Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte terza ed ultima)

 

Le Instructiones di San Carlo Borromeo

 

di Giovanna Falco

Dopo aver identificato in «Frater Iacobus de Leccio»[1] l’abate generale celestino dal 1546 al 1549, il cui mandato è stato caratterizzato dalla necessità di dettare una regola comune ai frati della Congregazione,   sull’onda del vigore richiesto da Trento nelle varie sessioni del Concilio (1545-1563), si è cercato di capire quanto possa aver influenzato la costruzione della chiesa di Santa Croce in Lecce,  seppur successivo all’inizio del cantiere, il De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus nella XXV, il documento redatto nell’ultima sessione del Concilio di Trento del 3 e 4 ottobre del 1563, in cui è stabilito, tra l’altro, che «le immagini del Cristo, della Vergine madre di Dio e di tutti i santi devono essere poste e mantenute soprattutto nelle chiese, e ad esse vanno tributati l’onore e la venerazione dovuti»[2].

 

Ci si è chiesto, dunque se la chiesa di Santa Croce, oltre ad essere considerata la massima espressione del Barocco leccese, possa essere intesa anche come la prima chiesa costruita a Lecce seguendo i dettami della Controriforma, basati sulla necessità di marcare la differenza con le dottrine della Riforma luterana, dato che presenta le simbologie che esaltano la mediazione del Clero, la penitenza, la venerazione per la Madre di Dio e i Santi, non riscontrabili in tale quantità sulle facciate delle chiese leccesi degli ordini religiosi controriformati dei Gesuiti (1575-1577) e Teatini (1591-1639). Questa riflessione scaturisce anche dall’aver confrontato gli elementi costruttivi e iconografici di Santa Croce con le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae stilate da cardinale Carlo Borromeo con l’intenzione di dettare a vescovi e architetti della sua diocesi, quelle norme atte a far risaltare nei luoghi pii la dimensione divina[3].

Dal confronto è risultato che nella chiesa leccese sono presenti moltissimi elementi riconducibili alle disposizioni indicate dal Santo nel Libro I, sia nel prospetto, sia all’interno.

Basilica di Santa Croce a Lecce, particolare del rosone, massimo esempio del barocco leccese.

 

In facciata, la chiesa di Santa Croce presenta:  le tre porte (Cap. VII De ostiis), la cui centrale è introdotta da un portico (Cap. IIII De atrio, porticu et vestibulo) e il rosone (Cap. VIII  De fenestris). Sul prospetto leccese, inoltre, come da disposizione nel Capitolo III, intitolato De paretibu exterioribus et frontespizio, è presente: «a superiori scilicet parte ostii maioris, extrinsecus pingatur aut sculpatur decore religioseque imago beatissimae Mariae Virginis, Iesum filium in complexu habentis; a cuius latere dextero exprimatur effigies sancti sanctaeve, cuius nomine illa ecclesia nuncupatur; a sinistro alia item sancti vel sanctae, cui prae caeteris parochiae illius populus verenationem  tribuit»[4]. Le immagini della Madre di Dio con a destra San Benedetto da Norcia e a sinistra Celestino V (che prendono il posto di quelle del santo titolare della chiesa e di quello più venerato dai parrocchiani) sono riportate, nello stesso ordine del prospetto di Santa Croce, nel frontespizio delle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum pubblicate nel 1627[5].

Scorrendo i vari capitoli delle Instructiones, molteplici rispondenze si riscontrano anche all’interno di della basilica leccese.

Tornando ai giochi di luce in Santa Croce – il motivo che ha reso possibile l’“incontro” con fra Iacopo da Lezze e le sue Le cerimonie dei Monaci Celestini[6] -, come da dettami della Controriforma le chiese dovevano essere inondate di luce per evidenziare la differenza con quelle protestanti.

 

Carlo Borromeo nell’VIII capitolo del Libro I delle Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, intitolato De fenestris, prescrive[7]:

«Si faranno delle finestre laterali nella navata centrale, se l’altezza del tetto lo consente, e nelle navate minori, in numero dispari su entrambi i lati, ordinate al centro di ciascun  intercolumnio, in modo da corrispondersi in linea retta, e non molto distanti dallo zooforo o dall’epistilio del tetto».

In Santa Croce lungo la navata sono presenti tre finestroni per lato in corrispondenza della seconda, terza e quinta cappella, al di sotto di quelli della navata destra si aprono tre rosoni murati.

«Come principale fonte di luce per la chiesa e la cappella maggiore, si aprirà una finestra circolare a mo’ di occhio, proporzionata alla misura della chiesa, sulla facciata, sopra la porta principale e la si ornerà al di fuori secondo la struttura dell’edificio. Anche in corrispondenza delle altre navate ve ne sarà una di forma oblunga, sulla facciata a giudizio dell’architetto».

Sul prospetto di Santa Croce si aprono il rosone centrale e quattro rosoni laterali. In corrispondenza dei due mediani nel transetto sono presenti altri due rosoni.

« Si può ricevere luce, però, per la chiesa e la cappella anche dalla cupola»

Nella tamburo della cupola di Santa Croce si aprono quattro finestroni, alternati a nicchie e alla sommità, al di sotto della lanterna, un’apertura circolare.

«Nella cappella maggiore e in ciascuna delle minori, in rapporto alla loro grandezza e forma, vi saranno finestre su entrambi i lati, per ricevere luce dall’una e dall’altra parte. Se poi non è possibile ricevere luce dai lati e non è sufficiente quella che penetra dalla finestra circolare e dalle altre della facciata né da altre parti, si prenderà luce dalla parete di fondo  della cappella. Si badi tuttavia che le finestre della parete di fondo non occupino nemmeno la più piccola parte dello spazio proprio di un qualsiasi altare; e ancora soprattutto, che non diano direttamente sull’altare addossato alla stessa parete, e non siano nemmeno immediatamente sopra di esso».

Sui muri esterni del transetto di Santa Croce si aprono due finestroni

Sul muro esterno della cappella attualmente dedicata alla Trinità, ubicata a destra dell’altare maggiore, si apre un finestrone.

Il coro polilobato di Santa Croce è formato da cinque nicchie, le tre della parete di fondo presentano sia nel primo, sia nel secondo ordine tre aperture murate provviste di vetri. Nelle due nicchie ai lati del coro a destra sono presenti due finestroni, a sinistra in basso è presente la cornice di una porta murata, mentre in alto la parete non presenta alcuna apertura.

Borromeo aggiunge: «Le finestre si ubicheranno in alto, e in modo tale che chi sta fuori non possa guardare dentro. Tutte le finestre, ovunque siano,  dovranno essere munite, ove possibile d’inferriate cui si aggiunge la struttura in vetro o comunque trasparente, non dipinta in alcuna sua parte se non, al massimo, con l’immagine del Santo cui è dedicata la chiesa o la cappella, perché si riceva maggior luce».

 

Note

[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.

[2]A. Bernareggi (a cura di), Carlo Borromeo – Istruzioni sull’edilizia e la suppellettile ecclesiastica. Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae libri duo, 1577, in storiadimilano.it

[3] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Il contiene analitiche istruzioni su come costruire e arredare gli edifici sacri.  Il testo è diviso in due libri: il primo, dedicato alle regole sulla chiesa in generale, è distribuito in trentatre capitoli – dal I al XXIX dedicati alle chiese, il XXX e XXXI agli oratori e gli ultimi due ai monasteri femminili-, il secondo libro, spartito in due parti, è dedicato alle suppellettili.

[4] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, https://www.memofonte.it

[5] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Roma 1627.

 

[6] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549.

 

[7] A. Bernareggi (a cura di), op. cit. Per facilitare la lettura si è preferito trascrivere la versione tradotta riportata da Adriano Bernareggi.

 

Per la prima parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Per la seconda parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte seconda) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte seconda)

Giulio Cesare Bedeschini,, San Pietro Celestino, 1613, dall’arcivescovato de L’Aquila (da wikipedia)

 

di Giovanna Falco

 

Santa Croce e la Controriforma

Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2],  è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.

Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.

La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563).  Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Le cerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.

Mausoleo di Celestino V

 

La possibilità di  costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Le cerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il  detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].

La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.

 

A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 –  non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Le cerimonie dei Monaci Celestini.

Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio,  rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).

Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver  letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.

 

Note

[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.

[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.

[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima  e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche  sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.

[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono  nel 1574)  cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.

[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.

[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.

[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).

[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590).

[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.

 

Per la prima parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima)

Basilica di Santa Croce a Lecce, particolare del rosone

 

di Giovanna Falco

 

De ceremonijs Ordinis di Iacobus de Leccio

Dopo aver ammirato un raggio di sole entrare dalla cupola e riflettersi sul pavimento della navata centrale di Santa Croce –  la basilica della Congregazione celestina in via Umberto I a Lecce, realizzata tra il 1549 e il 1646 –, mi sono chiesta se l’ubicazione di rosoni e finestre fu progettata in base al movimento del sole nel corso della giornata, per illuminare gli altari nelle ore in cui si svolgevano le solenni cerimonie liturgiche. Ho rintracciato un testo dove sono descritte tutte le funzioni religiose della Congregazione. Non ha risolto i miei dubbi, ma è interessantissimo per la storia di Santa Croce.

 

In un elenco di scrittori celestini redatto da D. Arnoldo Wion[1], ho reperito il «De ceremonijs Ordinis sui, lib. I» scritto da «Frater Iacobus de Leccio»[2], ovvero Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, pubblicate a Bologna nel 1549 – lo stesso anno, ritenuto dagli studiosi, dell’inizio dei lavori della nuova chiesa celestina leccese -, opera di Iacopo Moronessa abate generale della Congregazione celestina nel triennio 1546-1549: un fervente antiluterano e autorevole teologo, che esercitò incarichi importanti all’interno della Congregazione, perlomeno  tra il 1534 e il 1554, così come ho potuto riscontrare consultando successivamente i saggi di Aldo Caputo[3] e Franco Lucio Schiavetto[4].

«Fra Iacopo da Lezze» si autodefinisce: «servo in utile di Gesù Christo, e Minimo di tutti i Celestini, quale con consenso di tutti i Padri dell’ordine ridussi il Capitolo Generale alla terza Domenica poi Pasqua di resurrettione, di, e tempo co(m)modo à tutta la religione, e fù confirmato con breve Apostolico»[5]. La notizia è riportata anche nelle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum stampate nel 1590[6] e nel 1627[7].

Wion scrive: «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus, scriptis De Consolatione Crucis, lib. I. De ceremonijs Ordinis sui, lib. I. De vita S. Caelestini Papae V, lib. I. Martinellum contra Lutheranos, Lib. I. Quae omnia excusa dicuntur, sed ubi, hactenus ignoro,  per edidit, quae non dum impressa sunt.»[8].

Le opere di fra Iacopo sono citate, tra gli altri, da Giulio Cesare Infantino[9] e Luigi Tasselli[10]. La vita di San Celestino papa fu pubblicata assieme a Le Cerimonie dei Monaci Celestini, le altre due furono date alle stampe con il titolo Il modello di Martino Lutero, pubblicato a Venezia nel 1555, e De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, pubblicato a Roma nel 1556. Schiavetto, inoltre, ha individuato in Fra Iacopo l’autore delle Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum pubblicate nel 1534[11].

Tra le opere di Fra Iacopo la più controversa, a causa delle impetuose convinzioni antiluterane, che gli costarono lo scherno di Pietro Paolo Vergerio[12], è Il modello di Martino Lutero, oggetto di molteplici studi, tra cui il saggio di Aldo Caputo[13], dove sono riportate interessanti note biografiche di fra Iacopo. Poco studiata risulta De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, opera da prendere in considerazione dagli studiosi della chiesa di Santa Croce.

 

Dopo il capitolo generale della Congregazione indetto a Napoli il 20 maggio 1547[14], fra Iacopo decise di compilare in lingua volgare Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre per indicare a tutti i frati della Congregazione  una regola comune da seguire, motivandone le ragioni. L’abate generale era consapevole «ch’e da molt’anni  in qua, sì per la povertà de i luoghi , sì anchor per essere diminuito il numero dei monaci, le Cerimonie, che si deono usare circa il colto divino, sono in alcun monastero in tutto abbandonate, in alcuno in parte lasciate, & in alcuno adulterate, in tanto, che quanto monasteri habbiano, tante varie Cerimonie vi sono, considera(n)do anchora i varij abbusi, che sono nei nostri monasteri, circa il cotidiano vivere, à i quali in parte non è stato proveduto dalle sacre  costituzioni»[15]. La sua intenzione era quella di dare «gratia divina, pace vera, e felicità Celeste à tutti i direttissimi suoi fratelli, e figliuoli, monaci della istessa Congregatione»[16].

L’opera è un vero e proprio manuale: si compone di un’epistola «à i Padri dell’ordine di molta utilità, nella qual introduce, essorta, persuade, e co(m)manda abbracciare, et osservare tutto quello si contiene in detta operina ad honore d’Iddio, e della religione, di tutti loro»[17]; quarantadue capitoli dov’è dettagliatamente indicato il comportamento cui si dovevano attenere i frati, sia nell’ambito della vita monastica, sia in chiesa durante lo svolgimento delle cerimonie quotidiane e solenni; la trascrizione in latino del verbale del capitolo generale del maggio 1547; il «Della vita, e morte, canonizatione, traslazione all’Aquila, & apparizione in breve ridutta del nostro Beatissimo Padre san Pietro Celestino»; l’elenco «De i nomi, e numero delle Provincie, e dei Monasteri della nostra religione» e «Il Catalogo degli Abati che sono stati nella nostra religione cominciando da Celestino Quinto nostro padre, sin’ all’Autore della operina Maestro Iacopo Aletino».

L’illustrazione presente nel frontespizio di Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, potrebbe rappresentare il monito ai frati di non cadere nei peccati della carne. È riconducibile alla sirena bicaudata, l’elemento iconografico presente in Santa Croce a Lecce e scolpita più volte sul mausoleo funebre di Celestino V nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio a l’Aquila, realizzato nel 1517 da  Girolamo Pittoni (1490-1568).

Ai fini della storia della comunità leccese, è interessante notare che in Le cerimonie dei Monaci Celestini,  «Il monastero di Santa Croce di Lezze» è il primo nell’elenco della «Provincia di Terraotranto»[18].

Nelle  Constitutiones pubblicate nel 1590, il «Monasteriu(m) S. Crucis de Litio» è elencato come ventunesimo priorato della Congregazione celestina, quando versava la «taxa verò pro Reverendissimo Domino Abbate à Monasyerijs exigenda est ista»[19] di 20 tarì – stessa cifra già riportata in Le cerimonie -, risultante la somma più alta dopo quella dei monasteri di Santa Caterina di Terranova (26 tarì) in Calabria e di San Nicolò di Bergamo (22 tarì).

Dal confronto tra l’elenco degli abati generali di Le cerimonie e quello delle Constitutiones, si può risalire sia ai nomi di chi governava la Congregazione celestina nelle fasi cruciali della storia del monastero di Santa Croce[20], sia a quelli degli abati generali di origine leccese, citati anche da Giulio Cesare Infantino: frate Antonio d’Afflitto, eletto nel 1441 (ai tempi di Maria d’Enghien), maestro Stefano da Lecce, eletto nel 1474 e nel 1480, e maestro Raimondo da Lecce, eletto nel 1492, 1498 e 1510[21].

(continua)

 

Note

[1] Cfr. D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595.

[2] Ivi, p. 99.

[3] Cfr. A. Caputo, Un antiluterano leccese. L’abate generale Celestino Iacopo Maronessa, in L’Idomeneo, n. 24, pp. 139-158, Lecce  2017.

[4] Cfr. F.L. Schiavetto, Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, in L. Gatto – E. Plebani (a cura di), Celestino V. Cultura e società,  Università La Sapienza, 2007, pp. 109-117. Sono di fondamentale importanza i rimandi dell’autore ad altri studi sulla Congregazione celestina.

[5]  I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549, c. 131r.

[6] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590, p 339.

[7] Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Roma 1627, p. 8.

[8] D. A. Wion, Lignum Vitae… cit., p. 99.

[9] Cfr. Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, p. 121.

[10] Cfr. L. Tasselli, Antichità di Leuca, Lecce 1693, p. 52 32.

[11] Cfr. F.L. Schiavetto, Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum cit.

[12] P.P. Vergerio, Vide Quid Papatus Sentiat De Illustrissimis Germaniae Principibus, ac de liberis Civitatibus quae Evangelio nomen dederunt, 1556.

[13] Cfr. A. Caputo, Un antiluterano leccese. L’abate generale Celestino Iacopo Maronessa, cit.

[14] Tra i priori provinciali convocati erano presenti «f. Iulius Alethinus prior provincialis terrae labris» e «f. Aloisius Alethinus prior provincialis piscarie» (I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini…,, c.111r).

[15] Ivi, c. 9r.

[16] Ivi, carta non numerata.

[17] Ivi, c. 132r.

[18] In Le cerimonie La Congregazione celestina, oltre a 12 monasteri autonomi, era suddivisa in 14 provincie: Terra di Lavoro composta da 16 insediamenti, Puglia composta da 9 insediamenti, Campagna di Roma composta da 7 insediamenti, Romagna composta da 11 insediamenti, Umbria composta da 2 insediamenti, Lombardia composta da 9 insediamenti, Terraotranto composta da 7 insediamenti, Molisio composta da 9 insediamenti, Pischaria composta da 7 insediamenti, Principato composta da 5 insediamenti, Calabria composta da 2 insediamenti, Toscana composta da 2 insediamenti, Francia composta da 19 insediamenti, Alemagna composta da 2 insediamenti, per un totale di 100 insediamenti in territorio italiano, 19 in Francia e 2 in Germania (i due insediamenti tedeschi erano già stati soppressi nel 1590). La Provincia di Puglia è la seconda con 9 insediamenti – San Bartolomeo di Lucera, San Pietro di Manfredonia, San Benedetto di Monte Sant’Angelo, San Pietro di Vesti, Trinità di Barletta, Santo Eligio di Barletta, Trinità di Molfetta, San Pietro di Bari, San Pietro della Rizza (dal 1590 di pertinenza di Santo Eusebio di Roma) -, quella di Terra d’Otranto la settima con 7 insediamenti – Santa Croce di Lecce, San Giovanni Battista di Oria, San Bartolomeo di Mesagne, Sant’Arcangelo di Brindisi, Sant’Angelo di Alessano, San Pietro di Ugento, Santa Maria dei Martiri di Taranto.

[19] Constitutiones monacorum… cit. p 205. All’epoca, oltre l’abazia di San Pietro di Sulmona, da cui dipendevano 4 insediamenti (tra cui il vicariato di S. Petri de Archis), la Congregazione sul territorio italiano era suddivisa in 37 monasteri, di cui 35 priorati,  e 61 vicariati, per un totale di 115 insediamenti. Riguardo gli insediamenti ricadenti nelle provincie di Terra d’Otranto e Puglia in Le cerimonie, erano suddivisi nei priorati di: San Bartolomeo di Lucera; Santa Croce di Lecce; S. Giovanni Battista di Oria, da cui dipendevano i vicariati di S. Pietro di Bari  e della Trinità di Molfetta; Santa Maria dei Martiri di Taranto, da cui dipendevano i vicariati di S. Bartolomeo di Mesagne, Sant’Arcangelo di Brindisi, Sant’Angelo di Alessano e San Pietro di Ugento; SS. Trinità di Barletta, da cui dipendevano i vicariati di S. Eligio di Barletta, S. Pietro di Limosano e S. Pietro di Petrella (quest’ultime due in Le cerimonie ricadevano nella provincia di Molisio); S. Benedetto di Monte S. Angelo, da cui dipendevano i vicariati di S. Pietro di Vesti e S. Pietro di Manfredonia.

[20] Infantino, in base alle carte consultate nell’archivio del monastero, cita ai tempi della fondazione «D. Matteo Abbate Generale» (G.C. Infantino, op.cit,, p. 117), ma le fonti celestine consultate riportano eletto nel 1350 frate Giovanni della Torre. Le sole Constitutiones del 1627, citano frate Giacomo da Eboli eletto nel 1353.

[21]Infantino riporta i nomi dei tre abati generali leccesi con le stesse date di elezione, definendo d’Afflitto e P. Stefano teologi e «P.D. Raimondo Petrello Teologo, e Predicatore famosissimo», tralasciandone, però, l’elezione del 1510 (G.C. Infantino, op.cit,, p. 117).

I coniugi Peruzzi, benefattori dello Spedale degli Innocenti a Firenze e fondatori del convento dei Minimi in Lecce

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli

 

di Giovanna Falco

Si aprono nuove prospettive di ricerca sulla storia della chiesa di Santa Maria degli Angeli e del convento di San Michele Arcangelo dei Minimi di San Francesco di Paola, ubicato in piazza dei Peruzzi a Lecce: i fondatori Giovannella e Bindaccio di Bernardo di Bindaccio Peruzzi[1] furono anche benefattori dello Spedale degli Innocenti di Firenze, dove i loro ritratti sono conservati insieme con quelli di altre personalità dell’Istituto fiorentino.

Tutte le fonti che trattano della fondazione del complesso conventuale dei Minimi in Lecce[2], seppur contraddittorie sulle date, concordano nell’attribuirla a Giovannella Maremonte, vedova di Bindaccio Peruzzi, morto il 14 luglio 1502[3].

La vedova Peruzzi su disposizione testamentaria del marito, volle far realizzare in un giardino fuori porta San Giusto un oratorio e chiesa. Il 14 maggio 1524 il notaio Sebastiano de Carolis di Firenze rogò l’atto di fondazione del convento dei Minimi di San Francesco di Paola, alla presenza del provinciale genovese dell’Ordine e di Giovannella[4].

Con testamento del 13 marzo del 1527, rogato a Firenze dal notaio Paolo Antonio de Rovariis[5], la Peruzzi donò altri beni per l’erigendo convento.

Purtroppo i documenti originari sono stati dispersi, così come i riassunti degli atti del 1524 e del 1527, eseguiti nel 1766 dal notaio Lorenzo Carlino[6].

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, portale di ingresso

 

Il giardino dov’è sorto il complesso conventuale dei Minimi, era conosciuto dai leccesi come Panduccio, distorsione dialettale del nome del proprietario, la cui presenza a Lecce è attestata negli anni Settanta del Quattrocento[7]. Ritornato a Firenze, Bindaccio Peruzzi ricoprì ruoli rappresentativi per l’Arte dei Mercanti[8], di cui nell’aprile del 1502 era ancora membro del consiglio, seppur assente[9]. Tre mesi dopo donò parte dei suoi beni allo Spedale degli Innocenti di Firenze, così com’è riportato nella targa del ritratto che lo commemora (www.catalogo.beniculturali.it › sigecSSU_FE › schedaCompleta.action): «Bindaccio Peruzzi priore del comune nel MCCCCXCV largi’ con testamento de’ X luglio MDII parte de’ suoi averi a questo brefotrofio e l’esempio del misericordioso consorte fu seguitato dalla moglie»[10] .

Stemma dei Peruzzi

 

Grazie alla consultazione delle carte d’archivio dell’Ospedale degli Innocenti, Luigi Passerini e Alessandra Mazzanti e Vincenzo Rizzo, individuano la vedova di Bindaccio in Giovannella Peruzzi, il cui ritratto nel Settecento era esposto nel guardaroba dell’Istituto[11]. La vedova Peruzzi figlia «di Niccolò De Noe»[12], proveniente dalla «Basilicata nel Regno di Napoli»[13], morta nel 1527[14].

Le date coincidono, ma Giovannella Peruzzi, nei documenti dell’archivio dell’Istituto fiorentino risulta essere un’esponente di casa de Noha, e non di casa Maremonte.

Stemma dei Maramonte

 

La diversa interpretazione del cognome della fondatrice nei documenti conservati presso il convento leccese è indirettamente chiarita da Michele Paone, quando scrive che nel 1524: «in Firenze la vedova di Bindaccio Bernardo Peruzzi, Giovannella, orfana di Nicola Gionata e Margherita Maremonte, donò ai minimi di S. Francesco di Paola la chiesa di S. Maria degli Angeli»[15]. La provenienza dalla Basilicata del padre di Giovannella, Nicola de Noha, è attestata (salvo che non si tratti di un caso di omonimia) da Giustiniani: nel 1457 re Alfonso diede Latronico «per ducati 600 a Cola de Ionata de Noha»[16]. Conferma la distorta lettura dell’atto del 1524, il nome del notaio fiorentino tramandato in maniera errata: si è individuato, infatti, Sebastiano de Carolis, in Bastiano di Carlo da Fiorenzuola, i cui atti, anche quelli del 1524, sono conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze, dove non è reperibile l’annata 1527 di Paolo Antonio Rovai, il notaio che ha redatto il testamento della vedova Peruzzi[17].

Lecce, chiesa di S. Maria degli Angeli, particolare dell’ingresso

 

Alla luce di questa identificazione, sono tanti gli elementi da riprendere in considerazione, per aggiungere nuovi capitoli alle vicende del complesso monastico. Riguardo al campo prettamente artistico, non è da escludere la provenienza diretta dei disegni per realizzare la chiesa commissionata dalla Peruzzi, dalla Firenze dei grandi artisti rinascimentali, poiché i lasciti per entrambe le istituzioni denotano l’appartenenza della coppia all’elite fiorentina. Seppur di fattura locale e successiva, è evidente, ad esempio, il richiamo iconografico della lunetta della chiesa leccese alle opere di Andrea Della Robbia.

Andrea della Robbia, Madonna con Bambino e Angeli (1504-1505), cattedrale di San Zeno, Pistoia (dal sito Tuscany sweet Life)

 

Andrea della Robbia Madonna con Bambino e angeli (1508 ca. – 1509 ca.), Museo Civico di Viterbo, prima chiesa di San Giovanni dei Fiorentini Viterbo (dal sito della Fondazione Federico Zeri, Università di Bologna)

 

Un’attenta analisi delle fonti minime, contestualizzata con le vicende storiche di Puglia e Firenze, inoltre, potrebbe determinare il perché la scelta dei fondatori ricadde su quest’Ordine. Lo studio delle vicissitudini delle famiglie dei fondatori e delle fasi costruttive del complesso monastico, potrebbero individuare l’epoca e il perché la famiglia Maremonte passò alla storia come fondatrice della chiesa di Santa Maria degli Angeli, il cui stemma è presente in facciata assieme a quello di Bindaccio Peruzzi.

 

Note

[1] Cfr. F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819 p. LXXXII.

[2] Cfr. L. Montoya, Coronica general de la Orden de los Minimos de S. Francisco de Paula su fundador, lib. I, Madrid 1619, p. 87; G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 93-94; F. Lavnovius, Chronicon generale ordinis Minorum, 1635, p. 193; R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi nel manoscritto Historialia monumenta chronotopographica provinciae Apuliae del p. Antonio Serio: (metà sec. XVIII), Roma 2005, pp. 35-40; F.A. Piccinni, Principiano le notizie di Lecce, in A. Laporta (a cura di) Cronache di Lecce, Lecce 1991, pp. 15, 224-226; A. Foscarini, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, pp. 126-130; G. Paladini, Note storico-artistiche, in L’Ordine: corriere salentino, 6 luglio 1934 , a 29, fasc. 27 (www.internetculturale.it); G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce. Curiosità e documenti di toponomastica locale, Lecce 1952, pp. 212-224; L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 114-118; O. Colangeli. S. Maria degli Angeli. S. Francesco di Paola, L’ex convento dei Minimi francescani, Galatina 1977; M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, pp. 317-319.

[3] Cfr. A. Foscarini, Op. cit., p. 126; O. Colangeli. Op. cit., p. 5.

[4] Il Provinciale genovese, sostituiva padre il generale dell’Ordine, Marziale de Vicinis, assente. Padre Antonio Serio lo individua in Michele de Comte, Francesco Antonio Piccini, invece, in Antonello de Vicinis. Il Chronicon conferma quanto asserito da Serio (cfr. F. Lavnovius, op. cit., pp. 190-191). Da Piccinni in poi la data riportata è il 10 maggio 1524 (cfr. G. Paladini, Guida storica ed artistica della città di Lecce, cit; L. G. De Simone, op. cit; O. Colangeli. Op. cit).

[5] Cfr. R. Quaranta, Storia della provincia pugliese dei Minimi, cit, p. 36. De Simone e Paone datano l’atto al 1524, attribuendolo al notaio Antonio de Boccariis.

[6] Cfr. F.A. Piccinni, op. cit.

[7] Cfr. C. Massaro, Territorio, società e potere, in B. Vetere (a cura di), Storia di Lecce. Dai Bizantini agli Aragonesi, Bari 1993, pp. 315-316; Ministero dell’Interno. Pubblicazioni degli Archivi di Stato, XVIII, Archivio di Stato di Firenze. Archivio Mediceo avanti il Principato. Inventario, volume secondo, pp. 35, 212, 361; F. Carabellese, Bilancio di un’accomandita di casa Medici in Puglia del 1477 e relazioni commerciali fra la Puglia e Firenze, in Archivio storico pugliese 1896 a. 3, fasci 1-2, vol. 2, pp. 77-104.

[8] Nel 1496 è mastro di zecca per l’oro (Cfr. P. Argelatus, De Monetis Italiae vario rum illustrium virorum Dissertationes. Parte Quarta, Milano 1752; I. Orsini, Storia delle monete della Repubblica Fiorentina, Firenze 1760, pp. 191 e 272).

[9] Cfr. G. Milanesi, Delle statue fatte da Andrea Sansovino e da Gio. Francesco Rustici sopra le porte di S. Giovanni di Firenze (1) 1502-1524, in G. Milanesi, Sulla storia dell’arte toscana scritti varj di Gaetano Milanesi, Siena 1873, pp. 247-261, p. 247, pp. 250-52. La targa è stata trascritta anche in G.B. Niccolini, Iscrizioni per i ritratti de’ benefattori del R. Spedale degli Innocenti di Firenze, in C. Gargiolli (a cura di), Opere edite e inedite di G.B. Niccolini, Tomo VII, Milano 1870, p. 728.

[10] Fu priore del quartiere San Giovanni nel bimestre Settembre – Ottobre 1495 (Cfr. I. di San Luigi, Istorie di Giovanni Cambi cttadino fiorentino pubblicate, e di annotazioni, e di antichi munimenti accresciute, ed illustrate da Fr. Ildefonso di San Luigi carmelitano scalzo della provincia di Toscana Accademico Fiorentino, volume secondo, Firenze 1785; F. Bruni, Storia dell’ I. e R. Ospedale di S. Maria degl’Innocenti di Firenze e di molti altri pii stabilimenti, Volume I, Firenze 1819, p. LXXXII). Nel 1759 il ritratto di Bindaccio era esposto nell’Istituto: «Dalla Chiesa per la Porta a manritta si passa nel primo Cortile, intorno intorno ornato di Colonne Corintie di pietra serena, co i Ritratti de i più insigni Benefattori alle Lunette» (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine. Divise nei suoi quattro Quartieri, Tomo ottavo, Firenze 1759, p. 129). Nel 1845 i ritratti di Bindaccio e Giovannella, dispersi o deteriorati, furono ridipinti gratuitamente rispettivamente da Giuseppe Marini e Carlo Falcini, per volontà del commissario dell’epoca cavalier Michelagnoli (Cfr. O. Andreucci, Il fiorentino istruito della chiesa della Nunziata di Firenze, Firenze 1857, pp. 175 e 275). Attualmente sono conservati presso il deposito dell’Istituto.

 

[11] Cfr. G. Richa, op. cit., p. 396. La scheda del ritratto è consultabile a questo link: https://www.beni-culturali.eu › opere_d_arte › scheda ›

[12] L. Passerini, Storia degli stabilimenti di beneficenza e d’istruzione elementare gratuita della città di Firenze, Firenze 1858, p. 946.

[13] A. Mazzanti, V. Rizzo, Memorie dell’organo di Santo Stefano a Campi: un priore, tre famiglie di artisti e di artigiani, Opus libri, 1992, p. 31.

[14] Cfr. U. Cherici, Guida storico artistica del R. Spedale di S. Maria degli Innocenti di Firenze, Firenze 1926, p. 52.

[15] M. Paone, Chiese di Lecce, vol. I, Galatina 1981, p. 317.

[16] L. Giustiniani, Dizionario Geografico – Ragionato del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1802, p. 223.

[17] Cfr. Archivio di Stato di Firenze. Notarile antecosimiano. Inventario sommario. Trascrizione su database informatico degli inventari N/272-275 a cura di Eva Masini (2015).

Il Museo Faggiano di Lecce in prima pagina sul New York Times

museo-faggiano

di Gianni Ferraris

Toh il caso. Vuoi mai che arrivi a Lecce un giornalista americano e si faccia un giretto nel centro storico?  Non è che ci sia passato per caso, a Lecce occorre volerci venire, il finibus terrae è questo, un luogo dove non si passa di sfuggita. Da Brindisi si può prendere l’aereo o il traghetto per andare altrove, poi c’è il Salento leccese e la fine dell’Italia intera. Lecce e i suoi paesi ti accolgono con le loro chiese barocche, i palazzi baronali, tutti luoghi dignitosamente pieni di storia e storie da raccontare. Spesso palazzi antichi hanno  mura sbrecciate o infissi pericolanti, ma mostrano una dignità e fierezza che raccontano fasti passati.  Forse anche da qui, dalla consapevolezza di vedere arrivare solo chi sceglie di farlo, l’accoglienza leccese, il benvenuto che abbraccia lo straniero.

Quindi il giornalista non era qui per caso, forse si aggirava nelle “giravolte” perdendosi, guardava i palazzi del centro storico leccese, fotografava, si scansava per evitare il traffico caotico delle viuzze e si faceva uno slalom fra le auto parcheggiate in Piazza Castromediano e nella prima parte di Piazza Sant’Oronzo, girava e rigirava per quei vicoletti pieni di vita, negozi di souvenir, pub, ristoranti, ancora auto parcheggiate, e arrivava, forse per caso, in un museo non/museo. Una casa privata che il proprietario voleva ristrutturare per farne forse una trattoria, ma che si è scoperta miniera del passato remoto leccese. Il Museo Faggiano, di cui ampiamente e bene disse Giovanna Falco in queste pagine nella sua veste di ricercatrice attenta e precisa, si trova in Via Ascanio Grandi, 56  ed è tenuto aperto dalla famiglia Faggiano. Vale la pena vederlo, chiamarlo museo forse può parere accessivo, è “solo” una casa che racconta storie antiche e meno vecchie, sovrapposizione di strati di epoche passate, come tutto il centro storico leccese si dimostra ad ogni incursione nelle sue viscere.  Il Faggiano, come dice il giornalista: “…Trovò un mondo sotterraneo risalente a prima della nascita di Gesù: una tomba messapica, un granaio romano, una cappella francescana e anche incisioni dal Cavalieri Templari…” recuperò il recuperabile e la casa divenne museo.

Interessante a questo punto è vedere come il proprietario, snobbato o guardato, se non con sospetto, quanto meno con sussiegoso distacco da molti leccesi, diventi uomo da prima pagina del New York Times e come la sua storia venga ripresa dalle TV di tutto il mondo, oltre che da migliaia di “mi piace” sulle pagine facebook, facendone, per un giorno almeno, il personaggio forse più nominato al mondo.

L’interesse di quel giornalista americano potrebbe parlare, chissà se ascoltato, ai nervi scoperti delle amministrazioni locali, quelli dell’incuria, di un centro storico senza uno straccio di piano viabilità, quelli dell’ex caserma Massa sacrificata a divenire parcheggio sopra la sua antica chiesa, il suo convento, il suo cimitero.

Ci fu un notissimo ex ministro della Repubblica italiana che disse “la cultura non si mangia”. Per chi ama il conoscere, l’affermazione equivale a dire “l’aspirina fa bene ma costa e non fa ingrassare, quindi lo Stato non la passa”.  Ora, a prescindere dal fatto che la cultura è in sé un valore e che per lei si deve anche stanziare denaro, rimane evidente come questo giornalista dimostri quanto torto aveva quell’ex ministro, basta vedere la risonanza che ha avuto il suo pezzo nel mondo intero, e la ricaduta di turisti sarà inevitabile.

Ora la domanda è sempre quella: rende più dignitosa la città di Lecce un parcheggio sull’ex Massa o la rivalutazione di quello che si è scoperto scavando per farlo?

In questi giorni vediamo sciami di turisti girovagare per la città e vediamo l’ovale di Piazza Sant’Oronzo offrire loro pagodine che vendono “coglioni di mulo” e “palle del nonno”. Dignità, perbacco, il Santo guarda dalla colonna e forse si inalbera. L’idea di museo diffuso proprio non ha sede in questi vicoli?

Trasformare una casa in museo è emblema di come uno sforzo anche minimo (di un privato ovviamente) può rendere grande, immensa una città che di suo è già immensa e grande. E forse proprio questa grandezza è una parte del problema, avere tutto questo patrimonio en plein air induce a darlo per scontato, valorizzare ed offrire ad un turismo attento tutto questo nel modo migliore, invece, potrebbe essere il valore aggiunto.  Fare del centro storico patrimonio veramente comune, un salotto, non potrebbe essere un nuovo modo di concepire non solo il turismo, ma la vita stessa dei cittadini leccesi? Forse, chissà, con più attenzione collettiva forse anche gli imbecilli che scrivono sui muri antichi frasi senza senso starebbero più attenti. Mentre il museo Faggiano tornava a nuova vita, il teatro Apollo, dopo anni di impalcature che lo ricoprivano completamente, è stata semicoperto da una palizzata con bei disegni, certo, pur sempre un teatro rigorosamente con lavori in corso. E Santa Croce, dopo anni di lavori dichiarati finiti, è stata frettolosamente ricoperta di nuove impalcature per finire i lavori “finiti”.

Ben sappiamo il mantra che recitano gli amministratori:  “mancano i soldi”,  “i governi nazionali tagliano i fondi”. E’ talmente infinita questa litania che ormai sembra far parte del gossip istituzionale.

Comunque oggi Lecce ha l’onore di essere un poco più conosciuta a livello internazionale. Grazie al Sig. Faggiano questa volta.

Una nota di colore, pare che i salentini leggano molto il New York Times. Il Faggiano dopo l’articolo ha avuto un’impennata di visite di cittadini leccesi. Ad averlo saputo  prima andava a finire che con la giusta campagna stampa votavano  anche da New York per Lecce Capitale di cultura!

 

Alcuni interventi su internet dopo l’uscita dell’articolo su NY Times:

http://www.artribune.com/2015/04/finisce-sul-new-york-times-il-museo-archeologico-di-lecce-che-doveva-essere-una-trattoria-il-proprietario-aggiustava-dei-tubi-emersero-resti-di-valore/

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-aa96fce3-4278-43c1-9a6d-aa63335075bf-tg1.html

http://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/chi-trova-fogna-trova-tesoro-finisce-nytimes-trattoria-98749.htm

http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Dagli-scavi-per-la-trattoria-al-tesoro-archeologico-La-storia-del-Museo-Faggiano-sul-New-York-Times-9a3ba256-a4f7-4b8c-a08d-8a2790f3e786.html

http://www.ancient-origins.net/news-history-archaeology/man-intent-fixing-toilet-uncovers-centuries-old-subterranean-world-020299#ixzz3YPkAHrNj

http://www.mirror.co.uk/usvsth3m/man-digs-hole-fix-toilet-5524122

http://www.quotidianodipuglia.it/cultura/il_museo_faggiano_di_lecce_finisce_sul_new_york_times/notizie/1299483.shtml

http://www.pugliareporter.com/lecce-museo-faggiano-sulla-prima-pagina-del-the-new-york-times/

http://www.bbc.co.uk/mundo/noticias/2015/04/150415_sociedad_historia_lecce_museo_faggiano_amv

http://www.nytimes.com/2015/04/15/world/europe/centuries-of-italian-history-are-unearthed-in-quest-to-fix-toilet.html?_r=0

http://www.ilgiornaledellarte.com/articoli/2015/4/123932.html

Riflessioni sulle reliquie della passione di Cristo della chiesa di Santa Maria del Tempio in Lecce

di Giovanna Falco

 

In occasione della Settimana Santa 2012 su Spigolature Salentine è stato pubblicato l’articolo Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie[1], dove elencando i frammenti sacri attestati nel 1634 da Giulio Cesare Infantino nelle chiese leccesi, si citano anche quelli conservati nella chiesa di Santa Maria del Tempio[2].

Approfondito l’argomento, è stato possibile apprendere ulteriori notizie inerenti reliquie e reliquiari custoditi, forse sino ad una delle soppressioni ottocentesche, nella sagrestia della chiesa dei padri Riformati, e mettere a confronto le testimonianze tra loro discordanti a causa della natura delle fonti: relazioni francescane e descrizioni che, pur se scritte da testimoni oculari, non possono essere considerate attendibili in mancanza di documenti che ne attestano la veridicità.

Infantino cita  «Il Santissimo Chiodo del Signore. Una Spina della Corona di Christo. Due pezzotti del legno della Santa Croce»[3]. Nel Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò la relazione di padre Gonzaga del 1646 riporta le «una Spina ed un Chiodo di Nostro Signore»[4], così come padre Giovan Battista Moles da Turi nel 1664: «una Spina Coronae Christi Domini Salvatoris nostri, unusque Clavus»[5]. L’abate Giovan Battista Pacichelli del 1686 enumera oltre al Chiodo «una spina insanguinata del Signore, un pezzo del Santo Legno della Croce»[6]. Negli anni Venti del Settecento, infine, padre Bonaventura da Lama elenca: «due spine della corona di Cristo Signore nostro, ed uno de’ chiodi che lo trafissero» e «una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore»[7].

Dal confronto si nota come tutte le fonti concordano sulla presenza del Chiodo, ma non c’è corrispondenza sul numero delle Spine (padre da Lama a differenza degli altri ne cita due), né sul legno della Croce. Le relazioni seicentesche del Chartularium, pur se successive alla Lecce sacra,non menzionano questa reliquia. Infantino, inoltre, fa riferimento a «Due pezzotti del legno della Santa Croce», ma solo «un pezzo» è menzionato da Pacichelli. Queste due ultime testimonianze differiscono da quella di padre Bonaventura da Lama:

«Essendo poi morto in questo Convento il Padre Antonio da Castellaneta Predicatore dei Riformati, l’anno 1675, lasciò una piccola Croce, tutta di legno della Croce di Nostro Signore, datali da un Paesano, qual diceva con fede giurata, che soleva tenerla in petto Urbano VIII»[8].

Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg
Ritratto di Urbano VIII di Bernini (1632), tratto da commons.wikimedia.org
http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bernini-Urban8.jpg

A differenza dell’abate Pacichelli, che riferisce quanto gli fu raccontato durante la sua visita al convento, cioè che la reliquia era stata donata ad un frate «dalla Principessa Donna Olimpia Panfili»[9], padre da Lama cita “una fede giurata” probabilmente conservata nell’archivio francescano.

È stato possibile appurare che dal 1635 al 1645 fu vescovo di Castellaneta Ascenzio Guerrieri, già «Cappellano Segreto d’Urbano VIII»[10], canonico della basilica di Santa Maria in Cosmedin e precettore del cardinal nepote Francesco Barberini[11]. Dato che si è a conoscenza di almeno un altro manufatto simile a quello leccese,  «due particelle del Sacro Legno della Santa Croce di Nostro Signore Gesù Cristo adattate in forma di croce»[12] donate da Urbano VIII (1623-1644) a Barberini, non è del tutto inverosimile supporre che il vescovo di Castellaneta abbia posseduto la reliquia pervenuta successivamente alla chiesa di Santa Maria del Tempio.

Nel 1629 il papa trasferì nella basilica di San Pietro alcuni frammenti della Croce, ribadendone il valore cultuale con la bolla del 9 aprile Ex omnibus Sacris Reliquiis:

«Urbano, estraendo da una Croce del Santo Legno della Croce, che si conserva nella chiesa di s. Ananstasia, e da un’altra parimente conservata nella Chiesa di s. Croce in Gerusalemme, alcune particelle, le fece includere in una Croce di argento, di preziose pietre ornata, e di questa fece un dono alla Basilica Vaticana, ordinando che fosse collocata fra le Reliquie maggiori, e mostrata ne’ consueti giorni al popolo, dopo la Sagra Lancia, e prima della Sagra Veronica, con Indulgenza plenaria ogni volta, che si mostrassero queste tre sacrissime Reliquie»[13].

La reliquia di Santa Maria del Tempio, dunque, potrebbe essere uno dei frammenti della Sacra Croce portati, secondo la tradizione, da san Girolamo e sant’Elena a Roma e custoditi, rispettivamente, nella basiliche di Sant’Anastasia e di Santa Croce in Gerusalemme. Accurate ricerche potrebbero confermare o smentire questa ipotesi.

Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org
Interno basilica Santa Croce in Gerusalemme in Roma, tratto da commons.wikimedia.org

In qualche modo la storia della chiesa di San Giovanni in Gerusalemme si era già intrecciata con quella di Santa Maria del Tempio anche attraverso le vicende del Chiodo: Raimondello Orsini del Balzo, cui padre da Lama attribuisce la donazione della sacra reliquia, intorno al 1386 commissionò per la basilica romana il trittico reliquiario detto altare di San Gregorio[14].

Il Chiodo «assai grosso con la punta tagliata»[15] ove «si vedono stille di sangue»[16], all’epoca di Infantino era riposto «in un bel vaso d’oro, fatto da una collana d’oro offerta à quest’effetto dal Principe di Taranto la prima volta, che adorò questa Santa Reliquia»[17]. Data l’epoca di fondazione del convento (1432), nel 2012 si è attribuito l’atto di devozione a Giovanni Antonio Orsini del Balzo. Nel 1664 padre Moles scrive «Clavus repositus ab Excellentissimo Domino Joanne Antonio Baucio Ursino Comite Lytij ut supra»[18], perché gli assegna erroneamente anche la fondazione di Santa Caterina in Galatina[19]. Senza alcun dubbio Bonaventura da Lama reputa che il Chiodo fu donato con «la Pace, che teneva seco il Conte di Lecce, Raimondo»[20], morto nel 1407.

National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org http://commons.wikimedia.org/wiki/File:National_gallery_in_washington_d.c.,_gian_lorenzo_bernini,_monsignor_francesco_barberini,_1623_circa.JPG
National gallery in Washington d.c., Gian Lorenzo Bernini, monsignor Francesco Barberini, 1623 circa, tratto da commons.wikimedia.org

Non è dato sapere se l’atto di devozione sia da attribuire a Raimondello o ai suoi eredi, sta di fatto che, attenendosi a quanto tramandato dalle fonti, ci si chiede perché una reliquia reputata così importante sia stata offerta alla Madonna del Tempio e non alla basilica di Santa Caterina in Galatina fondata da Raimondello e dotata dagli Orsini del Balzo di numerosissimi frammenti sacri, tra cui una Spina, una scheggia della colonna della flagellazione e un’altra fede appartenuta a Raimondello[21], né alle leccesi chiese di Santa Croce (dove fu sepolta Maria d’Enghien) o di San Giacomo nel Parco (fondata da Raimondello)[22]. Forse la famiglia nutriva una particolare venerazione per una immagine miracolosa della Madonna del Tempio, attribuita nel 1647 da padre Diego Tafuro da Lequile a San Luca[23], conservata in «un’antichissima Cappella che per antica tradizione si dice esse stata de’ Principi di Taranto»[24], ricadente nei giardini del convento di Santa Maria del Tempio.

Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org
Blasone Orsini del Balzo, tratto da commons.wikimedia.org

I leccesi nutrivano una forte venerazione per la reliquia, perché «per quem Clavum Cives Lytientium multa, et continua beneficie recipiunt»[25] e il «Venerdì Santo la sera, concorre tutta la Città, a baciare il Santo Chiodo, ed insieme la Croce, e le Spine, tutte quel giorno rubiconde»[26], riposte dopo il 1634 in un unico reliquiario d’argento, una croce scrive Pacichelli, un’Ostensorio secondo padre da Lama, che aggiunge:

«Nel Chiodo anche si vedono stille di sangue, né mai l’acqua toccata dal Chiodo per bisogno d’Infermi, che la chiedono con divozione, ha potuto per lo spazio di tanti anni cancellare, o generare, com’è solito del ferro, la ruggine»[27].

L’usanza di immergere nell’acqua il sacro Chiodo «per divozion de gl’infermi» è riportata anche da Pacichelli, che con disappunto ricorda «non però datasi a me questa a gustare per la poltroneria di un laico sagrestano»[28].

 

[1]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/08/31/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie-2/

[2] Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979). Sulle reliquie in Santa Maria del Tempio cfr https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/  .

[3] G. C. Infantino, op. cit., p. 210.

[4] B.F. Perrone, Chartularium della Serafica Riforma di S. Nicolò. Documenti inediti sulla presenza dei Frati Minori in Puglia e a Matera dal 1429 al 1893, p. 80.

[5] Ivi, p. 130.

[6] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, p. 76. Riguardo l’opera dell’abate Pacichelli cfr. su questo sito https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/  e La Terra d’Otranto ieri e oggi, 14 articoli di Armando Polito di cui l’ottava parte è dedicata a Lecce https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/

[7] B. Da Lama, Cronica de’ Minori osservanti riformati della provincia di S. Nicolò, a cura di L. De Santis, Lecce 2002, 2 voll., vol. II, p. 56.

[8] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[9] M. Paone, op. cit., p. 76. Olimpia Maidalchini Pamphili (1592-1657) era la discussa cognata di Giovan Battista, papa Innocenzo X (1644-1652), e nel suo testamento devolse un congruo lascito affinché fossero celebrate messe presso le chiese dei Minori Riformati a Roma e a Viterbo, cfr. http://212.189.172.98:8080/scritturedidonne/Testamenti/Pamphili/pdf/MaidalchiniO.pdf .

[10]G.M. Crescimbeni, L’Istoria della basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin di Roma, Roma 1715, p. 274.

[11] Cfr. http://web.tiscali.it/enteliceoconvitto/moticense6/5Flaccavento.htm

[12]S. Crepaldi, Santi e Reliquie. Devozione popolare nella diocesi novarese, Cologno Monzese 2012, p. 147. La reliquia, dopo svariati passaggi di proprietà, nel 1717 fu offerta da mons. Lorenzo Gallarati alla comunità di Tornaco nella diocesi di Novara (cfr. Ibidem). Lo stesso pontefice devolse nel 1634 «una Croce di argento con un pezzetto del legno della Santa Croce» alle monache carmelitane della chiesa di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi di Firenze (G. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, Tomo I, Firenze 1754, p. 324).

[13]G. De Novaes, Elementi della storia de’ sommi pontefici da san Pietro sino al felicemente regnante Pio papa VII, Tomo 9, Roma 1822, p. 222. È la reliquia con cui la mattina del Venerdì Santo in San Pietro è data la benedizione solenne. Puntuali notizie sulle reliquie maggiori della Basilica di San Pietro e la loro provenienza sono in F. Cancellieri, Descrizioni delle funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma 1818, pp. 144-152.

[14] Cfr. http://www.cassiciaco.it/navigazione/monachesimo/conventi/monasteri/italia/toscana/fivizzano/bosco.html. Per l’immagine del reliquiario cfr. http://pesanervi.diodati.org/pn/?a=302.

[15] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

[16] B. Da Lama, op. cit., p. 56.

[17] G. C. Infantino op. cit., p. 211.

[18] B.F. Perrone, op. cit., p. 130.

[19] Cfr. Ivi, p. 129.

[20] B. Da Lama, op. cit., p. 56. Sulla suppellettile liturgica denominata pace, cfr. http://www.silvercollection.it/pace.html

[21]https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/26/note-sulla-chiesa-e-sul-tesoro-di-s-caterina-dalessandria-in-galatina/

[22]Cfr. P.F. Palumbo,  LibroRosso di Lecce. Liber Rubeus Universitatis Lippiensis, 2 voll. Fasano 1997, vol. I, p. 61. Nella sagrestia del convento francescano era conservato anche «Il dito di San Giacomo Apostolo, che lo tiene in petto, in Statoa di mezzo busto» (B. Da Lama, op. cit., p. 56).

[23] Cfr. Cfr. B.F. Perrone, op. cit., p. 102.

[24] G. C. Infantino, op. cit., pp. 208-9.

[25] B.F. Perrone, op. cit., pp. 130-131.

[26] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[27] Da Lama, op. cit., pp. 56-57.

[28] M. Paone (a cura di), op. cit., p. 76.

 

L’incendio del deposito dell’Archivio di Stato di Napoli

Articolo 2.1 260px-Hatra_ruins[1]

di Giovanna Falco

In queste giorni si vivono con sconcerto le notizie che arrivano dall’Iraq e dalla Siria: l’annientamento di un popolo tramite eccidi e l’azzeramento dell’identità culturale. I libri di storia sono pieni di episodi simili e si sperava che fossero relegati al passato, invece proprio in quella che può essere considerata la culla della cultura, l’arroganza dell’invasore compie un atto che, seppure frutto di una determinata strategia politica e non dell’ignoranza, è fine a se stesso e si ritorce non solo sulla povera gente sterminata ma anche sulle generazioni a venire, quando questi individui saranno ricordati solo come autori di un gesto barbarico. Pur se nello sconcerto, a fianco di chi è preposto a mettere fine agli stermini in concorso, sicuramente sono già all’opera archeologi e storici di tutto il mondo, per ricordare e divulgare quello che è diventato un ricordo che non sarà mai cancellato dalla storia.

La distruzione dell’eredità culturale irachena e siriana ricorda un episodio simile avvenuto una settantina di anni fa in Campania, quando un ufficiale tedesco pensò di passare alla storia ordinando di bruciare gran parte del patrimonio documentario dell’Italia meridionale. In Germania l’autore di questo scempio non è ricordato come eroe e la sua identità è stata mantenuta segreta. In Italia, finita la guerra, gli archivisti napoletani si sono messi all’opera, intraprendendo un lavoro di recupero, ancora in corso[1].

Articolo 2.2 Montesan[1]

La mattina del 30 settembre 1943, gli abitanti di San Paolo Belsito videro innalzarsi dalla collina di Montesano una colonna di fumo che si sparse per la campagna nolana: bruciava villa Montesano, l’antica residenza dei Mastrilli marchesi di San Marzano, ristrutturata nel Seicento dal noto architetto napoletano Cosimo Fanzago. Nella dimora, luogo di riposo per artisti e nobili (passò dai Mastrilli ai Capecelatro, e poi alla famiglia Della Valle marchesi di Casanova, e infine, dal 1913 alla famiglia Contieri), soggiornò, ospite dei Della Valle, il compositore Domenico Cimarosa (1749-1801), che qui vi compose il Matrimonio segreto. Si narra che, a causa di questo soggiorno, le truppe del Cardinale Ruffo saccheggiarono la villa, perché il musicista nel 1799 aveva scritto un inno in onore della Repubblica Partenopea.

L’incendio del 1943 fu appiccato dai tedeschi, perché nella villa erano custoditi i documenti storici dell’Archivio di Stato di Napoli.

Si sperava di preservare le carte dai bombardamenti su Napoli. Nel 1941 la sede centrale dell’Istituto, l’ex monastero di San Severino e Sossio al Pendino, era stata danneggiata da alcune bombe, con la conseguente distruzione di documenti. Nel corso del 1943, inoltre, i bombardamenti causarono la distruzione delle carte raccolte nell’archivio militare a Pizzofalcone e di altre, conservate presso il deposito di scritture al Divino Amore e ancora una volta presso la sede centrale[2].

Riccardo Filangieri di Candida
Riccardo Filangieri di Candida

Nonostante il parere sfavorevole di Riccardo Filangieri, soprintendente dell’istituto dal 1934 al 1956 – che sin dal 1935 aveva consigliato alle autorità competenti la costruzione di un deposito di sicurezza a Napoli nella sede di San Severino -, nei primi mesi del 1943 i documenti furono trasportati a San Paolo Bel Sito: 31.606 tra fasci e volumi e 54.372 pergamene, stipati per lo più in 866 casse, ammassate in quattro ordini sovrapposti, affidati al direttore del deposito Antonio Capograssi e a personale dell’Archivio. Si salvarono dal rogo solo 11 casse di protocolli notarili e 97 buste dell’Archivio Farnesiano.

Molto probabilmente l’incendio fu appiccato dai tedeschi come ritorsione per le Quattro giornate di Napoli (27-30 settembre).

Filangieri ricostruì quanto accadde: da qualche settimana squadre di militari tedeschi armati si aggiravano nell’agro nolano alla ricerca di approvvigionamenti alimentari e di beni, saccheggiando e depredando tutto ciò che era prezioso. A queste squadre si aggiunsero quelle di guastatori che minavano e incendiavano edifici pubblici e privati. Il pomeriggio del 28 settembre, tre tedeschi arrivarono a villa Montesano, entrati nell’edificio e viste le casse, seppero del contenuto che custodivano. La mattina successiva si presentò alla villa un ufficiale tedesco, che volle visitare le sale dov’erano custodite le casse e visionare alcuni documenti. Nel tardo pomeriggio un’altra squadra di tedeschi si soffermò per qualche tempo nei sotterranei: si pensò che l’edificio fosse stato minato. Riccardo Filangieri, messo a conoscenza dell’accaduto, indirizzò al comando tedesco stanziato a Nola una lettera in cui illustrava il contenuto del deposito e l’importanza dei documenti. La mattina del 30 settembre tre soldati tedeschi giunsero alla villa, il comandante della squadra lesse la lettera, la ignorò e portò a termine il suo mandato. Gli abitanti della villa furono allontanati, nelle sale che contenevano le casse, furono ammonticchiate paglia, carta e polvere pirica e in pochi minuti l’edificio fu devastato dal fuoco. Non si è mai saputo chi ordinò di bruciare i documenti. In seguito Filangieri seppe che alcuni cartelli affissi dai tedeschi a Nola in quel periodo, recavano la firma di Kellerman, altri quella del Capitano Sommerfield.

Si è già detto che nel deposito erano stati riuniti i più preziosi documenti dell’Archivio di Napoli, dov’erano state convogliate le serie di documenti provenienti dai vari archivi dell’Italia Meridionale, tra cui le 757 pergamene originali di Gallipoli, Lecce, Castellaneta e Laterza, versate dall’Archivio di Stato di Lecce a quello di Napoli nel 1845, quando fu solennemente inaugurata la nuova sede nel Monastero dei SS. Severino e Sossio, in occasione del Congresso Nazionale degli Scienziati Italiani.

Riccardo Filangieri aveva stilato un elenco, suddividendo i documenti napoletani in quattordici categorie: Museo storico-diplomatico, Cancelleria Angioina, Cancelleria Aragonese, Pergamene, Archivio della Real Casa, Archivio Farnesiano, Ministero degli Interni, Regia Camera della Sommaria, Consiglio Collaterale, Real Camera di Santa Chiara, Segreteria dei Vicerè, Cappellania Maggiore, Scritture varie della Sezione Politica, Scritture varie della Sezione Amministrativa. Andarono a fuoco anche i documenti provenienti da altri Archivi di Stato ed Enti, esposti a Napoli in occasione della Mostra delle Terre d’Oltremare.

L’entità dei danni è stata immensa: ne è esempio indicativo il Registro di Federico II del 1239-40, i 378 volumi contenenti gli atti dei sovrani angioini dal 1265 al 1434, i 7232 volumi della Regia Camera della Sommaria, ecc.

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[1] Riccardo Filangieri volle avviare, grazie al finanziamento dell’Accademia Pontiana, la ricostruzione dei documenti della Cancelleria angioina, i cui risultati sono, e continuano a essere, pubblicati in I Registri della Cancelleria Angioina: una capillare raccolta di originali, copie, manoscritti, codici, fotografie, microfilm, pubblicazioni e fonti inedite, così com’è illustrato nella guida dell’Archivio di Napoli. Cfr. La Guida generale degli Archivi di Stato italiani: http://www.maas.ccr.it/PDF/Napoli.pdf.

[2] Nel sito del Ministero dei Beni Culturali è presente il seguente link da cui si apprendono le vicissitudini accadute all’Archivio di Stato di Napoli e le perdite subite. Il rapporto risale al 1946 e l’elenco dei danni fu stilato da Riccardo Filangieri: www.archivi.beniculturali.it/Biblioteca/DanniGuerra/08_AdS_MO_PA.pdf.

 

 

 

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

chiesa di san Giuseppe Nardò

Sarà presentato Sabato 26 aprile il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”,  La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.

Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio,  Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.

la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)
la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)

Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.

Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.

Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.

Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.

l'altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)
l’altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)

Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.

Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.

particolare dell'altare maggiore (ph Paolo Giuri)
particolare dell’altare maggiore (ph Paolo Giuri)

fronte

fronte retro

Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro

Domenico Fiasella (1589-1669), San Lazzaro implora la Vergine per la città di Sarzana; 1616, Sarzana – Chiesa di San Lazzaro (da http://www.comune.sarzana.sp.it/citta/Cultura/)

di Giovanna Falco

Nell’arco ionico del Salento[1] nei venerdì di Quaresima è ancora in uso un’antica tradizione: squadre di cantori e musicisti, si aggirano di notte per le strade dei paesi fermandosi davanti alle case e intonando U Santu Lazzaru in cambio di doni, poi devoluti in beneficenza[2].

Le strofe del testo, una sorta di cantilena, cambiano nei vari paesi e s’ispirano alla Passione di Cristo, narrandone gli episodi salienti. Il corrispondente nella Grecìa Salentina era I Passiuna tu Christù (o A’ Lazzaro): la cantica della Passione in griko (un canto di questua), messa in scena i giorni a ridosso della Settimana Santa. Tramandata oralmente, era eseguita dai cantori del posto, accompagnati da un portatore di palma. I cantori si fermavano agli angoli delle strade dei paesi, intonando dalle tre alle cinque strofe, per poi proseguire della lunga cantilena, che terminava con il verso ca tue ine mère ma t’à Lazàru (questi sono giorni di San Lazzaro), festeggiato nel calendario bizantino la vigilia della Domenica delle Palme.

Il Sabato di San Lazzaro è la festività che celebra la fine della Grande Quaresima bizantina e l’inizio del periodo della Passione. Secondo il Sinassario «in questo giorno, il sabato prima delle Palme, festeggiamo la resurrezione del santo e giusto amico di Cristo, Lazzaro morto da quattro giorni»[3].

A Lecce le celebrazioni hanno luogo presso la chiesa di rito ortodosso di San Nicola di Myra, in piazzetta Chiesa Greca.

Anche i cattolici leccesi commemorano il Santo: per antica consuetudine, la vigilia della Domenica delle Palme numerosi fedeli concorrono presso la chiesa di San Lazzaro. Questa tradizione ha indotto papa Leone XIII, con bolla del 10 marzo 1897, a concedere a questa chiesa la celebrazione del Santo in questo giorno.

A tale rito è legata la fiera mercato che si svolge nei pressi della chiesa, intorno alla colonna del Santo[4]: è tradizione leccese acquistare alla Fiera di San Lazzaro le croci di palma intrecciata e i rametti di ulivo, benedetti durante la funzione religiosa della Domenica delle Palme.

Si perpetua, dunque, un’antichissima consuetudine, mutuata da quella orientale.

Le origini della chiesa leccese sono legate all’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme (attuale Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro): una delle quattro Compagnie gerosolimitane, al contempo religiose e militari, fondate ai tempi delle Crociate per assistere gli infermi e proteggere i luoghi santi della Palestina[5].

I Lazzariti hanno avuto molte commende, chiese e ospedali sparsi in Europa, molti in Italia meridionale. Una chiesa nelle pertinenze di Lecce, dedicata a San Lazzaro, è annoverata in un documento del 1308 riguardante l’inventario dei beni dei Cavalieri Templari[6]; non si sa, però, se ricadeva nello stesso sito dell’attuale chiesa.

Al tempo dell’Infantino, là dove sorge la chiesa di San Lazzaro, sita al di fuori delle mura cittadine, vi era «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano, eretto dalla Città di Lecce in beneficio de’ suoi Cittadini, e non altri forastieri; onde havendo permesso una volta Giacomo d’Azia Co(n)sigliere Regio, e precettore dell’ordine di S. Lazzaro, che alcuni forastieri vi dimorassero, ad istanza della medesima Città fù scritto al detto d’Azia dal Re Ferdinando da Foggia sotto il dì 8 di Dicembre 1468. che in niun conto ciò permettesse, che altri che Cittadini Leccesi vi dimorassero; sì perche questi possano più commodamente vivere, sì anche perche la Cittànon portasse pericolo d’infettatione per la moltitudine de’ forastieri infetti»[7].

Il “Giacomo d’Azia” citato, non è altri che il «Generale Mastro e Precettore della Milizia dello Spedale di San Lazzaro Gerosolimitano in tutto il Regno di Sicilia ed oltre il Faro»[8] che ricoprì questa carica dal 1440 al 1498.

Infantino cita anche una fede di beneficio del 1550, in cui si dichiara: «la cura di questo luogo appartenere alla medesima Città, e tutti gli atti fatti di possessione esser stati nulli»[9].

Nicola Vacca, nelle Postille al libro del De Simone, cita un documento da cui si apprende che la gestione era amministrata dal sindaco e da un procuratore eletto nei parlamenti generali, mentre la tutela morale era gestita dall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro[10].

Ricostruita agli inizi del XVIII secolo, «l’anno 1763 si era accresciuta ed ampliata la chiesa in bella forma»[11], ingrandita ulteriormente nel 1788[12]. La situazione economica dell’ospedale mutò dopo pochi anni. Diminuite, infatti, le carestie e le conseguenti epidemie che per secoli avevano infestato la città, l’istituzione si mantenne di sole elemosine, e con diploma regio del 1793 di Ferdinando IV di Borbone fu permesso, in suo favore, di fare la questua in tutta la provincia e nei due giorni del mercato settimanale di Lecce[13]. Decaduto l’ospedale, nel 1906 la chiesa è stata eretta a parrocchia, inaugurata nel 1907, nel 1916 è stata sottoposta a un ulteriore ampliamento.

Tra i vari arredi sacri della chiesa di San Lazzaro[14], in questo momento, merita particolare attenzione il crocefisso ligneo del presbiterio proveniente dalla chiesa del convento di Santa Maria del Tempio, la grande struttura dei frati Riformati soppressa nel 1864, adibita a caserma e demolita nel 1971.

Nell’area dove sorgeva il complesso conventuale, a breve sarà realizzato un complesso commerciale munito di parcheggi sotterranei: in questi giorni sono in opera scavi archeologici atti a rilevare le fondamenta della chiesa e del convento distrutto.

la colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, innalzata nel 1682, opera del maestro muratore Giuseppe Bruno

Il Crocefisso, annoverato tra gli arredi sacri della chiesa di Santa Maria del Tempio in un verbale di consegna datato 1864, fu realizzato intorno al 1693 ed è attribuito al calabrese Angelo da Pietrafitta[15].

Il frate Minore Riformato apprese l’arte della scultura lignea dal Beato Umile da Petralia Soprana, caposcuola degli artisti francescani meridionali e fu maestro, a sua volta, di frate Pasquale da San Cesario di Lecce. Suoi Crocefissi e Calvari sono attestati in Puglia e in particolar modo nella penisola salentina (Ostuni, Presicce, Nardò, ecc.), dove nel 1693 fu chiamato da padre Gregorio Cascione da Lequile, Provinciale di S. Niccolò delle Puglie, per realizzare il Crocefisso ligneo per il convento del suo paese[16].


[1] Il territorio che comprende Aradeo, San Nicola, Alezio, Cutrofiano, Neviano, Galatone, ecc.

[2]In origine i cantori andavano in giro per masserie e borgate con lo scopo di avere in cambio alimenti.

[3] Cfr. http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/le_feste_bizantine_sabato_lazzaro-24858.html?p=598866. Il Sinassario del cristianesimo orientale, trova corrispondenza nel Martirologio Romano: raccoglie il profilo biografico e agiografico di tutti i santi del calendario bizantino.

[4] «rimpetto la chiesa si eleva una colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, la quale fu innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno e poco dopo la Canonica sorge l’altra colonna che forma il Sannà o Osanna» (. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180). L’Osanna, che in passato dava nome a tutta la zona, è stato abbattuto.

[5] Le altre erano: gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e ora Sovrano Militare Ordine gerosolimitano di Malta), i Cavalieri del Tempio (Templari), i Cavalieri Teutonici (detti anche di Santa Maria di Gerusalemme). L’Ordine di San Lazzaro fu istituito per curare i lebbrosi, fondato tra XI e XII secolo, fu protetto dai pontefici dal 1227 (Cfr. E. ROTUNNO, Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dalle origini all’inizio del XX secolo: http://www.amicibbaamauriziano.it/public/ordine%20dei%20ss%20maurizio%20e%20lazzaro.pdf).

[6] Cfr. E. FILOMENA, Le ricchezze, il prestigio, lo splendore e la decadenza delle “domus” temmplari nel triste epilogo del processo di Brindisi. Il passaggio dei beni ai Cavalieri di Malta, in Lu Lampiune, a. V, n. II, agosto 2009, pp. 7-40.

[7] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 212-213. Il proclama di Ferdinando I è trascritto nel Libro Rosso di Lecce (Cfr. M. PASTORE, Fonti per la storia di Puglia: i regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1973, pp. 153-295: p. 253).

[8] E. ROTUNNO, op. cit., p. 11.

[9] G. C. INFANTINO, Lecce sacra cit., p. 213. Infantino ha letto questo documento nel libro 2 dei privilegi di Lecce.

[10] Le poche notizie sulla gestione dell’Ospedale di San Lazzaro sono state apprese da A. MARTI, Gli istituti di assistenza e beneficenza a Lecce nel sec. XVII, in L. COSI – M. SPEDICATO (a cura di), Vescovi e città nell’Epoca Barocca, Galatina 1995, voll. 2: vol. II, pp. 425-439. Nicola Vacca ha citato, invece, un atto notarile datato 1663 (Cfr. N. VACCA, Postille a L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, pp. 574-575).

[11] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, pag. 117.

[13] Cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa cit., p. 284; A. MARTI, op. cit., p. 430.

[14] Nella chiesa sono presenti opere in cartapesta di Giuseppe Manzo, un Cristo morto ligneo (per tradizione orale attribuito anch’esso a fra Angelo da Pietrafitta), due tele attribuite ad Oronzo Tiso.

[15] Cfr. B. F. PERRONE, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, voll. 2: vol. I, pp. 113-144.

[16] Le opere di frate Angelo da Pietrafitta sono state oggetto di una ricerca di Pamela Tartarelli edita nel 2004 con introduzione di Paolo Maci e foto di Pierluigi Bolognini (Cfr. P. TARTARELLI, I Crocefissi di Frate Angelo da Pietrafitta nella Puglia, Il Parametro Editore, Novoli 2004).

La leggendaria incoronazione in Lecce di Isabella del Balzo

isabella del balzo

di Giovanna Falco

 

La storiografia, purtroppo, è piena di testi che invece di apportare un contributo al passato di un luogo hanno arrecato danno, allontanando dalla verità storica chi in seguito li ha consultati ritenendoli attendibili.

A Lecce, la cui posizione geografica decentrata non ha permesso un’agevole trasmissione delle fonti, in passato i nostri storici si sono dovuti basare sulla consultazione di pochi testi, producendo una storiografia non sempre aderente alla realtà storica, in seguito emersa grazie alla ricerca d’archivio. Si ricorda, inoltre, che Lecce è stata vittima di una sorta di damnatio memoriae: la maggior parte degli archivi cittadini (sia civili, sia religiosi) sono andati perduti, o risultano lacunosi a causa della dispersione di tantissimi documenti.

Un’opera che ha contribuito a questa damnatio memoriae, perché ritenuta attendibile da chi l’ha consultata tra il XVII e il XIX secolo, è la cinquecentesca Apologia paradossica di Iacopo Antonio Ferrari[1]. È pur vero che si ritiene sia stata manomessa in seguito, aggiungendo a sproposito nuove note e codicilli[2], ma se ci si sofferma sulla motivazione della sua stesura, in altre parole quella di provare la supremazia di Lecce rispetto a Capua e Cosenza[3], si capisce perché Ferrari ha romanzato tanti episodi della storia di questa città e ha deliberatamente omesso di ricordare personaggi che avrebbero potuto compromettere il fine del suo lavoro. Non solo sono stati tralasciati e distorti episodi remoti rispetto all’epoca della stesura dell’Apologia, ma anche avvenimenti accaduti a poco più di un settantennio di distanza.

Nel caso specifico ci si riferisce all’inverosimile incoronazione di Isabella del Balzo, moglie di Federico d’Aragona, che sarebbe avvenuta a Lecce nel settembre 1497. Nella consapevolezza che le opere consultate non possono essere considerate attendibili senza un riscontro con i documenti (tant’è vero che si riscontrano differenze di date), si è deciso di mettere a confronto le dissertazioni di Iacopo Antonio Ferrari, con il Balzino del neritino Rogeri de Pacientia[4], testimone dei fatti, i contemporanei Annali del leccese Antonello Coniger[5] e i Giornali di Giuliano Passero[6], e, infine, la Storia civile di Capua di Francesco Granata, perché le motivazioni della sua stesura ricalcano in un certo senso quelle di Ferrari[7].

Prima di confrontare questi testi è opportuno fare una brevissima sintesi storica degli avvenimenti: a distanza di poco più di un mese dall’ascesa al trono di Napoli di Ferrandino, dopo l’abdicazione del padre Alfonso II d’Aragona, il 22 febbraio 1495 il re francese Carlo VIII, grazie all’aiuto di vari stati italiani, entra trionfalmente a Napoli, ma dopo pochi mesi si ritira a causa della formazione della lega antifrancese. Estirpati gli ultimi focolai filofrancesi, Ferrandino muore il 7 ottobre 1496 e gli succede lo zio Federico, incoronato a Capua il 10 agosto 1497.

tomba di Isabella del Balzo a Napoli
tomba di Isabella del Balzo a Napoli

 

Isabella del Balzo, moglie di Federico, a causa dell’invasione francese, il 24 febbraio 1495 lascia Andria, dove risiedeva abitualmente, e dopo varie soste si trasferisce nel capoluogo salentino sotto la custodia del viceré di Terra d’Otranto Luigi Paladini. Vi rimane sino all’11 maggio 1497, quando intraprende il viaggio per raggiungere prima Barletta, dove soggiorna al momento dell’incoronazione di Federico, e poi proseguire per Napoli dove fa il suo ingresso il 15 ottobre 1497.

Ferrari menziona l’incoronazione di Isabella in Lecce in due diverse parti del volume:

 

Libro Primo, a proposito dei Duchi di Calabria pagine 52 e 53:

… D. Federico fatto successore di quello Regno per la morte del Re Ferrandino suo Nipote senza figliuoli, e per essere stato da colui instituito erede universale al suo testamento dell’anno 1448; perocchè essendo egli stato coronato in Capua dal Cardinal Francesco Borgia cugino di Papa Alessandro VI. l’anno medesimo a 10 di Agosto giorno dedicato alla festa di S. Lorenzo, ordinò che fusse dopo lui coronata alla Città di Lecce la sua moglie Isabella del Balzo figliuola del Principe Altamura Pirro, si come fu poi fatto a 29. di settembre giorno della festa di S. Michel Angelo dell’istesso anno 1448, ed alla medesima solennità fu per ordine del Re suo Padre intitolato, e coronato del cierchio Ducale il suo primogenito D. Ferrante d’Aragona, e gridato con gran fausto Duca di Calabria d’anni otto, nato alla medesima Città di Lecce a 25 del mese di luglio a 21 ora 1491 il giovedì, il quale prima si nominava Marchese di Bisceglie, ed a quella doppia solennità l’Eccellentissimo Predicatore del Verbo divino fra ROBERTO da Lecce, detto da’ Sagri Teologi Roberto Liciense vi fece una dottissima orazione…

 

Terzo Libro. XV Quistione ed Ultima, pagine 811 e 812:

… il suo Zio D. Federico instituito proerede al suo testamento, dal governo di Iapigia, dove steva attendendo all’assedio di Taranto, occupato da Francesi, volendosi coronare da mano di Francesco Cardinal Borgia, mandato legato a Latere da Papa Alessandro, tosto che intese che quel Cardinale era gionto in Capua mandò Gioviano Pontano a fermarlo là, e tutto l’apparato necessario a quell’atto per farlo là, contutto che i Napoletani n’avessero molto esclamato; onde ordinò alla sua moglie D. Isabella del Balzo, che mandasse in Lecce col comune figliuolo primogenito, detto D. Ferdinando di Aragona, Marchese di Bisceglie, ad aspettar il Legato, che coronato che avesse lui, l’anderebbe a coronare. Cosi coronato che fu a 10. di Agosto giorno di S. Lorenzo in presenza di quasi tutti li Magnati del Regno all’Arcivescovado di quella Città, andò in Lecce il Cardinale, e nel giorno della nativita della gloriosa Madre Vergine di Cristo, ch’è alle 8 di Settembre la coronò alla cappella di S. Croce monistero dei monaci Celestini in presenza di tutti li Baroni Pugliesi, ed impose al figliuolo il nome, e’l titolo di Duca di Calabria …

 

Si notano alcune differenze tra i due brani: nel Primo Libro il giorno dell’incoronazione di Isabella sarebbe stato il 29 settembre 1497, data anticipata all’8 dello stesso mese nel Terzo Libro. È indicata, inoltre, la data sbagliata di nascita del giovane Ferrante, nato ad Andria il 15 dicembre 1488 e non a Lecce il 25 luglio 1491. Fra Roberto Caracciolo, presente all’incoronazione nel Primo Libro, in realtà muore il 6 maggio 1495. Nulla è dato sapere, infine, sulle ultime volontà di Ferrandino datate al 1448 (anno di nascita di Alfonso II) a favore dello zio Federico. Forse Ferrari fa riferimento al testamento di Alfonso, rogato il 27 gennaio 1495, con il quale escludeva dalla successione la figlia Isabella, duchessa di Milano.

Mettendo a confronto le fonti citate si riscontra che non c’è nulla di vero nel racconto del Ferrari: l’unica realtà è che Isabella fu acclamata regina dai leccesi al suo rientro da Carpignano a Lecce. Non fu Francesco Borgia[8], bensì Cesare a incoronare Federico a Capua il 10 agosto, quando Isabella era a Barletta, e dopo la cerimonia, il legato del Papa tornò a Napoli, prima di rientrare a Roma[9]. Nel Balzino, inoltre, non si fa alcun cenno ad altri prelati presenti in Puglia ai tempi dell’incoronazione. Di Francesco Borgia, cugino di Alessandro VI, all’epoca vescovo di Teano, non si fa alcun cenno nel Balzino.

Si ripercorre ora il calendario degli avvenimenti, così come sono stati riportati dalle fonti.

 

Dagli Annali di Antonello Coniger. 24 marzo 1496. Arrivo di Isabella a Lecce[10]:

Die 24. Marcij venne in Lecce per stanciare la Serenissima Isabella de Baucio Mollierem del signor Don Federico de Aragonia incieme cum li figlioli, & Conte dove fu receputa cum grande honore.

 

Dal IV libro dello Balzino. Luglio 1495. Arrivo di Isabella a Lecce[11]:

Stando con questo, la cità leccese / lo princepe de gracia supplicarno / che quella princepessa e lo marchese / mandar volesse in Lecce ad abitarno. / Quello signor gentil ce lo concese, / unde a gran gracia tutti el reputarno; / e così el prince ad Isabella scrisse / che a Lecce a starse cum figlioli gisse.

 

Dai Giornali di Giuliano Passero. 7 ottobre 1496. Muore Ferrandino e Federico è proclamato re[12]:

Lo venerdì alli 7. di ottubro 1496. alle 11. hore lo Sacratissimo, et ben amato Re transio da questo Mondo santo dolcemente…

Lo popolo napolitano stava in gran travaglio non sapendo quello si dovevano fare per fare nuovo Re perche non ce erano figli de lo morto Re Ferrante II. che per questo si fece ordinatione, che havesse a cavalcare la Regina mogliere del d. Re morto; & dopoi si fece un altro consiglio, & determinato, che se mandasse per l’Illustrissimo don Federico d’Aragona quello che in scientia non trova paro: ma non fi di bisogno mandare per lui perche già era in camino et veneva dall’impresa di Gaieta.

In questo medesimo iorno ciò è alli 7. di ottubro 1496. lo signore don Federico d’Aragona se appresentai avante Napoli con circa 20. galere bene e in ordine, & ionto che fo desmontai allo muolo grande, & loco fu receputo da tutti li baruni del regno, & anco da tutti li Eletti di Napoli tanto dalli Jentil’uomini, quanto dallo puopolo, & presentarole le chiavi di Napoli, & dissero; venite signore nostro, & pigliate possessione del regno poiche fortuna ci ha privato de si alto signore e te accettamo come a suo vero frate, & e suo vero herede, & suo successore, & così accettato multo cortesemente, & con gran pianto li ringratiò, & così montò a cavallo con tutti li signuri jenitl’huomini, & napolitani, & così cavalcai per tutta la terra con gran copia de suoni, & trombette, ma / allegrezza poco perche stavano tutti male contenti della morte de si nobile signore, & per questo non potevano pigliare alcuno piacere, et cavalcato, che fo se ne tornai allo castello nuovo, & la reposai con gran pianto pensando alla morte di suo nepote;

 

Dagli Annali di Antonello Coniger. 5 ottobre. Muore Ferrandino[13]:

Die 5. di Ottobre 15. Inditionis fo morto lo Serenissimo S. Re Ferrante secondo casa de Aragona de età d’anni venti due de fore de Napoli sencia herede, qual fo portato in Napoli morto con gran pianti sotterrato in San Domenico.

Napolitani vedendosi senza Re, & essere divisi li Cetatini delli Jentil’homini chi gridava Francia Francia, chi Spangha Spangha e chi Federico Federico, & tutto Napoli era in arme, el Serenissimo Principe di Salerno subito venne in Napoli, & culla sua prudencia pacificò Napolitani, & Fe invocare per Re Federico de Aragona cum consentimento de legato che era in Napoli de Papa Alessandro sesto, e dell’Ambasciator dell’Imperatore de Romani Maximo, e lo imbasciatore della signoria de Veneccia, e del Duca di Milano, quale invocando Re Ferdinando mandaro per esso, che non era in Napoli Antonello de S. Severino.

 

Dagli Annali di Antonello Coniger. 7 ottobre. Federico entra a Napoli[14]:

Die 7. 8bre Re Federico entrò in Napoli & cavalcò come he Re facendo a Napolitani & a tutto el Regno infinite gratie.

 

Dagli Annali di Antonello Coniger. 12 ottobre. Isabella rientra a Lecce da Carpignano[15]:

Die 12 8bre in Lecce havendose saputa la nova della Morte di Re Ferrante omne uno grande, & picciolo, Mascoli, e femine senza intendere altro gridavano viva viva Re Federico, & e quasi tutto Lecce andò a pilliare la Regina da Carpignano ci dimorava, dove se ne tornò in Lecce cum gran triumfo, fece gratie come he Regina.

 

Dal IV libro dello Balzino. 12 ottobre 1496. Muore Ferdinando II mentre Isabella è in visita a Carpignano e Federico è acclamato nuovo re[16]:

(U)n di fra l’altri, li venne in fantasia / de voler(e) visitare lo suo stato / e con ornata e bella compagnia, / da Carpignano il ebbe accomenzato; / dove ne andäo / una lunedia, / (a) li dudece de ottobro ben notato, / ne’ milli quattrocento novantasei, / che ‘l ciel monstrò sue posse e tutti dei.

Circa due ore opo’ fo arrivata, / venne una nova: «Re Ferrando, è morto!». / La princepessa stava assai turbata, / pigliandone dolore e disconforto, / per dubio ancor(a) de qualche novitate, / che ‘l cose ancor non erano al suo posto. / A meza notte venne / un correro / Cum lettre a lei mandate de lo vero.

Eran lettre del signor Berardino / De Baucio, qual da Napuli scrivia / Como, piacendo a lo voler divino, / morto era Re Ferrando quella dia, / de flusso e rescaldato, lo mischino, / per le fatighe sustinuto avia / de dì, de notte, ognor con tanto ingegno, / per recup(e)rar na volta questo Regno; /

certificando ce, morto Re Ferrante, / tutt’i baroni con signor del Regno / (i)nvocarno Don Fedrico in quello stante / Per loro re pacifico e benegno; / e che spacciarno subito un fante / (a)l princepe in Gaieta, senza retegno, / a farli intender questa bona nova, / che a farlo re, ognun ben se ce trova.

 

Dal IV libro dello Balzino. 13 ottobre 1496. Isabella ritorna a Lecce ed è acclamata regina, dopo qualche giorno le arriva la lettera del marito che la mette al corrente dei fatti e le annuncia di aver investito il figlio Ferrante del ducato di Calabria. Nei giorni successivi Isabella riceve i tributi di baroni e autorità locali[17]:

Gran dispiacer n’ebbe e cordïale / de questa morte Isabella regina, / considerando ce a sto mundo frale / la natura tal produce e ‘l ciel distina; / videndo po’ che contristar non vale, / pensò de retornar l’altra matina; / e così pöi lo sequente giorno / in Lecce con baroni fe’ ritorno /

Fo receputa in Lecce per regina / Con gran trïunfo e con onor assai; / ciascun regracia la pietà divina / ché più meritamo, lei ce fae. / Chi «Ferro», chi «Federico», chi «Regina», / fino a lo cielo li clamor se dae, / et «Isabella», «Duca» con «Ferrante» / gridare se sentea per tutte cante.…

In pochi dì Fedrichetto arrivao, / mandato da lo novo re Fedrico, / e lettre a la regina assai portao, / narrando el fatto sì como era gito, / (e) como tutt’i baroni lo invocao / Per loro fermo re e signor antico, / (e) como per Napul cavalcao per segno / che de Sicilia ottenuto ha lo Regno.

A ciò che se intendesse, lo scrivea / che regina Isabella sua consorte, / e locotenente general la facea / del tutto el Regno in sì benigna sorte; / e Don Ferrando publicato avea / per Duca di Calabria con gran corte, / e vicario general pronunciato; / (u)nde reputa ciascun esser beato.

Ora tornamo a li baron liccesi, / ch’ognuno tal novelle desïava, / e avendole per ferme e chiare intese, / ciascuno a la regina el pie’ basava. / Cità, castelle tutte del paese, / el simil far per sindici mandava, / per modo tal che durao vinti giorni / ch’in Lecce venea in frotta como stormi.

 

Dal IV libro dello Balzino. maggio 1497. Federico comunica a Isabella che deve partire da Lecce per andare a Barletta[18]:

Lettere venne in questo a la regina, / c’in tutto ben in ordine se metta, / ché a la secunda lettra faza stima / andar a far la stancïa in Barletta; / perché Sua Maiestà llà se avicina, / in pochi giorni per vider se aspetta. / Questa tal nova fo a la corte grata / (e) più a la regina che l’ha desïata.

A li undece de magio fo arrivato / lo signor Galëotto e la mogliere, / a la regina da lo re mandato, / per posser a la partenza providere, / como quel che ne era prattico e dotato / d’ogni virtù repieno e de sapere, / facendo tutto quanto / ordinare / che a li vintidui potesser cavalcare.

 

Dagli Annali di Antonello Coniger. 1497. Isabella parte da Lecce[19]:

1497. Regina Isabella de Bautio se partette de Lecce per andare in Napoli, dove tutti li Baruni, & Jentil’huomini di di Lecce, & lo Viscopo li fera compagnia per sieni a Barletta ad spese de ditti Baruni, & Jentil’homini.

 

Dal IV libro dello Balzino. 24 maggio 1497. Isabella parte da Lecce[20].

Quando a lo punto per partire forno, / tutto om montò a cavallo in compagnia; / per ditto de quellor che li contorno, / più de mille cavalli cum lei gia, / e per tre miglia fòr l’accompagnorno / cum soni de trombette e melodia / de pifari e flaùti; e in omne canto / del suo partir se facëa gran pianto.

 

Dal III Libro della Storia civile della fedelissima città di Capua di Francesco Granata. Papa Alessandro VI invierà il figlio cardinale Cesare Borgia per l’incoronazione[21]:

Or’ amando teneramente Federico la Città di Capua, volle in essa coronarsi Re di Napoli, essendogli stata mandata la corona del Reame per mezzo di Cesare Borgia, Legato Apostolico di Alessandro VI., chiamato il Cardinal di Valenza.

 

Dal VI libro dello Balzino. Mentre è a Barletta Isabella è messa a conoscenza dell’incoronazione[22]:

Appresso venne nova gracïosa / Che se apparecchia el re per coronarse / Cum festa grande, nobil e suntuosa; / (i)n Capua deliberava omnino farse, / ché per la
peste in Napul non è cosa / per tanta gente avea a retrovarse; / (e) fra pochi dì lo legato verria, / el cardinal de Valencia saria.

Venea omne dì lettre da’ cortesani / De li apparati grandi se facia; / le pompe tanto grande in forge strane, / che nol videndo non se crederia; / reputando tutte l’altre esserno vane, / più bella che tal far(e)se non poria; / de che la regina avea assai allegreza / audir(e) del marito tanta adorneza.

 

Dai Giornali di Giuliano Passero. 10 agosto 1497. Incoronazione di Federico a Capua[23]:

Alli 10. di Agusto 1497. in dì santo Laurenzo se fece la festa della incoronatione dello signore Re Federico I. di Aragona a Capua, dove ce fo fatta grandissima festa, & con gran cirimonie dove se viddero de molti baroni dello Riame adobbati ddi broccato & gioie, & de adornezza

 

Dal III Libro della Storia civile della fedelissima città di Capua di Francesco Granata. 10 agosto 1497. Incoronazione di Federico a Capua[24]:

… già seguì tal coronazione in Capua nella Cattedrale il giorno decimo d’Agosto 1497. di Giovedì su l’ora 17. circa dieci mesi, e tre giorni dopo la morte di Ferdinando II. Vi fu gran pompa ed apparato, essendo decorata la funzione dall’intervento d’un numero grande di Prelati, di tutti i Principi, che si ritrovarono in Regno, dell’Arcivescovo di Cosenza, allora Segretario del Papa

 

Dal VI libro dello Balzino. 10 agosto 1497. Incoronazione di Federico a Capua[25]:

Or venne po’ la nova tanto grata / De la felice sua coronacione, / como a dece de augusto fo celebrata / cum gran trïunfo, assai demostracione. / Dal Signor Re e da molti fo avvisata / la pompa che ià fe’ omne barone, / de broccati, rizi, sete e panni de oro, / catene, collane et altro ricco decoro.

 


[1] Cfr. I.A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 c.a), Lecce 1728 (https://archive.org/details/apologiaparadoss00ferr). La precedente edizione del testo è stata pubblicata a cura di Alessandro Laporta (cfr. A. Laporta, Introduzione, a I.A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 c.a), Lecce 1707 (riedito a cura e con introduzione di A. Laporta, Cavallino 1997).

[2] Domenico De Angelis, ad esempio, nelle sue note sulla vita di Ferrari pubblicate nel 1710, a proposito di quest’opera scrive: “Paradossica Apologia, la quale quanto prima dovrà uscire alla luce, essendosene di già impressa la maggior parte per opera, e diligenza dell’eruditissima Accademia degli Spioni, avendo Giusto Palma onoratissimo gentil’uomo Leccese, e Consolo della medesima, uomo anch’egli quanto saggio, ed erudito, altrettanto amante dell’onore, e della buona fama della Patria, preso la lodevol cura di farla stampare, e per mezzo della diligente attenzione di D. Lazzaro Greco, anch’egli Accademico, di farla riscontrare colle migliori, e più fedeli copie, che ne correvano, riducendola al senso del suo proprio originale, il quale si è trovato in moltissime parti, lacero, guasto, ed alterato, per lo poco intendimento di quei, che vi avevan fatto sopra parecchie aggiunte, discordanti dalla Cronologia de’ tempi, e dalla verità di quella storia; e particolarmente per l’imperizia, e per l’avidità de’ poco accorti, ed ambiziosi annotatori, alcuni de’ quali indotti forse da strabbocchevole desiderio d’ingrandir troppo la fama della loro famiglia, e d’innalzare i fatti degli Avi loro, si studiarono poco felicemente, di accrescerla di notizie stravagantissime, e lontane dalla mente dello Scrittore dell’Opera” (cfr. D. De Angelis, Le vite de’ letterati salentini, I, Firenze 1710, pp. 123-135: p. 130).

[3] E’ esemplificativo, in tal senso, il titolo integrale dell’opera: Apologia paradossica, di M. Jacopo Antonio Ferrari, giureconsulto, e Patrizio leccese divisitata in tre libri nella quale si dimostra la precedenza, che deve avere l’antichissima e fedelissima Città di Lecce né Parlamenti Generali del Regno e come debba essere preposta, non solo alle Città di Capua, e di Cosenza, ma a tutte le Città del Regno, eccetto Napoli.

[4] Cfr. M. Marti (a cura di), Opere (cod. per F 27), Lecce 1997.

[5] Si riporta la copia delle quattrocentesche Cronache di Antonello Coniger trascritte da Aurelio Pelliccia (A. Pelliccia, Raccolta di varie croniche, diarj, ed altri opuscoli, cosi italiani, come latini appartenenti alla storia del Regno di Napoli, Tomo V, Napoli 1782, pp. 5-54) (http://books.google.it/books?id=RhxAAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).

[6] Cfr. G. Passero, Giornali, a cura di M. M. Vecchioni, Napoli 1785 (http://books.google.it/books?id=OBute-976hIC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).

[7]Cfr. F. Granata, Storia civile della fedelissima città di Capua, Libro III, II vol., Napoli 1752 (http://books.google.it/books?id=vKE5PJJ8doIC&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false).

[8] Forse Ferrari fu tratto in inganno dal fatto che partecipò all’incoronazione di Federico il segretario di Alessandro VI e vescovo di Cosenza, Bartolomeo Florido, a cui è succeduto nella diocesi nel 1499 Francesco Borgia.

[9] “… lo signore Re se incoronai, & incoronato che fo se ne tornai in Napoli con lo Cardinale legato, che era venuto ad incoronarlo, & in Napoli se reposaro circa dui iorni, & dopoi se ne andaro in Sorriento, dove stavano le due Regine vedue madre, e figlia, & lo signore Re ce andai insieme con lo sopradetto legato, dove foro benignamente receputi, & la reposaro dui giorni & poi montaro sopra quattro galere, e tornaro in Napoli, & lo detto legato stette cinque iorni in Napoli dopoi cercai licenza allo signore Re Federico per tornare in Roma, & lo signore Re li fece un ricco dono & isso con la sua gente se ne tornai in Roma” (G. Passero, op. cit., p. 115).

[10] A. Pelliccia, op. cit., p. 37.

[11] M. Marti (a cura di), op. cit., p. 126.

[12] G. Passero, op. cit., pp. 108 e 110-11.

[13] A. Pelliccia, op. cit., p. 39.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 40.

[16] M. Marti (a cura di), op. cit., pp. 132-33.

[17] Ivi, pp. 133-34.

[18] Ivi, pp. 138. Il Galeotto inviato da Federico è Galetto Carafa, accompagnato dalla moglie Vittoria Cantelmo, cugina di Isabella. In nota Marti precisa che la data di partenza fu il 24 maggio (cfr. Ivi, p. 327).

[19] A. Pelliccia, op. cit., p. 41.

[20] M. Marti (a cura di), op. cit., p. 145.

[21] F. Granata, op. cit., p. 163.

[22] M. Marti (a cura di), op. cit., p. 217.

[23] G. Passero, op. cit., p. 115.

[24] F. Granata, op. cit., p. 163.

[25] M. Marti (a cura di), op. cit., p. 217.

Lecce. Piazza Tito Schipa, si torna a parlare…

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di Gianni Ferraris

Di Piazza Tito Schipa si torna a parlare, il progetto devastante pare in fase avanzata se in noti quotidiani alcune pubblicità a pagamento di una nota immobiliare salentina dice papale papale:

Nel cuore di Lecce si lavora per far sorgere un prestigioso complesso commerciale, nato per la riqualificazione dell’area di Piazza Tito Schipa…

Quindi tutto a posto, tutto in regola. Secondo alcuni non lo è affatto.  È di questi giorni la notizia di una petizione sottoscritta da alcuni intellettuali, studiosi e leccesi in genere per scongiurare lo scempio. Partita per iniziativa di:

ADOC, Ass.M. Perrotta,  Forum ambiente e salute, Italia nostra, Mov. Valori e rinnovamento,  Società di storia patria –  LECCE   –  promotori del COMITATO TUTELA AREA ARCHEOLOGICA  EX MASSA 

Vede come prime adesioni:  Salvatore De Masi, Eugenio Imbriani, Fernando Fiorentino,Guglielmo F. Davanzati, Giovanni Invitto, Bruno Pellegrino,  Mario Signore, Woitek. Pankievicz,   Mario Spedicato,  univ. Salento; Astragali teatro.

 per adesioni tel 0832 493673, 347 5599703, 392 8172087

 

La storia pare infinita, abbattuta la chiesa e l’ex caserma Massa nel 1971 nonostante pareri negativi della soprintendenza, la piazza divenne parcheggio. Da alcuni anni si sono iniziati scavi per costruire l’improbabile centro commerciale e parcheggi sotterranei a gestione mista.  Ora, siccome era nota da decenni la presenza in loco di reperti medievali, di una chiesa, di un cimitero, è plausibile lo stupore nel ritrovare reperti ed ossa?  Ne ha parlato  Giovanna Falco, attentissima appassionata di storia leccese, che già nel 2012 nell’articolo “Santa Maria del Tempio in Lecce. Le ossa dei frati” pubblicato prima sul blog Spigolature Salentine, poi sul sito della Fondazione Terra d’Otranto  (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/santa-maria-del-tempio-in-lecce-le-ossa-dei-frati/) ha indicato i servi di Dio e i membri di ordini cavallereschi sepolti nella cripta della chiesa, e che ha continuato a raccogliere notizie storiche di questo pio luogo.

Scrive la Falco:

“Il convento di Santa Maria del Tempio ha rivestito un ruolo di primo piano nella storia di Lecce, non solo dal punto di vista religioso (qui ad esempio si formò nel XV secolo fra Roberto Caracciolo), ma anche civile, basti pensare ad esempio, così com’è raccontato nella cronaca di Antonello Coniger, che vi sono stati incarcerati i nobili leccesi che nel 1495 hanno aderito alla rivolta filofrancese di Carlo VIII, qui, inoltre, erano custoditi alcuni documenti pubblici della città. Durante la seconda guerra mondiale, quand’era stato da tempo adibito a caserma, vi si celebrava la cerimonia della consegna del gagliardetto alle truppe che partivano per il fronte. Nelle fonti della storia di Lecce episodi legato a questa struttura conventuale ricorrono spesso. Riguardo le fondamenta del convento di Santa Maria del Tempio, oltre al loro valore architettonico, hanno custodito per secoli sia vari reperti che testimoniano la vita conventuale, sia i resti mortali dei frati, dei cittadini che morivano fuori città, dei frati ricoverati nell’infermeria provinciale monastica, dei titolari delle cappelle gentilizie nella chiesa, ma anche, nel 1812, i detenuti delle Carceri Centrali ammalatisi di tifo petecchiale e successivamente i cittadini leccesi quando l’area è stata destinata per un periodo a zona cimiteriale. Oltre ai sette servi di Dio inumati nella tomba comune dei frati nel XVII secolo, si ha testimonianza della sepoltura del cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni, balì di Venosa e commendatore di Maruggio, voluta nel 1449 da Giovanni Orsini del Balzo. Vi è stato sepolto anche il barone Mario de Raho, morto nel 1678 e sepolto con l’abito dei Cavalieri Regolari della Immacolata Concezione di Maria, un ordine militare seicentesco poco noto. Tra i cittadini illustri sepolti in Santa Maria del Tempio, Bernardino Braccio menziona il medico Scipione Panzera, morto nel 1642 (da cui discesero Saverio e Oronzo, sindaci per il ceto civile nel XVIII secolo). A fine Settecento vi volle essere tumulato Giuseppe Romano, sindaco di Lecce per il ceto nobile dal 1768 al 1770, cui fu dedicato il poemetto satirico La Juneide ossia Lecce strafurmatu. Puema eroecu dedecatu alli Signuri Curiusi”.

 

Si ha notizia anche di altri sindaci della città di Lecce sepolti, tuttavia sono fonti da approfondire.

Bene, durante gli scavi sono con tutta evidenza state scoperte ossa umane e saranno indubbiamente state, come prevede la legge, accuratamente catalogate e trasportate in luogo idoneo rispettando ogni normativa, in particolare con la supervisione importantissima di antropologi. Non c’è motivo di metterlo in dubbio e sicuramente ci saranno le catalogazioni disponibili per ogni tipo di verifica.  La legge in riguardo è giustamente severissima, leggo infatti:

Un particolare obbligo di denuncia viene imposto dal regolamento sulla polizia mortuaria (artt. 3 e 5 D.P.R. 285/90) a carico del Sindaco,  per le ipotesi di morte che possono presentare sospetti di  reato ovvero per i casi di ritrovamento di cadaveri, resti mortali ed ossa umane. Nel primo caso, quando dalla scheda di morte sorge il sospetto che la morte possa essere stata determinata da reato, il Sindaco ha l’obbligo di darne comunicazione sia all’A.G. che all’Autorità di P.S. . In questo caso permane,  a  carico del sanitario che ha redatto la scheda di morte,  l’obbligo del referto di cui all’art. 365 c.p. Nel caso, invece, di ritrovamento di cadavere, di resti mortali ovvero di ossa umane, chi effettua la scoperta deve darne comunicazione al Sindaco e questi, a sua volta, deve darne comunicazione all’Autorità Giudiziaria, a quella di P.S. ed all’A.S.L..

 

E certamente i lavori saranno seguiti, come vuole la legge, dalla Soprintendenza, anche se annotiamo che i nomi dei funzionari addetti mancano nei cartelli dei lavori.

In buona sostanza a Lecce manchi un piano di viabilità degno di una città d’arte candidata a capitale della cultura, però qualcuno può mettere in vendita edifici a notevolissimo impatto urbanistico ancora da costruire, e soprattutto per i quali manca ancora, visto che è stata richiesta in questi giorni, la verifica di assogettabilità a VAS (Valutazione Ambientale Strategica). Questo era un atto che doveva precedere tutto il resto, ad oggi, a progettazione già avviata, è veramente strana questa tardiva richiesta. In particolare se si valuta che, trattandosi di project financing, il Comune ha obblighi verso l’impresa la quale potrà rivalersi per eventuali danni.  Veramente strani sommovimenti.

 

Link utili:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/lecce-trasformazioni-e-ampliamenti-del-convento-di-santa-maria-del-tempio/

http://www.lecceprima.it/articolo.asp?articolo=28945

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/santa-maria-del-tempio-in-lecce-le-ossa-dei-frati/

 

Libri. La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

chiesa di san Giuseppe Nardò

E’ uscito in questi giorni il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”,  La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.

Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio,  Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.

la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)
la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)

Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.

Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.

Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.

Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.

l'altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)
l’altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)

Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.

Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.

particolare dell'altare maggiore (ph Paolo Giuri)
particolare dell’altare maggiore (ph Paolo Giuri)

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (seconda parte)

La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/
La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/

di Giovanna Falco

 

Gli appunti contenuti nelle varie opere di Pacichelli sono dettati dal gusto e della curiosità e danno la sensazione a chi li legge di tornare in dietro nel tempo e di percorrere insieme con lui le vie della città e del suo circondario.

Venerdì 17 maggio 1686[i], Pacichelli giunge da Campi a Lecce, «scoverta nella torre quattro miglia avanti, quasi con maestoso invito, ma superiore alla fama che ne corre»[ii], cioè dalla stessa direzione da dove è stata ritratta la veduta pubblicata in Il Regno di Napoli in prospettiva.

«Alle 21 hora» entra «in questa Metropoli della Provincia di Otranto»[iii] in groppa a un cavallo affittato da un soldato ad Altamura: un animale «di buono, e grande aspetto, mà vitioso nell’inciampare ad ogni passo»[iv], tant’è vero che poco prima di entrare a Lecce, gli era caduto addosso[v]. È accompagnato dal suo «Cameriero, accoppiandosi meco per guida à piedi un tale Bello Tonno (sopranomi de’ frequenti ad Altamura) applicato ò correr co’ dispacci per le Provincie»[vi].

Pacichelli si reca presso la chiesa dei Gesuiti ad assistere alla funzione della Buona Morte, quindi incontra l’abate Scipione De Raho che «non permise, che in alcun Chiostro io mi fermassi» e lo «condusse subito in sua casa, che hà forma di palazzo»[vii] in corte dei Malipieri[viii].

Il mattino seguente i due abati escono per visitare la città, ma è improbabile che il loro itinerario sia coinciso con il succedersi dell’esposizione dei luoghi indicati nella lettera del 1686 e in Il Regno di Napoli in prospettiva.

Chiesa del Gesù
Chiesa del Gesù

La prima chiesa a essere illustrata è quella dedicata alla protettrice Sant’Irene, officiata dai padri Teatini, «maestosa, con le cappelle sfondate»[ix], circondata da un largo cornicione, «mà il tetto desidera il volto o’l soffitto»[x].

Nella chiesa Pacichelli si sofferma ad ammirare «presso la porta trè tele di S. Carlo Borromeo, e nella Croce alla sinistra S. Gaetano, dipinti à Parma da un loro Laico»[xi], affermazione che contrasta con l’attribuzione delle quattro tele e con l’ubicazione dell’altare di San Gaetano, situato nel transetto destro della chiesa, di cui Infantino aveva trascritto il testo della lapide in onore del Santo, datata 1630[xii]. Infantino, inoltre, aveva specificato: «habitano in questa Casa per ordinario quaranta Padri»[xiii], mentre Pacichelli accenna solo alla «mediocre Biblioteca»[xiv].

Il «sontuoso Collegio della Compagnia dedicato alla Circoncisione»[xv], ha la facciata che «par che superi quella del Collegio Romano»[xvi]. Pacichelli lo ritiene «sconcio ne’ Dormitori»[xvii], reputati invece nel 1703 «commodi, con le Camere, con Chiostri à basso per passeggiarvi, ove han luogo le vaste Scuole, e la stanza cangiata in Cappella del P. Realino, sepolto ivi, non si sa dove»[xviii], «presso alla Sagrestia, restando finita di corpo grande la Chiesa»[xix], con, descrive Infantino, «bella, signoril, & ampia prospettiva» che si affaccia su una piazza, realizzata dopo aver «buttato à terra un gran Palagio, che stava incontro»[xx].

Il Duomo
Il Duomo

In piazza Duomo, Pacichelli osserva il palazzo vescovile, «veramente Cardinalizio»[xxi], la cui facciata, realizzata dal vescovo Scipione Spina, era stata descritta da Infantino come «una bella Galleria con bellissimo ordine di colonne à torno à torno, con balaustri à basso, e sopra»[xxii]. Pacichelli descrive il «novello tempio», rinnovato «nel 1658 dal Vescovo Monsignor Luigi Pappacoda in forma sì nobil’e vasta, con le cappelle ricche di marmi»[xxiii], tra queste ammira quella «molto vasta di S. Oronzio Vescovo Protettore»[xxiv], e nel 1687, oltre al soffitto, quella del «SS. Crocefisso col sepolcro composto di meravigliosi lavori di quella delicata pietra, per memoria, e per cenno di Monsig. Vesc. Pignatelli»[xxv]. Scende anche nel soccorpo che «apparisce ornato dal fù Monsignor Vescovo Luigi Pappacoda ivi sepolto»[xxvi], ma già «maravigliosamente abbellito», ai tempi di Infantino grazie alle «elemosine raccolte per Gio. Griffoli nobile Senese all’hora Vicario»[xxvii].

5 Basilcia di Santa Croce

Pacichelli reputa «magnifica forsi più di tutte la Chiesa di Santa Croce de’ Celestini vicino alle mura»[xxviii], che «spicca per la facciata nobilissima del Gran Tempio, e per l’architettura del Monistero; v’è in essa frà l’altre un’antica Cappella della Nobil Famiglia Sementi, con un miracoloso Quadro de’ Santi Benedetto, e Mauro, essendo tutta la chiesa adorna di nobili pitture, ed intagli»[xxix]. A proposito di questo altare Infantino aveva scritto: «la Cappella di San Benedetto, sotto la cui regola militano i Padri Celestini, Altar privilegiato de’ Sementi», «è hoggi del Dottor Francesco Maria Seme(n)ti, figliuolo di Gio: Lorenzo, e fratello di Donato Antonio, e Leonardo, di buona memoria, il primo Dottor in Teologia, & in legge, & il secondo Dottor di leggi»[xxx], probabilmente è lo stesso Donato Antonio cui è dedicata la veduta di Lecce di Il Regno di Napoli in prospettiva.

Riguardo alle quattro parrocchiali, istituite nel 1628 dal Visitatore Apostolico Andrea Perbenedetti[xxxi], oltre a quella già illustrata del Vescovado, Pacichelli accenna alla chiesa di Santa Maria della Luce, e menziona quella Santa Maria della Porta, che «hà un’Immagine dispensatrice di Grazie»[xxxii], «che hora si vede dentro quei indorati cancelli di pietra Leccese, fabricata da diverse carità, e limosine»[xxxiii] così come si apprende da Infantino, e la chiesa di Santa Maria della Grazia, di cui Infantino decantò l’ «intempiatura di sì bei lavori, che non credo si trovi simile in tutto quanto il Regno»[xxxiv], e Pacichelli definì «vaghissima nella maggior piazza»[xxxv].

La piazza era stata descritta da Infantino «molto spatiosa, ampia, lastricata, e bella, e circondata anche da ricchi fondachi, portici, e botteghe»[xxxvi], arricchita dalla fontana «con la Lupa insegne della Città»[xxxvii] (ubicata nel 1686 fuori porta San Biagio), dal «superbissimo Seggio di sontuose fabriche di diversi lavori», al quale «s’ascende magnificame(n)te per molti gradi, e su questi vi è una balaustra di ferro alta, e di bel lavoro attorno», sormontato da un «bellissimo Orologio con due statue di pietra Leccese, che sostengono la Campana»[xxxviii] e «all’incontro è il Tribunale della Regia Bagliva»[xxxix]. Dentro alcune botteghe, annotava ancora Infantino, «si veggono le reliquie di antichissimi edificij, detti volgarmente i borlaschi, machina superbissima in forma di Teatro, simili à gli antichi Teatri Romani»[xl]. Nel 1684 Pacichelli aveva sbrigativamente accennato: «la piazza grande hà il Seggio chiuso di ferro, fontana, e piramide, con la statua di Sant’Orontio, sendo sparse le botteghe de’ Negotianti»[xli], mentre nel 1686 oltre a citare la «Statua, e questa di marmo, dell’Imperador Carlo V una fonte artifitiale con quella del Rè di Spagna Carlo II», si sofferma sulla «colonna trasferita da Brindisi, e già ivi consegrata ad Hercole, diminuita però, con la Statua di rame di S. Oronzo valutata 300 ducati, benche tutta la spesa di questa mole, e sua trasportazione arrivi à ventimila. Ne’ quadri più nobili del piedistallo sono incise le Inscrittioni» e «nell’anno 1684 in tempo del Signor Sindico Domenico Stabile che vi cooperò non poco, e ne ritiene dal Signor Costantino Bonvicino dedicata, con altre quattro Statue de’ Protettori non ancora intagliate né fuse à gli angoli della base, e de’ balaustri, l’idea»[xlii]. Pacichelli trascrive nel 1686 il testo di due epigrafi[xliii] e un altro nel 1703[xliv], quando la statua del santo è descritta in bronzo e si legge che il popolo: «per haver dimostrata la presentanea protezzione nel 91 e 92 nel Contaggio della prossima Provincia di Bari, v’impresse nella faccia della base questo Epigrafe; semper Protexi, et Protegam, havendo sempre la sua Patria di Grazie, e di Miracoli arricchita»[xlv].

Chiesa di Santa Maria delle Grazie
Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Della chiesa di San Francesco della Scarpa dei Conventuali, Pacichelli menziona la «stanza bassa vicina al Giardino, habitata da S. Francesco»[xlvi], quando, così come riferì Infantino, il santo oltre a mandare a Lecce i suoi frati, «volle con la sua propria persona anche honorarla, nel ritorno ch’egli fece da Soria»[xlvii]. Pacichelli puntualizza, così come si evince anche dalla lettura di Lecce sacra, che la cappella fu «migliorata in un Sagro Oratorio»[xlviii]. Nel giardino l’abate nota l’«Arancio piantato da P. S. Francesco»[xlix], il cui frutto, aveva precisato Infantino «mangiato dagli Infermi con fede, ben spesso si guariscono»[l].

Pacichelli osserva nel complesso monastico di «S. Angelo de gli Agostiniani l’Infermaria e la cappella del Giugno»[li], dove era stato sepolto Giovan Battista Giugni, morto a marzo dello stesso anno, cui era stata dedicata una lapide nel chiostro, di cui riporta il testo. Giugni aveva fiorito «in amendue le Academie di questa Città»[lii], cioè quella dei Trasformati e quella degli Spioni. Pacichelli descrive accuratamente la cappella di questa famiglia, ubicata «nel destro lato della Chiesa, la seconda cappella da lui dedicata alla Reina del Carmelo»[liii], trascrivendo i testi incisi su quattro lapidi. Non fa testo la descrizione di Infantino, perché la chiesa fu ricostruita nel 1663.

«In fine di rado vidi al di dentro, la casa hoggi nobilitata, che dicon già fosse di Sant’Oronzo»[liv]: il palazzo dei Perrone (nell’omonima via), che «furono quelli che si fecero ritenere discendenti da S. Oronzo Protettore di Lecce e che inventarono la leggenda dell’Angelo col tortano cui prestò fede il buon Padre Pio Milesio»[lv].

(CONTINUA)

prima parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/05/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta/

terza ed ultima parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/


[i] La data si desume dalla circostanza che Pacichelli trova la chiesa di Santa Croce «coperta di setini, col Trono dell’Abate per la festa del Santo lor fondatore». La festività di San Pietro Celestino ricorre il 19 maggio, che nel 1686 cadeva di domenica (M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162).

[ii] Ivi, p. 158. Nel 1686 Pacichelli afferma che la torre campanaria del duomo «costa quindeci mila ducati» (Ivi, p. 185), mentre nel 1703 è «valutata 15 m. scudi » (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 169).

[iii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.,p. 159.

[iv] Ivi, p. 142.

[v] Cfr. Ivi, p. 159

[vi] Ivi, p. 142.

[vii] Ivi, p. 159.

[viii] Nel 1631 il palazzo ricadeva nell’isola delli Condò della parrocchia di Santa Maria de la Porta, e vi abitavano Mario de Raho con la moglie Andriana Riccio, Leonardo Riccio e una schiava (Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce).

[ix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.,p. 160.

[x] Ibidem.

[xi] Ibidem.

[xii] Cfr. G.C. Infantino, op. cit., p. 35.

[xiii] Ivi, p. 33.

[xiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169. Ritenuta senza rarità nel 1686.

[xv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 116.

[xvi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xvii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xviii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xx] G.C. Infantino, op. cit., p. 170.

[xxi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xxii] G.C. Infantino, op. cit., p. 10.

[xxiii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 116. «Gli epitafi» delle cappelle, «con quel della fronte si trascrivon dal Ab. Franc. De Magistris in Statu Rerum Memorab. Neap. I, num. 43, fol. 29 che non cede ad altre di questo Dominio» (Ibidem).

[xxiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169.

[xxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 222.

[xxvi] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 169.

[xxvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 7.

[xxviii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162

[xxix] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., pp. 169-70.

[xxx] G.C. Infantino, op. cit., p. 120.

[xxxi] Cfr. F. De Luca, La visita apostolica di Andrea Perbenedetti nella città e diocesi di Lecce, in «Kronos: periodico del DBAS Dipartimento Beni Arte e Storia», n. 8, 2005, pp. 31-68

[xxxii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[xxxiii] G.C. Infantino, op. cit., p. 71.

[xxxiv] G.C. Infantino, op. cit., p. 109.

[xxxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 162.

[xxxvi] [xxxvi] G.C. Infantino, op. cit., p. 111.

[xxxvii] Ibidem.

[xxxviii] Ivi, p. 112.

[xxxix] Ivi, p. 113.

[xl] Ivi, pp. 111-12.

[xli]  M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., 117.

[xlii] Ivi, pp. 162-163.

[xliii] «Così, dunque, da un alto: columnam hanc, quam brundusina / civitas suam ab ercule ostentans / originem profano olim ritu in sua / erexerat  insignia, religioso tandem / cultu divo subiecit orontio, ut / lapides illi qui ferarum domitorem / expresserant, celamine, voto, aereq; / lupiensium exculto, truculentioris / pestilentiae monstri triumphatore / posteris consignarent. E dall’altro: siste ad hanc metam famae / augustum quondam romani fastus, / nunc eliminatae luis trophaeum / columnam vides, potiori nunc herculi / d. orontio sacrae. non plus ultra / inscribit Orontius Scaglione, patritius / non sine numine primus, hutusce / nominis patriae pater. statua / ab altera basi. illam cum statua / erexit. anno domini salu. mdclxxxiv» (Ivi, p. 163). Il primo testo è inciso alla base della colonna sul lato prospiciente l’anfiteatro, il secondo è sul lato di fronte al Sedile.

[xliv]«in un de’ lati il presente attestato, D. Orontio Protochristiano, Prothopraesuli, Prothomartyri Liciensi ab averuncatam à Patriae solo totaque Salentina Regione pestilentiam in anno MDCLVI Italiam provinciatim desolantem Columnam hanc Clerus Ordo Populisque Lyciensis erexit ut in Columna ad suor um munim Divus ipse excubaret Orontius, habexentique posteri perenne Urbis devictissimae pro tanto beneficio monimentum» (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170). Il testo è ancora leggibile alla base della colonna, sul lato addossato all’edicola di giornali.

[xlv] Ibidem.

[xlvi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 164.

[xlvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 47.

[xlviii] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 170.

[xlix] Ibidem.

[l] G.C. Infantino, op. cit., p. 80.

[li] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 164.

[lii] Ibidem.

[liii] Ivi, p. 165. L’altare dovrebbe essere quello ora dedicato alla Madonna del Rosario.

[liv] Ivi, p. 167.

[lv] A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451: p. 430.

Una passeggiata a Lecce di fine Seicento. L’abate Giovan Battista Pacichelli descrive la città (parte prima)

La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/
La veduta di Il Regno di Napoli in prospettiva è tratta da http://www.vecchiaprovinciadilecce.it/

 

di Giovanna Falco

 

Il Regno di Napoli in prospettiva dell’abate Giovan Battista Pacichelli[i], pubblicato postumo nel 1703[ii], è noto per lo più per le vedute prospettiche delle città che lo corredano e per le tavole delle dodici provincie che formavano il regno[iii]. L’opera si basa su lettere inviate dall’abate ad amici e conoscenti durante i suoi viaggi, pubblicate nel 1685 e nel 1691, in Memorie de’ viaggi per l’Europa Christiana e in Memorie novelle de’ viaggi per l’Europa cristiana[iv].

Le notizie su Lecce, riportate nella Parte seconda di Il Regno di Napoli in prospettiva, nel capitolo dedicato alla settima provincia del Regno di Napoli, cioè Della Japigia o Terra d’Otranto[v], sono state raccolte dall’autore durante tre viaggi compiuti nel 1684, nel 1686 e l’anno successivo e raccolte nelle Memorie anzidette[vi].

Nella primavera del 1684 Pacichelli è a bordo di una feluca e, «scendendo per poche miglia in terra dal mare, ove torna meglio in acconcio»[vii], probabilmente sbarca a San Cataldo: «porto picciolo, verso scirocco, sette miglia da Lecce, col Castello guardato da’ Soldati Italiani e dal Castellano del Rè Cattolico, nominato Porto di San Cataldo, perché in esso approdò quel Santo»[viii]. Nel 1686 l’abate, giunto da Campi a cavallo, si sofferma più a lungo nella descrizione di Lecce: visita la mattina i luoghi all’interno delle mura e il pomeriggio quelli all’esterno. Nel maggio 1687 entra in città dalla via di Lequile e dedica gran parte delle circa ventiquattro ore ivi trascorse «a visitar vari Amici, spiccando frà loro la Cortesia, e la Bellezza nelle Donne» e a intrattenersi con il vescovo Michele Pignatelli, che «raccontò gli sconcerti de’ suoi Diocesani, armati di centinaia di scoppette per resister al sagro Sinodo convocato» e lo invita «alla bella funzione della prima pietra alla Chiesa delle Monache di Santa Chiara»[ix].

Le notizie riportate da Pacichelli, ritenuto da Cosimo Damiano Fonseca un poligrafo «con una spiccata tendenza alla versatilità alla curiosità, al gusto della notazione erudita, senza eccessive pretese di rigore filologico, di verifiche puntuali, di vaglio critico»[x], sono da verificare, così come si evince in particolar modo quando indica le fonti da cui ha tratto le notizie storiche di Lecce. Nel 1684, ad esempio, cita correttamente «l’Infantino in 4 nella Lecce Sacra»[xi], ma nel 1686 si confonde e scrive: «chi vuol saper più, legga la Lecce Sagra del Sig. Francesco Bozi Patritio, e attenda in breve la Lecce Moderna di D. Giulio Cesare Infantino Curato di S. Maria della Luce»[xii], errore riportato anche in Il Regno di Napoli in prospettiva, dove menziona alcuni storici che hanno dissertato sulle antichità di Lecce[xiii]. In alcune note è palpabile l’arguzia che caratterizza l’autore, sia quando si sofferma a descrivere particolari anche superflui, come ad esempio l’abbigliamento di Scipione De Raho quando si accomiatò da lui, accompagnandolo «fuori dalle porte in berrettino, e pianelle»[xiv], sia quando illustra gli usi e costumi dell’epoca.

Sta di fatto che le sue annotazioni, nonostante alcuni refusi e inesattezze (alcuni evidenziati, altri da evidenziare, mettendoli a confronto con studi recenti), sono fondamentali perché descrivono la città a fine Seicento, in particolar modo se si mettono a confronto con Lecce sacra di Infantino, opera pubblicata una cinquantina di anni prima.

Lecce. Palazzo De Raho
Lecce. Palazzo De Raho

Lecce ha le «muraglie sostenute da Torri, Fosse, Cortina, e fortificazioni alla moderna con quantità di Baloardi, e Castello inespugnabile», con le «quattro Porte magnifiche, cioè a dire la Regale, o di S. Giusto, di S. Oronzo, di S. Biagio, e di S. Martino»[xv]. La città ha «trè miglia di giro, con vie larghe, e ben lastricate, giardini, fontane, fabriche nobili della pietra, che si cava nel suo fertile territorio, ch’è dolce e si lavora à guisa di legno con pialla. Non sà invidiar Napoli nello splendore, e magnificenza delle Chiese e de’ Chiostri di tutti gli Ordini»[xvi]. Già Infantino aveva rilevato che Lecce «vien stimata un picciol Napoli»[xvii].

«Le fabriche», dunque, «son di pietra bianca, che nasce là, si lavora con pialla, e riceve impression di figure col coltello, della quale vidi curiose Gelosie. Non si alzan molto, a cagion del peso, che fà cadere spesso le mura ed i Volti»[xviii].

La città è dotata di «trecento Carrozze, mantenute con poca spesa»[xix] (concetto ribadito anche nel 1703) e l’approvvigionamento idrico è dovuto a cisterne e pozzi[xx]. Tra i prodotti manifatturieri sono menzionati le «le belle coperte di bombace per la state»[xxi], i «Forzierini, ò Scrittori di pelle figurata, e dorata nelle coverte» e le «Tabacchiere di paglia historiate, che da 25 carlini son discese al valor di un tarì»[xxii].

La popolazione: «stimasi la più cospicua, e più popolata città del Reame, ove soggiornavan quantità di Nobili e ricche Fameglie, con molto lusso, e con galanteria verso de’ Forestieri, numerandosi à 3300 i fuochi»[xxiii] (declassata a una «delle più popolate del Regno»[xxiv] nel 1703), «inchiudendo non più di nove mil’anime, tutte civili verso il Forastiero, diminuite dopo il contagio, e la mortalità del 1679, con Fameglie antiche e riguardevoli; alcuni Baroni però che col Feudo di pochi carlini, altri col solo Dottorato, han luogo nel Magistrato supremo»[xxv]. Dopo avere affermato che Lecce è stata «Patria di gloriosi Eroi, così in Santità, come in Lettere, & armi»[xxvi], Pacichelli dedica tre pagine di Il Regno di Napoli in prospettiva a personaggi illustri leccesi ed elenca un gran numero di famiglie nobili[xxvii], così come aveva fatto Infantino quando aveva illustrato la chiesa di Santa Maria dei Veterani[xxviii].

Lecce. Chiesa di Sant'Irene, stemma di Lecce
Lecce. Chiesa di Sant’Irene, stemma di Lecce

A Lecce, oltre a risiedere il Preside con il suo Tribunale e il Vescovo che «gode vasta giurisditione in ventisette castelli»[xxix], secondo Pacichelli sono presenti «sette monasteri di Suore, trè spedali, e varie confraternite»[xxx], «la Clausura delle Convertite, e dodeci degli huomini»[xxxi]. Tra i monasteri femminili (tutti già fondati tranne quello delle Alcantarine), nel 1703 l’abate cita quello delle domenicane dei Chietrì[xxxii] e di «Santa Maria Nuova»[xxxiii] e, come si è già detto, nel 1687 quello di Santa Chiara. Non fa alcuna menzione al «refugio di povere verginelle»[xxxiv] di San Leonardo, né può citare il Conservatorio di Sant’Anna fondato in seguito. Si sofferma solo su dieci delle dodici case religiose maschili da lui indicate, accennando solo al domenicano San Giovanni Battista dei padri Predicatori e all’agostiniano Santa Maria di Ognibene (non ancora fondato all’epoca di Infantino). Non include nelle sue dissertazioni, però, i conventi dei Carmelitani (Santa Teresa e Santa Maria del Carmine), dei Fatebenefratelli (San Giovanni di Dio), dei Paolotti (Santa Maria degli Angeli), dei Minori Osservanti (Sant’Antonio da Padova), degli Osservanti (Santa Maria dell’Idria) e dei Cappuccini di Santa Maria di Rugge.

(CONTINUA)

seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/07/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-seconda-parte/

terza ed ultima parte:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/17/una-passeggiata-a-lecce-di-fine-seicento-labate-giovan-battista-pacichelli-descrive-la-citta-terza-ed-ultima-parte/

 


[i] Giovan Battista Pacichelli (1641-1695) Dottore in Diritto Civile e Canonico e laureato in Teologia, ricoprì l’incarico di Uditore Generale presso la Nunziatura Apostolica di Colonia, da dove intraprese numerosi viaggi in Europa. Ritornato in Italia e resosi conto di non poter fare carriera presso la corte del Papa, si recò a Parma, dove svolse le funzioni di Consigliere del duca Ranuccio II Farnese e di Uditore Civile della Città e dello Stato. Trasferitosi a Napoli, in seguito, nel 1683, rivestì l’incarico di Ablegatus del duca di Parma, da qui intraprese numerosi viaggi in Italia meridionale. Le notizie sulla vita di Giovanni Battista Pacichelli sono tratte dalle opere di Cosimo Damiano Fonseca, Michele Paone ed Eleonora Carriero (cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695), in C.D. Fonseca (a cura di), Puglia di ieri. Il Regno di Napoli in prospettiva dell’Abate Gio: Battista Pacichelli, Bari s.d., M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi dell’abate Pacichelli (1680-7), Galatina 1993, E. Carriero (a cura di), Giovanni Battista Pacichelli. Memorie dei viaggi per la Puglia (1682-1687), Edizioni digitali del CISVA 2010).

[ii] Il titolo completo dell’opera è Il Regno di Napoli in prospettiva diviso in dodeci provincie, / In cui si descrivono la sua Metropoli Fidelissima Città di Napoli, e le cose più notabili, e curiose, e doni così di natura, come d’arte di essa: e le sue centoquarantotto Città, e tutte quelle Terre, delle quali se ne sono havute le notitie: con le loro vedute diligentemente scolpite in Rame, conforme si ritrovano al presente, oltre il Regno intiero, e le dodeci Provincie distinte in Carte Geografiche, / Con le loro Origini, Antichità, Arcivescovati, Vescovati, Chiese, Collegii, Monisterii, Ospidali, Edificii famosi, Palazzi, Castelli, Fortezze, Laghi, Fiumi, Monti, Vettovaglie, Nobiltà, Huomini Illustri in Lettere, Armi, e Santità, Corpi, e Reliquie de’ Santi, / E tutto ciò, che di più raro, e pretioso si ritrova, coll’ultima Numeratione de Fuochi, e Regii pagamenti: con la memoria di tutti i suoi Regnanti dalla Declinatione dell’Imperio Romano, e di tutti quei Signori, che l’han governato. / Con i Nomi de’ Pontefici, e Cardinali, che sono nati in esso; Catalogo de’ sette Officii del Regno, e serie de’ Successori, e di tutti i Titolati di esso, col reassunto delle Leggi, Costitutioni, e Prammatiche, sotto le quali si governa. / Con l’Indice delle Provincie, Città, Terre, Famiglie Nobili del Regno, e quelle di tutta Italia. / Opera postuma divisa in tre parti dell’Abate Gio: Battista Pacichelli / Parte seconda / Consecrata all’Illustriss. Et Eccellentiss. Sig. il Sig. / D. Francesco Caracciolo Conte di Bucino Primogenito dell’Eccellenntiss. Sig. Duca di Martina, & c. / In Napoli. Nella Stamperia di Dom. Ant. Parrino 1703.

[iii]Nella lettera «Al Sig. Michele Luigi Mutii publico Stampatore in Napoli. / Consulta, e Giudizio per la stampa del REGNO DI NAPOLI IN PROSPETTIVA, Opera fresca dell’Autore», inviata da Portici il primo settembre 1691, Pacichelli scrive: «Sua è la cura di promuovere i disegni delle Città e Terre, e di fargli scolpir nel rame, dopo i già incisi delle Provincie: resta à me la sol’operatione, hormai compiuta, nello schiccherarne della sostanza» (G. Pacichelli, Lettere familiari, istoriche, & erudite, tratte dalle memorie recondite dell’abate d. Gio. Battista Pacichelli in occasione de’ suoi studj, viaggi, e ministeri, Napoli 1695, 2 voll., vol. I, pp. 188-9) I dodici “incisi delle Provincie” cui allude l’abate, sono una rielaborazione semplificata di quelle di Francesco Cassiano de Silva, pubblicate nell’Atlante di Antonio Bulifon del 1692 (Cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit.) . Riguardo alla veduta prospettica di Lecce non si conosce l’autore. Non può essere Cassiano de Silva perché la veduta prospettica da lui eseguita è differente (cfr. Il delfino e la mezzaluna. Studi della Fondazione Terra d’Otranto, Periodico della Fondazione Terra d’Otranto – luglio 2012, anno I, n. I, p. 90).

[iv] Cfr. G.B. Pacichelli, Memorie de’ Viaggi per l’Europa Christiana scritte à Diversi in occasion de’ suoi Ministeri, 5 vol., Napoli 1685 e  Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa Christiana comprese in varie lettere scritte, ricevute, ò raccolte dall’Abbate Gio: Battista Pacichelli in occasion de’ suoi Studi, e Ministeri, 2 vol., Napoli 1691. Le due opere sono suddivise in singoli capitoli (ognuno per Stato visitato), accompagnati da una lettera dedicatoria ad amici e conoscenti.  La cospicua corrispondenza dell’abate è stata poi raccolta nelle Lettere familiari (Cfr. G.B. Pacichelli, Lettere familiari cit.).

[v] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., pp. 150-191, e in particolare pp. 167-173. L’incisione in rame della veduta di Lecce è pubblicata tra le pagine 166 e 167.

[vi] La prima è tratta dalle Memorie de’ Viaggi per l’Europa Christiana e precisamente la LXXXIV «Naviagatione dilettevol’ e divota della costa di Amalfi, in Calabria, ed a Brindisi» scritta da Ostuni il 10 aprile 1684 e indirizzata a  monsignor Giacomo de Angelis (Memorie de’ Viaggi, IV, pp. 360-377). Le altre due lettere sono pubblicate nelle Memorie novelle de’ Viaggi per l’Europa Christiana, scritte rispettivamente da Pacichelli da Napoli il 25 ottobre 1686 e indirizzata all’abate Francesco Battistini «Tornando in Puglia, vede il Bello di Capo d’Otranto, Basilicata e Principato Inferiore» (Memorie novelle de’ Viaggi, II, pp. 141-153) e da Altamura il 28 maggio 1687 e indirizzata a padre Tommaso di Costanzo «Pellegrinaggio alla Madonna di Leuca, esponendo le Provincie di Otranto e Lecce» (Memorie novelle de’ Viaggi, II, pp. 154-179) (cfr. C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit., E. Carriero (a cura di), op. cit.). I viaggi pugliesi sono stati pubblicati anche da Michele Paone, da cui sono stati tratti gli stralci riportati nel testo (Cfr. M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit.).

[vii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 115.

[viii]G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit.,p. 171.

[ix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 222.

[x] C.D. Fonseca L’Abate Giovanni Battista Pacichelli (1641-1695) cit.

[xi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 115. Cfr. G.C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979.

[xii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 170. In nota Paone rileva l’errore e chiarisce che Carlo Bozzi (e non Francesco) nel 1672 diede alle stampe l’opera agiografica I Primi Martiri di Lecce (Cfr. Ibidem, n. 174).

[xiii] Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit, p. 168. Pacichelli Accenna alla storia di Lecce dalla fondazione all’epoca normanna e cita, oltre Bozzi e Infantino, il “Galatea”, Marciano, il “Volterrano”, Giulio Capitolino, Plinio, Antonello Coniger, Antonio Beatillo, P. de Anna (Cfr. Ivi, pp. 167-68).

[xiv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 176.

[xv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit, p. 168.

[xvi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., pp. 115-16. Nel 1686 il giro delle mura diventa di due miglia e mezzo, per tornare di tre miglia nel 1703.

[xvii] G.C. Infantino, op. cit., p. 3.

[xviii] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 160.

[xix] Ibidem.

[xx] Cfr. Ibidem. Anche nel 1703 Pacichelli si sofferma a parlare dei pozzi e cisterne (cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 169).

[xxi] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 117.

[xxii] Ivi, p. 170.

[xxiii] Ivi, p. 117.

[xxiv] G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit., p. 168.

[xxv] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p. 159. Descrizione simile a quella riportata nel 1703 (Cfr. G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 168).

[xxvi] Ivi, p. 171.

[xxvii] Cfr. Ivi, pp. 171-173

[xxviii] Cfr. G.C. Infantino, op. cit., pp. 126-168.

[xxix] M. Paone (a cura di), I viaggi pugliesi… cit., p 118.

[xxx] Ivi, p. 116.

[xxxi] Ivi, p. 164.

[xxxii] «Peregrina Creti fondò il Convento di S. Maria della Visitazione, detta volgarmente de’ Chieti di Vergini Claustrali, & Educande, e vi si legge su la Porta vecchia del Monistero questa Inscrizzione, Diva Mariae Sacram Edem, cui se devovit Peregrina de Criti Vestalis pia propiis sumptibus erexit pro sua, suorumque salute 1505. Kalend. Julii» (G.B. Pacichelli, Il Regno di Napoli in prospettiva… cit. p. 173).

[xxxiii] Ivi, p. 167. Lo cita a proposito del «Marmo colà scoverto nelle fondamenta del Chiostro» trascrivendo due righe del testo riportato anche da Infantino, ma integralmente (Cfr. G.C. Infantino, op. cit., p. 89).

[xxxiv] Ivi, p. 85.

Lecce, San Marco e la colonia veneta

San Marco

testo e foto di Giovanna Falco

 

La festa del santo di oggi è occasione utile per ricordare alcune delle testimonianze della Serenissima nel nostro capoluogo.

La nazione veneta aveva il suo centro operativo nella piazza dei Mercanti (attuale piazza Sant’Oronzo), con alcuni edifici tramandati dalle fonti: oltre all’isolato delle Capande dei mercanti veneziani (che sorgeva dove ora insiste l’ovale con lo stemma di Lecce, abbattuto tra il 1937 e il 1939), altre costruzioni sorgevano nell’area alle spalle della chiesetta di San Marco e del Sedile, che comprendeva le non più esistenti vico Luigi Cepolla[1]e via San Marco[2], dove, sulla finestra della casa del cappellano della stessa chiesa, vi era un altorilievo raffigurante il leone alato[3]. Un altro esemplare dell’emblema era apposto sul prospetto della residenza del console, ubicata nella non più esistente corte dei Ragusei[4] o nella cosiddetta Piazzella, ovvero uno spiazzo a ridosso della Regia Udienza che si apriva nell’area dell’attuale via Salvatore Trinchese.

Fu un veneziano, poi sindaco di Lecce, Pietro Mocenigo a commissionare il Sedile, realizzato tra il 1588 e il 1592[5].

San Marco 1

Ma  l’edificio che più di tutti attestava ed attesta la potenza della colonia veneta è la chiesetta di San Marco, posta a ridosso del Sedile. Nel 1543 il vescovo G.B. Castromediano concesse l’antica cappella di San Giorgio al console veneziano Giovanni Cristino, così come è attestato dall’iscrizione sull’architrave del portale laterale, che ne commissionò la ricostruzione e la consacrò a San Marco Evangelista. Per ricordare questa concessione ogni anno, il 25 aprile, si snodava una processione che portava al Vescovo di Lecce un cero di cinque libbre decorato da un nastro in oro. Sulla lunetta del portale principale è incastonato il leone alato.

La chiesa è stata attribuita a Gabriele Riccardi, così come quella di San Sebastiano in vico dei Sotterranei.

San Marco portale laterale

In passato la certezza della medesima paternità dei due edifici ha condizionato i restauri al monumento in piazza, eseguiti in epoca fascista. Antonio Edoardo Foscarini, in La chiesetta di San Marco in Lecce, riferisce l’andamento dei lavori. Nel 1930 il principe Sebastiano Apostolico Orsini, coadiuvato dall’ispettore Guglielmo Paladini e dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, diresse i lavori di restauro. Dato il pessimo stato di degrado riscontrato sui due portali della chiesetta, gli esperti decisero di riprodurre «in calchi il portale della chiesetta di San Sebastiano e da questi si poté ricavare il modello delle due colonne laterali e del fregio»[6].

A fine Ottocento la chiesetta fu oggetto di accese discussioni. Nel 1897 si pensò di abbatterla per far spazio al Sedile, ma una vera e propria crociata condotta dal professor Cosimo De Giorgi la salvò dalla distruzione. L’illustre studioso, dalle pagine del Corriere Meridionale, s’appellò alla cittadinanza ricordando come il piccolo edificio era testimone della presenza della potente colonia veneta che aveva nella piazza dei mercanti e nei suoi pressi, il quartiere con le botteghe, l’ospedale e la sede del console. Inoltre ricordava come la cappella fosse una delle pochissime dimostrazioni incontaminate dell’arte cinquecentesca. Da qui nacque un acceso dibattito che per più di un anno riempì le pagine dei giornali locali di polemiche, in alcuni casi, abbastanza colorite. Dalle pagine della Gazzetta delle Puglie, ad esempio, si polemizzava la troppa attenzione di Cosimo De Giorgi per «una cappelluccia corrosa e di nessuna importanza architettonica, destinata – fra i tesori del patrimonio artistico di Lecce – a passar senza infamia e senza lode» (Gazzetta delle Puglie del 17 luglio 1897). Il conte di Ugento, invece, sosteneva l’inutilità dell’abbattimento, in quanto «isolando il Sedile lo avremmo imbruttito, perché il lato su cui appoggia la chiesetta, è liscio come il seno d’una signorina inglese» (Corriere Meridionale del 29 luglio 1897). Alla fine Cosimo De Giorgi fu ascoltato dalle autorità competenti e la chiesetta fu restaurata nel febbraio 1899.

Santa Maria degli Angeli

Un’ulteriore importante testimonianza della colonia a Lecce la si ritrova nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in piazza dei Peruzzi, sul quarto altare della navata destra, sul cui fastigio si vedono due stemmi identici, posti ai lati del Leone di San Marco che tiene il Vangelo con la scritta Pax tibi, Marce Evangelista meus. Lo stemma è considerato dalla storiografia locale della famiglia veneziana Giorgio (d’argento, alla fascia di rosso), secondo altri dei Foscarini (d’oro, alla banda di fusi accollati d’azzurro), anch’essi veneti.

Pur se i tratti stilistici condurrebbero a datare questo manufatto ai primi anni del Seicento, Giulio Cesare Infantino, nella sua opera pubblicata nel 1634, non ne fa alcun cenno, ma menziona altri richiami alla nazione veneta: «una dipintura della Natività di Maria Vergine, venuta in quei tempi dalla Città di Venetia: opera d’esser attentamente considerata»[8], posta nel secondo altare a destra, di patronato dei Rollo; lo stesso scrittore annovera, inoltre, la cappella dei Rivola:

«gentil’huomini della Città di Bergamo, con una dipintura dell’Immacolata Concettione della Vergine molto eccellente opera d’Antonio della Fiore di questa Città di Lecce, sopra della quale si vede la seguente Iscrittione Basilio Rivola frati amatissimo ad amoris monimentum sibi, fuisque ad solatium superstites; Hieronymus, & Benedictus Rivola Patritij Bergamensis PP. A.D. M.DC.XII»[9]

membri della confraternita di San Marco Evangelista, fondata nel 1603[10].

 

 

 

 


[1] Già Ferraria dei manisqalchi e vico dietro il Sedile, corrispondeva agli attuali portici del palazzo dell’INA.

[2] Già strada delle librerie e poi degli Orefici, congiungeva via Augusto Imperatore a piazza S. Oronzo sino all’altezza della chiesa di San Marco.

[3] Cfr. R. BUJA, Dalla strada alla storia. Divagazioni sulla toponomastica di Lecce, Lecce 1994, pp. pp. 336-337.

[4] Già corte Campanella, nella strada Scarpàri, si accedeva da  via dei Templari, a destra, nell’area dove ora sorge il palazzo della ex Banca Commerciale.

[5] Su questo edificio, oggetto di due articoli pubblicati sul sito della Fondazione Terra d’Otranto, Fabio Grasso ha esposto interessanti argomentazioni in L’altra storia del Sedile di Lecce  e della chiesetta di San Marco  (http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/arte_e_cultura/2009/24-settembre-2009/altra-storia-sedile-lecce-chiesetta-san-marco–1601803211199.shtml).

[6] A. E. FOSCARINI, La chiesetta di San Marco in Lecce, estratto da  “Nuovi Orientamenti”, n. 92 – 93, a. XVI, Maggio – Agosto , Taviano 1985.

[8] G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979),  p. 94.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. G. Barletta, Le conclusioni della confraternita sotto il titolo di s. Marco Evangelista in Lecce (1605-1805), ASP, XLVI (1993), pp. 105-177. La confraternita aveva sede nella chiesetta di San Marco in piazza Sant’Oronzo.

2 aprile. San Francesco da Paola. Lecce devota al santo calabrese

di Giovanna Falco

All’indomani della disfatta della Repubblica partenopea per opera di don Giovanni d’Austria – avvenuta il 6 aprile 1648 -, il 29 dello stesso mese il Capitolo Cattedrale confermò il protettorato di San Francesco da Paola su Lecce, già in precedenza deliberato dal parlamento cittadino[1].

Lecce, chiesa di San Francesco da Paola (ph Giovanna Falco)

Gli storici hanno letto in questa decisione, sia una volontà di pacificazione sociale dopo i violenti moti scoppiati in quegli anni, sia un tributo a Filippo IV[2]. La scelta ricadde sul Santo di Paola, anche perché il 2 aprile ricorreva la sua festa.

Eppure San Francesco in molte sue prediche aveva difeso i più deboli contro la tracotanza dei potenti, tant’è vero che in un primo momento fu ritenuto pericoloso da Ferrante d’Aragona. Costui in seguito si ravvisò e nel 1482, quando Francesco transitò da Napoli per recarsi in Francia presso la corte di Luigi XII, lo volle conoscere.

Si narra che Ferrante cercò di conquistare la simpatia del frate offrendogli un piatto di monete d’oro, da adoperare per costruire un convento in città. Francesco ne spezzò una: ne scaturì del sangue e ammonì il re perché lo ritenne quello dei sudditi tiranneggiati. Questo episodio potrebbe indicare la volontà del vescovo di Lecce, Mons. Luigi Pappacoda, di rassicurare la popolazione ricaduta sotto il giogo del potere spagnolo, proponendo come patrono di Lecce proprio il difensore degli oppressi.

Lecce, particolare della facciata della chiesa di San Francesco da Paola (ph Giovanna Falco)

A Lecce, com’è già stato scritto in Piccoli tesori nascosti nel centro storico di Lecce: un’edicola di San Francesco da Paola [3], la venerazione per il Santo è stata molto intensa. Nel 1524 la città «ricevè … con molta divotione, e particolare affetto» i «Religiosi dell’Ordine de’ Minimi di S. Francesco di Paola»[4]. Erano passati solo cinque anni dalla solenne Canonizzazione proclamata da papa Leone X, quando Giovanna Maremonte, su disposizione testamentaria del marito Bernardo Peruzzi, fece realizzare chiesa e convento dedicati a Santa Maria degli Angeli.

Sulla facciata e lungo il fianco sinistro della chiesa è scolpita una teoria di testine: si ritiene che raffigurino personaggi legati alla vita di San Francesco e dei committenti del complesso religioso. All’interno della chiesa ben due altari sono dedicati al Santo: in uno è riposto un busto ligneo, nell’altro una statua lapidea.

Le colonne che fiancheggiano l’altare della Natività di Maria Vergine presentano bassorilievi che ritraggono simbologie legate al Santo, così come la volta del presbiterio raccoglie quattordici affreschi raffiguranti episodi della sua vita.

Lecce, palazzo Adorno, capitello con l’effigie del santo (ph Giovanna Falco)

Lo stesso tema si riscontra nella basilica di Santa Croce: «A man destra dell’Altare maggiore vi è la Cappella» dedicata a San Francesco di Paola, eretta dal barone di Sternatia Gio. Carlo Cicala nel 1615, «co(n) una sua divota, e bella statua in Pietra, e dentro la medesima Cappella à torno à torno è scolpita di mezo rilievo tutta la vita di detto Santo e miracoli, opera di Francesc’Antonio Zimbalo buonissimo scultore di nostri tempi»[5]. Il busto del Santo è ritratto a tutto tondo anche su un capitello di una colonna nel portico di palazzo Adorno (su quello di fronte è scolpito il busto di San Francesco d’Assisi), anch’esso proprietà del barone di Sternatia[6].

Si riscontrano simulacri di San Francesco da Paola nelle chiese francescane di Santa Chiara (una statua lapidea nell’altare dell’Immacolata Concezione) e di Sant’Antonio della piazza (o San Giuseppe), dove nell’omonimo altare è riposta una statua in legno datata 1581.

Il Santo è venerato anche nella chiesa del Carmine, dove gli è stato dedicato lo splendido altare del transetto a destra: qui tra un tripudio di decorazioni, intercalate da statue di sante dell’Ordine carmelitano, emerge dalla nicchia la statua in cartapesta del Santo, ritratto anche nell’edicola tonda del fastigio.

Il secondo altare a sinistra della chiesa di Sant’Anna, infine, è stato dedicato a San Francesco da Paola, racchiude un busto molto simile a quello conservato presso la chiesa di Santa Maria degli Angeli.

Purtroppo può essere soltanto citata la chiesa dell’Annunziata, annessa al convento di Santa Maria degli Angelilli del Secondo Ordine dei Minimi fondato nel 1542 dai fratelli De Marco. La comunità delle Paolotte, composta nel corso del Seicento da una sessantina di suore (tra cui le figlie di Gerolamo Cicala), fu soppressa nel 1814. Dopo varie vicissitudini, nel 1895 l’edificio diventò di proprietà comunale e nel 1913 la chiesa fu abbattuta per realizzare una nuova ala di palazzo Carafa, dov’è stata realizzata l’aula consiliare.

Lecce, edicola in p.tta Lucio Epulione (ph Giovanna Falco)

Come si è già accennato nell’articolo di Spigolature Salentine, pubblicato il 30 dicembre 2010, la devozione per San Francesco da Paola continua a essere fortemente perpetuata: lo denotano le cinque edicole dedicate al Santo sparse nel centro storico di Lecce, riconducibili alla prima metà del Novecento[7]. L’articolo era dedicato al simulacro del Santo in piazzetta Scipione De Summa. Nel frattempo una staccionata ha ostruito l’accesso al giardino dov’è riposta l’edicola, quindi non è più possibile osservarla.

edicola in p.tta De Summa (ph Giovanna Falco)

[1] Cfr. M.R. TAMBLÈ, Strategie cultuali e controllo sociale in Terra d’Otranto nel Seicento, in B. PELLEGRINO – M. SPEDICATO (a cura di), Società, congiunture demografiche e religiosità in Terra d’Otranto nel XVII secolo, Galatina 1990, pp. 399-440.

[2] La rivolta antispagnola scoppiata a Napoli nel 1647, a causa dell’aumento delle gabelle per far fronte alle spese di guerra e, poi combattuta contro chi defraudava il popolo (nobili esattori e clero) si diffuse in modo preoccupante anche nel Salento (Brindisi, Lecce, Nardò e Muro). Sta di fatto che, dopo la pacificazione fu proprio il clero a trarre vantaggio dal consolidamento del potere spagnolo. Contemporaneamente al Santo di Paola, fu proclamato protettore di Lecce anche San Francesco d’Assisi. Il culto ufficiale fu approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 1689, unitamente a quello di altri santi. In quegli anni reggeva la diocesi di Lecce Mons. Luigi Pappacoda che, grazie a queste strategie cultuali, conquistò una forte egemonia in città, culminata nel 1658 con la proclamazione di Sant’Oronzo a principale protettore.

[4] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 93.

[5] Ivi, p. 219. Nelle dodici formelle sono rappresentati: la liberazione di un’ossessa dai demoni, l’attraversamento dello stretto di Messina, la resurrezione di un fanciullo, la guarigione del barone di Belmonte, l’intercessione per la liberazione di Otranto, la distribuzione del cero alle truppe, la sua nascita, l’abbraccio alla vita claustrale, il suo eremitaggio, il miracolo della fornace ardente, il momento in cui dà la regola dell’ordine dei Minimi, la resurrezione di un assiderato.

[6] I capitelli, simili a quelli della navata centrale di Santa Croce, risalgono al 1568 e sono riconducibili a Ferrante Loffredo, governatore di Terra d’Otranto, legato da una profonda stima a Giovanni Matteo Adorno, primo proprietario del palazzo (Cfr. M CAZZATO, La storia e le famiglie tra XVI e XVII secolo, in R. POSO (a cura di), Palazzo Adorno. Storia e restauri, Matera 2000, pp. 31-51).

[7] Le nicchie sono in: p.tta Lucio Epulione 1, via dei Figuli 24, corte dei Buccarelli, via Sferracavalli 1 e in p.tta Giorgio Baglivi 18 (Cfr. G. DE SIMONE, Lecce. Le edicole sacre del borgo antico, Lecce 1991, pp. 54-55, 78-79, 96-97, 126-127, 160-161).

L’Arco di Prato, il Bignami della storia di Lecce

di Giovanna Falco

 

Sulla bacheca di LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), una pagina di Facebook dedicata alle minuzie di Lecce e del Salento, Daniele De Giorgi ha lanciato un appello per l’Arco di Prato, ubicato nell’omonima piazzetta di Lecce, perché versa in un avanzato stato di degradoi.

Foto 1 degrado oltrepassando l'arco

L’appello è stato raccolto da Valeria Taccone, che ha proposto di coinvolgere chiunque abbia competenze in materia, per far sì che si discuta di questa situazione e si porti all’attenzione di tuttiii. Da qui la decisione di scrivere qualche nota su questo Monumento.

Da una rapida analisi delle fonti a disposizione per conoscerne la storia, è venuta fuori una ridda d’informazioni tali, da poter definire l’Arco di Prato una sorta di Bignami della storia di Lecce. La sua presenza testimonia il passaggio dei romani, dei normanni, degli aragonesi, la visita di Ferdinando di Borbone a Lecce, quell’ancora viva nell’immaginario comune grazie alle note di Arcu te Pratu l’inno popolare leccese di Bruno Petrachi.

Qui visse e si spense il 2 dicembre 1922 Cosimo De Giorgi, l’appassionato studioso e promotore della tutela del patrimonio storico, artistico e ambientale di Lecce e della sua grande provincia. Fortuna volle che nel 1874, mentre si costruivano le fondamenta della sua casa, al numero civico dieci di Via Arco di Prato – ubicata all’interno del cortile oltrepassato l’arcoiii -, gli operai portarono alla luce delle grandi lastre di calcare compatto bianco, De Giorgi fece ampliare lo scavo e venne fuori un tratto di strada romana «in tutto simile alle antiche vie che partivano da Roma ed ai resti della “Via Appia” trovati presso Brindisi», sulla cui superficie era presenti «solcature longitudinali prodotte dalle ruote dei carri e dirette da NW a SE cioè verso la Piazza S.a Chiara»iv.

Secondo Giulio Cesare Infantino «i Capi» dell’esercito romano «e più Veterani di questi soldati havevano in Lecce publiche stanze con privilegio della francheggia, & il luogo particolare era dov’è hoggi l’Arco di Prato, con la Chiesa di Santa Maria de’ Veterani»v. Per questo motivo Teodora, sorella del conte normanno Goffredo, nel 1118 volle dare questa intitolazione al pio luogo da lei fondato «per certa pace conchiusa in quelle stanze fra i suoi parenti, fratelli, & altri Signori di molto conto»vi.

Sempre nella prima metà del Seicento Nicola Fatalò: nella sua serie dei vescovi, deputava l’intitolazione della chiesa fondata da Teodora, ai «soldati, tenuti in presidio della Città dal Conte Goffredo», i quali «per la loro libertà militare alle Donne, si che moltissime trattenevansi in casa, con non poterne meno frequentar liberamente la Chiesa», la nobildonna normanna «ordinò per tanto, che si fabricasse, con dedicarlo alla stessa gran Regina del Cielo, imponendo sotto pene rigorosissime à soldati, che non ardissero frequentar altre Chiese che questa: onde a tal fine volle, che si chiamasse la Chiesa di Santa Maria de’ Soldati Veterani»vii. Fatalò, conclude «sta nel suo essere, e nella sua francese architettura sin’oggi questa Chiesa»viii. Jacopo Antonio Ferrari ha tramandato una sommaria descrizione dell’interno della chiesa, dove era posto il «maggiore altare tra i due ordini delle colonne, sopra delle quali furono le due sue ale construtte»ix. Le visite pastorali, probabilmente, la descrivono più dettagliatamente.

Non rimane più nulla della “francese architettura”, al suo posto sorge, in via Santa Maria dei Veterani, un anonimo edificio la cui porta d’accesso è sormontata dallo stemma della famiglia Fonsecax. Ma era quello il sito originario o la chiesa confinava con l’Arco?

Foto 2 via S. Maria dei Veterani

Il pio luogo nel corso dei secoli ha assegnato il nome a un isolato del portaggio San Martino: Ste Me de la Vetrana del 1508xi e Veterane nel 1606xii, nel 1631 lo stesso comprensorio di case era denominato isola dell’arco di Prato e ricadeva nella parrocchia della Madonna de la Porta.

Imboccando via Santa Maria dei Veterani, si vede il fianco dell’arco dov’è apposta una tabella lapidea con tre esemplari dello stemma della famiglia Prato.

Foto 3 Stemmi Prato

La lapide con gli stemmi affissi rappresenta un’importantissima testimonianza per gli araldisti, fu considerata da Filippo Bacile di Castiglione, nel 1894, «ragguardevolissima» perché «sono in essa incorniciati due stemmi a cuore (tipo Angioino, come vedesi in Santa Caterina di Galatina); ed un terzo scudo, in mezzo, più piccolo ed inclinato, con elmo e mantellina, e, per cimiero, due lunghe ali». Il barone blasonò gli stemmi «di oro, a tre pali vajati di argento, e di azzurro» e suggerì di «sorvegliarne la conservazione, con le altre, ma che più specialmente possono riuscire grate a chi s’interessi della famiglia Prato, essendo state le armi sue dovunque deformate, per la falsa interpretazione dei pali e del vajo araldico»xiii. Purtroppo l’attuale stato di questa lastra, permette a stento di leggere quanto descritto da Bacile.

Versano in condizioni peggiori, tant’è vero che non sono più leggibili a causa dell’erosione e dello smog, le figure araldiche poste ai lati dell’arco, i cui scudi sono sormontati, ognuno, da una figura antropomorfa.

Foto 4 Scudo Foto 5 Scudo

La famiglia Prato – i cui membri sin dall’epoca normanna hanno dato lustro alla casataxiv – ha ininterrottamente abitato questo palazzo nel corso del Cinquecento, così come riportato in svariati atti notarili. Nel 1631, nell’Isola dell’arco di Prato, Gualtieri Prato risiedeva in casa di Aloisio Baglivo, mentre nella limitrofa Isola di San Leonardo abitava Francesco Prato con il chierico Francesco e quattro figliexv.

Non si sa quando i Prato diventarono proprietari del luogo dove è stato eretto l’Arco: nel 1508 lo erano sicuramente, dato che nel grandioso palazzo abitava la vedova di Guglielmo con i figlixvi. L’entrata principale del grandioso edificio, passato poi ai Bozzicorso, è al numero civico 40 di via Degli Antoglietta l’arco nell’omonima piazzetta «serviva d’ingresso a un grande atrio, con giardini, nel quale era forse l’accesso al Pal., prima che si fosse fatto l’ingresso principale nella V. degli Antoglietta»xvii,

Foto 6 Arco di Prato

Il possente arco cinquecentesco che immette nell’attuale corte, presenta sul lato sinistro due nicchie nel cui coronamento Bacile trovò assonanze con alcuni ambienti del castello: «dal cortile si discende, con pochi gradini, in un vano, sotto il Maschio. Ha un carattere speciale: si direbbe a due navi; e gli archi per i quali queste si comunicano son coronati d’un motivo, che si riscontra nei due di ogni lato, che si hanno ai fianchi passando lungo l’Arco di Prato»xviii.

Foto 7 Parete sinistra

Dalla descrizione di Bacile, parrebbe di capire che anche lungo il lato destro dell’arco, in passato si aprissero delle nicchie, ma la cornice continua posta al disotto dell’imposta della volta a botte, non dà riscontro all’asserzione dello studioso.

Foto 8 Parete destra

Su questa parete, così come già notato nella Guida della Lecce Fantasticaxix, inoltre, sono presenti svariati graffiti che attestano la datazione di questo muro. Mario Cazzato nel 1991 ha individuato un 1647, anno della rivolta di Masaniello, il cui strascichi causarono morti e distruzioni anche a Lecce e in Terra d’Otrantoxx.

Foto 9 ipotetica data 1647 più 158.

Oltre al non più leggibile 1647, sulla parete sono incise altre date, compaiono, inoltre, una croce greca e altri graffiti di difficile interpretazione.

Foto 10 Croce greca Foto 11 incisioni

Che cosa indicano? Segnalano luoghi di sepoltura? Sono stati incisi da chi si rifugiò nell’arco? Secondo la tradizione chi oltrepassava questa struttura acquisiva l’immunità, perché «alcuni cronisti asseriscono che Leonardo Prato padrone del Pal., ottenne, a questo, molti privilegi e, fra gli altri quello che non si potesse arrestare chi entrasse nell’atrio da quell’arco»xxi, privilegio ottenuto dagli aragonesixxii.

A fine Settecento l’arco fu protagonista di un famoso aneddoto: «Ferdinando IV di Borbone giunse in visita a Lecce il 22 aprile 1797. Il sovrano volle visitare le chiese e i conventi della città e dei dintorni. In queste lunghe escursioni era accompagnato dal sindaco Oronzo Mansi, autore di una cronaca di quelle giornate: il “Ragguaglio”. Il re non aveva nulla da fare, gli unici diversivi erano i ricevimenti organizzati ogni sera in suo onore. Per ragioni di etichetta, il sovrano non poteva sottrarsi ai noiosi concerti, né tanto meno all’elucubrazioni artistiche dedicategli dai nobili leccesi. Doveva, inoltre, sottoporsi ai convenevoli del vescovo Spinelli, che lo ospitava nel suo palazzo. Questa serie di circostanze rendevano Ferdinando IV sempre più nervoso. Il 3 maggio Ferdinando IV, solitamente affabile, era di pessimo umore. Il programma prevedeva una visita al monastero della Nova, dove partecipò alla funzione religiosa. Uscito dalla chiesa, il corteo reale imboccò via Leonardo Prato. Giunti nei pressi dell’Arco, il sindaco disse: “Maestà, questo è l’Arco di Prato”. Ferdinando IV rispose: “Me ne strafotto, io, dell’Arco”. Nel frattempo i leccesi avevano mal sopportato la lunga permanenza del re in città e il conseguente rincaro dei generi alimentari. Finalmente giunse il momento della partenza: la mattina del 8 maggio. Piazza Duomo, però, era deserta. Ferdinando IV chiese spiegazioni al sindaco. Il Mansi, che non aveva dimenticato l’affronto subito, rispose: “Maestà, Lecce è città te l’arte: se nde futte te ci rria e de ci parte”»xxiii.

Riguardo allo stato di degrado di questo Monumento, già nel 1874 Luigi De Simone, accennò al «magnifico Arco, che nominarono dei Prato, e che si sarebbe voluto abbattere con molta leggerezza tre anni or sono; ma ne abortì il desiderio: e spero, dopo la pubblicazione di queste notizie, che non si abbatterà più»xxiv. Speranza esaudita quella di De Simone, ma ora l’arco si sta sgretolando, e con esso i suoi tanti elementi che ne raccontano, anzi, ora come ora, ne sussurrano la storia, poiché ormai poco o nulla si riesce a leggere dal vivo. L’arco già restaurato nel 1979xxv, recentemente è stato sottoposto ad un intervento di “ripristino” in facciata, ma avrebbe bisogno di nuovi interventi.

Come rispondere alle proposte su LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), andando oltre queste poche note?

Questo monumento merita approfondite ricerche: è una preziosissima fonte per gli studiosi di araldica, genealogia, archeologia, storia, storia dell’arte, storia dell’architettura e dell’urbanistica. È uno dei monumenti tra i più rappresentativi di Lecce, perché abbandonarlo al suo destino? Pur se privato, non è patrimonio dei leccesi? È possibile che sia vittima del suo stesso sinonimo, giacché a Lecce si usa manifestare il proprio disinteresse per una cosa o una persona, declamando “Arcu te Pratu”?

alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
particolare dell'arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)
particolare dell’arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)

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i «Una proposta: dedichiamo un po’ di attenzione all’Arco di Prato, che si sta letteralmente sbriciolando. E’ uno dei luoghi più simbolici della nostra tradizione, ma l’amministrazione lo lascia in malora, forse perché è meno sotto gli occhi dei turisti di tanti altri capolavori leccesi. La struttura e la corte nella quale l’arco immette sono corrose e preda del degrado. Ogni volta che ci passo, mi si stringe il cuore».

ii «Ho da fare un appunto (e una proposta) riguardo alla situazione dell’Arco di Prato: se aspettiamo che “chi di competenza intervenga”, purtroppo abbiamo poche probabilità che qualcosa si realizzi, che qualcuno si accorga di ciò che va fatto e che scelga di intervenire. Il patrimonio culturale della nostra città è un bene comune, e come tale merita competenze e attenzione da parte di ognuno di noi. Mobilitiamoci seriamente noi per primi, proviamo ad usare il web come uno strumento per cambiare le cose e non solo come mezzo di indignazione. In questo caso ad esempio, potremmo fare un piccolo report, approfittando del periodo natalizio delle vacanze natalizie e raccogliere le firme per sollecitare un intervento da parte dell’amministrazione. Portiamo seriamente l’attenzione su questo pezzo di storia, da questa pagina web alla piazza e al palazzo comunale. Incontriamoci e discutiamo, se qualcuno di noi è un’architetto, un restauratore, un fotografo, un giornalista, uno scrittore si senta doppiamente chiamato in causa per dare una mano, come cittadino e come professionista. Per chiunque condivida la mia opinione e voglia accordarsi per fare insieme qualcosa, lascio la mia mail: valeria.taccone@libero.it.».

iii Cfr. A. Foscarini, Guida storico artistica di Lecce, Lecce 1929 (Ristampa a cura e con note di Antonio Eduardo Foscarini, Lecce 2002), p. 110 (88).

iv C. De Giorgi, Lecce sotterranea, Lecce 1907, p. 80. Tra fine Ottocento e Novecento in questa area della città ci sono stati svariati ritrovamenti di epoca messapica e romana (Cfr. L. Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in Studi di Antichità, 7, 1994, pp. 137-203).

v G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 168.

vi Ivi, p. 126. Nelle lapidi apposte sulle due porte di accesso all’edificio sacro, si faceva menzione di quest’avvenimento (Cfr. Ivi; Pietro De Leo, Contributo per una nuova Lecce Sacra. I. La serie dei vescovi di N. Fatalò. Testo e note critiche. Parte Seconda, dalla conquista normanna al concilio tridentino, in La Zagaglia: rassegna di scienze, lettere ed arti, A. XVII, nn. 65-66 (gennaio-giugno 1975); J. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707) .

vii Ivi, p. 12.

viii Ivi, p. 13.

ix J. A. Ferrari, Apologia paradossica… cit., p. 339.

x Cfr. P. Bolognini – L. A. Montefusco, Lecce Nobilissima, Lecce 1998, pp. 191-192.

xi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.

xii Cfr. Cfr. N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95.

xiii F. Bacile, Scritti varii di arte e storia, Bari 1915, p. 63.

xiv Giulio Cesare Infantino nella sua Lecce sacra dedica due pagine alle gesta dei membri della famiglia Prato (Cfr. G. C. Infantino, op. cit., pp. 141-143). Le gesta dei Prato sono state ripetutamente descritte anche nell’Apologia paradossica. Il loro nome compare ovunque nei testi che trattano della storia di Lecce e non solo.

xv Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce.

xvi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi… cit. p. 441.

xvii A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xviii F. Bacile, Scritti varii… cit., p. 170.

xix Cfr. M. Cazzato, Guida della Lecce Fantastica, Galatina 1991, pp. 140-141.

xx «Anno 1647, 7 luglio – Sincronismo storico: Masaniello – Insurrezione partenopea contro i balzelli imposti dal Duca d’Arcos, vicerè spagnolo, alla città di Napoli. Per le ripercussioni in Terra d’Otranto è utile ricordare che la città di Lecce tumultua contro le tasse e il malgoverno, Capo-polo Francesco Maramonte – In Brindisi, il malcontento generale, serpeggiante fin dal passato giugno, sfocia nella tremenda sollevazione del 5 agosto, al grido: “ Abbasso le gabelle!” Capi-popolo: Donato e Teodoro Marinazzo. Il 21 luglio si solleva Nardò per mancanza di pane: Capo-popolo il soldato Paduano Olivieri. – Il 25 luglio Ostuni è orrendo teatro di sollevazione antifiscale: Capo-popolo il barbiere Francesco Antonio Turco. – Si ha notizia dei tumulti di Taranto, Capo-popolo Matteo Diletto; di Massafra, di San Vito, di Ceglie Messapica; di Francavilla Fontana, di Latiano. – In Grottaglie la sollevazione assunse carattere di vera carneficina». (N. Vacca, L’interdetto contro la città e la diocesi di Lecce in una relazione inedita della sua Università, in Rinascenza salentina, A. 3, n. 4 (lug-ago 1935), XIII, pp. 189-204:, p. 197).

xxi A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xxii L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 299. De Simone, in nota rimanda alla pagina 310 dell’opera di Beatillo (Cfr. A. BEATILLO, Historia della Vita, Morte e Miracoli e Traslazione di Santa Irene da Tessalonica Vergine e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, Bari 1609 (riedito a cura di G. Barichelli Bresciano, Lecce 1714).

xxiiiG. Falco, Arcu te Pratu, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII, n° 9, 2 – 8 marzo 2002, p. 5.

xxiv L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 299.

xxv Cfr. M. Paone, Palazzi di Lecce, Galatina 1979, p. 92

 

Giovanna Falco

Giovanna Falco

Appassionata di storia e arte di Lecce, ho al mio “attivo”: la rubrica Passato e presente, un’ottantina di pezzi dedicati alla storia e ai monumenti di Lecce, pubblicati per il settimanale “Notes – Appunti dal Salento” dal 2001 al 2003; le Note storiche pubblicate in L. Miotto – A. Cassiano – G. Falco, San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine a Lecce, in «Kermes», 62, Firenze 2006; Lo stemma di Lecce: momenti e monumenti. La torre la lupa e il leccio, il mio primo (e per ora unico) libro, pubblicato nel 2007 dalle Edizioni del Grifo; La chiesa di San Giuseppe da Copertino in Copertino da Stalletta a Santuario: storia, trasformazioni e descrizioni, in P. Ilario D’Ancona – Mario Spedicato (a cura di), Nei giardini del passato. Studi in memoria di Michele Paone, Lecce 2011. Dal 2010 ho iniziato a collaborare con il sito Spigolature Salentine, poi con la Fondazione Terra d’Otranto. Il mio desiderio più grande è quello di far tornare a parlare un bel po’ di testimonianze storico-artistiche, diventate mute nel corso dei secoli. Spero, inoltre, che le mie note siano utili per la loro salvaguardia, tutela e valorizzazione.

 

 

Articoli pubblicati sul sito Fondazione Terra d’Otranto:

 

Libri/ Lo stemma di Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/28/libri-lo-stemma-di-lecce/

 

Mauro Manieri e l’altare di San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine in Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/29/mauro-manieri-e-laltare-di-san-michele-arcangelo-nella-chiesa-del-carmine-in-lecce/

 

L’edificio storico archeologico Faggiano a Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/10/ledificio-storico-archeologico-faggiano-a-lecce/

 

Lecce. L’ex ospedale dello Spirito Santo e la sua chiesa

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/25/lecce-lex-ospedale-dello-spirito-santo-e-la-sua-chiesa/

 

Storia di una statua dell’Immacolata a Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/08/storia-di-una-statua-dellimmacolata-a-lecce/

 

Lecce – S.O.S. per un portale

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/29/mauro-manieri-e-laltare-di-san-michele-arcangelo-nella-chiesa-del-carmine-in-lecce/

 

Piccoli tesori nascosti nel centro storico di Lecce: un’edicola di San Francesco da Paola

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/12/30/piccoli-tesori-nascosti-nel-centro-storico-di-lecce-unedicola-di-san-francesco-da-paola/

 

Fanfulla da Lodi ed altre opere leccesi di Antonio Bortone

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/11/fanfulla-da-lodi-ed-altre-opere-leccesi-di-antonio-bortone/

 

Lecce. Le offese al monumento a Sigismondo Castromediano. Bisogna porre rimedio!

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/03/14/lecce-le-offese-al-monumento-a-sigismondo-castromediano-bisogna-porre-rimedio/

 

Lecce. Il monumento a Sigismondo Castromediano

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/17/lecce-il-monumento-a-sigismondo-castromediano/

 

Lecce. Curiosità sull’antica toponomastica

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/25/lecce-curiosita-sullantica-toponomastica/

 

Lecce. Il Sedile illuminato rosa fucsia

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/05/16/lecce-il-sedile-illuminato-rosa-fucsia/

 

Lecce. Il Sedile: note storico – descrittive

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/30/lecce-il-sedile-note-storico-descrittive/

 

Lecce e i conventi dedicati a Sant’Antonio da Padova

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/lecce-e-i-conventi-dedicati-a-santantonio-da-padova/

 

Lecce. Trasformazioni e ampliamenti del convento di Santa Maria del Tempio

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/lecce-trasformazioni-e-ampliamenti-del-convento-di-santa-maria-del-tempio/

 

Piazzetta Giosué Carducci a Lecce: luogo di cultura e vandalismo

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/12/02/piazzetta-giosue-carducci-a-lecce-luogo-di-cultura-e-vandalismo/

 

Le iscrizioni sulla facciata della Chiesa Nuova a Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/09/le-iscrizioni-sulla-facciata-della-chiesa-nuova-a-lecce-2/

 

Lecce e il culto di San Biagio

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/03/lecce-e-il-culto-di-san-biagio/

 

Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/04/06/lecce-e-gli-strumenti-della-passione-di-cristo-araldica-religiosa-e-reliquie/

 

Santa Maria del Tempio in Lecce. Le ossa dei frati

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/01/santa-maria-del-tempio-in-lecce-le-ossa-dei-frati/

 

Il degrado consuma il portale su via Antonio Galateo a Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/20/il-degrado-consuma-il-portale-su-via-antonio-galateo-a-lecce/

 

Lecce. Via Ascanio Grandi e la sua chiesa

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/02/lecce-via-ascanio-grandi-e-la-sua-chiesa/

 

L’Arco di Prato, il Bignami della storia di Lecce

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/08/larco-di-prato-il-bignami-della-storia-di-lecce-2/

 

 

Lecce e il culto di San Biagio

Lecce, Porta San Biagio

di Giovanna Falco

I leccesi nel corso dei secoli e per quanto finora è dato di sapere, hanno dedicato a San Biagio, martire e vescovo di Sebaste, un rione, la porta annessa e tre chiese.

Sin dal 1472 la Cabella demanii attesta i quattro rioni di Lecce: i pictagia Sancti Iusti, Sancti Martini, Rudie (o Rugie) e Sancti Blasi[1]. Quello ad oriente fu dedicato a «San Biaggio gentil huomo Leccese, il qual fuggendo la persecutione de’ Tiranni, se ne passò con una nave in Sebaste» dove fu proclamato vescovo e poi martirizzato «e per esser che Sebaste stà nell’Oriente, perciò la Città di Lecce per honorare il suo Cittadino, chiamò la porta della Città, che stà volta all’Oriente, la porta di San Biaggio»[2]. La porta fu fatta ricostruire nel 1774 dal governatore di Terra d’Otranto Tommaso Ruffo, che vi fece apporre la statua del Santo e l’epigrafe che recita: «D.O.M. Quem dignitati parem hinc aditum Cives Convenæque din exoptaverant, tandem excitante D. Thoma Ruffo ex Regni optimatibus Provinciae Moderatore Ing. exercitibus invictissimi Regio Ferdinandi iv Castrorum Praefecto D. Or. Nicolaus Prato gentile. virtuteque clarus Patriae Curator iterum aere pub. extruxit an. dom. mdcclxxiv, ejusdemque tutelari Divo Blasio statuam pos»[3].

Il territorio del portaggio San Biagio, suddiviso nel 1508 in ventisette isole[4], dal 1606 (anno dell’istituzione delle quattro parrocchie leccesi) è coinciso con quello della parrocchia di Santa Maria della Luce[5], così com’è riportato dagli

L’Arco di Prato, il Bignami della storia di Lecce

di Giovanna Falco

 

Sulla bacheca di LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), una pagina di Facebook dedicata alle minuzie di Lecce e del Salento, Daniele De Giorgi ha lanciato un appello per l’Arco di Prato, ubicato nell’omonima piazzetta di Lecce, perché versa in un avanzato stato di degradoi.

Foto 1 degrado oltrepassando l'arco

L’appello è stato raccolto da Valeria Taccone, che ha proposto di coinvolgere chiunque abbia competenze in materia, per far sì che si discuta di questa situazione e si porti all’attenzione di tuttiii. Da qui la decisione di scrivere qualche nota su questo Monumento.

Da una rapida analisi delle fonti a disposizione per conoscerne la storia, è venuta fuori una ridda d’informazioni tali, da poter definire l’Arco di Prato una sorta di Bignami della storia di Lecce. La sua presenza testimonia il passaggio dei romani, dei normanni, degli aragonesi, la visita di Ferdinando di Borbone a Lecce, quell’ancora viva nell’immaginario comune grazie alle note di Arcu te Pratu l’inno popolare leccese di Bruno Petrachi.

Qui visse e si spense il 2 dicembre 1922 Cosimo De Giorgi, l’appassionato studioso e promotore della tutela del patrimonio storico, artistico e ambientale di Lecce e della sua grande provincia. Fortuna volle che nel 1874, mentre si costruivano le fondamenta della sua casa, al numero civico dieci di Via Arco di Prato – ubicata all’interno del cortile oltrepassato l’arcoiii -, gli operai portarono alla luce delle grandi lastre di calcare compatto bianco, De Giorgi fece ampliare lo scavo e venne fuori un tratto di strada romana «in tutto simile alle antiche vie che partivano da Roma ed ai resti della “Via Appia” trovati presso Brindisi», sulla cui superficie era presenti «solcature longitudinali prodotte dalle ruote dei carri e dirette da NW a SE cioè verso la Piazza S.a Chiara»iv.

Secondo Giulio Cesare Infantino «i Capi» dell’esercito romano «e più Veterani di questi soldati havevano in Lecce publiche stanze con privilegio della francheggia, & il luogo particolare era dov’è hoggi l’Arco di Prato, con la Chiesa di Santa Maria de’ Veterani»v. Per questo motivo Teodora, sorella del conte normanno Goffredo, nel 1118 volle dare questa intitolazione al pio luogo da lei fondato «per certa pace conchiusa in quelle stanze fra i suoi parenti, fratelli, & altri Signori di molto conto»vi.

Sempre nella prima metà del Seicento Nicola Fatalò: nella sua serie dei vescovi, deputava l’intitolazione della chiesa fondata da Teodora, ai «soldati, tenuti in presidio della Città dal Conte Goffredo», i quali «per la loro libertà militare alle Donne, si che moltissime trattenevansi in casa, con non poterne meno frequentar liberamente la Chiesa», la nobildonna normanna «ordinò per tanto, che si fabricasse, con dedicarlo alla stessa gran Regina del Cielo, imponendo sotto pene rigorosissime à soldati, che non ardissero frequentar altre Chiese che questa: onde a tal fine volle, che si chiamasse la Chiesa di Santa Maria de’ Soldati Veterani»vii. Fatalò, conclude «sta nel suo essere, e nella sua francese architettura sin’oggi questa Chiesa»viii. Jacopo Antonio Ferrari ha tramandato una sommaria descrizione dell’interno della chiesa, dove era posto il «maggiore altare tra i due ordini delle colonne, sopra delle quali furono le due sue ale construtte»ix. Le visite pastorali, probabilmente, la descrivono più dettagliatamente.

Non rimane più nulla della “francese architettura”, al suo posto sorge, in via Santa Maria dei Veterani, un anonimo edificio la cui porta d’accesso è sormontata dallo stemma della famiglia Fonsecax. Ma era quello il sito originario o la chiesa confinava con l’Arco?

Foto 2 via S. Maria dei Veterani

Il pio luogo nel corso dei secoli ha assegnato il nome a un isolato del portaggio San Martino: Ste Me de la Vetrana del 1508xi e Veterane nel 1606xii, nel 1631 lo stesso comprensorio di case era denominato isola dell’arco di Prato e ricadeva nella parrocchia della Madonna de la Porta.

Imboccando via Santa Maria dei Veterani, si vede il fianco dell’arco dov’è apposta una tabella lapidea con tre esemplari dello stemma della famiglia Prato.

Foto 3 Stemmi Prato

La lapide con gli stemmi affissi rappresenta un’importantissima testimonianza per gli araldisti, fu considerata da Filippo Bacile di Castiglione, nel 1894, «ragguardevolissima» perché «sono in essa incorniciati due stemmi a cuore (tipo Angioino, come vedesi in Santa Caterina di Galatina); ed un terzo scudo, in mezzo, più piccolo ed inclinato, con elmo e mantellina, e, per cimiero, due lunghe ali». Il barone blasonò gli stemmi «di oro, a tre pali vajati di argento, e di azzurro» e suggerì di «sorvegliarne la conservazione, con le altre, ma che più specialmente possono riuscire grate a chi s’interessi della famiglia Prato, essendo state le armi sue dovunque deformate, per la falsa interpretazione dei pali e del vajo araldico»xiii. Purtroppo l’attuale stato di questa lastra, permette a stento di leggere quanto descritto da Bacile.

Versano in condizioni peggiori, tant’è vero che non sono più leggibili a causa dell’erosione e dello smog, le figure araldiche poste ai lati dell’arco, i cui scudi sono sormontati, ognuno, da una figura antropomorfa.

Foto 4 Scudo Foto 5 Scudo

La famiglia Prato – i cui membri sin dall’epoca normanna hanno dato lustro alla casataxiv – ha ininterrottamente abitato questo palazzo nel corso del Cinquecento, così come riportato in svariati atti notarili. Nel 1631, nell’Isola dell’arco di Prato, Gualtieri Prato risiedeva in casa di Aloisio Baglivo, mentre nella limitrofa Isola di San Leonardo abitava Francesco Prato con il chierico Francesco e quattro figliexv.

Non si sa quando i Prato diventarono proprietari del luogo dove è stato eretto l’Arco: nel 1508 lo erano sicuramente, dato che nel grandioso palazzo abitava la vedova di Guglielmo con i figlixvi. L’entrata principale del grandioso edificio, passato poi ai Bozzicorso, è al numero civico 40 di via Degli Antoglietta l’arco nell’omonima piazzetta «serviva d’ingresso a un grande atrio, con giardini, nel quale era forse l’accesso al Pal., prima che si fosse fatto l’ingresso principale nella V. degli Antoglietta»xvii,

Foto 6 Arco di Prato

Il possente arco cinquecentesco che immette nell’attuale corte, presenta sul lato sinistro due nicchie nel cui coronamento Bacile trovò assonanze con alcuni ambienti del castello: «dal cortile si discende, con pochi gradini, in un vano, sotto il Maschio. Ha un carattere speciale: si direbbe a due navi; e gli archi per i quali queste si comunicano son coronati d’un motivo, che si riscontra nei due di ogni lato, che si hanno ai fianchi passando lungo l’Arco di Prato»xviii.

Foto 7 Parete sinistra

Dalla descrizione di Bacile, parrebbe di capire che anche lungo il lato destro dell’arco, in passato si aprissero delle nicchie, ma la cornice continua posta al disotto dell’imposta della volta a botte, non dà riscontro all’asserzione dello studioso.

Foto 8 Parete destra

Su questa parete, così come già notato nella Guida della Lecce Fantasticaxix, inoltre, sono presenti svariati graffiti che attestano la datazione di questo muro. Mario Cazzato nel 1991 ha individuato un 1647, anno della rivolta di Masaniello, il cui strascichi causarono morti e distruzioni anche a Lecce e in Terra d’Otrantoxx.

Foto 9 ipotetica data 1647 più 158.

Oltre al non più leggibile 1647, sulla parete sono incise altre date, compaiono, inoltre, una croce greca e altri graffiti di difficile interpretazione.

Foto 10 Croce greca Foto 11 incisioni

Che cosa indicano? Segnalano luoghi di sepoltura? Sono stati incisi da chi si rifugiò nell’arco? Secondo la tradizione chi oltrepassava questa struttura acquisiva l’immunità, perché «alcuni cronisti asseriscono che Leonardo Prato padrone del Pal., ottenne, a questo, molti privilegi e, fra gli altri quello che non si potesse arrestare chi entrasse nell’atrio da quell’arco»xxi, privilegio ottenuto dagli aragonesixxii.

A fine Settecento l’arco fu protagonista di un famoso aneddoto: «Ferdinando IV di Borbone giunse in visita a Lecce il 22 aprile 1797. Il sovrano volle visitare le chiese e i conventi della città e dei dintorni. In queste lunghe escursioni era accompagnato dal sindaco Oronzo Mansi, autore di una cronaca di quelle giornate: il “Ragguaglio”. Il re non aveva nulla da fare, gli unici diversivi erano i ricevimenti organizzati ogni sera in suo onore. Per ragioni di etichetta, il sovrano non poteva sottrarsi ai noiosi concerti, né tanto meno all’elucubrazioni artistiche dedicategli dai nobili leccesi. Doveva, inoltre, sottoporsi ai convenevoli del vescovo Spinelli, che lo ospitava nel suo palazzo. Questa serie di circostanze rendevano Ferdinando IV sempre più nervoso. Il 3 maggio Ferdinando IV, solitamente affabile, era di pessimo umore. Il programma prevedeva una visita al monastero della Nova, dove partecipò alla funzione religiosa. Uscito dalla chiesa, il corteo reale imboccò via Leonardo Prato. Giunti nei pressi dell’Arco, il sindaco disse: “Maestà, questo è l’Arco di Prato”. Ferdinando IV rispose: “Me ne strafotto, io, dell’Arco”. Nel frattempo i leccesi avevano mal sopportato la lunga permanenza del re in città e il conseguente rincaro dei generi alimentari. Finalmente giunse il momento della partenza: la mattina del 8 maggio. Piazza Duomo, però, era deserta. Ferdinando IV chiese spiegazioni al sindaco. Il Mansi, che non aveva dimenticato l’affronto subito, rispose: “Maestà, Lecce è città te l’arte: se nde futte te ci rria e de ci parte”»xxiii.

Riguardo allo stato di degrado di questo Monumento, già nel 1874 Luigi De Simone, accennò al «magnifico Arco, che nominarono dei Prato, e che si sarebbe voluto abbattere con molta leggerezza tre anni or sono; ma ne abortì il desiderio: e spero, dopo la pubblicazione di queste notizie, che non si abbatterà più»xxiv. Speranza esaudita quella di De Simone, ma ora l’arco si sta sgretolando, e con esso i suoi tanti elementi che ne raccontano, anzi, ora come ora, ne sussurrano la storia, poiché ormai poco o nulla si riesce a leggere dal vivo. L’arco già restaurato nel 1979xxv, recentemente è stato sottoposto ad un intervento di “ripristino” in facciata, ma avrebbe bisogno di nuovi interventi.

Come rispondere alle proposte su LECCE SI’ – LECCE NO (immagini dal Salento), andando oltre queste poche note?

Questo monumento merita approfondite ricerche: è una preziosissima fonte per gli studiosi di araldica, genealogia, archeologia, storia, storia dell’arte, storia dell’architettura e dell’urbanistica. È uno dei monumenti tra i più rappresentativi di Lecce, perché abbandonarlo al suo destino? Pur se privato, non è patrimonio dei leccesi? È possibile che sia vittima del suo stesso sinonimo, giacché a Lecce si usa manifestare il proprio disinteresse per una cosa o una persona, declamando “Arcu te Pratu”?

alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
alcune delle date graffite (ph Daniele Maddalo)
particolare dell'arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)
particolare dell’arco con alcune incisioni (ph Daniele Maddalo)

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i «Una proposta: dedichiamo un po’ di attenzione all’Arco di Prato, che si sta letteralmente sbriciolando. E’ uno dei luoghi più simbolici della nostra tradizione, ma l’amministrazione lo lascia in malora, forse perché è meno sotto gli occhi dei turisti di tanti altri capolavori leccesi. La struttura e la corte nella quale l’arco immette sono corrose e preda del degrado. Ogni volta che ci passo, mi si stringe il cuore».

ii «Ho da fare un appunto (e una proposta) riguardo alla situazione dell’Arco di Prato: se aspettiamo che “chi di competenza intervenga”, purtroppo abbiamo poche probabilità che qualcosa si realizzi, che qualcuno si accorga di ciò che va fatto e che scelga di intervenire. Il patrimonio culturale della nostra città è un bene comune, e come tale merita competenze e attenzione da parte di ognuno di noi. Mobilitiamoci seriamente noi per primi, proviamo ad usare il web come uno strumento per cambiare le cose e non solo come mezzo di indignazione. In questo caso ad esempio, potremmo fare un piccolo report, approfittando del periodo natalizio delle vacanze natalizie e raccogliere le firme per sollecitare un intervento da parte dell’amministrazione. Portiamo seriamente l’attenzione su questo pezzo di storia, da questa pagina web alla piazza e al palazzo comunale. Incontriamoci e discutiamo, se qualcuno di noi è un’architetto, un restauratore, un fotografo, un giornalista, uno scrittore si senta doppiamente chiamato in causa per dare una mano, come cittadino e come professionista. Per chiunque condivida la mia opinione e voglia accordarsi per fare insieme qualcosa, lascio la mia mail: valeria.taccone@libero.it.».

iii Cfr. A. Foscarini, Guida storico artistica di Lecce, Lecce 1929 (Ristampa a cura e con note di Antonio Eduardo Foscarini, Lecce 2002), p. 110 (88).

iv C. De Giorgi, Lecce sotterranea, Lecce 1907, p. 80. Tra fine Ottocento e Novecento in questa area della città ci sono stati svariati ritrovamenti di epoca messapica e romana (Cfr. L. Giardino, Per una definizione delle trasformazioni urbanistiche di un centro antico attraverso lo studio delle necropoli: il caso di Lupiae, in Studi di Antichità, 7, 1994, pp. 137-203).

v G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 168.

vi Ivi, p. 126. Nelle lapidi apposte sulle due porte di accesso all’edificio sacro, si faceva menzione di quest’avvenimento (Cfr. Ivi; Pietro De Leo, Contributo per una nuova Lecce Sacra. I. La serie dei vescovi di N. Fatalò. Testo e note critiche. Parte Seconda, dalla conquista normanna al concilio tridentino, in La Zagaglia: rassegna di scienze, lettere ed arti, A. XVII, nn. 65-66 (gennaio-giugno 1975); J. A. Ferrari, Apologia paradossica della città di Lecce (1576-1586 ca.), Lecce 1707) .

vii Ivi, p. 12.

viii Ivi, p. 13.

ix J. A. Ferrari, Apologia paradossica… cit., p. 339.

x Cfr. P. Bolognini – L. A. Montefusco, Lecce Nobilissima, Lecce 1998, pp. 191-192.

xi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451.

xii Cfr. Cfr. N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95.

xiii F. Bacile, Scritti varii di arte e storia, Bari 1915, p. 63.

xiv Giulio Cesare Infantino nella sua Lecce sacra dedica due pagine alle gesta dei membri della famiglia Prato (Cfr. G. C. Infantino, op. cit., pp. 141-143). Le gesta dei Prato sono state ripetutamente descritte anche nell’Apologia paradossica. Il loro nome compare ovunque nei testi che trattano della storia di Lecce e non solo.

xv Cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce.

xvi Cfr. A. Foscarini, Lecce d’altri tempi… cit. p. 441.

xvii A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xviii F. Bacile, Scritti varii… cit., p. 170.

xix Cfr. M. Cazzato, Guida della Lecce Fantastica, Galatina 1991, pp. 140-141.

xx «Anno 1647, 7 luglio – Sincronismo storico: Masaniello – Insurrezione partenopea contro i balzelli imposti dal Duca d’Arcos, vicerè spagnolo, alla città di Napoli. Per le ripercussioni in Terra d’Otranto è utile ricordare che la città di Lecce tumultua contro le tasse e il malgoverno, Capo-polo Francesco Maramonte – In Brindisi, il malcontento generale, serpeggiante fin dal passato giugno, sfocia nella tremenda sollevazione del 5 agosto, al grido: “ Abbasso le gabelle!” Capi-popolo: Donato e Teodoro Marinazzo. Il 21 luglio si solleva Nardò per mancanza di pane: Capo-popolo il soldato Paduano Olivieri. – Il 25 luglio Ostuni è orrendo teatro di sollevazione antifiscale: Capo-popolo il barbiere Francesco Antonio Turco. – Si ha notizia dei tumulti di Taranto, Capo-popolo Matteo Diletto; di Massafra, di San Vito, di Ceglie Messapica; di Francavilla Fontana, di Latiano. – In Grottaglie la sollevazione assunse carattere di vera carneficina». (N. Vacca, L’interdetto contro la città e la diocesi di Lecce in una relazione inedita della sua Università, in Rinascenza salentina, A. 3, n. 4 (lug-ago 1935), XIII, pp. 189-204:, p. 197).

xxi A. Foscarini, Guida… cit., p. 110 (88).

xxii L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 299. De Simone, in nota rimanda alla pagina 310 dell’opera di Beatillo (Cfr. A. BEATILLO, Historia della Vita, Morte e Miracoli e Traslazione di Santa Irene da Tessalonica Vergine e Martire, Patrona della Città di Lecce in Terra d’Otranto, Bari 1609 (riedito a cura di G. Barichelli Bresciano, Lecce 1714).

xxiiiG. Falco, Arcu te Pratu, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII, n° 9, 2 – 8 marzo 2002, p. 5.

xxiv L. G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 299.

xxv Cfr. M. Paone, Palazzi di Lecce, Galatina 1979, p. 92

 

Storia di una statua dell’Immacolata a Lecce

Lecce, piazzetta Giosuè Carducci, ex Convitto Palmieri, statua dell’Immacolata

di Giovanna Falco

La statua era originariamente ubicata su una guglia al centro dello slargo, dove sorgeva il complesso religioso dei francescani convenutali.

Nella chiesa di San Francesco della Scarpa, infatti, sin dal Cinquecento aveva sede la Compagnia di Maria Immacolata, posta sotto Patronato Regio nel 1591 e attestata da Giulio Cesare Infantino nel 1634[1].

Colonna e statua erano già in loco nel 1787[2] e sono state attribuite da Michele Paone a Matteo Carrozzo[3].

Ulteriori studi potrebbero dare conferma all’ipotesi secondo cui l’elemento architettonico fu realizzato in occasione del regio assenso e l’approvazione delle Regole accordati alla Confraternita da Carlo III il 31 agosto 1752[4].

Allontanata nel 1809 la comunità francescana, nel 1816 l’ex convento diventò sede del Collegio San Giuseppe, affidato nel 1832 ai PP. Gesuiti. Costoro ampliarono l’immobile su disegno del gesuita Giambattista Jazzeolla; il progetto prevedeva «una bella e grande sala per la palestra alli Saggi pubblici della loro scolaresca»[5].

Per l’occasione, nel 1845 fu abbattuta la guglia e la statua fu posta sul timpano che sormontava l’accesso alla suddetta sala.

La piazzetta sino al 1904 era denominata largo dei Gesuiti, poi piazzetta degli Studii e infine dedicata a Giosuè Carducci, il cui busto, che sorge là dove si issava la guglia, è stato realizzato nel 1908 dallo scultore leccese Giovanni Guacci[6].


[1] Cfr. G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 51. La confraternita nel 1838 fu trasferita nella chiesa dei Teatini (Cfr. A. M. MORRONE, I pii sodalizi leccesi, Galatina 1986, pp. 79-81). All’interno della chiesa, così come descrive Luigi De Simone, vi era sul soffitto un dipinto dell’Immacolata e, sull’altare dedicatole, un quadro «cogli attributi simbolici di lei, Sant’Anna, S. Gioacchino, e il Devoto» (L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 206), opera, così come rivela Nicola Vacca di «Fra Angelo da Copertino pingebat, 1682» (Ivi, p. 494). Vacca, inoltre, attribuisce la macchina dell’altare a Francesco Antonio Zimbalo e la data 1599 (Cfr. ibidem).

[2] Cfr. M. PAONE, La Madonna nella storia dell’arte in Lecce, in M. PAONE (a cura di), “Contributi alla storia della chiesa di Lecce”, Galatina 1981, pp. 44-46.

[3] Cfr. M. PAONE, Chiese di Lecce, Galatina 1981, II ed., voll. 2, II vol. p. 238. Carrozzo era un membro della famiglia di costruttori che nel Settecento realizzò svariati monumenti disegnati da Mauro ed Emanuele Manieri e che realizzarono il suggestivo palazzotto in via del Palazzo dei Conti di Lecce.

[4] Cfr. A. M. MORRONE, op. cit.

[5] L. G. DE SIMONE, op. cit., p. 205.

[6] Cfr. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, pp. 35-40.

Lecce. Via Ascanio Grandi e la sua chiesa

di Giovanna Falco

Via Ascanio Grandi è una strada molto cara ai leccesi, la cui toponomastica nel corso dei secoli ne ha raccontata la storia. Negli atti notarili del Cinquecento è menzionata come via vicinale della strittula del monastero di San Matteo, perché si accedeva all’edificio delle suore francescane. In un passato abbastanza recente, tra Otto e Novecento, il tratto nei pressi dell’incrocio con via dei Perrone era noto come le corne te lu Capece, poiché un commerciante aveva appeso fuori dal suo negozio un paio di scaramantiche corna bovine. Il tratto iniziale, invece, quello all’incrocio con via Ludovico Maremonti, era conosciuto come abbàsciu allu Mmamminu.

 Nel 1871 Luigi De Simone preferì ai toponimi popolari Trinità vecchia e Grate di San Matteo, via Marco Aurelio Antonino Vero, definitivamente trasformato nel 1904 in via Ascanio Grandi, in memoria del noto letterato leccese che molto probabilmente vi risiedeva nel 1631 assieme ai fratelli.

Lu Mmamminu o Trinità vecchia non è altro che l’ex chiesa di Gesù Bambino dell’Arciconfraternita della SS Trinità dei Pellegrini, attuale chiesa Greco-Ortodossa di San Nicola: quella ultimamente sbarrata dal cancello che ha sollevato l’indignazione di tanti cultori leccesi. Il cancello è il frutto, dell’esasperazione per la mala educazione notturna, ma è una risposta altrettanto arrogante, tant’è vero che, a quanto pare, ne è stata disposta la rimozione.

La chiesetta è uno dei pochi edifici cultuali sopravvissuti a Lecce.

Fu costruita come cappella del «picciolo Spedale, nel quale albergano i Peregrini», fondato nel 1589 da Giovanni Tommaso Pandolfo su disposizione testamentaria del «gentil’huomo di questa Città di Lecce» Achille Maresgallo, così come da lapide affissa nella sala dell’ospedale: «Ioannes Thomas Pandolfus, Achillis Marescalli voluntatemo exequens anno Domini M.D.89».

Da atti notarili cinquecenteschi risulta che, per realizzare l’opera, nel 1590 l’Arciconfraternita della SS. Trinità, fondata dallo stesso Maresgallo, comprò alcuni locali nell’isola di Sant’Angelillo del portaggio San Biagio e con atto notarile del 28 giugno 1590 li concesse ai Padri di San Giovanni di Dio per «erigere l’Ospitale da ricevere feriti e febricitanti», riservandosi gli spazi dove realizzare «l’oratorio, sala per capitolo et congregatione generale ai confrati et ancora un altro loco per fare detta Arciconfrataria Hospitale per ricevere pellegrini et convalescenti per observare le bulle e le instituzioni di detta Arciconfraternita». Chiamati i Padri a gestire l’Ospedale dello Spirito Santo, l’ente fu affidato alla Confraternita della Santissima Trinità. Durante la gestione del nobile Annibale Vignes, costui «vi condusse un numero di poveri figliuoli Orfanelli, de’ quali haveva egli stesso pensiero». Il benefattore voleva «mandare avanti quest’opera, e cominciò anche ad edificare le stanze», ma a causa di «persone malevoli e invidiose, ché il detto Aniballe fù forzato con suo gran dispiacere tralasciare sì santa, e pia opera». I Maestri dell’Arciconfraternita, ogni anno «mettono nella settimana santa le quarant’hore devotissimamente», così come celebravano «solennemente la festa»della Trinità, nell’omonima cappella nella chiesa di Sant’Antonio da Padova, «non essendo la Chiesa di detto Spedale capace per detto effetto»a causa del gran concorso di devoti. Lo statuto dell’Arciconfraternita, riconosciuta da Urbano VIII, il 7 marzo 1633 fu regolato con decreti regi nel 1707 e del 21 giugno 1797. Decaduto il fine dell’Arciconfraternita (l’assistenza ai Pellegrini), nel 1833 il pio sodalizio si trasferì presso la basilica di Santa Croce e gli edifici in via Ascanio Grandi furono ceduti alla Confraternita Nome SS.mo di Dio, che nel 1851 concesse in enfiteusi l’ex ospedale all’avvocato Benedetto Bodini, il quale lo trasformò in civile abitazione. La confraternita nel 1839 abbandonò l’antica sede presso la chiesa di San Francesco della Scarpa e si trasferì presso quella che da quel momento in poi fu detta Chiesa del Bambino.

 

La chiesa era stata ricostruita dopo il 1797. Presenta una semplicissima facciata decorata dal timpano sopra la porta e da due lesene sovrastate da capitelli compositi. La stessa decorazione si ritrova all’interno a navata unica scandito da tre campate. A sinistra si apriva la porta d’accesso all’Ospedale, sormontata da un piccolo coro che permetteva l’affaccio direttamente dai locali dell’ospedale, adoperato dai nuovi proprietari dell’immobile anche nel secolo scorso. Con breve di Pio X, nel 1907 l’altare maggiore della chiesa fu dichiarato privilegiato in perpetuo e fu adornato con la pala raffigurante i SS. Bernardino da Siena e Giovanni da Capistrano, dipinta da Gaetano Giorgino. Nel 1979 (quando la chiesa era già chiusa al culto) Michele Paone, nel suo Chiese di Lecce, oltre all’immagine di questo dipinto, ha pubblicato quelle delle tele rubate nel 1975 (motivo per il quale è stato murato l’accesso secondario che si apriva sempre in via Ascanio Grandi), affisse sugli omonimi altari dell’Arcangelo Raffaele e Tobiolo e della Pietà realizzate da Pasquale Grassi. Nella chiesa, inoltre, erano presenti la seicentesca tela di Sant’Omobono e quella di Abramo con gli angeli attribuita a Oronzo Tiso. Vi era, inoltre, una statua dell’Immacolata, realizzata da Antonio Maccagnani, trasferita presso la chiesa di S. Pio X.

Pur non essendo stato emesso alcun decreto di scioglimento, la Confraternita non esiste più, per cui la chiesa è stata chiusa al culto, privata delle suppellettili sacre e adoperata per manifestazioni culturali. Concessa da mons. Ruppi alla comunità di ortodossi della Sacra Arcidiocesi Ortodossa d’Italia, dipendente direttamente dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, la chiesa è stata intitolata a San Nicola e inaugurata ufficialmente il 16 gennaio 2000 dall’arcivescovo ortodosso d’Italia e Malta Ghennadios Zervos.

 

 

1 Cfr. G. Falco, 19) Il portaggio San Biagio. Via Ascanio Grandi. Memorie di chiesette scomparse nei pressi della Chiesa del Bambino, in Notes – Appunti dal Salento, a. XIII n° 7 15-21 febbraio 2003, p. 5.

2 Cfr. I. Madaro, Guida pratica della città di Lecce, Lecce 1904.

3 Nel 1631 Ascanio Grande abitava con i fratelli Giulio Cesare e Giovanna, due serve e Domenico Chisso nell’isola del Caraccino della parrocchia della Madonna de la Luce, prospiciente via Ascanio Grandi (cfr. lo Status animarum civitatis Litii 1631, manoscritto conservato presso l’Archivio Vescovile di Lecce).

4 Nell’Elenco delle Chiese e Cappelle esistite e esistenti in questa Città del 1885 ne sono annoverate 108 sparse nel centro storico e nel contado, attualmente ne risultano 42 (Cfr. G.B. Cantarelli, Monografia storica della città di Lecce, Lecce 1885, pp. 140-158).

5 Cfr. G. C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. A cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 64.

6 Ibidem. La lapide sino al 1853 era ancora visibile (cfr. L.G. De Simone, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, p. 258).

7 N. VACCA, Postille a L.G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 522.

8 Ivi, p. 523.

9 G. C. Infantino cit., p. 64.

10 Ivi, p. 65.

11 Ibidem.

12 Ivi, p. 65.

13 Ibidem.

14 Ibidem.

15 Cfr. A. M. Morrone, I pii sodalizi leccesi, Galatina 1986, pp. 68-72; L.G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti… cit., p. 257.

16 Cfr. ivi.

17 Cfr. A. M. Morrone, cit., pp. 89-91.

18 Cfr. M. Paone, Chiese di Lecce, Galatina 1981, II ed., 2 voll., 2 vol., pp. 75-77.

19 Cfr. http://www.italia-italia-hotels.com/attrazioni-turistiche/323-chiesa-trinita-dei-pellegrini-o-del-bambino-lecce.php.

Lecce. Curiosità sull’antica toponomastica

 

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

Nel 1869 il giudice Luigi Giuseppe De Simone, noto erudito di Terra d’Otranto, propose al Sindaco e ai consiglieri comunali di Lecce di rinnovare la toponomastica della città[1]. All’epoca vie, corti e piazze erano indicate per sommi capi, con nomignoli derivati da chiese, conventi, famiglie proprietarie di palazzi, ecc. L’opportunità gli fu data nel 1871 in occasione del Censimento Generale del Regno, quando gli fu affidato il compito di compilare le nuove tabelle denominative della toponomastica di Lecce.

De Simone decise di commemorare la storia locale, mise mano agli appunti raccolti negli anni e compilò il nuovo elenco formato da: nomi di personaggi storici (da Idomeneo a Tancredi, da Federico d’Aragona a Giuseppe Libertini, ecc.), antiche famiglie nobiliari (dai Guarini ai Carnesecchi), letterati (da Antonio Galateo a Isabella Castriota), caratteristiche del territorio (dall’Idume alle Giravolte). Furono poche le vie che conservarono il ricordo di antiche attività produttive (via dei Figuli, vico Sferracavalli, ecc.), così come quelle dedicate a edifici di culto (corte San Pietro Garzya, piazzetta San Giovanni dei Fiorentini, ecc.). Per accreditare le sue scelte De Simone redasse Lecce e i suoi monumenti, pubblicato una prima volta nel 1874 e poi riedito con le Postille di Nicola Vacca, dove sono elencate tutte le denominazioni stradali con note storiche inerenti alle singole voci[2].

All’epoca la nuova intitolazione delle vie non piacque ai nostalgici, si ritenne che fosse stata spazzata via la tradizione popolare in nome di un asettico nozionismo[3]. Per quanto meritevole, il lavoro di De Simone (sottoposto nel corso del tempo ad alcune varianti) ha cancellato varie testimonianze della storia leccese: l’ubicazione di cappelle demolite, di edifici pubblici e opifici, i cui siti oggi sono difficilmente individuabili.

Questa lacuna è stata colmata in parte dalla Guida pratica della Città di Lecce di Italo Madaro[4], uno stradario pubblicato nel 1904, dove, affianco alle nuove intitolazioni corredate da note storiche, sono riportate le denominazioni antecedenti al 1871.

Sfogliando l’opuscolo è evidente come, prima dell’elaborazione delle nuove tabelle denominative, i tracciati viari erano indicati sommariamente: alcuni erano menzionati con nomi diversi (es. l’attuale via Antonio Galateo era conosciuta come via dietro l’Ospedale, o Molini di Rusce, o Sant’Antonio di dentro); spesso una via e uno slargo ricadenti nella stessa area urbana avevano la medesima denominazione (es. largo dietro il Monastero delle Scalze – attuale piazzetta dell’Arte della Stampa -, vico dietro il Monastero delle Scalze – attuale via Francescantonio Piccinni – e largo delle Scalze – attuale piazzetta Mariotto Corso). Non mancano le curiosità come il vico dei cani nella via delle Case nuove (l’attuale vico dei Panevino).

ph Giovanna Falco

Sono importanti gli antichi appellativi derivati dai luoghi di culto (es. vico San Pantaleo – attuale via Pietro Belli -, vico San Procopio – attuale via Isabella Castriota, ecc.), che permettono, così come si accennava prima, di rintracciare il sito di queste cappelle demolite da tempo.

Riguardo alle attività produttive pubbliche e private, si viene a sapere che esisteva il Magazzino dei Sali (da cui prendeva il nome l’attuale via degli Antoglietta) e quello della Neve (la limitrofa piazzetta dei Longobardi), via Acaya era detta dei barbieri, il forno dei Bernardini assegnava il nome all’attuale vico dei Guidano. Si possono individuare anche le ubicazioni delle costruzioni di pubblica utilità: la Chiavica di San Martino assegnava nome a un vico (attuale vico dei Fieschi) e quella del Rosario a uno slargo (attuale piazzetta Giovanni d’Aymo).

Alcune denominazioni sono state tradotte dal dialetto all’italiano, come il vico delle reòte trasformato in vico delle Giravolte. Ci s’imbatte anche nella corte lunga, l’attuale vico dei Figuli: intitolazione molto interessante perché, oltre a indicare in quella zona della città quest’attività produttiva (era limitrofa alla via dei Piattàri, l’attuale via Quinto Ennio), informa della trasformazione urbanistica di questo elemento viario. Il vico Cesario dell’acquavite (attuale vico degli Alberici), può essere considerato un antenato dell’odierna strada di Pippi Nocco: via del Palazzo dei Conti di Lecce nota, appunto, per questa rivendita di alcolici.

Si nota, inoltre, come la maggior parte di vichi, corti e strade erano identificati con il nome delle famiglie che vi risiedevano, alcuni sono stati mantenuti da Luigi Giuseppe De Simone (es. le corti dei Guarini e dei Lubelli, vico dei Petti, ecc.), allo stesso modo, come si è già accennato, lo studioso ha conservato quello di alcuni luoghi di culto (vico dei Cretì – vico Chetrì -, piazzetta Chiesa greca – largo Chiesa greca (con il nome di questa chiesa era conosciuto anche il limitrofo vico degli Albanesi), vico storto Carità vecchia – vico Carità vecchia -, ecc).

Un’ultima considerazione, ma non meno importante: nella Guida pratica di Italo Madaro sono citati anche gli assi viari scomparsi a causa d’interventi urbanistici, come ad esempio il vico Luigi Ceppola, l’antico vico dietro il Sedile cancellato in età fascista per riportare alla luce l’Anfiteatro e costruire il palazzo dell’INA e, ancora, la corte Contessa Albiria (già Corte Romano, nel vico Grate di S.a Chiara), situata nell’area dov’è stato scoperto il Teatro romano.

Un attento studio della Guida pratica di Italo Madaro, dunque, permette di ricostruire l’antico assetto urbanistico di Lecce e del vissuto cittadino.


[1] Cfr. L.G. DE SIMONE, All.mo Sindaco e consiglieri municipali della città di Lecce, in «Cittadino Leccese», VIII (1869), n. 24.

[2] Cfr. L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964.

[3] L’anno successivo alla pubblicazione dell’opera di De Simone, fu dato alle stampe un opuscoletto a firma dell’avvocato Angelo Miccoli che ne contestava i contenuti (Cfr. A. MICCOLI, Cenni storici sugli antichi popoli salentini, loro città e monumenti, ossia Lecce rivendicata nella sua antichità e civiltà, Lecce 1875).

[4] Cfr. I. MADARO, Guida pratica della Città di Lecce, Lecce 1904.

Il degrado consuma il portale su via Antonio Galateo a Lecce

testi e foto di Giovanna Falco

portale via Galateo fotografato nel 2010

Nei giorni passati Piero Barrecchia ha apportato un interessante contributo all’articolo pubblicato da Spigolature Salentine il 17 dicembre 2010 Lecce – S.O.S. per un portale a firma di Giovanna Falco: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/17/lecce-s-o-s-per-un-portale/.

Piero ha proposto una serie di interessanti considerazioni atte a decifrarne l’iconografia.

Nell’articolo del 2010, oltre a segnalare la situazione di questo delizioso gruppo scultoreo, abbandonato al degrado in via Antonio Galateo a Lecce, si è cercato di abbozzarne la ricostruzione storica e svelarne la valenza simbolica, nella speranza che qualche giovane ricercatore lo studiasse approfonditamente, per poterlo riqualificare, perlomeno, dal punto di vista

Fanfulla da Lodi ed altre opere leccesi di Antonio Bortone

di Giovanna Falco

Lecce, Il monumento a Fanfulla del Bortone (ph Giovanna Falco)

Nell’articolo Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello, pubblicato il 30 dicembre 2010 su Spigolature Salentine da Paolo Vincenti, si è parlato a lungo del monumento a Fanfulla da Lodi di Antonio Bortone, scultura che, sin dalle sue origini, ha vissuto una storia travagliata.

L’opera, così come si riscontra osservandola, è ispirata a Niccolò de’ Lapi ovvero i Palleschi e i Piagnoni (1841), il romanzo di Massimo D’Azeglio ispirato all’assedio di Firenze del 1530: Fanfulla da Lodi, divenuto frate domenicano, lascia il saio per riprendere le armi[1].

La statua in gesso fu modellata a Firenze nel 1877, anno in cui fu esposta anche a Napoli. L’anno successivo fu inviata all’Esposizione Universale di Parigi insieme a un busto in gesso. Durante il trasporto subì vari danni, nonostante ciò vinse la medaglia della terza classe insieme alla Chioma di Berenice del milanese Ambrogio Borghi (1848-1887)[2].

Le traversie di quest’opera non finiscono qui: sono state raccontate da Teodoro Pellegrino in La vera storia del Fanfulla[3]. Durante la lunga permanenza a Firenze, il gesso rischiò di essere distrutto, lo salvò Brizio De Sanctis, preside dell’Istituto Tecnico leccese, che si prodigò affinché fosse trasferito a Lecce[4]. Qui, grazie all’intervento di Giuseppe Pellegrino[5], grande estimatore di Bortone, nel 1916 la scultura fu donata al Museo Civico di Lecce (all’epoca alloggiato nel Sedile)[6].

Lecce, Il monumento a Fanfulla del Bortone (ph Giovanna Falco)

Rimandata a Firenze per essere fusa in bronzo, nel 1921 fu inaugurata e sul basamento fu apposta la targa commemorativa scritta da Brizio De Sanctis

Santa Maria del Tempio in Lecce. Le ossa dei frati

francescani in processione

di Giovanna Falco

E così la tanto attesa risposta della Direzione regionale per i beni culturali paesaggistici della Puglia, riguardo l’area dell’ex Caserma Oronzo Massa a Lecce, già convento di Santa Maria del Tempio (1432-1864), è arrivata. A firma del direttore generale Isabella Lupi è stato dato parere favorevole alla realizzazione del centro direzionale, del mercato coperto e dei parcheggi interrati.

L’autorizzazione è vincolata a specifiche prescrizioni, tra cui: «soluzioni che consentano la massima conservazione e leggibilità delle strutture preesistenti, con particolare riferimento alla planimetria della chiesa, anche tramite la ricomposizione in situ dei resti rinvenuti», la «messa in luce, con scavo archeologico e documentazione grafica, delle strutture murarie ancora non rilevate nell’area interessata dal progetto» e lo «svuotamento delle fosse di scarico, pozzi, cisterne e ossari già individuati o che si dovessero ancora individuare», interventi da affidare a «archeologi esterni di comprovata esperienza e adeguata formazione»[1].

Da queste prescrizioni emerge l’importanza di questo sito, anche se «le strutture murarie della chiesa e del complesso conventuale preesistenti emerse dallo scavo si presentano fortemente alterate e compromesse, non solo per le modifiche effettuate quando il complesso è stato adibito a caserma, ma anche per la successiva realizzazione delle infrastrutture cittadine a rete interna di gas e illuminazione pubblica»[2], situazione che ha permesso l’autorizzazione a procedere.

Lasciando a chi è preposto a farlo, il compito di formulare le varie considerazioni di carattere tecnico-amministrativo e anche politico, ciò che è spunto di riflessione, perché denota un’insensibilità generalizzata dovuta a un modo di vivere che anestetizza e allontana da quelli che dovrebbero essere i principi base di civiltà, tanto semplici, ma altrettanto scomodi, riguarda lo svuotamento degli ossari.

Dal 1971, anno in cui è stato abbattuto l’edificio, nessuno ha tenuto conto del fatto che nel sottosuolo, all’epoca salvato dalle ruspe, vi erano sepolti i frati

Lecce. Trasformazioni e ampliamenti del convento di Santa Maria del Tempio

di Giovanna Falco

 

Come tutti i leccesi appassionati di storia locale, attendo la relazione degli scavi archeologici preventivi nell’area dell’ex Caserma Massa (eseguiti sotto la direzione dello staff composto da esperti di Archeologia Classica del Prof. Francesco D’Andria), per apprendere la natura dei cunicoli riportati alla luce, il tipo di reperti che hanno custodito per tanto tempo e da quale area del sito proviene il capitello fotografato dall’esterno del cantiere da più persone tra fine marzo e inizio di aprile, probabile testimonianza della fase architettonica più antica di questo ex edificio.

Riscuotono un certo fascino le gallerie sotterranee voltate a botte emerse dal sottosuolo, attorniate dai vari piani di calpestio dell’immobile, testimonianza delle varie trasformazioni cui è stato sottoposto tra il 1432 e i primi decenni del Novecento. Com’è possibile definirle non rilevanti? Non sono forse state realizzate antecedentemente e/o in contemporanea di tante glorie monumentali presenti in città?

Purtroppo non vi è più l’alzato dell’edificio, ma la peculiarità di questo sito sta proprio nel fatto che l’area è sgombera di strutture sovrastanti ed è ubicata fuori dal perimetro storico della città: è un interessantissimo percorso a vista di storia dell’architettura.

Cunicoli del convento emersi nei recenti lavori

Le dicerie che sono circolate in città, attorno a quest’area, sono dovute al fatto che molte persone non conoscono la storia del convento di Santa Maria del Tempio, più noto come ex Caserma Massa. Finalmente sabato 2 luglio 2012 Valerio Terragno ha pubblicato su il Paese Nuovo una bella sintesi delle sue vicende storiche, fugando dunque qualsiasi leggenda metropolitana.

L’ex convento di Santa Maria del Tempio – poi Caserma Massa – attuale ginepraio di cunicoli, è stata una grande e gloriosa struttura, le cui vicende costruttive possono essere sintetizzate in quattro fasi principali legate alla sua storia, magistralmente raccontata da padre Benigno Francesco Perrone nel primo volume di I Conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590 – 1835) (Congedo Editore Galatina 1981).

Stratificazioni del piano di calpestio

Fondato nel 1432 come convento dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia dipendente da Santa Caterina in Galatina, assorbita nel 1514 dalla Provincia minoritica di San Nicolò (diventata già nel 1446 Vicaria di San Nicolò di Puglia), nel 1591 passa ai padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, diventandone nello spazio di alcuni decenni la casa provinciale più grande. Allontanati i frati una prima volta nel 1811, costoro tornarono nel 1822 per abbandonare il convento definitivamente il 14 settembre 1864. Concesso al comando distrettuale nel 1872, in seguito l’immobile fu adibito a sede della Caserma del Tempio, dedicata nel 1905 a Oronzo Massa. L’1 febbraio 1971 l’edificio è stato demolito.

È preliminare a queste quattro fasi e alla nascita della fondazione monastica, l’inventario dei beni posseduti a Lecce dai Templari stilato nel 1308, recentemente analizzato da Salvatore Fiori nel suo I Templari in Terra d’Otranto. Tracce e testimonianze nell’architettura del Basso Salento (Edizioni Federico Capone, Torino 2010). Ebbene, l’area dov’è sorto il convento era il Feudum Domus Templi, una delle proprietà più importanti dell’ordine cavalleresco nel basso Salento. Il feudo era prospiciente un importante asse viario (attuale via San Lazzaro), che conduceva all’Ospedale di San Lazzaro nei cui pressi s’incanalava la strada verso l’entroterra salentino.

Alla soppressione dei Templari, avvenuta nel 1310, probabilmente il feudo diventò di dominio dei conti di Lecce: nel 1634 Giulio Cesare Infantino in Lecce Sacra, confidando nella tradizione, attribuisce ai conti la proprietà di un’antichissima cappella ubicata in uno dei fertili giardini di pertinenza del convento (da non confondere con la chiesa ipogea di Santa Lucia, l’attuale misero buco pieno di erbacce occultato da un muro, situata di fronte all’area in questione).

Non si conoscono ancora documenti che si riferiscono al passaggio di proprietà a Nuzzo Drimi: costui nel 1432 volle erigere nel suo podere una piccola chiesa e conventino, che dedicò alla Presentazione della Vergine al Tempio e affidò ai francescani dell’Osservanza della Vicaria di Bosnia, gli stessi frati che gestivano il monumentale complesso di Santa Caterina in Galatina fondato dai principi di Taranto.

Giovanni Antonio Orsini del Balzo, erede universale di Drimi, volle donare al convento leccese una teca d’oro, ottenuta dalla fusione di una sua collana, dove fu custodita la reliquia di un chiodo della Croce. L’Orsini del Balzo, inoltre, nel 1449 presentò a Nicolò V una petizione affinché intercedesse presso il vescovo di Lecce, per far sì che nella chiesa extraurbana fosse sepolto il cavaliere gerosolimitano Giacomo da Monteroni. Nel 1440 il convento fu ingrandito grazie alle elemosine offerte dai leccesi. Il complesso monastico, all’epoca, era costituito da un convento la cui area è stata inglobata dall’infermeria seicentesca e da una piccola e bassa chiesa che custodiva una miracolosa immagine della Vergine molto venerata.

Un secondo e più significativo ampliamento fu voluto a partire dal 1508 da padre Riccardo Maremonti, ministro della Provincia di S. Nicolò in Puglia dal 1515, nonché architetto che progettò un quadriportico sul lato nord della chiesa medievale. Costui fece abbattere l’antico convento e tra il 1508 e il 1517, realizzò il lato sud e l’ala est su cui si affacciavano le cucine e le officine. Il portico era formato da sei archi ogivali per lato, sostenuti da possenti colonne sormontate da capitelli decorati da quattro semplici volute (così come si può riscontrare nelle fotografie pubblicate nel libro di Perrone). Maremonti che realizzò, così come ha già illustrato Terragno, anche la sacrestia, il refettorio, e, al primo piano, un corridoio su cui si aprivano dodici stanze, volle ornare i gradini delle scale e le soglie delle stanze con un materiale di pavimentazione duro, adoperato in seguito come modello per lastricare le strade di Lecce.

Subentrati nel 1591 i padri della Serafica Riforma di San Nicolò in Puglia, costoro vollero apportare nuove modifiche allo stabile, dettate dalla necessità di accogliere un maggior numeri di frati e novizi, oltre agli ammalati provenienti da altri conventi. La grande infermeria, menzionata nel 1634 da Infantino, era allineata al prospetto della chiesa ed era dotata di refettorio, cucina, dispensa, farmacia e un numero cospicuo di celle per gli ammalati e di un piccolo chiostro. Prima del 1641 furono completati i due bracci mancanti del portico, realizzati secondo lo stile di Maremonti. Al piano superiore furono costruite nuove celle per i frati e fu aggiunto il corridoio sul lato nord, così da arrivare a ospitare fino a settanta religiosi. A fine secolo fu realizzata una grande biblioteca a uso dei novizi che si acculturarono in questi luoghi. Risale a questa fase l’ingrandimento della chiesetta medievale, essendo state aggiungente le cappelle laterali; la nuova chiesa comprendeva tredici altari e un coro superiore.

Il convento di Santa Maria del Tempio diventò la più grande struttura di tutta la provincia francescana. L’edificio è rimasto sostanzialmente immutato sino alla soppressione del 1864, e nell’inventario redatto per l’occasione, sono elencati i vari vani dello stabile.

materiale emerso durante i lavori

Adibito nel1872 a caserma, nell’edificio furono apportate profonde modifiche dettate dalla nuova destinazione d’uso con le relative esigenze funzionali.

in primo piano uno dei capitelli emersi durante gli scavi

Lecce. Il Sedile: note storico – descrittive

Lecce, piazza S. Oronzo, Il Sedile e la chiesa di S. Marco (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

Le recenti polemiche inerenti al restauro del Sedile in piazza Sant’Oronzo a Lecce, amplificate dalla scioccante illuminazione rosa fucsia (ormai spenta) e concentrate sulla rimozione di vari elementi storicizzati (la piastrella in maiolica recante l’antico numero civico 1674, le vetrate, il lampadario, il camino)[1], così come sul nuovo impianto illuminotecnico e le vetrate antiriflesso fissate da crociere di acciaio, fanno tornare alla mente un altro dibattito – anche questo riportato dai giornali – che ha riguardato sempre questo monumento.

Nel 1897, per dar risalto al Sedile, si pensò addirittura di abbattere la chiesetta di San Marco, che gli sorge di fianco. All’epoca – a differenza di oggi, fu proprio il Regio Ispettore dei Monumenti di Terra d’Otranto – Prof. Cosimo De Giorgi -, ad appellarsi alla cittadinanza dalle pagine del Corriere Meridionale, ricordando come la chiesetta testimoniasse la presenza secolare della potente colonia veneta, e sottolineando l’importanza del piccolo monumento: rara dimostrazione incontaminata dell’arte cinquecentesca. Da qui nacque un acceso dibattito che per più di un anno riempì di polemiche i giornali locali. Dalle pagine della Gazzetta delle Puglie, ad esempio, si criticava la troppa attenzione di Cosimo De Giorgi per «una cappelluccia corrosa e di

Mauro Manieri e l’altare di San Michele Arcangelo nella chiesa del Carmine in Lecce

di Giovanna Falco

A Lecce, nella chiesa di Santa Maria del Carmine in piazza Tancredi, è custodito l’altare di San Michele Arcangelo, realizzato nel 1736 da Mauro Manieri e le sue maestranze. È una delle opere più interessanti per la storia dell’arte leccese, perché il suo artefice l’ha progettata e realizzata nella sua totalità.

L’altare in pietra leccese è situato nella prima cappella a destra entrando nella chiesa. Sui due pilastri laterali che delimitano la nicchia, sono murate due epigrafi inneggianti a San Michele Arcangelo[1]. Vi si ascende da due gradini, sul piano di calpestio si apre una botola coperta da una pedana di legno. Il sarcofago bombato, decorato con volute, è delimitato da due busti di angelo.

La mensa si articola in tre gradi finemente intagliati. L’ancona convessa è contenuta tra due stipiti costituiti da brevi pilastri, scolpiti con decorazioni barocche, e sormontati da capitelli con foglie di acanto. Su questi poggiano le cariatidi scolpite a tutto tondo, raffiguranti a sinistra la Superbia e a destra l’Ambizione. Le due figure, incatenate, sono abbigliate con una semplice tunica, forgiata con panneggi molto movimentati, e indossano un copricapo che funge da appoggio ai capitelli sovrastanti. Questi ultimi presentano le stesse decorazioni dei capitelli delle paraste che racchiudono l’edicola ovale con San Michele Arcangelo: foglie di acanto sormontate da rosette. Alla base delle paraste, articolate verticalmente in tre gradi, due coppie di putti innalzano armature vuote, complete dei loro accessori e sormontate da croci.

L’edicola è racchiusa, alla base da tre testine di putti, due laterali e una centrale, in alto da due decorazioni angolari, formate da una rosetta contornata da foglie. Sui capitelli è posata una cornice mistilinea che funge da elemento di raccordo tra i due ordini dell’altare: al centro sono seduti due putti separati da due palme che s’incrociano. Il fastigio, più stretto e arretrato rispetto al settore sottostante, termina con una breve cornice mistilinea, composta da un elemento centrale curvo e sormontata da una testa di angelo. Al di sotto è ubicata un’edicola, cinta da una composita cornice che racchiude un dipinto raffigurante il Redentore. Ai lati dell’edicola sono presenti due sculture a tutto tondo raffiguranti angeli seduti e rivolti verso di essa. La composizione è delimitata da due volute, le cui estremità inferiori sono forgiate a guisa di busto di angelo. L’edicola centrale ospita la pala ovale con l’altorilievo di San Michele Arcangelo, racchiusa in una cornice lignea. Sotto la scritta“QUIS UT DEUS”, è ritratto il Santo con la spada sguainata, nell’atto di trafiggere il drago. Il manufatto è stato descritto nel Settecento come un’«effice di creta cotta e messa in argento che sembra di argento in pietra, opera degna del signor D. Mauro Manieri»[2]. Le analisi di laboratorio, eseguite durante il restauro dell’opera, hanno rilevato un «assemblaggio di vari materiali, dal sughero alla terracotta alla cartapesta»[3].

Per quanto le sculture siano scolpite con uno stile riconducibile al barocco romano e risalgono al 1736, l’apparato iconografico dell’altare si rifà a una concezione già riscontrata a Lecce nella facciata della basilica di Santa Croce, dove Marcello Fagiolo e Vincenzo Cazzato suppongono che le decorazioni alludano alla vittoria della Fede sugli infedeli [4]. Nell’altare del Carmine, la Superbia e l’Ambizione sono incatenate e spogliate delle armature simboleggianti il loro potere. Queste ultime sono state conquistate dall’Autorità celeste, rappresentata dai putti che le sostengono e dalla croce sovrastante. Così come nel Carmine le due statue sorreggono la sezione superiore dell’altare, destinata al Redentore e ai suoi messaggeri, in Santa Croce sui telamoni (allegoria degli infedeli) ricade tutto il peso della Fede, rappresentata negli ordini superiori della facciata. È la stessa foggia che si riscontra nelle due coppie di cariatidi, poste ai lati del portone di palazzo Marrese, in piazzetta Ignazio Falcomieri a Lecce. Nel Carmine, inoltre, si nota il forte contrasto tra la posizione scomposta delle figure inferiori e la serafica tranquillità degli angeli di fianco al Redentore. Un altro elemento già riscontrato nel Cinquecento a Lecce, in porta Napoli e sul Sedile, è l’armatura vuota, da interpretare come trofeo delle vittorie conseguite da Carlo V. Questo elemento ricompare in seguito su porta Rudiae, realizzata nel 1703 e attribuita da Michele Paone a Giuseppe Cino[5]. Nel Carmine potrebbe rappresentare la vittoria dell’Arcangelo Michele sulle debolezze umane. Il tema della vittoria è trascritto anche nel testo delle lapidi inneggianti al Santo, da cui si rilevano le varie facoltà attribuitegli nel Settecento, e, allo stesso tempo, il monito nei riguardi di chi non lo venerava, già rappresentato dalle due cariatidi incatenate.

L’apparato iconografico dell’altare denota una regia unitaria, che non tralascia nulla al caso. L’unico elemento di difficile lettura è rappresentato dai due putti con le palme incrociate, poiché non è dato sapere se alludano al culto di San Michele o al committente dell’altare. Dalle fonti consultate, infatti, non è stato possibile evincere se l’altare fu commissionato dai frati, da una famiglia nobile o da uno dei due pii sodalizi che avevano sede nella chiesa: l’Oratorio degli Artisti e la Confraternita del Carmine. Sono riconducibili al committente gli autori del testo delle epigrafi: «pantal: diac:» e «d: laurent: iust».

San Michele Arcangelo, è ritratto nell’atto di trafiggere il Male, rappresentato dal drago. E’ la stessa iconografia con cui usualmente è rappresentato il profeta Elia, raffigurato anche nell’altare di fronte a quello di San Michele nel Carmine. Qui l’ovale racchiude la pala dipinta da Gian Domenico Catalano tra Cinque e Seicento. A differenza dell’altorilievo attribuito a Manieri, Lucifero è ritratto con sembianze umane. Si potrebbe leggere nella decisione di ubicare i due altari di fianco all’entrata della chiesa, un monito ai fedeli contro le forze del Male, o, viceversa, per chiunque entri nel pio luogo, la protezione dei difensori della Cristianità dal Maligno. Potrebbe, altrimenti, indicare l’importanza del culto dei due Santi nella comunità carmelitana. La centralità della figura del profeta Elia nell’Ordine Carmelitano è nota[6], non è altrettanto facile comprendere la devozione dei padri nei riguardi di San Michele. Nello specifico, per la comunità carmelitana leccese, è giunta testimonianza di un’immagine dell’Arcangelo Michele di legno indorato, acquistata, nel 1614 a Napoli insieme con altre cinque statue, per adornare l’altare maggiore[7]. Nella chiesa del Carmine si trova un’altra immagine del Santo: è un dipinto riposto nell’edicola superiore del sesto altare intitolato a Sant’Anna, ubicato nel transetto a destra[8].

La venerazione per San Michele Arcangelo si diffuse in Italia a causa della lotta iconoclasta che ebbe luogo nell’Impero d’Oriente tra il VII e il IX secolo: molti religiosi si rifugiarono in Occidente e trasmisero la loro dottrina alla popolazione che li aveva accolti. Il culto di San Michele Arcangelo, inoltre, fu imposto nei domini bizantini durante l’impero di Niceforo Foca (964-969), tra questi era annoverata Otranto, la cui diocesi era alle dirette dipendenze della chiesa di Costantinopoli. Riguardo alla situazione leccese, non ci sono giunte testimonianze dirette che attestano la situazione dell’epoca. Le uniche tracce pervenuteci risalgono al 1300 e riguardano la consacrazione a San Michele Arcangelo della chiesa degli Agostiniani, già dedicata a Santa Maria di Costantinopoli[9]. Tra Cinque e Settecento, inoltre, furono realizzate svariate effigi dell’Arcangelo Michele, riscontrabili sia su edifici privati, sia all’interno e all’esterno di alcune chiese[10]. Sono attribuite a Mauro Manieri altre quattro sculture raffiguranti San Michele Arcangelo: sono ubicate sulla colonna angolare di palazzo Panzera in via degli Ammirati; nella mensola centrale del portale di palazzo Marrese in piazzetta Ignazio Falconieri, dove due coppie di cariatidi, abbigliate come quelle del Carmine, sono scolpite ai lati del portale; sul fastigio, a sinistra, della chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo degli Olivetani (1716) e nella nicchia a sinistra del portale della chiesa di Santa Maria della Provvidenza delle Alcantarine[11].

Il motivo per cui molte immagini di San Michele Arcangelo risalgono ai primi anni del Settecento e ben quattro, oltre a quella nel Carmine, sono state attribuite a Mauro Manieri, verosimilmente dipende dal fatto che nel 1688 il Santo fu proclamato protettore generale del Regno di Napoli.

L’altare di San Michele Arcangelo è il frutto della maturità acquisita da Mauro Manieri nel corso degli anni. Il suo ingegno derivò da un’approfondita preparazione classica. Il diciannovenne Mauro Manieri fu definito dall’abate e letterato Domenico De Angelis, un «giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine»[12]. Nell’atto di matrimonio, celebrato a Nardò nel 1710 dal vescovo Antonio Sanfelice, è scritto: «Clericus Maurus Manieri Utriusque Juris Doctor Lyciensis»[13]. Ulteriori notizie si apprendono da Nicola Vacca: fu «censore, dottore e matematico»[14]. Ricoprì la carica di censore, infatti, per l’Accademia degli Spioni, cui si aggregò giovanissimo producendo tre componimenti poetici in latino[15]. Mauro Manieri fu membro anche dell’Accademia dei Trasformatori e della colonia leccese della napoletana Arcadia, presso la quale assunse il nome di Liralbo[16]. Completò la sua formazione un soggiorno a Roma, dove conobbe personalmente i capolavori dei grandi protagonisti del barocco, tracciandone gli schizzi, cui s’ispirò al momento della progettazione delle sue opere[17].

Quest’assunto è facilmente riscontrabile mettendo a confronto il San Michele Arcangelo del Carmine con l’angelo posto a sinistra della Cattedra di San Pietro nella Basilica Vaticana, realizzata tra il 1657 e il 1666 da Gian Lorenzo Bernini e i suoi aiuti[18]. L’angelo berniniano è ritratto in un atteggiamento di scarto: posato su una nuvola, reca in mano una palma. Nell’opera di Mauro Manieri gli attributi iconografici cambiano, ma si riscontrano la posizione simile delle gambe, così come la stessa impostazione dell’ala a sinistra di chi guarda. Mutano le torsioni della testa e del braccio destro e non compare il braccio sinistro nascosto dal mantello. Riguardo alla scelta dell’altorilievo, e non di un gruppo scultoreo a tutto tondo, è evidente l’ascendenza dalla tipologia delle pale d’altare tipiche della produzione di Alessandro Algardi, ripresa in seguito, oltre che dai grandi artisti romani, da scultori di tutta Italia.

Il San Michele Arcangelo nel Carmine di Lecce, può essere considerato la summa di tutto il sapere del grande architetto e scultore settecentesco. Ai suoi tempi, il «signor D. Mauro Manieri» era considerato «eccellentissimo nel modello e architettura»[19]. Il cronista Francesco Antonio Piccinni, lo definì «Mastro celebre singolare (in) tal mestiere di modellare»[20].

Oltre alle tante opere architettoniche, realizzate a Lecce e in molti centri pugliesi, a Mauro Manieri è stata attribuita una vasta produzione scultorea lapidea, in cartapesta e in terracotta[21], ma non è dato sapere se fu realizzata direttamente dall’artista o su suo disegno. Si nota, infatti, una differente resa plastica tra le statue in pietra e le altre, così com’è evidente ad esempio, confrontando, nella chiesa del Carmine, l’altorilievo del San Michele Arcangelo e la statua, abbigliata con la medesima foggia, posta a destra dell’altare del profeta Elia, entrambi attribuiti a lui e datati 1736, e, ancora, con gli angeli dell’altare maggiore.

Si è scritto tanto su Mauro Manieri e le sue opere, ma ci sarebbe tanto altro da rintracciare e studiare, come, ad esempio: il soggiorno a Roma, il rapporto delle sue opere con la cultura napoletana e romana, i committenti, i rapporti con gli esponenti della cultura dell’epoca, il ruolo che ricoprì nelle accademie leccesi. Sta di fatto che è stato una figura fondamentale per la storia dell’arte salentina. In lui s’incarna il passaggio dal vecchio al nuovo modo di “fare arte”: l’artista non è più solo esecutore materiale di un disegno altrui, ma lo concepisce, lo progetta e lo realizza.

Lecce – S.O.S. per un portale

di Giovanna Falco

Queste note vogliono essere una sorta di appello a tutti i lettori. Il contributo di ognuno di noi potrebbe salvare dall’incuria un piccolo gioiello della scultura barocca, nascosto tra le stradine di Lecce vecchia.

ph Giovanna Falco

In via Antonio Galateo[i], a pochi metri dell’incrocio con via Dasumno, corte Santo Stefano delle Canne e via Luigi Scarambone, sulla sinistra si nota un bellissimo portale. Purtroppo è in un avanzato stato di degrado, a causa della corrosione della pietra leccese. Non vi è dubbio che si tratti dell’accesso a un luogo di culto. Sull’architrave, infatti, sono scolpiti tre busti: a sinistra un vescovo, al centro una figura femminile orante, a destra Sant’Irene.

ph Giovanna Falco

Ai lati della cornice del portale, sotto il busto del vescovo è scolpito un putto di fianco ad una colomba e sotto quello di Sant’Irene un putto che reca in mano una corona.

Il manufatto è stato realizzato sicuramente prima del 1658, perché Sant’Irene, antica patrona di Lecce, regge con la mano destra il modellino della città, simbolo, appunto, dei santi protettori.

Il 1658 è l’anno in cui il leccese Sant’Oronzo fu solennemente proclamato primo patrono cittadino, e la santa di origini orientali fu relegata a un ruolo di secondo piano.
Il vescovo raffigurato potrebbe essere lo stesso Sant’Oronzo, San Giusto o San Biagio, santi vescovi molto venerati in città, perché legati alla storia di Lecce. Le effigi dei primi due affiancano la statua di Sant’Irene nell’omonimo altare della chiesa dei Teatini attribuito a Giuseppe Zimbalo, commissionato dall’Universitas e già realizzato nel 1652[ii]. San Biagio, secondo la tradizione locale, era un «gentil huomo Leccese, il qual fuggendo la persecutione de’ Tiranni, se ne passò con una nave in Sebaste» dove fu proclamato vescovo e poi martirizzato»[iii]. Sia a San Giusto, sia a San Biagio, inoltre, furono dedicate due porte della città e di conseguenza i due quartieri in cui ricadevano.
Nulla è dato sapere riguardo alla figura femminile centrale. Le si potrebbero riferire la colomba e la corona scolpite sotto l’architrave. Un esempio di orante, colomba e corona, ritratte insieme, è la paleocristiana Epigrafe d’Alessandra, conservata presso il Museo Pio Cristiano di Roma: l’orante con le braccia alzate è raffigurata di fianco alla colomba che regge nel becco una corona. Una colomba recante la corona, questa volta in volo, è scolpita sul Sarcofago degli Agnelli, d’età gota, ubicato all’ingresso di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna. Nella simbologia cristiana colomba e corona rappresentano (tra l’altro), rispettivamente, la purezza e il martirio, così come, nel simbolismo tombale l’orante rappresenta l’anima del defunto in preghiera e la colomba, l’anima che s’innalza verso il cielo recando in bocca, in alcuni casi, la corona dei martiri.

La chiesetta in via Antonio Galateo fu eretta in memoria di un defunto? Lo scultore volle rappresentare separatamente colomba e corona, per esigenze di carattere decorativo?

Dalle fonti a disposizione non è dato sapere a chi fosse intitolata la chiesa, a che epoca risalga, né tanto meno chi la fondò.

Qualche flebile traccia si può ricavare dagli elenchi delle chiese e degli isolati di Lecce, datati tra Cinque e Seicento[iv]. Nei pressi del portale, oltre alla cappella di Sant’Antonio di dentro, ancora in loco, sono attestate San Giorgio de’ Capperini, Santa Maria del Popolo, S. Biasi de Rugge e Santo Stefano delle canne.

La chiesa San Giorgio de’ Capperini, molto probabilmente era sul lato destro di via Antonio Galateo o via Luigi Scarambone, perché Infantino la ubica di fronte a quella di Santa Maria del Popolo. Quella di San Biasi de Rugge è citata solo nell’isolario del 1606, tra le isole della parrocchia del Vescovado, prima di quella di S. Francesco Montefusco e dopo di quella delle Cartelle.

Il campo, dunque, si restringe a Santa Maria del Popolo e a Santo Stefano delle Canne.

La chiesa di Santa Maria del Popolo, è elencata da Infantino nella parrocchia di Santa Maria della Porta, prima di quella di Santa Maria della Visitazione e dopo di quella di San Giorgio dei Capperini. Infantino la ubica di fronte a quella di San Giorgio, «dentro il cortile delle case della Badia di Cerrate»[v], cui apparteneva, e ritiene che anticamente fosse dedicata a San Simeone. Nel 1508 l’isola di Sti Simeonis è elencata prima di Sti Antonij (Sant’Antonio di dentro) e dopo Sti Georgii del portaggio San Giusto.

L’isola di Santo Stefano delle Canne, o meglio Santo Stefano de Canne insino all’hospidale, nello Stato delle Anime del 1631 è elencata prima di quella della Chiesa Nuova e dopo di quella di San Francesco nella parrocchia del Vescovado[vi]. Nel 1634, Infantino elenca la chiesa tra quelle di San Francesco de’ Quartarari e quella di Sant’Angelo nella parrocchia del Duomo. Non si sofferma sulla descrizione, accennando solo al fatto che era così denominata perché le era stato assegnato il titolo di una cappella che sorgeva fuori le mura della città, vicino a un canneto: la cappella extra urbana e il canneto erano ancora visibili nel 1634.

Nel 1871 Luigi Giuseppe De Simone compilò le nuove tabelle denominative delle vie di Lecce, derivate da un approfondito studio della storia di Lecce, da cui scaturì l’opera Lecce e i suoi monumenti[vii]. Dedicò la corte Damiani a Santo Stefano delle Canne, forse riteneva che l’antica chiesa sorgesse in questo slargo. Nicola Vacca ebbe qualche dubbio riguardo questa ubicazione, e nelle Postille all’opera di De Simone citò un manoscritto di Martirano: «Questa cappella fu attaccata a delle case riedificate dal fu Antonio cav. Macchia (che mutata a casa vecchia la trovò) non già nella corte dei Damiano, ov’è la Chiesa della Nascita fin da otto secoli beneficiata di patronato dei suddetti Damiano»[viii]. La Chiesa della Nascita, potrebbe essere Santa Maria del Popolo di Infantino, ubicata nel cortile della Badia di Cerrate. Nell’elenco degli edifici proposti a vincolo di tutela dal Piano Regolatore di Lecce, al n. 153 corrisponde la Chiesa dell’Assunta, situata nella corte Santo Stefano delle canne[ix].

La chiesa sotto le case del cavalier Antonio Macchia, citata da Martirano, potrebbe corrispondere al portale di via Antonio Galateo?

Nuovi studi permetterebbero di approfondire la conoscenza, come ad esempio la consultazione delle Visite Pastorali e degli atti notarili inerenti al cavalier Macchia. Un’approfondita analisi stilistica, potrebbe apportare nuovi contributi e conferire il giusto valore a questo portale.

Un’ultima considerazione.

Presso il Museo Provinciale “Sigismondo Castromediano” di Lecce, è conservato l’arco di un portale, dove sono scolpite due lupe sotto il leccio. Apparteneva alla chiesa di Santa Maria del Gaviglio, anticamente ubicata in via delle Bombarde al numero civico 3, ricostruita nel 1546 e già diroccata nel 1772[x]. Attribuibile a Gabriele Riccardi, il portale fu smontato e acquisito dal Museo, perché rischiava la rovina[xi]. Sarebbe il caso che anche le sculture di via Antonio Galateo siano smontate e conservate presso un luogo adatto a preservarle dalla distruzione?


[i] È la prima traversa a sinistra di via Giuseppe Libertini, che s’incontra dopo porta Rudiae.

[ii] Cfr. G. FALCO, Lo Stemma di Lecce: momenti e monumenti. La Torre, la Lupa e il Leccio, Lecce 2007, p.89.

[iii] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), p. 59.

[iv] Cfr. A. FOSCARINI, Lecce d’altri tempi. Ricordi di vecchie isole, cappelle e denominazioni stradali (contributo per la topografia leccese), in “Iapigia”, a. VI, 1935, pp. 425-451 (elenca le isole esistenti a Lecce nel 1508); N. Vacca, Lecce nel ‘600. Rilievi topografici e demografici. I gonfaloni dei quattro «pittagi» che componevano la città, in “Rinascenza Salentina”, VII, 1939, 1, pp. 91-95 (elenca le isole esistenti a Lecce nel 1606 e nel 1620); P. DE LEO, Uno sconosciuto stato delle anime della città di Lecce del 1631, in “Almanacco Salentino 1968-69”, Cutrofiano 1968, pp. 57-66 (elenca le isole esistenti a Lecce nel 1631); G. C. INFANTINO, op. cit. (elenca le chiese esistenti a Lecce nel 1634).

[v] G. C. INFANTINO, op. cit., p. 80

[vi] Nel 1631 l’isola contava 65 fuochi (famiglie) e vi abitavano, tra gli altri, Gio. Domenico Gravili con Sibilla, Cesare e Grazia Antonia Colonna; Isabella Mancarella con Giuseppe e D. Lupo Antonio Venuto; Orazio Celonese.

[vii] Cfr. L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964.

[viii] Ivi, p. 423.

[ix] Cfr. Tavola 3.11 Edifici vincolati e proposti per il vincolo nel centro storico, del Documento Programmatico Preliminare al Piano Urbanistico Generale.

[x] Cfr. G. FALCO, op. cit. pp. 77-78.

[xi] Cfr. A. CASSIANO, La pinacoteca del Museo Provinciale di Lecce: istituzione e acquisizione, in R. POSO – L. GALANTE (a c. di), Tra metodo e ricerca. Contributi di storia dell’arte, Galatina 1991, pp. 179-206: pag. 204.

Lecce. Il monumento a Sigismondo Castromediano

ph Giovanna Falco

di Giovanna Falco

Occorre fare un passo indietro per conoscere la storia di questo manufatto e dell’uomo che l’ha ispirato. Si può seguire questo percorso leggendo il monumento che racchiude i momenti salienti della vita di questo grande personaggio, non solo patriota e poi deputato salentino della prima legislatura del Regno d’Italia, ma anche infaticabile custode della storia della nostra terra.

Il monumento, opera dello scultore Antonio Bortone (1844-1938), fu commissionato nel 1898 da Giuseppe Pellegrino, all’epoca Sindaco di Lecce, e, realizzato grazie ai contributi di Umberto I il Ministero l’Amministrazione Provinciale / il Capoluogo i comuni cittadini[1], fondi in parte raccolti grazie alla sottoscrizione aperta da Adele Savio, la nobildonna torinese cui Castromediano dedicò le Memorie[2].  Pellegrino insistette molto per farlo realizzare, tant’è vero che Bortone gli scrisse: «Se il monumento a Castromediano è veramente piaciuto ne sono essenzialmente contento per te mio buon amico che per vedere attuato quel tuo nobilissimo pensiero hai dovuto sopportare non poche amarezze e lottare molto»[3].

Bortone ha ritratto il Duca in piedi, appoggiato con la mano sinistra a una sedia, dov’è stata posata frettolosamente una coperta. Reca nella mano destra, porgendolo al visitatore, il manoscritto delle sue Memorie, l’opera in cui racconta i moti del 1848, la condanna, gli undici anni di carcere, l’esilio.

Potrebbe aver voluto rappresentare idealmente uno dei momenti più significativi della vita di Sigismondo Castromediano: l’incontro tra il duca e re Umberto I avvenuto il 23 agosto 1889 nelle sale del Museo Provinciale[4]. La coperta abbandonata denoterebbe l’accantonamento della vecchiaia e delle sofferenze subite, la postura altera di Castromediano, ritratto in tutto il suo vigore, è sinonimo dell’orgoglio di porgere al re, e quindi a tutta l’Italia, il suo contributo, e quello di tutta la Terra d’Otranto, alla Patria.

Ai piedi della statua, sul davanti, troneggia una rappresentazione della Libertà «nelle nobili fattezze di una matrona seduta», sul lato posteriore la Gloria è «simboleggiata da un’aquila che lascia cadere la catena di forzato sul blasone dell’antico casato dei duchi di Limburg»[5].

Sul lato sinistro del monumento, sull’alto plinto in marmo si legge: Nei tormenti della pena / non mutò l’animo. Sotto sono elencate le carceri dove fu imprigionato: Procida, Montefusco, Montesarchio, Nisida, Ischia[6].

Sul lato destro, la scritta Ai compagni fedele / sdegnò privilegio / pari ne volle la sorte, è accompagnata dall’elenco dei loro nomi (qui riportati per esteso e correttamente): Nicola Schiavoni di Manduria, Michelangelo Verri di Lecce, Leone Tuzzo di Scilla, Maurizio Casaburi di Manduria, Carlo D’Arpe di Lecce, Nicola Donadio di Manduria, Francesco Erario di Manduria, Pasquale Persico di Lecce, Gennaro Simini di Lecce, Luigi Cosentini di Otranto, Giuseppe De Simone di Lecce, Dell’Antoglietta[7] di Lecce, Gaetano Madaro di Monteroni, Giovanni De Michele di Lecce, Salvatore Stampacchia di Lecce, Achille Bortone di Lecce.

ph Giovanna Falco

Scorrendo le pagine delle Memorie[8], si viene a sapere che queste persone (tranne il dottor Gennaro Simini, in precedenza espatriato), il 2 dicembre 1850 furono condannate a carcerazioni di varia entità (dai trent’anni di ferri inflitti a Castromediano e a Schiavoni all’anno di reclusione stabilito per Bortone), sentenza conseguente alla partecipazione, a vario titolo, ai moti del 1848, cui seguì l’arresto per cospirazione e insurrezione contro Ferdinando II. In questo elenco non sono citati il sacerdote di San Pietro Vernotico Nicola Valzani, il canonico Salvatore Filotico di Manduria (morto in carcere), Giuseppe Amati di Lecce. La frase che accompagna i nomi sul monumento, si riferisce al rifiuto di Castromediano alla proposta di grazia ottenuta nel 1854, per l’intercessione del Vescovo di Lecce Nicola Caputo, durante la sua detenzione a Montefusco.


[1] La targa è situata alla base del monumento, sotto l’aquila. Parteciparono con somme più o meno ingenti, anche il Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Pelloux e vari Comuni di Terra d’Otranto (Cfr. Ivi, pp. 54-55).

[2] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche – Memorie del Duca Sigismondo Castromediano, Lecce 1895, 2 vol. (ed. anast., Bologna 1975).

[3] R. DOLCE PELLEGRINO, Il monumento a Sigismondo Castromediano nel carteggio Savio – Pellegrino  cit.,  p. 58.

[4] Il sovrano era venuto a Lecce per una breve visita con il figlio Vittorio Emanuele, il Presidente del Consiglio Francesco Crispi e i ministri Benedetto Brin e Pietro Lacava. Cosimo De Giorgi era presente all’incontro. Racconta che: «Appena il Re lo vide con accento franco, affettuoso e sorridente, affrettando il passo innanzi a tutti corse ad abbracciarlo». I due, poi, si appartarono in una sala. Quando tornarono dagli altri, erano molto commossi. Castromediano non raccontò mai a nessuno quello che si erano detti, ma commentò l’evento sull’albo dei visitatori del museo. Sotto la firma del re e dei suoi accompagnatori, scrisse: «Con molta loro sodisfazione, tutto ammirando, commentando, spiegando, stettero in detto Museo dalle 5 e mezzo pom. sino alle 6. Onore che non dovrà giammai dimenticarsi» (C. DE GIORGI, Il Duca Castromediano e il Museo Provinciale di Lecce, in “Numero Unico”, Lecce 1896, pp.5-11: p. 5).

ph Giovanna Falco

[5] Cfr. Antonio Bortone da Ruffano (1844-1938), il mago salentino dello scalpello, pubblicato il 30 dicembre 2010 su Spigolature Salentine da Paolo Vincenti.

http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/30/antonio-bortone-da-ruffano-1844-1938-il-mago-salentino-dello-scalpello/

[6] Le carceri dove Castromediano soggiornò più a lungo, oltre quelle leccesi (dove fu recluso dal 30 ottobre 1848 al 28 maggio 1851), furono Procida, Montefusco e Montesarchio (Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit.).

[7] Sul monumento manca l’iniziale del nome di Dell’Antoglietta, non si sa, dunque, se chi ha redatto l’elenco si riferisca ad Achille (condannato il 2 dicembre 1850 a quattro anni di prigione), o a Domenico che subì una condanna a dodici anni in un altro processo e incontrò Castromediano al momento dell’imbarco per l’esilio.

[8] Cfr. S. CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche cit., pp. 123-159.

L’edificio storico archeologico Faggiano a Lecce

di Giovanna Falco

L’intrecciarsi e compenetrarsi degli elementi decorativi delle varie epoche che si affastellano sulla maggior parte dei prospetti degli edifici di Lecce vecchia, è dovuto all’estensione urbanistica della città, che per secoli e secoli ha mantenuto pressappoco la medesima superficie, racchiusa dalla cinta muraria. Alcuni tratti delle mura urbane hanno testimoniato la sovrapposizione di blocchi lapidei messapici, romani, medievali e, infine, cinquecenteschi. È datata a quest’ultima epoca la trasformazione dell’ipotetica forma ovoidale medievale (ancora leggibile esaminando la pianta della città), nell’attuale “trapezio”[1].

L’ampliamento, però, interessò solo alcune zone perimetrali della città. Da qui la stratificazione della maggior parte degli edifici nel centro storico di Lecce, frutto di continui adeguamenti dettati dalle esigenze dei proprietari che nel corso del tempo li possedettero. Là dove oggi sorge un’abitazione, forse in passato si ergeva una cappella, un magazzino, o quant’altro.

Nel centro storico, ovunque si scavi, sono riportati alla luce reperti delle varie epoche: basti pensare ai ritrovamenti nell’area delle piazzette Vittorio Emanuele II, Lucio Epulione, Sigismondo Castromediano, nei sotterranei del Castello e di palazzo Vernazza. Sono tutte aree di proprietà di enti pubblici, studiate scientificamente e, nel caso di piazzetta Sigismondo Castromediano, riqualificate.

Ma quando è un privato a “imbattersi” nella storia, cosa succede? Nella maggior parte dei casi non si sa.

Se i proprietari sono Luciano Faggiano e famiglia, nasce un “Edificio storico archeologico” di notevole suggestione: una sorta di grotta di Alì Babà, dove gli appassionati di archeologia, storia e architettura si trovano inaspettatamente di fronte ad un tesoro ammonticchiato e possono percorrere una passeggiata nel tempo, lunga duemila anni.

Lo stabile è articolato su tre livelli: il piano terra è suddiviso in sei ambienti, il seminterrato è distribuito in tre vani, al primo piano sono visitabili quattro locali. Presenta un anonimo prospetto in via Ascanio Grandi al numero civico 56, la seconda traversa a destra, entrando nel centro storico di Lecce da porta San Biagio. Ricade all’interno del confine di una delle aree interessate all’ampliamento urbanistico cinquecentesco di cui si è accennato sopra, nel versante orientale della città.

Probabilmente sorgeva a ridosso delle mura medievali, ancora individuabili in pianta e corrispondenti a un tratto di via Marino Brancaccio (prima traversa a destra dopo porta San Biagio) e vico dei Panevino.

L’Edificio Faggiano conserva tra le sue meraviglie una torretta belvedere, del tipo a balconcino, risalente al XIV secolo. È una delle torri d’avvistamento delle mura medievali? Il vano sottostante la torretta

Le iscrizioni sulla facciata della Chiesa Nuova a Lecce

di Giovanna Falco

In una delle innumerevoli passeggiate nel centro storico di Lecce, alla ricerca di scorci da fotografare, mi sono imbattuta in due iscrizioni poste sulla facciata della Chiesa Nuova in via Giuseppe Libertini.

La prima epigrafe è incisa sull’architrave del portale e non è stata rilevata da nessuno studioso. Vi si legge l’iscrizione «iustus ut palma florebit», che si ritrova anche all’interno della chiesa, sull’arco dell’altare maggiore. Il motto riprende una frase del Graduale Commune Sanctorum (Salmo 91,13-14), e, tradotto, sta per “il giusto fiorisce come palma”.

Lecce. Chiesa Nuova e palazzo limitrofo (tutte le foto sono di Giovanna Falco)

L’iscrizione «iustus ut palma florebit» si ritrova anche all’interno della chiesa, sull’arco dell’altare maggiore: Nicola Vacca la riconduce alla famiglia Mattei[i], Michele Paone la interpreta, giustamente, come il motto dei Palmieri[ii]: entrambe le famiglie hanno avuto il patronato della chiesa. La scritta, risale a un periodo che va da dopo il 1763, quando era abate Tommaso Paladini, al 1836: anno in cui i Palmieri vendettero il palazzo. Amilcare Foscarini riferisce che il portale era stato “rifatto” in stile molti anni prima del 1929[iii].

particolare del portale

Osservando la parte in alto rispetto allo stemma si scorge il motto. Una

Lecce e i conventi dedicati a Sant’Antonio da Padova

 

di Giovanna Falco

Il 13 giugno la Chiesa cattolica commemora Sant’Antonio da Padova (1195-1231), canonizzato dopo un solo anno dalla morte e proclamato Doctor Evangelicus nel 1946 da Pio XII.

È uno dei santi più venerati: protettore degli orfani, dei poveri, delle reclute, dei sacerdoti, degli sposi, è Santo patrono del Portogallo, del Brasile, della Custodia di Terra Santa, di molte città e centri urbani italiani e, in Terra d’Otranto, di Ceglie Messapica, Fragagnano e di tredici paesi nel leccese[1].

Il Santo Taumaturgo dal 1631 è anche compatrono di Lecce, «quando questa Città prese il Santo per suo particolare protettore, che veramente si fé sì solenne, che non può dirsi maggiore»[2]. La decisione di proclamare Sant’Antonio patrono della città nacque dal suggerimento dato al sindaco Giovan Domenico Veneziano da fra Nicolò de Seracina «huomo di gran Santità, e dotato da Dio dello spirito della Profetia»[3].

Da qui la fondazione del bellissimo altare nel Duomo e di quelli in altre chiese di Lecce, nelle cui nicchie sono riposti dipinti e statue che ritraggono Sant’Antonio

Lecce e gli strumenti della Passione di Cristo: araldica religiosa e reliquie

 

 

testi e foto di Giovanna Falco

 

Osservando la facciata della chiesa del Gesù, nota anche come del Buon Consiglio in via Francesco Rubichi a Lecce[1], si può notare come i dodici bassorilievi che decorano il fregio di coronamento dell’ordine superiore rappresentano i simboli della Passione di Cristo. Il fregio, ispirato all’ordine dorico, è costituito da tredici triglifi solcati non da tre, ma da cinque scanalature (probabile riferimento alle Cinque Piaghe di Cristo: le ferite al costato, nelle mani e nei piedi) e da dodici metope dove sono simbolicamente ritratte le scene salienti della Passione di Cristo, riprese dal Vangelo di Marco.

Con il prezioso contributo di Giovanni Lacorte sono riuscita a individuare i dodici simboli: Due palme (entrata in Gerusalemme); vessillo con la scritta SPQR e fusti d’albero sullo sfondo (arresto di Gesù); braccio con un sacchetto e una campana sullo sfondo (i trenta denari di Giuda); due profili di uomo (il bacio di Giuda); il gallo (Pietro rinnega Gesù); corona e canne incrociate (scherno dei soldati);

La Cattedrale di Nardò

Titolo collana: Itineraria

Direttore: Paolo Giuri

Titolo n. 1: La Cattedrale di Nardò

Testi: Giovanna Falco, Marcello Gaballo, Giuliano Santantonio

Referenze fotografiche: Mino Presicce, Raffaele Puce

Impaginazione e grafica: Luca Manieri

Editore: Fondazione Terra d’Otranto

2012

Formato A5, 148 × 210 mm,

pp. 20, con illustrazioni a colori

Codice ISBN: 978-88-906976-0-9

 

Un viaggio attraverso le eccellenze artistiche, architettoniche e ambientali del territorio salentino è quello che intende presentare la Fondazione Terra d’Otranto con la pubblicazione della collana “Itineraria”, serie di guide brevi monotematiche dedicate ai principali monumenti del Salento.

Per ogni opuscolo – aggiornato rispetto a contenuti, fonti, bibliografia e iconografia – la collana propone un identico schema: si parte da una breve introduzione storica, volta a contestualizzare l’analisi delle singole opere (delle quali sono sinteticamente delineate le vicende costruttive e artistiche, fino ai più recenti restauri), per poi passare alla visita guidata vera e propria, dove ad essere illustrati sono i singoli elementi costitutivi del monumento, dell’opera o del luogo trattato, quasi fossero tappe virtuali di un itinerario. L’apparato iconografico accompagna costantemente il testo, focalizzando l’attenzione su manufatti, dettagli e decori di particolare pregio, mentre una planimetria dettagliata del monumento consente di seguire agevolmente la guida in loco.

Il primo numero della collana è dedicato alla Cattedrale di Nardò, eccezionale palinsesto architettonico dove si accordano inaspettatamente l’edificio romanico-normanno, i restauri settecenteschi di Ferdinando Sanfelice e gli affreschi eseguiti da Cesare Maccari sul finire dell’Ottocento.

Lecce/ Restaurata la statua di Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938)

di Paolo Vincenti

foto di Giovanna Falco

E’ stata inaugurata ieri sera a Lecce, in Piazzetta Raimondello Orsini, la restaurata statua del Fanfulla, opera di Antonio Bortone (1844-1938), scultore originario di Ruffano. L’intervento di restauro, voluto dall’Amministrazione Comunale di Lecce, è stato effettuato grazie ad un finanziamento del Lions Club Lecce.

Questo monumento, modellato in gesso a Firenze dall’illustre scultore salentino nel 1877, venne fuso in bronzo nel 1921 e inaugurato l’anno seguente. Inizialmente collocata a ridosso di Palazzo Carafa, questa statua venne poi trasportata nella collocazione attuale.

Scrive Aldo de Bernart: “Antonio Bortone è scolpito sul plinto, che regge quella famosa statua, nel testo epigrafico del prof. Brizio De Santis: Sono/ Tito da Lodi /detto il Fanfulla/ un mago di queste contrade /Antonio Bortone/ mi tramutò in bronzo/ Lecce ospitale mi volle qui/ ma qui e dovunque/ Dio e l’Italia nel cuore/ affiliamo la spada/ contro ogni prepotenza/ contro ogni viltà/ MCMXXII.

La statua raffigura il Fanfulla, uno dei tredici cavalieri della “Disfida di Barletta”, ritratto ormai avanti negli anni quando orbo di un occhio e col saio domenicano faceva penitenza nel fiorentino convento di S. Marco, mentre affila la misericordia, un acuminato spadino che all’inquieto lodigiano era servito in tante battaglie.

Modellata a Firenze nel 1877, l’opera è figlia della tensione tra i circoli artistici fiorentini e il Bortone, che si era prodotto, e bene, nel nudo, con il Gladiatore morente, ma non aveva ancora dato prova di sé nel drappeggio. Tale prova il

Lecce e i conventi dedicati a Sant’Antonio da Padova

Lecce, chiesa di Sant’Antonio da Padova, prospetto principale, statua del Santo (ph Giovanna Falco)

di Giovanna Falco

Il 13 giugno la Chiesa cattolica commemora Sant’Antonio da Padova (1195-1231), canonizzato dopo un solo anno dalla morte e proclamato Doctor Evangelicus nel 1946 da Pio XII.

È uno dei santi più venerati: protettore degli orfani, dei poveri, delle reclute, dei sacerdoti, degli sposi, è Santo patrono del Portogallo, del Brasile, della Custodia di Terra Santa, di molte città e centri urbani italiani e, in Terra d’Otranto, di Ceglie Messapica, Fragagnano e di tredici paesi nel leccese[1].

Il Santo Taumaturgo dal 1631 è anche compatrono di Lecce, «quando questa Città prese il Santo per suo particolare protettore, che veramente si fé sì solenne, che non può dirsi maggiore»[2]. La decisione di proclamare Sant’Antonio patrono della città nacque dal suggerimento dato al sindaco Giovan Domenico Veneziano da fra Nicolò de Seracina «huomo di gran Santità, e dotato da Dio dello spirito della Profetia»[3].

Da qui la fondazione del bellissimo altare nel Duomo e di quelli in altre chiese di Lecce, nelle cui nicchie sono riposti dipinti e statue che ritraggono Sant’Antonio da Padova nell’iconografia usuale, con Gesù Bambino in braccio[4].

Quattro fondazioni francescane leccesi, inoltre, sono state dedicate a questo Santo: Sant’Antonio della piazza, Santa Maria di Ogni Bene, Santa Maria dell’Idria, Sant’Antonio a Fulgenzio.

La chiesa di Sant’Antonio da Padova, il cui prospetto attuale si trova in via Ludovico Maremonti, fu voluta da Gian Giacomo dell’Acaya, il celebre architetto di Carlo V. Originariamente il fondatore voleva istituirvi una comunità di suore Clarisse, ma non ottenendo l’approvazione decise di affidarlo ai frati Minori Osservanti, ordine religioso di cui faceva parte il figlio Francesco.

Narra Giulio Cesare Infantino come già nel 1564 ne aveva già fondato uno in Acaya «e vedendo il gran frutto, che questi Padri facevano, mosso dal medesimo zelo, donò à questi una sua casa principale in Lecce nel 1566»[5].

I frati francescani «comprando altro sito contiguo alla detta casa, con concessione di Pio V, fabricarono una commoda Chiesa, e Convento, come hoggi veggiamo sotto il titolo di S. Antonio di Padova»[6].

Lecce, chiesa di Sant’Antonio da Padova, prospetto principale (ph Giovanna Falco)

L’Infantino, oltre a descrivere il sacro edificio, racconta come il 13 giugno di ogni anno si addobbava «tutta la detta Chiesa di bellissimi drappi, con musiche,

9 – 10 giugno 2012. Lecce Cortili aperti

di Giovanna Falco

Sfogliando la brochure di Lecce Cortili aperti 2012, c’è una frase che la dice lunga su questa manifestazione: 18 anni di Cortili aperti.

Data la natura dell’evento – l’apertura al pubblico di alcuni tra gli androni e giardini più belli di Lecce vecchia – ci s’immagina di essere accolti da giovani in abiti da cerimonia pronti a festeggiare la maggiore età di quest’appuntamento. Logicamente non sarà così, forse dovremmo essere noi visitatori a portare un omaggio ai soci dell’Associazione Dimore Storiche Italiane – sezione Puglia, perché ancora una volta ci consentono di visitare i loro scrigni di pietra sparsi nel centro storico di questa bella città.

La manifestazione prende il via sabato 9, con l’inaugurazione di due mostre e la presentazione di un libro.

Domenica 10 ci si potrà immergere nel centro storico alla ricerca dei palazzi aperti per l’occasione dalle ore 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 21.30. Ci si chiederà se ci sono new entry, se ha riaperto palazzo tal de tali, se quell’altro è

Lecce. Il sabato delle Palme e la chiesa di San Lazzaro

Domenico Fiasella (1589-1669), San Lazzaro implora la Vergine per la città di Sarzana; 1616, Sarzana – Chiesa di San Lazzaro (da http://www.comune.sarzana.sp.it/citta/Cultura/)

 

di Giovanna Falco

Nell’arco ionico del Salento[1] nei venerdì di Quaresima è ancora in uso un’antica tradizione: squadre di cantori e musicisti, si aggirano di notte per le strade dei paesi fermandosi davanti alle case e intonando U Santu Lazzaru in cambio di doni, poi devoluti in beneficenza[2].

Le strofe del testo, una sorta di cantilena, cambiano nei vari paesi e s’ispirano alla Passione di Cristo, narrandone gli episodi salienti. Il corrispondente nella Grecìa Salentina era I Passiuna tu Christù (o A’ Lazzaro): la cantica della Passione in griko (un canto di questua), messa in scena i giorni a ridosso della Settimana Santa. Tramandata oralmente, era eseguita dai cantori del posto, accompagnati da un portatore di palma. I cantori si fermavano agli angoli delle strade dei paesi, intonando dalle tre alle cinque strofe, per poi proseguire della lunga cantilena, che terminava con il verso ca tue ine mère ma t’à Lazàru (questi sono giorni di San Lazzaro), festeggiato nel calendario bizantino la vigilia della Domenica delle Palme.

Il Sabato di San Lazzaro è la festività che celebra la fine della Grande Quaresima bizantina e l’inizio del periodo della Passione. Secondo il Sinassario «in questo giorno, il sabato prima delle Palme, festeggiamo la resurrezione del santo e giusto amico di Cristo, Lazzaro morto da quattro giorni»[3].

A Lecce le celebrazioni hanno luogo presso la chiesa di rito ortodosso di San Nicola di Myra, in piazzetta Chiesa Greca.

Anche i cattolici leccesi commemorano il Santo: per antica consuetudine, la vigilia della Domenica delle Palme numerosi fedeli concorrono presso la chiesa di San Lazzaro. Questa tradizione ha indotto papa Leone XIII, con bolla del 10 marzo 1897, a concedere a questa chiesa la celebrazione del Santo in questo giorno.

A tale rito è legata la fiera mercato che si svolge nei pressi della chiesa, intorno alla colonna del Santo[4]: è tradizione leccese acquistare alla Fiera di San Lazzaro le croci di palma intrecciata e i rametti di ulivo, benedetti durante la funzione religiosa della Domenica delle Palme.

Si perpetua, dunque, un’antichissima consuetudine, mutuata da quella orientale.

Le origini della chiesa leccese sono legate all’Ordine di San Lazzaro di Gerusalemme (attuale Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro): una delle quattro Compagnie gerosolimitane, al contempo religiose e militari, fondate ai tempi delle Crociate per assistere gli infermi e proteggere i luoghi santi della Palestina[5].

I Lazzariti hanno avuto molte commende, chiese e ospedali sparsi in Europa, molti in Italia meridionale. Una chiesa nelle pertinenze di Lecce, dedicata a San Lazzaro, è annoverata in un documento del 1308 riguardante l’inventario dei beni dei Cavalieri Templari[6]; non si sa, però, se ricadeva nello stesso sito dell’attuale chiesa.

Al tempo dell’Infantino, là dove sorge la chiesa di San Lazzaro, sita al di fuori delle mura cittadine, vi era «un gran cortile con stanze à torno, giardini, & altre comodità per servigio de’ Leprosi, che vi dimoravano, eretto dalla Città di Lecce in beneficio de’ suoi Cittadini, e non altri forastieri; onde havendo permesso una volta Giacomo d’Azia Co(n)sigliere Regio, e precettore dell’ordine di S. Lazzaro, che alcuni forastieri vi dimorassero, ad istanza della medesima Città fù scritto al detto d’Azia dal Re Ferdinando da Foggia sotto il dì 8 di Dicembre 1468. che in niun conto ciò permettesse, che altri che Cittadini Leccesi vi dimorassero; sì perche questi possano più commodamente vivere, sì anche perche la Cittànon portasse pericolo d’infettatione per la moltitudine de’ forastieri infetti»[7].

Il “Giacomo d’Azia” citato, non è altri che il «Generale Mastro e Precettore della Milizia dello Spedale di San Lazzaro Gerosolimitano in tutto il Regno di Sicilia ed oltre il Faro»[8] che ricoprì questa carica dal 1440 al 1498.

Infantino cita anche una fede di beneficio del 1550, in cui si dichiara: «la cura di questo luogo appartenere alla medesima Città, e tutti gli atti fatti di possessione esser stati nulli»[9].

Nicola Vacca, nelle Postille al libro del De Simone, cita un documento da cui si apprende che la gestione era amministrata dal sindaco e da un procuratore eletto nei parlamenti generali, mentre la tutela morale era gestita dall’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro[10].

Ricostruita agli inizi del XVIII secolo, «l’anno 1763 si era accresciuta ed ampliata la chiesa in bella forma»[11], ingrandita ulteriormente nel 1788[12]. La situazione economica dell’ospedale mutò dopo pochi anni. Diminuite, infatti, le carestie e le conseguenti epidemie che per secoli avevano infestato la città, l’istituzione si mantenne di sole elemosine, e con diploma regio del 1793 di Ferdinando IV di Borbone fu permesso, in suo favore, di fare la questua in tutta la provincia e nei due giorni del mercato settimanale di Lecce[13]. Decaduto l’ospedale, nel 1906 la chiesa è stata eretta a parrocchia, inaugurata nel 1907, nel 1916 è stata sottoposta a un ulteriore ampliamento.

Tra i vari arredi sacri della chiesa di San Lazzaro[14], in questo momento, merita particolare attenzione il crocefisso ligneo del presbiterio proveniente dalla chiesa del convento di Santa Maria del Tempio, la grande struttura dei frati Riformati soppressa nel 1864, adibita a caserma e demolita nel 1971.

Nell’area dove sorgeva il complesso conventuale, a breve sarà realizzato un complesso commerciale munito di parcheggi sotterranei: in questi giorni sono in opera scavi archeologici atti a rilevare le fondamenta della chiesa e del convento distrutto.

la colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, innalzata nel 1682, opera del maestro muratore Giuseppe Bruno

Il Crocefisso, annoverato tra gli arredi sacri della chiesa di Santa Maria del Tempio in un verbale di consegna datato 1864, fu realizzato intorno al 1693 ed è attribuito al calabrese Angelo da Pietrafitta[15].

Il frate Minore Riformato apprese l’arte della scultura lignea dal Beato Umile da Petralia Soprana, caposcuola degli artisti francescani meridionali e fu maestro, a sua volta, di frate Pasquale da San Cesario di Lecce. Suoi Crocefissi e Calvari sono attestati in Puglia e in particolar modo nella penisola salentina (Ostuni, Presicce, Nardò, ecc.), dove nel 1693 fu chiamato da padre Gregorio Cascione da Lequile, Provinciale di S. Niccolò delle Puglie, per realizzare il Crocefisso ligneo per il convento del suo paese[16].


[1] Il territorio che comprende Aradeo, San Nicola, Alezio, Cutrofiano, Neviano, Galatone, ecc.

[2]In origine i cantori andavano in giro per masserie e borgate con lo scopo di avere in cambio alimenti.

[3] Cfr. http://www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/le_feste_bizantine_sabato_lazzaro-24858.html?p=598866. Il Sinassario del cristianesimo orientale, trova corrispondenza nel Martirologio Romano: raccoglie il profilo biografico e agiografico di tutti i santi del calendario bizantino.

[4] «rimpetto la chiesa si eleva una colonna, probabilmente sostituita ad un’altra più antica, la quale fu innalzata nel 1682 ai 30 di aprile: opera del maestro muratore Giuseppe Bruno e poco dopo la Canonica sorge l’altra colonna che forma il Sannà o Osanna» (. A. FOSCARINI, Guida storico-artistica di Lecce, Lecce 1929, p. 180). L’Osanna, che in passato dava nome a tutta la zona, è stato abbattuto.

[5] Le altre erano: gli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme (poi di Rodi e ora Sovrano Militare Ordine gerosolimitano di Malta), i Cavalieri del Tempio (Templari), i Cavalieri Teutonici (detti anche di Santa Maria di Gerusalemme). L’Ordine di San Lazzaro fu istituito per curare i lebbrosi, fondato tra XI e XII secolo, fu protetto dai pontefici dal 1227 (Cfr. E. ROTUNNO, Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Dalle origini all’inizio del XX secolo: http://www.amicibbaamauriziano.it/public/ordine%20dei%20ss%20maurizio%20e%20lazzaro.pdf).

[6] Cfr. E. FILOMENA, Le ricchezze, il prestigio, lo splendore e la decadenza delle “domus” temmplari nel triste epilogo del processo di Brindisi. Il passaggio dei beni ai Cavalieri di Malta, in Lu Lampiune, a. V, n. II, agosto 2009, pp. 7-40.

[7] G. C. INFANTINO, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979), pp. 212-213. Il proclama di Ferdinando I è trascritto nel Libro Rosso di Lecce (Cfr. M. PASTORE, Fonti per la storia di Puglia: i regesti dei Libri Rossi e delle pergamene di Gallipoli, Taranto, Lecce, Castellaneta e Laterza, in Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, Galatina 1973, pp. 153-295: p. 253).

[8] E. ROTUNNO, op. cit., p. 11.

[9] G. C. INFANTINO, Lecce sacra cit., p. 213. Infantino ha letto questo documento nel libro 2 dei privilegi di Lecce.

[10] Le poche notizie sulla gestione dell’Ospedale di San Lazzaro sono state apprese da A. MARTI, Gli istituti di assistenza e beneficenza a Lecce nel sec. XVII, in L. COSI – M. SPEDICATO (a cura di), Vescovi e città nell’Epoca Barocca, Galatina 1995, voll. 2: vol. II, pp. 425-439. Nicola Vacca ha citato, invece, un atto notarile datato 1663 (Cfr. N. VACCA, Postille a L. G. DE SIMONE, Lecce e i suoi monumenti. La città, Lecce 1874, nuova edizione postillata a cura di N. Vacca, Lecce 1964, pp. 574-575).

[11] M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974, pag. 117.

[13] Cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce città chiesa cit., p. 284; A. MARTI, op. cit., p. 430.

[14] Nella chiesa sono presenti opere in cartapesta di Giuseppe Manzo, un Cristo morto ligneo (per tradizione orale attribuito anch’esso a fra Angelo da Pietrafitta), due tele attribuite ad Oronzo Tiso.

[15] Cfr. B. F. PERRONE, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, voll. 2: vol. I, pp. 113-144.

[16] Le opere di frate Angelo da Pietrafitta sono state oggetto di una ricerca di Pamela Tartarelli edita nel 2004 con introduzione di Paolo Maci e foto di Pierluigi Bolognini (Cfr. P. TARTARELLI, I Crocefissi di Frate Angelo da Pietrafitta nella Puglia, Il Parametro Editore, Novoli 2004).

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