale da salvare (Manduria 2011), p.102.

[3] La descrizione dello stemma è in V.M.Talò, op.cit., p117.

[4] Cfr.L.Tarentini, Manduria Sacra (Manduria 1899), p.36.

[5] Cfr V.Musardo Talò, op.cit., pp.117-120.

[6] Lo stemma dei Del Balzo d’Orange è presente, tra l’altro, in Santa Caterina a Galatina (riferibile a R.Del Balzo, conte di Soleto e Galatina)e in Santa Maria del Casale a Brindisi (riferibile a Giacomo del Balzo). Sul rapporto tra i Del Balzo d’Orange e gli Orsini, cfr. A.Cassiano-B.Vetere, Dal Giglio all’Orso (Galatina 2006), p.XIII. La lapide sepolcrale di Giacomo Del Balzo è ancora collocata nel Duomo di Taranto. L’arme del principe è inquartata con quella della moglie, Agnese D’Angiò Durazzo, che egli sposò nel 1382.

[7] Sul personaggio cfr. G.Antonucci, Giacomo del Balzo principe di Taranto, in “Rinascenza Salentina”, II, (1934),pp.184-188. Cfr.anche S. Fodale, Giacomo del Balzo, in DBI, vol.36 (1988).

[8] Cfr. A.P. Coco, Il santuario di San Pietro in Bevagna (Taranto 1915), pp.122-130.Ci ripromettiamo di approfondire la vicenda della fiera di Bevagna in un prossimo contributo.

[9] Cfr. G.Antonucci, op.cit., p.184.

[10] Cfr. A.Cassiano-B.Vetere, op.cit., pp.IX-X.

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino (II parte)

enghien

di Alfredo Sanasi

 

…Il cosiddetto “Codice di Maria d’Enghien” riunisce tutte le norme a cui si richiamava il Concistorium Principis e che regolavano quattro materie politico-amministrative della città di Lecce: i dazi, le tasse su uomini e animali, l’ordine pubblico, la manutenzione delle mura e dei fossati.

Certo la contessa-regina non ebbe diretta parte nella compilazione di tale codice, che risale a vari anni dopo la sua morte, ma è fuor di dubbio che la figura di lei domina ovunque con precisi riferimenti; i bandi appartengono al suo governo o sono da lei ispirati: si legge infatti spesso in essi l’espressione “de voluntate et comandamento de la maiesta de Madama Regina Maria”.

Quegli anni di pace, che Raimondello e Maria dedicarono soprattutto al buon ordinamento politico-giudiziario e alle opere d’arte, quali degni antesignani dei principi più illuminati del Rinascimento italiano, dovevano finire allorché i due principi ruppero fede al re Ladislao e si riaccostarono al partito angioino, seguendo Luigi II d’Angiò.

Raimondello si rese conto che il re Ladislao avrebbe espresso la sua indignazione con un atto di guerra e perciò preparò un forte esercito per difendere il suo principato, ma proprio allora , all’inizio del 1406, egli morì a Lecce. Maria d’Enghien non si perse d’animo. Occultò per il momento la morte del marito e affrettò i preparativi di guerra, per fronteggiare risolutamente l’attacco di Ladislao d’Angiò Durazzo. Anticipando coraggiosamente l’eroismo di Giovanna d’Arco di alcuni decenni, infiammò arditamente gli animi dei suoi sudditi vestendo una pesante armatura e spronandoli alla difesa della patria. L’esercito napoletano cinse d’assedio Taranto, ma ben presto il re Ladislao si doveva rendere conto che Maria d’Enghien era pressocchè imprendibile, tanto era solida la difesa della città dai due mari, a cui avevano portato aiuto i Sanseverino, ora alleati di Maria contro il comune nemico, quel re Ladislao che pochi mesi prima aveva messo a morte e lasciati insepolti quattro signori Sanseverino. L’assedio si protrasse per tutto l’anno 1406 con varie vittoriose sortite dei Tarantini, a tal punto che il re, scornato dalle continue vittorie d’una donna, se ne tornò a Napoli, lasciando il comando delle truppe a don Antonio Acquaviva, duca d’Atri. Anche al duca la principessa inferse delle sconfitte e ottenne da Luigi II d’Angiò l’investitura del principato di Taranto per il figlio Giannantonio Orsini del Balzo; se questi fosse morto senza figli, il principato sarebbe passato al fratello Gabriele e, nel caso d’un decesso di quest’ultimo, alle sorelle Maria e Caterina. Poi la principessa si ritirò ad Oria ad attendere le mosse di Ladislao. Nel marzo dell’anno successivo 1407, Ladislao tornò con un esercito potentissimo di cavalieri, fanti e navi. Quando tale notizia giunse alla principessa Maria, ella lasciò Oria e alla testa di alcune centinaia di cavalieri passò attraverso le file degli assedianti e rientrò a Taranto, sostenendo fieramente l’assedio, che si annunciava lungo e difficile.

Gentile da Monterano, consigliere del re Ladislao, ad un certo punto suggerì di risolvere quell’assedio snervante e forse dall’impossibile riuscita, proponendo al suo re una inaspettata soluzione: sposare Maria d’Enghien! Il re approvò e Maria accettò l’offerta del re. L’indomita amazzone accolse Ladislao sulle porte di Taranto non vestita d’oro e d’argento tra i broccati, ma in completa armatura e le nozze si celebrarono il 23 aprile dello stesso anno 1407 nella cappella di San Leonardo del Castello Aragonese di Taranto, dove ogni anno si svolge ancora oggi una rievocazione in costume di quell’evento storico. Sicuramente varie molle spinsero Maria d’Enghien ad accettare l’offerta del re sino a ieri suo implacabile nemico: il fasto della corte napoletana, il desiderio di eguagliare o addirittura offuscare famose regine di Napoli, Giovanna I d’Angiò e Margherita di Durazzo, un conscio o inconscio calcolo politico. Neppure i timori instillati in lei dai Sanseverino valsero a trattenerla, anzi ad uno di loro, che le aveva detto che il re , una volta avutala, l’avrebbe messa a morte, rispose sicura:”non me ne curo, perché se moro, moro regina”.

Il mese successivo la regina Maria partì da Taranto alla volta di Napoli, ma sola, perché Ladislao resto in Puglia per la sistemazione del nuovo grande possesso. E’ certo veramente che ella venne accolta dal popolo napoletano con grandi festeggiamenti e tra grida di gioia accompagnata sino alla mole di Castelnuovo, ma da quel momento cominciarono per lei le delusioni. La favorita del re, Maria Guindazzo, continuava a dimorare a Castel dell’Uovo e altre due amanti, la Contessella e Margherita di Marzano, per ordine del re, si insediarono a Castelnuovo, allorché nel mese di giugno Ladislao rientrò finalmente a Napoli. Trascorsero sette anni di lotte e guerre condotte dal re con alterne vicende, prima nel tentativo di riprendersi il trono d’Ungheria, poi guerreggiando a Roma, in Toscana ed in Umbria fino al 1414, quando perì tragicamente, forse avvelenato dai Fiorentini. Quegli anni Maria trascorse in Castelnuovo quasi dimenticata e quindi non si prese neppure in considerazione, alla morte del re, una sua successione, anzi, secondo il Coniger, Giovanna II, succeduta al fratello Ladislao, avrebbe allora fatto rinchiudere in carcere Maria e i suoi quattro figli.

Se non proprio prigioniera Maria d’Enghien fu comunque trattenuta a Napoli dalla regina Giovanna II e solo l’anno dopo, nel 1415, potè rientrare nel possesso della contea di Lecce, conservando il titolo di regina. Fu questo per Maria il periodo più attivo e fattivo nei confronti dei sudditi e dei suoi possedimenti, che ad uno ad uno riuscì a riconquistare o con le armi o con le trattative amichevoli, anche grazie agli interventi  di un grande cavaliere francese, Tristano Chiaramente, duca di Calabria e conte di Copertino, che ella volle quale sposo della figlia Caterina Orsini del Balzo. Per il regno di Giovanna II questo fu un periodo torbido e convulso di lotte, che raggiunse il suo culmine quando ella sposò Giacomo de la Marche, che tra gli altri dispiaceri arrecati alla regina aggiunse, non potendolo difendere, la vendita del principato di Taranto a Maria d’Enghien e a suo figlio Giannantonio. Giovanna II dovette, suo malgrado, riconfermare il Principato agli Orsini del Balzo. Maria d’Enghien iniziava una grande nuova ascesa, rafforzata ancor più dalle nozze nel 1417 del figlio Giannantonio con Anna Colonna, nipote del Papa Martino V. Giannantonio eguagliò il valore e l’ardimento del padre Raimondello e nelle lotte tra Angioini e Aragonesi per la successione al regno di Napoli finì con l’appoggiare apertamente Alfonso d’Aragona.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina

per la prima parte si veda

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/05/29/maria-denghien-mecenate-del-primo-rinascimento-salentino/

 

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

Da contessa di Lecce a regina di Napoli.

Maria d’Enghien, mecenate del primo Rinascimento salentino

 

di Alfredo Sanasi

 maria d'enghien

Se questa domanda venisse posta ai Salentini, anche di non modesta cultura, molti di essi sarebbero in difficoltà a rispondere circa questa nobile e grande figlia del Salento, che segnò di sé la storia antica del meridione d’Italia e che anticipò le grandi eroine dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata: l’Ariosto e il Tasso avrebbero tanto gioito di conoscerla personalmente (ma chi può escludere che un eco del suo grande animo non giunse veramente alla fantasia dei nostri grandi poeti del Rinascimento?).

Il suo animo eroico ella mostrò in varie circostanze e operazioni di guerra; ma qual era fisicamente questa nobile Salentina, prima contessa di Lecce e poi principessa di Taranto e regina di Napoli?

È molto difficile dirlo con esattezza, perché non esistono pitture del tempo che la ritraggano realisticamente e poco ci fanno intravedere un medaglione scolpito sul portale del castello di Copertino (l’ultimo a destra) e una piccola immagine scultorea sul basamento della tomba del figlio, Giannantonio Orsini del Balzo in S. Caterina di Galatina. Forse qualcosa di più possiamo dedurre da alcuni affreschi nella basilica di S. Caterina, che, se pure ritraggono altri personaggi, probabilmente riproducono le fattezze di Maria d’Enghien, a cui allusero indirettamente i frescanti del ‘400, grati verso la munificenza della loro mecenate. Almeno tre degli affreschi di S. Caterina s’ispirano alla figura di Maria d’Enghien.

In primo luogo nella volta dei Sacramenti la splendida figura coronata nella scena del matrimonio: la sposa (“forse un ricordo della nobile regina committente”, dice Marisa Milella, direttore storico dell’arte della Sopraintendenza di Bari e Foggia) indossa la pellanda, maestosa sopravveste a maniche ampie foderata di vaio, caratteristica proprio degli ultimi decenni del Trecento e nel primo Quattrocento.

Sempre nella seconda campata della navata centrale, in basso a sinistra, è raffigurata S. Caterina: anche questa figura coronata, coperta da un mantello rotondo, senza maniche, lungo fino ai piedi, foderato di vaio, nei lineamenti e nell’abbigliamento, fa pensare alla nobile committente.

Terza probabile immagine di Maria d’Enghien possiamo intravedere in uno dei Re Magi che rendono omaggio alla Sacra Famiglia a Betlemme nella navatella destra di S. Caterina a Galatina.

Una delle tre figure ha tratti decisamente femminili, al centro tra i due Magi barbuti: un paggio le solleva la corona dai biondi capelli, perché evidentemente ella vuole genuflettersi dinanzi al Bambino Gesù, come ha  fatto il più anziano dei Magi. Gli Orsini del Balzo (in questo caso i tre Magi sarebbero Raimondello, Giannantonio e Maria) vantavano la loro discendenza proprio da uno dei Re Magi (Baldassarre) e quindi non sarebbe tanto strano che il frescante, in omaggio alla munifica committente, avesse sostituito ai tre personaggi antichi i tre grandi discendenti Orsini del Balzo.

Fra le tre figure che abbiamo ipotizzato possano riferirsi ai tratti somatici di Maria d’Enghien v’è inoltre una notevole somiglianza, che ci convince sempre più che il modello di riferimento sia proprio la contessa di Lecce. Molti critici in passato l’hanno timidamente e vagamente pensato, noi lo sosteniamo con maggior convincimento dopo i recenti restauri del 2000-2004, che ci permettono di vedere e confrontare le tre immagini con notevole chiarezza. Né è da supporre, come aveva fatto qualcuno in passato, che la somiglianza fosse dovuta al fatto che si sarebbe impiegato lo stesso cartone di base, perché notevolmente differenti sono le dimensioni e la posizione della testa e del collo.

Se è difficile delineare l’immagine fisica di Maria d’Enghien altrettanto vaghi e imprecisi sono i fatti della sua adolescenza e prima giovinezza. Noi vorremmo almeno precisare come a lei pervenne la contea di Lecce.

Gualtiero VI di Brienne, duca d’Atene e conte di Lecce, morendo da prode nella battaglia di Poitiers nel 1347 non lasciò alcun diretto successore, quindi erede universale dei suoi vasti domini divenne la sorella Isabella, che fin dal 1320 aveva sposato il nobile francese Gualtiero III d’Enghien. Dei suoi vari possedimenti Isabella assegnò al figlio Giovanni la contea di Lecce e da costui e da Sancia del Balzo, principessa reale, tale contea passò prima al figlio Pietro e, una volta morto costui nel 1384 senza eredi, passò quindi alla figlia Maria. Ecco come Maria d’Enghien a soli 17 anni si trovò contessa di Lecce, sotto la tutela del barone di Segine, Giovanni dell’Acaya.

Siamo in un periodo di scismi e di lotte tra papi e antipapi. L’Italia meridionale sotto il regno di Giovanni I fu dilaniata dalla guerra civile, perché i signori feudali di Puglia si divisero a seguire gli uni il papa, gli altri l’antipapa e Luigi I d’Angiò, adottato da Giovanna I, regina di Napoli.

I d’Enghien si schierarono con gli Angioini e quindi il re Luigi I, non appena Maria d’Enghien entrò in possesso del suo vasto feudo, comprendente larga parte del Salento, volle darla in sposa ad un suo nobile e valoroso guerriero, Raimondo Orsini del Balzo, che da poco aveva lasciato il papa ed il suo protetto Carlo III d’Angiò Durazzo ed era passato alla parte angioina di Luigi I.

Le nozze furono celebrate un anno dopo che Maria era diventata contessa di Lecce, non certo gradite ai Leccesi, che anzi inscenarono una sommossa contro Raimondello, sedata, secondo un cronista leccese, soltanto dopo svariati arresti. Seguirono anni di guerra continua tra gli Angioini e i Durazzeschi, durante i quali Raimondo Orsini oscillò tra le due parti, finchè nel 1399 egli non passò apertamente dalla parte di Ladislao Durazzo, succeduto a Carlo III e il giovane re investì l’Orsini del principato di Taranto. Raimondo e Maria d’ Enghien fecero il loro solenne ingresso nella città dei due mari, prendendo pieno possesso di quel principato che spettava loro di diritto per una legittima successione, perché Raimondello era il più diretto discendente di Maria del Balzo, sorella di Giacomo, che era stato l’ultimo principe di Taranto, morto senza eredi.

Il principato di Taranto, al tempo degli Angioini e in parte anche degli Aragonesi, è da considerare quasi “un regno nel regno” (come è stato spesso definito da vari storici), era costituito da un vastissimo territorio che si estendeva dallo Ionio, da Policoro e Matera, sino all’Adriatico con Ostuni e Brindisi e scendendo sino ad Oria, Nardò, Gallipoli, Ugento.

Dopo le nozze di Raimondello Orsini del Balzo e Maria d’Enghien il principato di Taranto si estese ancora di più, comprendendo anche Lecce, di cui, come abbiamo detto, era contessa Maria, oltrechè Soleto e Galatina, già feudi di Raimondello.

Questo “regno nel regno” e i successi politici e militari di Raimondello attirarono su questo principe gli odi di molti baroni ed in particolare dei Sanseverino, potenti signori di tanti feudi e di notevoli città, come Nardò e Conversano.

Anche il re Ladislao d’Angiò Durazzo ad un certo punto non vedeva più di buon grado lo strapotere degli Orsini del Balzo, che addirittura quasi superava il suo potere e le sue rendite. I due principi Maria e Raimondo anzi avevano istituito un vero tribunale feudale che col figlio Giovanni Antonio fu un vero Concistorium principis, perché costui fino alla morte, che avvenne nel 1463, si arrogò il potere di giudice d’appello, che era una prerogativa spettante solo al re.

(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°3

Tutto in una notte. La guglia di Soleto e la carcara ti li tiàuli

 

di Marcello Gaballo

 

La bellissima guglia di Soleto è uno dei capolavori di Terra d’Otranto ed è ben nota a tutti i pugliesi per la sua storia e per la ricca decorazione che offre.

Chiunque arrivi nelle operosa cittadina è accolto dalla maestosità dell’opera quadrangolare e dal fine lavoro di ornato che sembra scatenarsi dal terzo ordine in poi, per quietarsi nel tiburio ottagonale, librandosi nel cielo del Salento attraverso le maioliche policrome del capolino conclusivo. Indescrivibile la sensazione provata quando lo si osservi al tramonto, quando la luce solare radente esalta ogni minimo ricamo lapideo esaltandone la bellezza e l’originalità.

Le singolari bifore, gli intagli e i numerosi arabeschi, le colonne tortili, i numerosissimi mascheroni zoomorfi e antropomorfi, i superbi grifoni, le cornici trilobate, la straordinaria e delicata balaustra  rendono merito all’orgoglio cittadino soletano e alla sua inclusione tra i monumenti nazionali. Spiace, ancora una volta, constatare quanto l’arte meridionale, e salentina in particolare, sia poco considerata e pubblicizzata.

Tralasciamo le vicende architettoniche della chiesa, che fu ultimata nel 1783 dal copertinese Adriano Preite. Questi addossò la semplice facciata alla guglia, tanto da annullare il quasi totale ed emblematico isolamento della torre[1] dopo circa 400 anni dalla sua costruzione.

Gli studi accreditati di M. Cazzato e L. Manni hanno dimostrato che il nucleo originario della nostra guglia fu edificato dal potente conte Raimondello Orsini del Balzo, proseguito e decorato da suo figlio Giovannantonio, conte di Soleto e principe di Taranto, morto nel 1463. Abbandonate dunque tutte le fantasie e improbabili attribuzioni, compresa quella a Matteo Tafuri, celebre alchimista e filosofo, esperto in esoterismo, ed occultismo e per questo ritenuto il mago di Soleto, che però era nato almeno un secolo dopo il documentato 1397, al quale risale la nostra torre.

La spettacolarità della guglia, ma soprattutto le centinaia di figure umane e bestiali scolpite nella tenera pietra leccese, hanno provocato da sempre la fantasia del popolo salentino, che ancora oggi ricorda come la terra di Soleto sia sempre stata “terra di màcari” e di magie. L’aveva realizzata in una sola notte il mago per antonomasia, Matteo Tafuri, con l’aiuto dei diavoli che, sorpresi ancora al lavoro mentre arrivavano le prime luci dell’alba, furono pietrificati ai quattro angoli della guglia.

Del tutto inedita la novità di tale leggenda, come ho potuto scoprire lo scorso anno, intervistando E. F., un anziano di Nardò. Con aria misteriosa e nel contempo colorita mi ha svelato di conoscere il luogo da cui i diavoli avrebbero prelevato le pietre e la calcina per innalzare in quella notte del 1397 lu campanaru ti lu tiàulu a Sulitu.

Il luogo – mi riferisce sempre il signore – è ancora denominato la carcara ti lu tiàulu e si trova nei pressi della località La Strea, sul litorale che congiunge S. Isidoro e Torre Squillace a Porto Cesareo.  La carcara sarebbe una delle fornaci di cottura sparse nel territorio nelle quali si ricavava la calce e il saggio dell’amico Fabrizio Suppressa  è molto esplicativo.

Ho potuto verificare, grazie alla consulenza preziosa di Salvatore e Antonio Muci da Porto Cesareo, che la leggenda tramandata trova degli elementi validi sul territorio. La carcara esisteva realmente nell’entroterra, poco prima dell’ingresso a Porto Cesareo, giungendo da S. Isidoro, a circa trecento metri dal litorale. Poco distante da questa vi era, almeno fino agli anni 70 del secolo scorso, la petra ti lu tiàulu, un enorme macigno collocato su massi e pietrame di diversa misura, simile ad una “grotta”, purtroppo frantumato in occasione delle costruzioni abusive di quegli anni. Dalle testimonianze raccolte si potrebbe ipotizzare l’esistenza in quel luogo di una tomba preistorica a camera singola ovvero un dolmen, sfuggito alle ricerche e ai censimenti salentini di tali costruzioni megalitiche. La celebre petra poteva dunque essere il lastrone orizzontale del dolmen e le altre petre piccinne i lastroni verticali.

Ma l’immaginario collettivo è andato ben oltre, addirittura tramandando che in quel luogo si potessero udire  li catene ti lu tiàulu, dei rumori strani, sibilanti e roboanti, forse collegabili al rumore del vento attraversante antri o forami evidentemente non localizzati.

A poche centinaia di metri da qui, questa volta sulla costa, ancora due toponimi sono ancora noti al popolo Cesarino: lu puestu ti li tiàulu e la punta ti lu tiàulu, entrambi nelle immediate vicinanze di torre Squillace.  Insomma una precisa localizzazione che ci fa interrogare su cosa realmente avesse inciso sulla fantasia popolare, tanto da perpetuarne la leggenda fino ai nostri giorni.

Effettivamente questi luoghi, che per comodità identifichiamo con la località la Strea (derivante da “la strega”?), hanno ospitato un villaggio protostorico, dell’Età del bronzo, e gli scavi del 1969 condotti dalla Sovrintendenza Archeologica di Taranto hanno rinvenuto diversi oggetti, un anello fenicio, iscrizioni graffite in dialetto laconico, statuette votive, ceramiche micenee e bronzi locali. A qualche miglio fu rinvenuta anche una statua egizia del VII/VI sec. a.C. denominata Cinocefalo, oggi conservata nel Museo Archeologico di Taranto. I ritrovamenti hanno altresì dimostrato la protezione di quel luogo con un muro alto circa 2,50 metri, con andamento istmico fatto da massi regolari sovrapposti a secco.

Forse proprio questi massi, probabili avanzi del Limitone dei Greci, e la calcara sarebbero stati il motivo di tanta meraviglia che ha fatto immaginare orde diaboliche intente a trasportare il materiale fino a Soleto, per erigere la sorprendente guglia in quella magica ed indimenticabile notte di oltre seicento anni fa.

 

Bibliografia essenziale

M. Cazzato, Note di archivio. Lavori settecenteschi alla guglia di Soleto, in “Voce del Sud”, 14 maggio 1983.

L. Manni, La guglia di Soleto. Storia e conservazione, Galatina 1994.

M. Montinari, Soleto una città della Greca Salentina, Fasano 1993.

S. Muci, Porto Cesareo nel periodo contemporaneo, Guagnano 2006.

Civitas Neritonensis. La storia di Nardó di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, (a c. di M. Gaballo), Galatina, 2001.

G. Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del limitone dei greci, in “Archeologia Medievale”, XXVII, 2000, 333-355.


[1] Come giustamente mi ha fatto notare l’amico Gino Di Mitri nelle incisioni del Desprez (Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile di Vivant Denon) la guglia è mostrata come addossata non alla chiesa, ma a un portico verosimilmente posto sul lato ovest.


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