Al via i restauri dell’organo monumentale della Cattedrale di Nardò (1897)

di Marcello Gaballo

In questi giorni si è finalmente dato inizio al restauro del monumentale organo a balcone della Cattedrale di Nardò, del 1897, che da decenni è rimasto inattivo a causa di una grave infestazione di termiti, che avevano gravemente intaccato e corroso in più parti la struttura in legno di noce  di sostegno, compreso il balcone e le parti scolpite di ornamento. Da anni si parlava dell’urgente azione di recupero, al fine di non perdere una delle opere più significative del massimo tempio presente in città.

 

 

Un po’ di storia

Nel corso degli importanti lavori di restauro eseguiti tra il 1892 e il 1899 nella Cattedrale, il vescovo tarantino monsignor Giuseppe Ricciardi (1890-1908) si preoccupò di dotare il sacro tempio di un nuovo organo polifonico a canne, per dare solennità alle cerimonie di inaugurazione e quelle che si sarebbero succedute nel tempo. Tutta la città contribuì alle ingenti spese dell’edificio, ma fra tutti si distinsero i fratelli De Pandi, che fecero realizzare a proprie spese il pavimento, la famiglia Vaglio, che offrì la balaustra del presbiterio, e Luigi Antico che fece restaurare a sue spese l’altare di S. Michele.

Dopo un primo preventivo dell’organaro barese Luigi Mentasti di Paolo, datato 1895, la scelta ricadde sulla ditta del cremasco Pacifico Inzoli, già impegnata per altri organi pugliesi e che lo realizzò nel 1897: PREMIATA E PRIVILEGIATA FABBRICA D’ORGANI/ CREMA/ INZOLI CAV. PACIFICO, come si legge sulla placchetta posta al disopra delle due tastiere.

La trattativa andò a buon fine anche per l’intermediazione del vescovo di Crema Ernesto Fontana (1830-1910), amico del nostro vescovo Ricciardi, del quale si conservano alcune lettere nell’archivio storico diocesano, in cui lo rassicurava circa il valore e la fama goduta dalla Casa d’organi “Pacifico Inzoli” di Crema: “…Fabbricatori d’organi a Crema si trovano quattro; ma Inzóli e Tamborini la vincono sugli altri: Inzoli poi credo che la vinca su tutti e che siasi acquistata una fama molto estesa e molto meritata. Egli è passionato dell’arte sua e costruisce gli organi secondo le esigenze delle leggi liturgiche e della musica sacra… Inzoli è uomo bravo, onesto e cristiano”.

Foto di Pacifico Inzoli

 

La Casa era stata fondata in Crema nel 1867, premiata con medaglie d’oro e diplomi d’onore (all’Esposizione di Bologna nel 1888 e all’Esposizione Eucaristica di Milano nel 1895) e aveva già realizzato oltre 200 organi, tra i quali i monumentali per la Cattedrale di Cremona, per S. Ignazio in Roma, per il  Santuario di Pompei.

In un vano ricavato nella struttura muraria perimetrale della navata destra, accanto alla cappella della Madonna delle Grazie o della Sanità, fu collocato l’organo a balcone su sue piani, dei quali il vano superiore fu riservato ai corpi fonici e la consolle, l’inferiore per la manticeria. L’elegante prospetto in legno di noce, la cassa e la cantoria, furono intagliati in stile neogotico, dagli stessi ebanisti della Scuola d’Arte di Maglie (LE), diretta da Egidio Lanoce (1857-1927), che avevano realizzato il seggio vescovile, le ante dell’altare delle reliquie e i battenti lignei della porta che dalla cattedrale immette alla scala dell’episcopio.

Un’epigrafe marmorea in latino, posta nel 1898 sulla parete muraria, al lato destro della facciata dell’organo, ricorda come l’opera fu donata alla città dalla nobildonna Clementina Personè (1840 ca.-1899), moglie del barone Giovan Bernardino Tafuri di Melignano (1827-1900), che può essere così tradotta: “In questa chiesa dedicata alla Vergine, recentemente riportata al suo primigenio splendore, affinché le divine lodi risuonino alte e muovano i cuori dei fedeli di Cristo ai pietosi affetti, Clementina Personè, moglie di Bernardino Tafuri, curò a sue spese questo campione della musica e della cosa sacra, con solerzia, nell’anno 1898” (traduzione di Elsa Martinelli).

Epigrafe marmorea a lato dell’organo, nella quale sono riportati i nomi dei donatori

 

Primo organista del nuovo organo accordato sotto la diretta revisione dell’Inzoli fu il neritino Giovanni Boccardo, conosciuto col cognome di Manfroci perché allevato ed educato dalla famiglia Manfroci, poco noto ma organista di grande livello. Non da meno fu il successore Maestro Egidio Schirosi (1895-1991), che fu anche direttore e compositore, che amava definirsi “organista dell’insigne Basilica Cattedrale”.

 

Note tecniche dell’organo di Nardò

L’organo, entro tre campate in altrettante cuspidi (7/7/7), mostra n. 21 canne in zinco dalle bocche non allineate, con andamento contrario a quello delle sommità, con labbro superiore a scudo. Nota della canna maggiore: Do1 del Principale 8. Due tastiere originali, a finestra, di n. 58 tasti (Do1-La5): diatonici ricoperti in osso, cromatici in ebano. Trasmissione meccanica a bilico. Gran’Organo al manuale inferiore, Espressivo al superiore. Pedaliera originale, diritta, di n. 27 pedali (Do1-Re3). Trasmissione meccanica con leva pneumatica Barker. Registri azionati da pomoli, a tiro, in quattro colonne ai lati delle tastiere: 5+4 pomoli a lato sinistro, 4+5 pomoli a lato destro.

 

 

 

Scipione Puzzovivo di Nardò: frammenti

di Armando Polito

Come ben sanno gli addetti ai lavori, si definisce tradizione indiretta la trasmissione di un testo del passato, facente parte di un testo mai pubblicato o andato perduto. In parole povere si tratta di citazioni, impossibile dire se a memoria o meno,  riportate da autori successivi. Possono essere brevi (più spesso è così) che lunghe ed è cura dei filologi raccogliere i frammenti relativi ad una o più opere dello stesso autore in un unico corpo, in pratica un’antologia in cui il compilatore sarebbe stato ben felice di inserire il maggior numero possibile di brani, nella quale non ha voce la sua scelta ma la maggiore o minore ampiezza delle fonti, cioé degli autori citanti.

Se il fenomeno coinvolge tutti i secoli passati, difficilmente si porrà per quelli attuali (e, probabilmente, futuri), in cui il desiderio di esibirsi e di conservare memoria di sé contrasta con una sincera consapevolezza dei propri limiti, il cui ricordo non converrebbe lasciare all’eventuale residuo spirito critico di qualche postero. E se anche molti autori del passato avrebbero fatto probabilmente meglio a ridurre la loro prolificità, per non pochi c’è il rimpianto per un talento che avrebbe meritato un ben diverso destino, alimentato da quel poco che di loro si sa e da qualche frammento che della loro produzione  è rimasto.

Di entrambi i filoni, relativamente alla sfuggente figura del Pozzovivo, fornisco in sequenza gli unici dati a me noti:

1) Pietro Angelo Spera, De nobilitate professorum Grammaticae, et Humanitatis utriusque linguae, Francesco Savio, Napoli,  1641, p. 365:

Scipione Pozzovivo salentino di Nardò, nel quale non mediocremente risplendettero le luci dei filosofi greci, in patria per non pochi anni precettore dei figli dei primi (cittadini) e poeta pregevolissimo in lingua latina  e  toscana, venne infine a Napoli, dove tra persone come lui raggiunse un posto di condizione non inferiore.

2) Giovanni Bernardino Tafuri, Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò, in Opere di Angelo, Stefano,  Bartolomeo,  Bonaventura,  Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1848, v. I, pp. 333-334 (cito da questa edizione, ma il primo dei due libri di cui consta quest’opera di Giovanni Bernardino era uscito nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Venezia, Zane, pp. 1-315:

Extat MS. apud Jo. Bernardinum Tafuri=Il manoscritto si trova presso Bernardino Tafuri (sulla perdita di tale manoscritto vedi la nota 2 del brano xuccessivo).

pp. 487-488:

In rapporto a questo secondo brano sono doverose le seguenti precisazioni: 

a) sulla sua fine ecco cosa si legge in Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico ragionato del Regno di Napoli, s. n., Napoli, 1804, tomo VII, p. 10:

b) Credo che il Succinto ragguaglio del sito della Città di Nardò sia una variante di Descrizione della città di Nardò che si legge in 2). Un’ulteriore variante dovrebbe essere il Notizia dell’antichissima città di Nardò, e sua Chiesa Vescovile che si legge in  Lorenzo Giustiniani, Dizionario geografico …, op. cit. p. 10, insieme con l’informazione la quale rimase manoscritta, e fu involata dalla casa de’  signori Tafuri  (credo che qui involata non stia nel significato specifico di rubata ma in quello generico di volata via, scomparsa).

c) L’epigramma latino a p. 104 della raccolta del Grandi non è di Scipione Puzzovivo ma di Stefano Catalano, letterato nato a Gallipoli nel 1553 ed ivi morto nel 1620. Nella biografia che di lui scrisse Giambattista de Tomasi di Gallipoli, inserita nel settimo tomo della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli uscito per i tipi di Gervasi a Napoli nel 1820 sono ricordati i seguenti titoli, tutti rimasti manoscritti ed andati perduti: De origine urbis Callipolis (opera dedicata all’amico e concittadino Giambattista Crispo), Descrizione della città di Gallipoli, Vita di Giambattista Crispo.

d) Il libro che il Tafuri cita nella nota 2 e che recherebbe un epigramma del Puzzovivo in onore di Scipione Spina (che fu vescovo di Lecce dal 1591 al 1639) è, com’era facile ipotizzare, quasi irreperibile e l’OPAC segnala l’esistenza di un solo esemplare custodito nella Biblioteca Provinciale Nicola Bernardini a Lecce. Impossibilitato a muovermi agevolmente, lascio ad altri il compito di consultarlo e di integrare, se si riterrà opportuno, questo post. In compenso, però, ne ho trovato un altro , che più avanti commenterò, a p. 8 di Peregrini Scardini Sancticaesariensis epigrammatum centuria, Vitale, Napoli,1603 (come si vede è lo stesso autore del libro dedicato  al vescovo Spina):

Su Pellegrino  Scardino di San Cesario vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/.

3) Giovanni Bernardino Tafuri, Serie degli scrittori nati nel Regno di Napoli cominciando dal secolo V fino al secolo XVI, in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1738, Tomo XVI, pp. 184-185:

… [L’accademia del Lauro] …

4) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Severini, Napoli, 1753, tomo III, parte III, p. 4:

5) Giambattista Pollidori, De falsa defectione Neritine civitatis ad Venetos regnante Ferdinando I ,  in Raccolta di opuscoli scientifici e filologici, a cura di Angelo Calogerà, Occhi, Venezia, 1739, tomo XIX, p. 225:

Scipione Puzzovivo Seniora coetaneo del  Marcianob  nel libro che ha il titolo ….

a E il Puzzovivo Iunior  molto probabilmente è lo Scipione Puzzovivo menzionato più volte (ma il testo non dà la certezza che si tratti della stessa persona, dal momento che l’omonimia è sempre in agguato anche in sussistenza di compatibilità cronologica) nel Libro d’annali de successi accaduti nella città di Nardò, notati da D. Gio. Battista Biscozzo di detta Città (cito dal testo edito da Nicola Vacca in Rinascenza salentina, anno IV (1936), n. 4:

A 22 Febraro 1646, andarono carcerati in Napoli, Notaro Alessandro Campilongo, Giandonato Ri, Scipione Puzzovivo, Nobile, e otto altre persone del popolo, per imposture fatteli dal Sig. Conte.

A 13 detto [Gennaio 1654] venne ordine dalla Regia agiunta fatta in Napoli, per la morte del D.r Mario Antonio Puzzovivo, che si conferiscanp, il Sindaco del Popolo,Gio. Donato Ri, e Scipione Puzzovivo, figlio del morto Puzzovivo, ordinando nella Regia Udienza di Lecce,che gli sia data quella gente che è di bisogno per la strada, e che possano andare con armi proibite.

A 20 detto [Gennaio 1654] partì per Napoli Scipione Puzzovivo, per la detta chiamatapartì solo senza il Sindaco del Popolo, havendolo portato sino a Conversano Gio. Ferrante de Noha, suo cugino, di là fu provvisto dal Sig. D. Tommaso Acquaviva di cavalcatura e denaro.

A 5 Marzo 1654 furono chiamati da venti persone dal detto Auditore, esamenandoli se il D.r Mario Antonio Puzzovivo era agente in Napoli della città di Nardò, e se avesse inimicizia con il Patrone, se fusse ammazzato, se Gio. Ferrante de Noha havesse portato  Scipione Puzzovivo in Conversano quando fu chiamato da S. E., se avessero inteso, che Mariantonio Puzzovivo fusse stato annazzato in Napoli, ad istanza del sig. duca delli Noci.   

A 16 Giugno 1654 fu carcerato Gio. Tommaso Sabatino per haver andato per servitore a Gio. Ferrante de Noha, e Scipione Puzzovivo, quando andarono a Conversano, acciò testifica che detto Puzzovivo, quando andò in Napoli chiamato da S. E., andò da Conversano, e negozziò con D.Tommaso Acquaviva.   

b Girolamo Marciano (1571-1628), autore di Descrizione, origine e successi della provincia di Otranto, opera pubblicata postuma per i tipi della Stamperia dell’Iride a Napoli nel 1855.

Alla data del 1739, dunque, il manoscritto del Puzzovivo ancora esisteva prima di fare la fine di cui si parla, come abbiamo visto,  nella nota 2 relativa al secondo brano del n. 3.

 

6) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte I, p. 378:

7) Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1752, tomo III, parte II, p. 23:

 

È giunto ora il momento di riportare, enucleati,  tutti i frammenti che le fonti (tra parentesi tonde il numero relativo) appena passate in rassegna mi hanno consentito di individuare.

Frammenti della Descrizione della città di Nardò:

(2) Nardò una delle città più cospicue della Salentina provincia, o s’ave riguiardo all’antichità della sua origine, vantando i popoli Coni per suoi fondatori, o all’eccellenza del suo sito, vedendosi piantata in una amena, e fertile pianura, e sotto d’un Cielo Benigno, o alla nobiltà degli abitanti, potendo andar gonfia, ed altiera sopra d’ogn’altra del Regno di Napoli , vantando, oltre molti nobili, ventiquattro Baroni di Feudi.

(4) L’Amore costante, La Tirannide abbattuta, ovvero la crudeltà di Tiridate vinta dalla costanza di S.Gregorio Armeno, L’Erminia  (Titoli delle opere sceniche di  Raimondo De Vito).

(5) Sotto Ferdinando I d’Aragona patisce ancora molti danni, per la batteria, et assalto fattali dal Campo Venitiano dopo la presa di Gallipoli.

(6) Visse in questo tempo in qualità d’ottimo, ed esperto Medico Gregorio Muci, a cui da più parti concorreva la gente, o di persona, o con lettere per avere di lui la direzione nelle proprie infermità, ed indisposizioni, e quasi di continuo era fuori di casa chiamato ora in un luogo, ora in un altro. E se la Natura gli fu assai proprizia acciò lasciasse parti ben degni delsuo vivace, e spiritoso ingegno, avendo composte molte opere mediche, e filosofiche, delle quali solamente corre per le mani di tutti un suo dotto parere intorno il cavar sangue alle donne gravide, gli fu molto avara a provvederlo di figliuoli  non ostante d’esser stato ammogliato con Prudenzia Filieri. Gregorii Mucii Medici Neritini Opus Practicis perutile. De Vena sectioni in utero gerenti adversus negantes huiusmodi auxilium pro cautione ab Abortu. Neapoli apud Joannem Sulerbachium 1544 in 4°.

Sui dubbi che suscita il titolo del Muci tramandato dal Tafuri vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/06/06/gregorio-muci-medico-nardo-del-xvi-secolo-suo-libro-fantasma/

(7) L’antica, e nobile Famiglia Longo s’estinse in Alberigo, il quale siccome per la suua gran dottrina apportò somma gloria, e riputazione alla sua Patria,ed al suo Casato, così per amor della verità, e per difesa degl’Amici mancò miseramente di vivere in Roma da un colpo di Archibugio.

Frammento della commedia in endecasillabi sdruccioli Fortunio:

(2) Così vengo or più pronto a te medesimo/per dedicar la mia nuova Comedia.( Questa, è pur ver, fu parte di quel carcere,/ch’io già provai per le colpe imputatemi,/  e Tu per tormi da man de’ Satelliti,/che mi volean straziar per non requiescere/volesti mai finché me render libero/non vedesti da que’ lacci corporei,/onde legata fu per sempre l’anima.

Epigrammi

(3) Quae fuerant Lauri Phoebo sacra pascua quondam/Musarum cultrix Infima turba colit./Aruerant herbis, Cytisi vel flore carentes/saltus,nec Cantum qui daret, ullus erat./Contulit illa atavis felicia serta Camoenis/vaticinor nostris gloria maior erit./At modo quae gaudet Vatum Turba infima dici/certabit, Phoebo tum decus omne feret. 

Quelli che un tempo erano stati pascoli di alloro sacri a Febo (ora) li cura la schiera Infimaa adoratrice delle Muse. Erano inariditi a causa delle erbe, le balze prive pure del fiore del citiso e non c’era chi intonasse alcun canto. Essab ha recato alle antenate Camenec ricche corone. Annunzio: per i nostri ci sarà gloria maggiore. Ed ora quella schiera di poeti che gode a chiamarsi infima gareggerà, tributerà allora a Febo ogni onore.

 

a L’Accademia degli Infimi (per la storia di quest’accademia, sorta sulle cenwri di quella del Lauro, vedi Notizie delle accademie istituite nelle provincie napolitane, in Archivio storico per le province napoletane, anno III, fascicolo I, Giannini, Napoli, 1878, pp. 293 e seguenti).

b L’accademia.

c Nome romano delle Muse; molto probabilmente connesso con cànere=cantare e carmen=canto.

 

In quest’epigramma composto da distici elegiaci colgo una dichiarazione di modestia, forse anche troppo ostentata, anche se abilmente, attraverso la ripetizione nel secondo e nel penultimo verso (simmetria strutturale)  dell’accoppiamento delle parole infima e turba con inversione chiastica (Infima turba/Turba infima) e grammaticale in una sottile inversione dei ruoli: nella prima sequenza turba con iniziale minuscola, nome comune con significato iniziale notoriamente dispregiativo  ed Infima con iniziale maiuscola (nome proprio dell’accademia); il contrario nella seconda, dove Turba esprime una sorta di già avvenuta nobilitazione, prontamente ridimensionata, però, da infima abbassatosi ad aggettivo dal significato non certo esaltante. Tuttavia va detto che a p. 55 del tomo II dell’edizione della Istoria uscita per i tipi di Mosca a Napoli nel 1748  in testa al componimento si legge AD SCIPIONEM PUTEVIVUM e, poco prima, che l’autore è Tommaso Colucci di Galatone; insomma, dedicante e dedicatario risultano invertiti e buon senso vuole che l’ultima versione sia quella corretta.

(2,  nota d) Ardua res epigramma solet Scardine videri/nec multis unum saepe placere potest./Namque alii verba, et flores sectantur amoenos,/hic pondus rerum, scommatis ille salem,/fabula nonnullis arridet, priscaque multis/historia in laudem ritè retorta virum./Sed benè cunctorum retines tu corda libello/hoc decies claudens carmina dena tuo/queis neque verborum flores, nec copia rerum,/nec doctrinae laus nec charis ulla deest.

O Scardino, l’epigramma suole sembrare cosa difficile e a molti spesso può non piacere una sola cosa. Infatti alcuni amano le parole e i piacevoli fiori di eloquenza, questi l’importanza degli argomenti, quegli il sale del detto faceto, a parecchi piace la favola ed a molti la storia antica giustamente rivolta a lode degli uomini. Ma tu avvinci felicemente i cuori di tutti includendo in questo tuo opuscolo cento canti ai quali non mancano né fior di parole né abbondanza di argomenti né lode della dottrina né alcuna grazia.

Da notare queis, forma arcaica  per quibus, che ha la funzione di conferire solennità più che obbedire ad esigenze metriche.

Della serie dei componimenti elogiativi posti nella parte iniziale dell’opera di Ferdinando Epifanio Theoremata medica et philosophica, Balliono, Venezia, 1640 fa parte un epigramma del nostro formato da tre distici elegiaci, preceduto dall’intestazione Scipionis Puteivivi u(triusque) i(uris) d(octor) hexastichon ad auctorem: Nec melius quisquam te, Ferdinande, medetur/quos mala vis ferri, vel mala febris agit,/Nec facile invenias, doceat qui rectius artes;/quarum mille locos explicat iste liber./Ad te igitur veniat quicumque aud doctus haberi,/aut fieri sanus cum ratione velit.

(Esastico di Scipione Puzzovivo dottore di entrambi i diritti all’autore:  Nessuno meglio di te, Ferdinando, cura coloro che agita la maligna violenza della spada o una febbre maligna e non si potrebbe trovare facilmente chi insegnui più correttamente queste arti, delle quali questo libro spiega mille punti. Da te dunque venga chiunque voglia o essere considerato dotto o diventare sano con serietà scientifica).

Nella presentazione, ormai datata (http://www.lavocedinardo.it/bacheca3-03/ripresa0503-1.htm), di una sua imminente pubblicazione di una storia di Nardò del XVII Giancarlo De Pascalis così scriveva: … Il resto della storia prosegue segnalando le personalità di spicco nell’ambito culturale della città: in particolare sono da rilevare le presenze di Scipione Puzzovivo (che molti studiosi ritenevano non essere affatto vissuto ma pure invenzione storica del Tafuri) …

Non mi è stato possibile fino ad ora leggere tale documento (estremi della pubblicazione in http://www.storiadellacitta.it/associati%20CV/de%20pascalis.pdf:  Nardò nel Seicento: un manoscritto inedito di Girolamo de Falconibus, nella rivista “NERETUM – Annuario della Società di Storia Patria – Sez. di Nardò”, Congedo, Galatina 2003) e, quindi, non sono in grado di dire cosa eventualmente  aggiunga a queste note la parte dedicata al nostro Scipione, né conosco i nomi di coloro che, forse un po’ troppo frettolosamente condizionati dal vizietto della falsificazione notoriamente caro al Tafuri, hanno pensato che fosse un personaggio fittizio. Per fugare definitivamente questo dubbio credo, visto  che l’epigramma 3, per quanto detto, molto probabilmente andrebbe escluso dalla produzione del nostro, basti  il 2, nota d “ospitato” da Pellegrino Scardino proprio all’inizio della sua centuria. Ho detto ospitato, ma avrei fatto meglio a scrivere esibito, insieme con altri tre, rispettivamente di Giovanni Alfonso Massaro, Filippo Antonio Leone e Francesco Mauro, secondo la consuetudine, abbastanza frequente nella letteratura encomistica di quel tempo, di far precedere l’opera da recensioni poetiche di personaggi di una certa notorietà. L’epigramma in questione, inoltre, testimonia, da parte di Scipione, di un certo mantenimento di contatti  con l’ambiente culturale salentino.

Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò (1695-1670) e Giovanni dello Presta (1683-1765), il suo insegnante di lettere in difficoltà con l’aritmetica

di Armando Polito

Ciò che sto per presentare potrebbe pure apparire come una testimonianza di narcisismo particolarmente diffusa nei secoli passati, se non fosse che essa, tuttavia, permane nei nostri giorni sotto le forme della dedica, della prefazione e della postfazione (queste due ultime, addirittura, non raramente multiple). La prima, la dedica, magari era solo un po’ più sfacciata di oggi, perché sbattuta in faccia già a partire dal frontespizio. E da questa comincio. Nel 1727 usciva  per i tipi di Oronzo Chiriatti a Lecce un’edizione del De situ Iapygiae di Antonio De Ferrariis alias Galateo (1444-1517) curata da Giovanni Bernardino Tafuri e  dedicata a Giovanni Nicastro, vescovo di Claudiopoli.

La dedica annunciata nel frontespizio ha il suo svolgimento nelle cinque pagine iniziali, cui seguono nella successiva due imprimatur. Inizia, poi, quella che oggi chiameremmo prefazione e che all’epoca consisteva per lo più in componimenti, naturalmente anche loro elogiativi, in latino (esametri o distici elegiaci). Essa consta di un componimento di Ignazio Maria Como (sul quale sorvolerò per non tediare il lettore ed anche perché non è funzionale a quanto fra poco vedremo), cui segue la pagina che riproduco, aggiungendo, come ho fatto per il frontespizio la traduzione e qualche nota di commento.

a Inizia la parte, per così dire, enigmistica dell’elogio in cui 69, 113 e 69 dovrebbero essere  i totali risultanti dalla somma del posto che ciascuna lettera che compone ogni parola ha nell’alfabeto. Dico dovrebbero perché i conti non tornano: infatti, se 69 nasce correttamente  da 10+15+1+14+14+5+19 e 44 da 1+11+2+1+7+5+17, lo stesso non è per 69, in quanto  la somma di 18+1+6+19+16+19+17 è 96 e il totale di 69+113+96 è 278. A questo punto il creatore del giochetto dev’essersi distratto (o ha barato), per cui, invece di segnare 96, ha segnato l’inverso, cioè 69 e poi, operando la somma di 69+113+69 ha ricavato il totale definitivo di 251. La matematica, probabilmente, non doveva essere il cavallo di battaglia del nostro enigmista perché nella seconda parte, se 16 nasce correttamente da 5+3+3+5, lo stesso non può dirsi per 93, in quanto 17+13+10+20+5+12+17 dà 94, mentre corretti sono 44 (da 1+11+2+1+7+5+17) e 98 (da 14+16+9+13+16+19+11).

Il totale corretto (16+94+44+98) è 252. il 251 che si legge è figlio del 93 invece di 94, errore indotto, anche qui non so dire quanto in buona fede, dalla necessità che la somma fosse 251, cioè uguale a quella della prima parte, a sua volta, come abbiamo visto, figlia di errore. Probabilmente l’intera frase piaceva troppo e non sarebbe stato facile cambiarla in un’altra di senso compiuto (e che anche aritmeticamente fosse corretta), dal momentio che tradotta suona così: GIOVANNI BERNARDINO TAFURI, ECCO CHI RISOLVE I DUBBI DEI PREDECESSORI (il riferimento è alle difficoltà incontrate dai precedenti commentatori dell’opera del Galateo).

E il giochetto piacque tanto all’autore che pensò bene di incastonare la seconda parte dell’anagramma nel componimento in distici elegiaci che viene subito dopo. Così apprendiamo che l’autore di entrambi  è Giovanni dello Presta precettore del Tafuri.

b Epiteto di Atena, dea greca della guerra, ma anche della sapienza e delle arti.

 

Non tutto il male viene per nuocere, perché, se l’inserimento di quanto appena esaminato fu un atto narcisistico1, senza di esso, tuttavia, non avremmo conosciuto il nome di chi seguì il Tafuri negli studi letterari e nulla di lui ci sarebbe pervenuto. Provvide poi un discendente di Bernardino a fornirci qualche altro dato. Si legge in  Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p. 494, dopo altri nomi di autori che diedero lustro a Nardò: Giovanni dello Presta. Nacque a 22 novembre 1683, e morì agli 11 di marzo 1765. Fu prete, e di poi eletto canonico della chiesa cattedrale di Nardò da monsignor Sanfelice. Fu maestro di lettere amene nel Seminario Diocesano della stessa città di Nardò. ________

1 Ridimensionato, però, dal fatto che l’anagramma e l’epigramma non compaiono nella successiva edizione inserita in Angelo Calogerà (a cura di), Raccolta d’opuscoli scientifici, e filologici, Zane, Venezia, 1732, tomo VII, pp. 35-205.

 

Il Galateo e i brucolachi

di Armando Polito

Il Galateo del titolo non è l’opera di monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e neppure quel complesso di norme di buone maniere che, come nome comune, da esso trae origine. Si tratta, invece, dello pseudonimo, tratto dal centro (Galatone) in cui nacque, del più famoso umanista salentino: Antonio De Ferrariis (1444-1517).

La parte finale del De situ Iapygiae, pubblicato postumo per i tipi di Pietro Perna a Berna nel 1558, Antonio rivolge la sua attenzione al territorio neretino e da par suo dà un colpo decisivo a a quella che ritiene  interpretazione superstiziosa e fasulla dei due fenomeni dei Fuochi fatui1 e della Fata Morgana2 osservati frequentemente nel territorio del Salento.

Riproduco di seguito dell’editio princeps il frontespizio e la parte che ci interessa di p. 117 evidenziata dalla sottolineatura, certo di fare cosa gradita ai bibliofili, ai quali segnalo che l’opera è integralmente scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/objdownload?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE003363&teca=MagTeca%20-%20ICCU&resource=img&mode=all.

Prima di procedere alla traduzione è d’obbligo una nota di natura filologica relativa proprio alla strana parola (brucolachi) che compare nel titolo di questo post. In questa prima edizione compare Brocolarum, come si può leggere più chiaramente nel dettaglio che segue.

non nativo, cioè dell’autore, ma di trascrizione da manoscritto più che di stampa) per Brocolacum, genitivo plurale, che, come vedremo, appare come trascrizione dal greco. L’errore si perpetuò per lungo tempo nelle edizioni successive, di seguito documentate.

Maccarani, Napoli, 1624

p. 90

 

Chiriatti, Lecce, 1727

Di questa edizione curata dal neretino Giovanni Bernardino Tafuri non posso fornire il dettaglio che ci interessa, ma posso assicurare che continua il Brocolarum delle precedenti edizioni, perché esso permane nell’edizione, a cura dello stesso Tafuri, inserita nella collana curata da Angelo Calogerà appresso indicata.

Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo VII, Zane, Venezia, 1722

  1. 194

 

Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, Ricciardi, Napoli, 1735

 

colonna 620

 

Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851

p. 89

A p. IV dello stesso volume Michele Tafuri così si esprime sull’edizione leccese del 1727 curata dall’antenato.

Da notare l’errata indicazione del tomo della raccolta del Calogerà (VII e non IX).

 

La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867

p. 93

 

Abbiamo la conferma che il Brocolarum sopravvisse fino al 1867. Non so a quale editore è da ascrivere il merito di averlo corretto per primo in Brocolacum. Bisognerebbe passare in rassegna tutte le edizioni del De situ Iapygiae successive al 1851, ricerca, purtroppo, non fattibile, com’è noto,  in rete con testi anche relativamente recenti, ferma restando la mia impressione che in questi ultimi anni il processo di digitalizzazione del patrimonio librario ha subito un rallentamento, probabilmente per motivi di ordine non solo burocratico ma anche finanziario.

Dopo questa lunga parentesi, che lascio volentieri aperta ad ogni integrazione altrui, ecco la traduzione del brano da cui tutto è partito.

Simile è la favola dei brucolachi, che invase tutto l’oriente. Dicono che le anime di coloro che vissero scelleratamente di  notte come globi di fiamme sono solite sorvolare i sepolcri, apparire a persone note ed amici, nutrirsi di animali, succhiare il sangue ai fanciulli ed ucciderli, tornare poi nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture, squarto il cadavere, ne estrae il cuore e lobrucia e getta la cenere ai quattro venti, cioè verso le quattro regioni del mondo e crede che così la maledizione cessi. E se la favola è quella, tuttavia ci offre l’esempio di quanto invisi ed esecrabili siano a tutti coloro che vissero malamente, e vivendo e da morti. Simile è anche la favola di Ermontino di Clazomene citata da Plinioe da Seneca sul sepolcro incantato. Nè mancarono nei tempi antichi simili sciocchezze e illusioni dei sensi umani.

Stando alla descrizione, a parte il tratto iniziale che sembra riguardare i fuochi fatui, il resto evoca il vampirismo, per cui il brucolachi della traduzione è sinonimo di vampiri, voce con cui è reso in tutte le traduzioni meno e più recenti.

Un comune destino sembra unire dal punto di vista etimologico la voce vampiro e quella relativa al suo antenato, il brucolaco. La loro origine, infatti, è incerta. In particolare per la prima l’ipotesi più accreditata è che derivi dal serbo-croato vampir. E per brucolaco? L’attestazione più antica che sono riuscito a trovare è in una relazione di viaggio del 1717..

Alle p. 131-133 si legge quanto di seguito riproduco.

(Vedemmo una scena ben differente e ben tragica nella stessa isola in occasione di uno di questi morti che si crede ritornino in vita dopo il loro seppellimento. Colui del quale mi accingo a raccontare la storia era un cittadino di Micono5 per natura di cattivo umore e lamentoso; questo è un dettaglio da sottolineare in rapporto a pari soggetti. Fu ucciso in campagna, non si sa da chi e come. Due giorni dopo che era stato sepolto in una cappella della città, corse la voce che lo si vedeva la notte passeggiare a gran passi, che veniva nelle case a rovesciare mobili, spegnere lampade, abbracciare le persone alle spalle e fare mille piccoli tipi di dispetti. Lì per lì successe che se ne rise ma l’affare divenne serio quando le persone più sensibili cominciarono ad avere compassione: i papi stessi convenivano sul fatto e senza dubbio che essi avessero le loro ragioni. Non si mancò di far dire delle messe: nel frattempo il cittadino continuava la sua piccola vita senza correggersi. Dopo parecchie assemblee degli ottimati della città, dei preti e dei religiosi giunsero alla conclusione che bisognava, seguendo un non so quale antico cerimoniale, attendere nove giorni dopo il seppellimento. Il decimo giorno si disse una messa nella cappella dov’era il corpo al fine di scacciare il demonio che si credeva esservisi rinserrato. Il suo corpo fu riesumato dopo la messa e si decise di dovergli strappare il cuore. Il macellaio della città, assai vecchio e poco esperto, cominciò ad aprire il ventre invece del petto: frugò a lungo tra le interiora senza trovarvi ciò che cercava; alla fine qualcuno l’avvertì che doveva bucare il diaframma. Il cuore fu strappato tra l’ammirazione di tutti i presenti. Il cadavere nel frattempo puzzava tanto che si fu obbligati a bruciare dell’incenso; ma il fumo misto alle esalazioni del cadavere non fece che aumentarne la puzza e cominciò a riscaldare il cervello di questa povera gente. La loro immaginazione colpita dallo spettacolo si riempì di visioni. Ci si azzardò a dire che il fumo denso usciva da quel corpo: noi non osiamo dire che era quello dell’incenso. Non si credeva esserci che brucolachi nella cappella e nella piazza che è sul davanti: è questo il nome che si da a questi pretesi resuscitanti. La voce si diffuse nelle strade come attraverso ululati e questo nome sembrava essere fatto per far tremare la volta della cappella. Parecchi dei presenti assicuravano che il sangue di questo malvagio era molto vermiglio, il macellaio giurava che il corpo era ancora tutto caldo; da questo si concludeva che il morto aveva il gran torto di non esser morto bene o, per meglio dire, di essersi lasciato rianimare dal diavolo; è precisamente l’idea che hanno di un brucolaco. Si faceva allora risuonare questo nome in maniera incredibile. Entrò in quel tempo una folla di persone che affermavano ad alta voce che essi non erano ben sicuri che quel corpo fosse diventato rigido quando lo si portò dalla campagna in chiesa per seppellirlo e che di conseguenza era un vero brucolaco; questo era lì il ritornello.)

In margine a p. 131  si legge la nota che riproduco ingrandita.

 

Al Vroucolacas iniziale seguono le varianti greche, cioè Βρουκόλακος (leggi Breucòlacos), Βρουκόλακας (leggi Brucòlacas), Βουρκολάκας (leggi Burcolàcas. Subito dopo vien ripetuto Βρουκόλακας per introdurre la definizione: Spettro composto da un corpo morto e da un demone. C’è chi crede che  Βρουκόλακος significa carogna. Βρούκος (leggi Brucos) o Βοῦρκος (leggi Burcos) è questo limo così puzzolente che marcisce sul fondo dei vecchi pozzi, poiché Λάκκος (leggi Laccos) significa fossa.

La nota mi appare preziosa almeno quanto il testo principale  perché costituisce, a quanto ne so, il primo ed ultimo tentativo di ricostruire l’etimo di questa voce misteriosa. L’ipotesi del De Tournefort trova conforto, ma secondo me trae pure origine dalla conoscenza e consultazione del Glossarium ad scriptores mediae et infimae Graecitatis di Charles Du Cange uscito per i tipi di Anissonios, Joan. Posuel & Cl. Rigaud a Lione nel 168 (due volumi)..

Di seguito la parte iniziale delle schede relative rispettivamente dalle olonne 222 e  783 del primo volume.

(Βορκα, βορκος limo, non qualsiasi ma quello che macerato  in acqua già putrescente e mana una pessima fetore. Così l’Allacci nel libro sulle opinioni dei Greci al numero 12)

(Λάκκος [leggi lakkos], per i Greci è la fossa. Presso i medici però viene inteso come la parte del collo che chiamano σφαγλώ [leggi sfaglò), i Latini iugulum. Ipato in un manoscritto sulle parti del corpo umano: σφαγή, ὁ λάκκος τοῦ τραχήλου [gola, la fossa del collo]. Presso lo stesso ἰνίον [leggi inìon; significa nuca] viene spiegato come ὀπισθόλακκος [leggi opistòlaccos; alla lettera fossa che sta dietro], occipite. Λάκκος è pure il pozzo. Glosse manoscritte ai racconti di Gabria: πρός φρέαρ, εἱς λάκκον [verso il pozzo, verso la fossa])

Sembrebbe che l’etimo del nome della spaventosa creatura sia stato trovato, per cui brucolaco alla lettera significherebbe limo della fossa. Sarebbe così privilegiato il dettaglio del fetore che domina alla fine del racconto del Tournefort.

Faccio notare che il primo significato medico di Λάκκος (gola) riportato dal Du Cange evoca suggestivamente il dettaglio del corpo delle vittime dei vampiri ma mal si accorda (anzi, non si accorda proprio) con la prima parte Βορκα (limo puzzolente) e che le altre due varianti registrate nella relazione di viaggio (Βρουκόλακος e Βρουκόλακας) presentano rispetto a Βορκα la metatesi di –ρ-. Non crea, invece, problemi lo scempiamento dell’originario  -κκ- di Λάκκος dal momento che lo stesso glossario registra il derivato λακάζω (leggi lacazo) col significato di seppellire.

Fermo restanto il fatto che la nostra parola appare senz’ombra di dubbio composta, quali potrebbero essere le voci componenti alternative?. Per la prima parte metterei in campo la radice del verbo βρὐκω (leggi briùco), che siggnifica mordere e per la seconda la radice del verbo λακίζω (leggi lachìzo) che significa lacerare, uccidere.

 

Pur nell’incetezza delle sue componenti, credo di poter affermare che il brocolacum del Galateo è la trascrizione del greco  Βρουκολάκων (leggi brucolàcon) genitivo plurale di Βρουκόλακος, con conservazione dunque, della desinenza del genitivo greco

Rimane (per chi ci crede …) il fascino misterioso di questa creatura, ma anche la certezza che più di due secoli prima del De Tournefort del brucolaco aveva scritto il  salentino Galateo e che lo scetticismo da umanista del salentino (dopo tanta fatica mi si perdoni un pizzico di campanilismo …) anticipava quello da illuminista del francese.

__________

1  Per Fuoco fatuo s’intende il fenomeno costituito da fugaci fiammelle, per lo più bluastre che un tempo si potevano osservare nei cimiteri e in luoghi paludosi. Le mutate condizioni ambientali ed igieniche lo hanno fatto pressochè scomparire, come, con  il cambiamento di quelle culturali e più specificamente sociali, è avvenuto per il tarantismo.

2 il fenomeno della Fata Morgana, volgarmente detto miraggio, è un’illusione ottica dovuta alla rifrazione di immagini lontane in particolari condizioni atmosferiche. Non escluderei, visti i cambiamenti climatici in corso, la loro scomparsa o evoluzione …

3 Plinio, Naturalis historia, VII, 73: Reperimus inter exempla Hermontini Clazomenii animam relicto corpore errare solitam, vagamque e longiquo multa annuntiare, reperimus inter exempla hermotimi clazomenii animam relicto corpore errare solitam vagamque e longinquo multa adnuntiare, quae nisi a praesente nosci non possent, corpore interim semianimi, donec cremato eo inimici, qui Cantharidae vocabantur, remeanti animae veluti vaginam ademerint.  (Troviamo tra gli esempi che l’anima di Ermontino di Clazomene, lasciato il corpo, era solita errare e dopo aver reduce da paesi lontani dare molte notizie che non potevano essere conosciute se non da chi era tato presente, mentre il corpo frattanto restava semianimato, finchè i nemici, che si chiamavano Cantaridi, dopo averlo cremato, non sottrassero come una sorta di guaina all’anima che tornava)

Faccio notare un altro errore, anche questo perdurante nelle edizioni successive documentate per Brocolarum,  presente nell’editio pronceps, dove si legge Hermotini per Hermontini. Per quanto riguarda Seneca al momento non sono in grado di dire a quale sua opera il Galateo si riferisce. Anche per questo non dispero dell’aiuto di qualche volenteroso lettore.

Libri| Dell’Origine, sito, ed antichità della città di Nardò


Giovan Bernardino Tafuri, DELL’ORIGINE, SITO ED ANTICHITA’ DELLA CITTA’ DI NARDO’, a cura di Massimo Perrone

 

di Cosimo Rizzo

 

È stato presentato in data 10 dicembre 2016 nella Basilica Cattedrale di Nardò (Le) il volume di cui sopra in edizione anastatica dell’originale stampato a Venezia, Zane Editore, 1735, a cura di Massimo Perrone, dottore commercialista, Grande Ufficiale dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, Preside della Sezione Salento Lecce-Brindisi, diplomato in Archivistica nella Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica presso l’Archivio Segreto Vaticano.

Presentatori sono stati il dott. Alessandro Laporta, Direttore emerito della Biblioteca “N. Bernardini” di Lecce e il dott. Sandro Barbagallo, Curatore delle Collezioni Storiche dei Musei Vaticani e del Tesoro della Papale Arcibasilica Lateranense.

Gli storici municipalistici del Sei-Settecento, con la pubblicazione delle loro opere, si propongono di rendere con la penna servizio ai propri concittadini.

Per fare un esempio, B. Papadia inizia la sua opera Memorie storiche della città di Galatina nella Japigia (1792), confessando che la brama principale, cioè “di far sapere a’ miei concittadini, pe’ quali scrivo principalmente”, “è quella che mi ha posto in mano la penna per compilare le patrie memorie; e s’eglino co’ coro lumi, e colle loro carte che gentilmente mi comunicarono, nello stato mi posero di scrivere men difettose le presenti notizie, non poco sarò loro tenuto, e nel decorso dell’opera mi farò un pregio di nominarli”.

Questo può bastare per dare un’idea delle intenzioni di Massimo Perrone che, con il suo serio impegno di ricerca ha voluto riproporre all’attenzione dei suoi concittadini le opere dello storico Giovan Bernardino Tafuri.

Per Nardò, nel suo insieme, a parte alcuni studi recenti, particolari e specifici su questo e quello aspetto della città e del feudo, delle attività agricole ed economiche, degli usi e degli abitanti e dell’arte, vale ancora, quello che scrisse Antonio De Ferraris,il Galateo, in pagine, significative anche oggi, perché precise ed austere, trepide di profonda e trattenuta commozione e percorse da personali ricordi. Il De situ Japigiae si chiude proprio con il nome di Nardò in una espressione oraziana: “Neretum longae finis chartaegue viaeqae” ed ancora “omnis, si qua est, in toto terrarum angulo disciplina, a Nerito ortum habuit”.

Ed è doveroso ricordare che Giovan Bernardin Tafuri ne curò l’edizione.

Ma per più motivi si potrebbero accostare al Galateo le pagine di Giovan Bernardin Tafuri, sciolte dalle accuse gravi per i “falsi” e talvolta anche ingenerose, tutte invece da rileggere e rimeditare secondo le misure e il gusto degli storici-letterati municipalistici del Sei-Settecento.

Ben a ragione lo studioso G. Vallone nella introduzione a Memorie storiche della città di Galatina nella Japigia, Congedo Editore, 1984, ha parlato del Tafuri come dell’uomo “del tutto nuovo” della cultura salentina che non si può nel bene e nel male giudicare soltanto per i suoi contributi agli “Scriptores” muratoriani.

Accanto alle opere del Tafuri si possono porre le coeve Galatina letterata del 1709 di A. Arcudi, Le vite dei letterati salentini del 1710 di D. De Angelis, L’apologia paradossica della città di Lecce di G. A. Ferrari scritta nel 1580, pubblicata nel 1707, La Cronica de’ Minori Osservanti della Provincia di S. Nicolò (1724) di B. da Lama e così via.

E proprio in quest’ultima opera viene pubblicato del Tafuri il Ragionamento storico recitato nell’apertura dell’Accademia degli Infimi in cui si presentano in chiara sintesi le origini della Città, la fama, gli uomini illustri, le Scuole, le Accademie, le “famosissime Chiese”.

Bonaventura da Lama dà per primo il riassunto del libro di G. B. Tafuri Memorie degli uomini illustri nati in questa città, con una distinta notizia dell’antichità, origine e progressi delle sopra accennate pubbliche scuole.

Senza dubbio è estraneo all’origine di Nardò il tema del progresso civile nel senso del metodo critico e cioè del pensiero muratoriano; ma è solo avendo ben presente il tenore dell’anteriore storiografia provinciale che si può concretamente apprezzare l’importanza almeno dell’acquisto locale di una tecnica di fondo maurino che è opera più del Tafuri che di G. B. Pollidori.

“È fare torto all’autore non solo della Istoria degli scrittori, ma anche della monografia municipale, ignorare che nel Tafuri storico vibra una coscienza civile la quale tuttavia non è quella del Muratori, ma in un certo senso quella stessa che ispirò P. Giannone” (G. Vallone).

  1. B. Tafuri che mai uscì dalla sua Nardò e con i mezzi che allora si avevano, fu uno dei pochi e quasi il solo che, venuto in amicizia con i letterati della sua epoca, ebbe l’idea di non far perdere cronache e manoscritti, esistenti al suo tempo e si adoperò per la loro pubblicazione con la stampa inviandoli a L. A. Muratori e ad A. Calogerà.

Se la critica posteriore trova delle inesattezze e le vede apocrife, per questo rimane che il Tafuri è un manipolatore, un impostore, un falsario o peggio?

A me pare che coglie nel segno A. Laporta quando afferma nella prefazione della presente opera che il prodotto dell’intelligenza del Tafuri, questo in particolare resiste bene all’usura del tempo e si fa leggere ancora con interesse, intrecciandosi del resto con la fortuna dei suoi scritti, nettamente in risalita.

“Non si può certo, egli acutamente osserva, proporre di giustificare Tafuri, tutt’altro, ma rimettere in circolazione gli scritti potrà servire se non ad una riabilitazione, ad una più verisimile ricostruzione della sua prolifica attività di antiquario. L’opera che si presenta in edizione anastatica è un’occasione per “ripensare Tafuri” collocandolo nel suo secolo, con maggiore spirito di tolleranza”.

Massimo Perrone ha condotto una ricerca paziente negli archivi e nelle biblioteche per rinvenire l’edizione originale dell’opera del Tafuri. Ha voluto così dare un segno tangibile del suo amore per la città di Nardò.

L’avvenimento che conserva per le generazioni future il segno vivente del nostro recente e remoto passato, sia per lui di stimolo a darci la ristampa anastatica del secondo tomo dell’Origine, sito, ed antichità della città di Nardò.

Conoscere la storia, infatti, è conoscersi, tanto più se la storia che si vuole conoscere è quella del luogo in cui si è nati e si vive. Esplorandola si va alla ricerca della propria identità o, come oggi si usa dire, “delle proprie radici”

Nardò, via Belisario Acquaviva

di Armando Polito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spesso mi chiedo se abbia un senso intitolare una via, e il discorso vale per qualsiasi nucleo abitato, dalla frazione alla metropoli,  ad un personaggio che in qualche modo abbia avuto un rapporto con essa, quando la grafia stessa del nome suscita non poche perplessità: emblematico, per restare in casa, per Lecce il caso di via a. da taranto (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/06/archita-da-taranto/) e, per restare ancora più in casa …, per Nardò quello di via Scapigliari (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-scapece-e-una-forse-indebita-illazione-toponomastica/). E se per a. da taranto  c’è forse l’alibi dei troppi secoli trascorsi e per Scapigliari un’idiota esigenza di nobilitazione, per personaggi più recenti come, faccio un solo esempio, Foscolo, avanza l’alibi dell’ignoranza (da non escludere a priori, anzi da sommare a quello del tempo trascorso nei casi appena ricordati …), che assume aspetti macroscopici quando il personaggio in questione ha una duplice fama, nazionale, per così dire, e locale.

In fondo, forse, è meglio così: la lettura sulla targhetta viaria di via Ugo Foscolo non evocherà, distraendolo,  al pedone o all’automobilista il carme Dei sepolcri, propiziando, nel caso in cui l’uno o l’altro passi con il rosso di propria competenza, quel funerale che di regola precede la tumulazione …

Continueremo, così, a dare con gli stessi inconvenienti procedurali un nome alle nuove vie anche con i nomi nuovi che la storia fatalmente ci proporrà, con la stessa logica, in fondo, delle giornate, la cui celebrazione (ormai con soli 365 giorni a disposizione, restano, credo, pochi giorni da dedicare, per cui saremo costretti nel giro di qualche anno ad attribuire due o tre dediche alla stessa giornata …) non è servita certo, almeno fino ad ora, a ridimensionare sensibilmente i problemi connessi con il tema volta per volta celebrato; con la stessa logica delle altre feste che avremmo il dovere di sopprimere  in un empito di responsabile coerenza.

E quanto vale, ritornando al Foscolo, per tante città d’Italia, perché lo stesso non dovrebbe valere per Nardò a proposito di Belisario Acquaviva con la via che reca il suo nome?

Ma io in questo momento sto in casa, comodamente seduto e, perciò, posso permettermi senza correre rischi la distrazione che sto per sottoporre alla vostra attenzione. Spero solo che non mi leggiate mentre guidate o attraversate …

Debbo notare che la lunghezza della via (credo sia la più lunga di Nardò) è congrua al personaggio che, per cominciare con i titoli, fu duca di Nardò dal 1516 al 1528. Di lui mi sono già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/04/25/ho-scritto-un-libro-ma-non-trovo-il-prefatore/ e quanto sto per dire può essere considerato integrazione di quel post.

Non capita a tutti di essere celebrati quando si è ancora in vita e questo anche ai tempi del nostro Belisario era riservato a personaggi veramente eccezionali, tanto più quando l’autore della celebrazione era, a sua volta, famoso.  E la stessa celebrazione, quand’era in versi1, assumeva, com’è facile intuire, un rilievo tutto particolare. All’esame delle più significative è dedicato questo post.

Camillo Querna, De bello Neapolitano, Sultzbach, Napoli, 1529: Non Aquivivus abest Belisarius, optima pandens/virtutis monimenta suae. Fidissima magni/corda gerens Caroli titulis, discedere numquam/Partenope voluit, tanta est constantia fortis/,et virtus animi, nullo sub tempore pallens (Non manca Belisario Acquaviva, che mostra ottime testimonianze del suo valore. Mostrando fedelissimo affetto alla corona di Carlo mai volle andar via da Napoli, tanto grandi sono la costanza e il coraggio del forte animo, che non impallidiscono in nessuna circostanza). 

Girolamo Carbone (1465-dopo il 1527) in due versi (18-19; li cito dall’edizione dei Carmina curata da P. de Montera, Ricciardi, Napoli, 1935= di un’elegia (carme XXX) indirizzata ad Agostino Nifo: Namque videre iuvat duplici sua tempora fronde,/et Phebi, et Martis, Dux Aquavive, premi (E infatti, duca d’Acquaviva, piace vedere che le sue tempie sono premute da una duplice fronda e di Febo e di Marte).

Giovanni Matteo Toscano, Peplus Italiae, Morelli, Parigi, 1578, p. 42: Quam non Marte minus Musae sint principe dignae,/gentis Aquivivae gloria bina docet./Frater uterque suis cumularunt sceptra tropheis,/

ornavit libris frater uterque suis./Nunc calamo est gravis, ense manus nunc rite colore/tingitur hic rubro, tingitur ille nigro./Classica nunc animos stimulans, nunc barbita mulcent:/quodque caput cassis, mox sua serta tegunt./Duplex ergo tuum gemini decus Adria fratres/nobilitantque sago, nobilitantque toga (Quanto le muse siano degne di Marte non meno che di un principe, lo insegna la duplice gloria della famiglia Acquaviva. Entrambi i fratelli con i loro trofei accrebbero il potere, entrambi i fratelli lo adornarono con i loro libri. Ora la mano è affaticata per la  penna,  ora per la spada e si tinge in questo caso di colore rosso, nell’altro di nero. Ora c’è la tromba che stimola gli animi, ora la cetra che li accarezza: quella testa che gli altri coprono con vari oggetti, subito la  ricoprono le loro corone. Dunque i due fratelli, o Atri, nobilitano il tuo duplice decoro con il sago, lo nobilitano con la toga).

Pietro Gravina (1452/1454-1528 circa) celebrò il valore militare e letterario di Belisario in un epigramma in distici elegiaci tramandatoci da Giammaria Mazzucchelli in Gli scrittori d’Italia, Bossini, Brescia, 1753, volume I, parte I, p. 121: Qui populis dare iura suis non destitit umquam/qui Patriae toties profuit ore potens,/non minus aeratas ductando in proelia turmas, /fortiter austerum Martis obivit opus,/Palladis amplexus Numen veniente senecta,/ipse docet, quales convenit esse Duces (Colui che mai desistette dal dare diritti alle sue genti, che con la forza della sua voce giovò tante volte alla patria, non di meno guidando nei combattimenti le schiere armate con forza andò incontro alle severe fatiche di Marte, dopo avere abbracciato al sopraggiungere della vecchiaia la divinità di Pallade, proprio lui  insegna quali condottieri conviene essere).

Jacopo Sannazzaro (1457-1530), Epigrammi, II, XXXVIII:

De lauro ad Neritonorum ducem

Illa Deum laetis olim gestata triumphis,/claraque Phoebaeae laurus honore comae,/iampridem male culta, novos emittere ramos,/iampridem baccas edere desierat./Nunc lacrimis adiuta tuis revirescit; et omne/frondiferum spirans implet odore nemus./Sed nec eam lacrimae tantum iuvere perennes;/quantum mansuro carmine quod colitur./Hoc debent, Aquivive, Duces tibi debet et ipse Phoebus; nam per te laurea silva viret  

(Intorno all’alloro al duca di Nardò

Quell’alloro un tempo recato ai trionfi lieti degli dei e famoso per l’onore della chioma di Febo, già da prima mal coltivato aveva smesso di emettere nuovi rami, già da tempo di produrre bacche. Ora aiutato dalle tue lacrime rinverdisce e respirando riempie di  profumo ogni frondoso bosco. Ma ad esso non giovarono tanto le perenni lacrime quanto ciò che viene onorato da un canto destinato a rimanere. Questo ti devono, o Acquaviva, i condottieri  e lo stesso Febo; infatti grazie a te verdeggia la selva d’alloro).

Ecco cosa scrive Giovanni Bernardino Tafuri in Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, v. II, pp. 53-54: Il celebre Belisario Acquaviva, uno degli assidui, e dotti Accademici dell’Accademia del Pontano nel 1506, ne fondò una in Nardò sotto il titolo del Lauro, la quale, e per gl’insigni Personaggi, che la componevano, e per la condizione de’ versi, e degli eruditi Ragionamenti, co’ quali era coltivata, si rendè chiara, e rinomata in quella Stagione, onde Jacopo Sannazzaro ebbe co’ seguenti versi a lodare l’Acquaviva fondatore della medesima …  

Osservo che, seguendo pedissequamente il Tafuri, la storiografia successiva ha attribuito a Belisario la fondazione delle neretina Accademia del lauro. Appare, però, strano  che di un’accademia presumibilmente vissuta fino alla morte del suo fondatore, dunque per ben ventidue anni, non resti cenno alcuno nei contemporanei (a parte quello,  presunto, del Sannazzaro), mentre minore peso avrebbe senz’altro il fatto che nessuna testimonianza esista né manoscritta, né a stampa (per quest’ultima, però, con uno sponsor come Belisario quale ostacolo economico sarebbe stato invalicabile? …), di una produzione, anche in versi, che, secondo l’affermazione del Tafuri, sarebbe stata ragguardevole?

E la dedica del Sannazzaro, allora? A nessuno è venuto il dubbio che il lauro, che compare fin dal titolo, non contenga riferimento  alcuno ad un’accademia, ma sia proprio l’albero in radici, rami, tronco e foglie (se fosse stato un animale avrei detto in carne ed ossa …) da sempre simbolo della poesia? E che, dunque, il Sannazzaro celebri Belisario non come fondatore di un’accademia ma come ispiratore di poesia (scritta da altri) con le sue gesta militari e pure con i suoi trattati?

E con questo ennesimo dubbio suscitato dalla storiografia tafuriana quando essa, come troppe volte succede, non è suffragata da uno straccio di fonte o, come nel nostro caso, è supportata da una discutibilissima interpretazione dell’unica esistente (per non parlare di quelle truffaldinamente  inventate …), chiudo con via Belisario Acquaviva ma lascio aperto un sentiero, sia pur debolmente tracciato, per chi vorrà approfondire …

______________

1 Per quanto riguarda, invece la prosa, oltre a quanto riportato nel post citato all’inizio, mi sembra doveroso informare il lettore che Antonio De Ferrariis detto il Galateo gli dedicò l’opera Argonautica de Hierosolymitana peregrinatione dichiarando espressamente all’inizio: Nos somniamus quotidie Argonautica. Tu Dux nostre eris Iason … (Noi sogniamo ogni giorno le Argonautiche. Tu, nostra guida, sarai Giasone …).

Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò (1695-1760) e Angelo Calogerà (1696-1766)

di Armando Polito

La prima immagine è tratta da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli compilata da Domenico Martuscelli, Nicola Gervasi, Napoli, tomo I, 1813; la seconda è una stampa custodita nella Biblioteca Nazionale Austriaca (http://www.europeana.eu/portal/it/record/92062/BibliographicResource_1000126022685.html?q=caloger%C3%A0)

Per chi non lo sapesse va preliminarmente detto che Giovanni Bernardino Tafuri fu un erudito neretino del secolo XVIII e Angelo Calogerà, patavino, suo contemporaneo, fu un monaco camaldolese, prima bibliotecario presso la chiesa di S. Michele di Murano, poi priore del monastero di San Giorgio Maggiore.

Il primo ebbe credito assoluto e stima incondizionata da parte della cultura del suo tempo, riconoscimenti offuscati col passare dei decenni dalla scoperta di veri e propri falsi, pur abilmente confezionati. Anche se le falsificazioni sono sempre esistite, a prima vista sembrerebbe che il secolo dei lumi fosse una culla poca adatta per la loro nascita. In realtà l’amore per la ricerca documentaria in chi non è animato da acribia e rispetto assoluto per la conoscenza ed è invece solleticato dalla tentazione di conferire a tutti i costi prestigio alla propria patria o, peggio, alla propria parte o, peggio ancora, a se stesso, rappresenta una tentazione troppo forte per non interpretare in mala fede, manipolare o, addirittura, confezionare prove. Di questo il Tafuri fu capace e tutto ciò fa rabbia come succede ogni volta che ci si trova di fronte ad un talento prostituito. Si aggiunga a questo che la storia locale è forse quella che più  si sottrae al controllo, ammesso che si trovi qualcuno disposto a visitare le coltivazioni dell’orto altrui col rischio che per rappresaglia il controllato, a torto o a ragione disturbato dall’intrusione, ricambi la visita di cortesia …

Il secondo personaggio di oggi è noto agli studiosi soprattutto per aver pubblicato, insieme con Antonio Vallisneri, la Raccolta di opuscoli scientifici e filologici in 51 tomi: i primi 17 uscirono per i tipi di Cristoforo Zane a Venezia dal 1728 al 1738; i restanti per i tipi di Simone Occhi, sempre a Venezia,  dal 1738 al 1757.

Nella tabella che segue (per leggerla più agevolmente cliccare una prima volta e, quando il cursore avrà assunto l’aspetto di una lente d’ingrandimento, una seconda) ho riportato tutti gli estremi dell’ospitalità goduta dal neretino presso il Calogerà.

 

Aggiungo che la Raccolta del Calogerà ospitò anche quattro contributi dei fratelli Pollidori/Pollidoro (La stessa forma latina del nome, vedi nella tabella seguente, giustifica  come traduzione in italiano ora  Pollidori ora Pollidoro)in particolare i due di  Pietro, che del Tafuri fu compagno di merende …

A riprova ulteriore del credito e della stima del Calogerà per il Tafuri va ricordato che il tomo XVI del 1738 è indirizzato allo storico neretino, come si legge nel frontespizio.

Il volume, inoltre, si apre con una dedica in cui il Calogerà, dopo aver ringraziato il Tafuri per i suoi innumerevoli contributi, ne tesse le lodi, in cui spicca, oggi offuscato dalla luce beffarda della storia, il riferimento alle singolari prerogative del bello e candido animo vostro. Segue una dichiarazione di modestia per cui il Calogerà delega al Cavaliere Signor Ignazio Maria Como (era uno specialista di componimenti del genere e la biblioteca Riccardiana a Firenze ne conserva un buon numero manoscritti) il compito di celebrare il Tafuri con un canto in distici elegiaci, che ho ritenuto opportuno riprodurre con le immagini originali, aggiungendo di mio quello che è quasi d’obbligo in queste circostanze, cioé la traduzione e qualche nota.

 

Dell’origine, sito ed antichità della Città di Nardò. La ristampa anastatica a cura di Massimo Perrone

Dell’origine, sito ed antichità della Città di Nardò”, del 1735

Ristampa anastatica arricchita da preziosi contributi

Le origini di Nardò secondo Tafuri

 

In Cattedrale il 10 dicembre la presentazione del volume

con interventi di Alessandro Laporta e Sandro Barbagallo

copertina

Si terrà nella Cattedrale di Nardò, in Piazza Pio XI, sabato 10 dicembre 2016, alle ore 19,30, la presentazione della ristampa anastatica del libro “Dell’origine, sito ed antichità della Città di Nardò”, di Giovan Bernardino Tafuri, a cura di Massimo Perrone.

All’incontro porteranno il loro saluto il Vescovo della Diocesi di Nardò-Gallipoli Mons. Fernando Filograna e il Sindaco di Nardò Giuseppe Mellone. Oltre a Perrone, saranno presenti Alessandro Laporta, direttore emerito della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce, Sandro Barbagallo, curatore delle collezioni storiche dei Musei Vaticani e direttore del Museo del Tesoro della Basilica di San Giovanni in Laterano e Mons. Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò e direttore dell’Ufficio diocesano per i Beni culturali e l’Arte sacra.

  

  • RISTAMPA ANASTATICA DEL VOLUMETTO DEL 1735

La ristampa è una fedele riproduzione dell’opera del Tafuri apparsa nel raro libretto “Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici”, tomo XI, pubblicato a Venezia nel 1735, fonte preziosa e insostituibile per una ricostruzione della società e dell’urbanistica neretina prima del terribile terremoto del 20 febbraio 1743. Giovan Bernardino Tafuri, dunque, nonostante sul valore delle sue opere la discussione sia vivace tra gli studiosi, ha dato un contributo unico con i suoi numerosi scritti che meritano di essere divulgati anche a distanza di secoli.

 

  • UN’EDIZIONE ARRICCHITA DA CONTRIBUTI PREZIOSI

Massimo Perrone, dottore commercialista, appassionato di cultura locale e della storia della Chiesa e delle sue istituzioni, ha attinto alla collezione personale per contribuire all’appassionante indagine storica e letteraria sulle origini di Nardò, arricchendo la ristampa dell’antico volume con i contributi di Laporta e Barbagallo, due autorevoli studiosi, le cui analisi aiutano a comprendere il lavoro del Tafuri, fornendo interessanti spunti per approfondimenti e nuove indagini.

La pubblicazione propone inoltre in copertina un acquerello inedito, riproduzione a colori di un’antica veduta di Nardò, realizzato dal fiorentino Giovanni Ospitali, recentemente scomparso. è, questa, una delle tre tavole fuori testo allegate all’opera originale, insieme alla moneta che raffigura San Michele Arcangelo e alla pianta della città. Il volume, fuori commercio, è stato stampato dalla Tipografia Biesse di Nardò.

 

SANDRO BARBAGALLO, curatore delle collezioni storiche dei Musei Vaticani e direttore del Museo del Tesoro della Basilica di San Giovanni in Laterano. Storico dell’arte, ha collaborato ad alcune grandi mostre organizzate dal Complesso del Vittoriano di Roma (Manet, Bonnard, Matisse) e curato monografie di artisti contemporanei (Baj, Tilson, Weller). Dal 2008 scrive di critica d’arte su “L’Osservatore Romano” e, come corrispondente dal Vaticano, su “Il Giornale dell’Arte”. Dal 2012 lavora per la Direzione dei Musei Vaticani dove ha riqualificato il Padiglione delle Carrozze, ha curato l’allestimento della Galleria dei Ritratti dei Pontefici e dell’appartamento privato del Santo Padre nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, che ha visto, tra l’altro, lo storico incontro di Papa Francesco con il Papa Emerito Benedetto XVI, recentemente aperto al pubblico. È autore di diversi libri editi da Libreria Editrice Vaticana, Utet, Ed. Musei Vaticani, Ed. Focus storia.

 

ALESSANDRO LAPORTA, direttore emerito della Biblioteca Provinciale “N. Bernardini” di Lecce. Già docente di “Storia della stampa e dell’editoria” presso la facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento, vice presidente della Società Storica di Terra d’Otranto, socio della Società di Storia Patria per la Puglia e del Centro Studi Salentini. Ha redatto le prefazioni a oltre 50 libri di autori salentini e attualmente sta curando la ristampa dei “Successi dell’armata turchesca nella città d’Otranto nel 1480”, che non è solo il primo libro in assoluto pubblicato nella provincia di Lecce, a Copertino nel 1583, ma è stato uno dei testi base che ha portato alla santificazione dei Martiri d’Otranto.

 

MASSIMO PERRONE, dottore commercialista, ha conseguito il diploma di Archivistica nella Scuola Vaticana di Paleografia, Diplomatica e Archivistica presso l’Archivio Segreto Vaticano e ha pubblicato diversi contributi in miscellanee e riviste specializzate. È Grand’Ufficiale dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e ricopre dal 2012 la carica di Preside della Sezione Salento Lecce – Brindisi.

Diego Tafuro da Lequile (XVII secolo): un frate fra santi, prìncipi e parole (1/3).

di Armando Polito

Alla fine saranno chiare, almeno lo spero, le motivazioni che mi hanno indotto alla composizione del titolo di questo post in cui non ho fatto mancare nulla, nemmeno l’accento su prìncipi. Tuttavia è proprio dalle parole che voglio iniziare, e lo faccio con la massima latina attribuita a Catone il censore (III-II secolo a. C.) rem tene, verba sequentur (conosci l’argomento, le parole seguiranno!). A distanza di più di un secolo Cicerone esprimerà un concetto analogo (De oratore, III, 125): Rerum enim copia verborum copiam gignit (infatti la ricchezza degli argomenti genera quella delle parole). Pur essendo un nemico dichiarato dell’ipse dixit, questa volta, dopo le perplessità di natura pratica, non ideale,  espresse in un altro post sull’altra massima ciceroniana relativa alla storia maestra di vita (una volta tanto non riporto il link; chi ha interesse sfrutti il motore interno di ricerca), debbo dire che io non sto né con Catone né con Cicerone ma con l’ipse, che, poi, è il più vecchio. Il suo pensiero sull’argomento (Retorica, III, 1) si può sintetizzare così: la conoscenza dell’argomento dev’essere supportato dall’abilità nell’esporlo; in altri termini: la parlantina, la dialettica, l’arguzia sono elementi fondamentali per esaltare la propria conoscenza di un argomento e renderne partecipi gli altri, prima di convincerli …. L’ideale sarebbe possedere l’una (conoscenza) e l’altra (abilità espositiva), ma non sempre è così, anzi, quasi mai e in questi casi la forma asfalta (per usare un termine di moda in questi ultimi tempi) la sostanza. Basti pensare all’esito dei recenti duelli tra costituzionalisti di chiara fama e politici rampanti che riescono, con un semplice gioco di parola, ad essere anche arrapanti nei confronti di una popolazione avviata da tempo sulla strada che porta all’ignoranza totale. Lo stesso vale per certi autori dalla produzione sterminata, autori di ogni tempo, dei quali propiro il tempo è stato sempre (e lo stesso vale per gli incantatori di folle) il giudice inesorabile. Era indispensabile che io facessi questa breve premessa perché fosse progressivamente più nitida la conoscenza che oggi faremo insieme del frate del titolo.

Biografia ed opere

Il primo passo nell’approccio ad un autore consiste nel fornire essenziali note biografiche e, per chi ha interessi e capacità di pura divulgazione, compilare una scheda con un adeguato copia-incolla dai testi più disparati, si spera affidabili. Nel nostro caso vano sarebbe cercare notizie sul nostro nelle opere di prima, fondamentale consultazione in casi del genere: nulla di nulla si trova in Domenico De Angelis (Le vite de’ letterati salentini (parte prima, s. n. Firenze, 1710; parte seconda, Raillard, Napoli, 1713)  né in Giovanni Bernardino Tafuri (Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli , Mosca, Napoli, 1744-1770) né nei 15 volumi della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, usciti per i tipi di Gervasi a Napoli dal 1814 al 1830.

Al momento, a quanto ne so, la biografia più completa di Diego Tafuro è quella di Giambattista Lezzi. Fa parte, insieme con altre vite di letterati salentini, del manoscritto autografo  ms D/5 custodito nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo a Brindisi. Chiunque può avere informazioni sul documento all’indirizzo http://www.europeana.eu/portal/it/record/2048088/CNMD0000209711.html?q=giambattista+lezzi

e leggerlo nella versione digitale all’indirizzo http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?teca=&id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ACNMD0000209711.html?q=giambattista+lezzi.

Sul Lezzi ed il De Leo segnalo: http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Brundisii%20Res/1971/Articoli/Giovanni%20Battista%20Lezzi%20Primo%20Bibliotecario%20della%20De%20Leo%20e%20Biografo%20Salentino.pdf.

Nel manoscritto la biografia del nostro va da p. 507 a p. 510. Ogni pagina comprende due colonne di scrittura, una di pugno del Lezzi (all’epoca bibliotecario della biblioteca arcivescovile), l’altra con le integrazioni di pugno del De Leo (fondatore della biblioteca che porta il suo nome). Dal link prima segnalato riproduco le pagine che ci interessano facendo seguire volta per volta ad ogni pagina originale la mia trascrizione, occasione che ho sfruttato per aggiungere qualche nota.

p. 507

p. 508

p. 509

p. 510

 

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/25/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-23/

Per la terza parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/11/30/diego-tafuro-lequile-xvii-secolo-un-frate-fra-santi-principi-parole-33/ 

NAUNA: sulla bontà dell’iscrizione ho qualche dubbio, su quella del vino nessuno

di Armando Polito

Nulla sapremmo dell’iscrizione, comunque andata perduta, se non ce ne avesse lasciato traccia Girolamo Marciano (Leverano, 1571-Leverano 1628) nella sua opera pubblicata postuma nel 1855.

Come si legge nel frontespizio, l’opera reca le aggiunte di Domenico Tommaso Albanese (Oria, 1638-Oria, 1685), ma credo, nonostante tali aggiunte formino un tutt’uno col testo originale e sia, perciò pressoché impossibile distinguere il contributo cronologicamente successivo, che tutto ciò che riguarda la nostra iscrizione sia da attribuire al Marciano anche per la maggiore vicinanza geografica di Leverano a Nardò rispetto ad Oria.

Di seguito il testo relativo tratto dalla parte dedicata a Nardò.

 

Il Marciano parla di due tavole di rame e dalla disposizione grafica del testo si direbbe che la prima ne contenesse uno enormemente più lungo. Per ora non procedo alla traduzione ed al commento, anche perché non posso passare sotto silenzio coloro che in varie epoche, dopo il Marciano, di questa iscrizione si sono occupati. Seguirò l’ordine cronologico.

il primo è una vecchia conoscenza di chi si occupa della storia di Nardò, vale a dire Pietro Pollidori (Fossacesia, 1687-Roma, 1748), al quale più di uno in tempi recenti ha rimproverato di aver prostituito il suo talento di storico nella confezione di documenti falsi allo scopo di dare prestigio alle memorie del luogo in cui volta per volta esercitava il suo servizio, in parole povere per assecondare, in modo certo non disinteressato, un deviato (e nefasto per la verità e per la storia) senso dell’orgoglio campanilistico. E tutto questo pure a Nardò, ai tempi di Giovanni Bernardino Tafuri (1695-1760) e del vescovo Antonio Sanfelice (1707-1736).

Suo è un ampio scritto pubblicato nel tomo VII della Raccolta di opuscoli filosofici e filologici a cura di Angelo Calogerà, Zane, Venezia, 1732, pp. 410-496, recante il titolo Expositio veteris tabellae aereae, qua M. Salvius Valerius vir splendidus emporii Naunani patronus decernitur (Saggio sull’antica tavola di rame nella quale si legge Marco Salvio Valerio uomo splendido patrono della piazza commerciale di Nauna). Il saggio è preceduto da una lettera dedicatoria indirizzata all’arcivescovo Carlo Majello recante la data del 13 marzo 1725, che si conclude con l’augurio di un riscontro critico, che, a quanto ne so, non seguì, nel senso  che non ci è rimasto nessun documento in cui il Majello sembri accettare in toto o parzialmente, oppure respingere le argomentazioni del Pollidori.

L’ideale sarebbe stato riportare l’intero saggio, mentre il taglio divulgativo di questo post avrebbe reso sufficiente riportare in sintesi il pensiero del Pollidori. Ho scelto, invece, una strada intermedia perché ritengo che anche i non addetti ai lavori abbiano il diritto di conoscere le fonti originali e non solo la loro interpretazione. Riporterò, perciò, i passi più salienti con la mia traduzione a fronte e qualche nota esplicativa in calce.

 

ll saggio del Pollidori, dunque, non è il frutto di un esame autoptico ma solo uno studio della trascrizione che, secondo lui, presenta prerogative di maggiore fedeltà. A proposito di questa iscrizione si legge che essa risultava già perduta ai tempi del Mommsen (1817-1903). A questo punto tale perdita va retrodatata con certezza al  1725 e, viste le superfetazioni di cui s’è detto a proposito della trascrizione del testo, non è da escludersi che la data della sua scomparsa sia da retrodatare ancora. Rimane plausibile che la trascrizione del Marciano sia autoptica (quando essa venne rinvenuta, nel 1595, l’umanista di Leverano aveva 24 anni),

Dopo l’introduzione che abbiamo visto il Pollidori esamina il testo dell’iscrizione linea per linea, commentandone ciascuna prima di passare alla successiva. Di specifico interesse è la nota alle locuzioni EMPURII NAUNAE  (dell’emporio di Nauna) e, più avanti EMPURII NAUNITANI (dell’emporiio naunitano) perché, essendo stata l’epigrafe rinvenuta a Nardò,  si è pensato che Nauna fosse il nome del porto di Nardò e nel tempo  la si è identificata, giocoforza, con questo o quel punto della lunga costa ricadente nel territorio di Nardò, tenendo conto della presenza o meno di reperti archeologici che giustificassero, oltretutto, la funzione commerciale, per la verità già quasi scontata, direi, a meno che non si tratti di una base militare, per qualsiasi porto. Così, a parte Giovanni Alessio (Problemi di toponomastica pugliese, Cressati, Taranto,1955) che considerò Nauna, connesso con la stessa radice del greco ναῦς (leggi vaus)=nave,  come il nome messapico di Anxa, l’antico nome di Gallipoli, l’identificazione proposta ha riguardato, volta per volta, con riproposizione in qualche caso dello stesso toponimo con motivazioni più o meno diverse, le località che qui indico così come si presentano al visitatore spostandosi da Nardò fino a Porto Cesareo (che ora è un comune autonomo): S. Maria al Bagno, Frascone, S. Isidoro, Scalo di Furno). Per gli autori dell’attribuzione vedi alla fine la bibliografia.

Sorprende non poco, però, che, a quanto ne so,  nessuno di coloro che si sono occupati dell’iscrizione e di Nauna (a parte il Mommsen, ma en passant, come vedremo) hanno avuto la delicatezza di citare il Pollidori (nonostante abbia anticipato, in modo filologicamente impeccabile, molte osservazioni successive; ma tant’è, basta qualche peccatuccio perché non ti si dia retta nemmeno quando hai ragione …) sul toponimo così scrive (pp. 428-438):

 

Com’è noto, nel 1847 a Berlino presso l’Accademia delle scienze veniva istituito un comitato, guidato da Theodor Mommsen, con il compito di creare una collezione organizzata di tutte le iscrizioni latine pubblicate in passato dagli eruditi in ordine sparso. Nasceva così il C. I. L. (Corpus Inscriptionum Latinarum). Il primo volume uscì nel 1863 e mentre il Mommsen era in vita altri quattordici. La nostra fu pubblicata nel volume IX nel 1883. Di seguito il frontespizio e la relativa scheda, con il testo nella lettura del Mommsen che ancora è quella ufficiale (e resterà tale, credo, in eterno, a meno che non salti fuori all’improvviso, magari da qualche museo straniero …, l’originale).

 

Mi soffermo solo, prima di passare, finalmente, alla traduzione del testo dell’epigrafe su un solo dettaglio descrittivo che la dice lunga sull’acribia che è destinata sempre a subire duri colpi quando manca l’esame autoptico o esso, come nel nostro caso, era ed è ormai impossibile.

Il Mommsen scrive: tabula fastigiata cum foraminibus quattuor pingitur apud Marcianum (scr.) [viene descritta come una tabella terminante a punta con quattro fori [mano] scritto. Sfido chiunque a trovare conferma nel testo, che ho riportato all’inizio, del Morciano.

(Sotto i consoli Antonio Marcellino e Petronio Probino il 6 maggio, mentre il popolo dell’emporio di Nauna chiedeva per acclamazione che dovesse essere offerta a dio una tavola di bronzo incisa del patronato a Marco Sal() Valerio uomo splendido cui già da tempo secondo la voce e la volontà del medesimo popolo è stato offerto l’onore del patronato. Ciò che avvenisse di questa cosa, così della stessa cosa decisero avendo già da tempo il popolo devoto offerto pubblicamente l’onore del patronato a quel Marco Sal()= Valerio i cui immensi benefici offrì non soltanto ai cittadini del municipio ma in verità anche a noi stessi avendo sempre amato anche il nostro emporio così che, dovunque esercitò il potere, ci garantì sicuri e difesi. Per questo è necessario ricompensarlo; e così piace a tutto il popolo dell’emporio di Nauna che sia opportuno dovergli offrire una tavola di bronzo incisa affinché accetti con animo ben disposto quel che gli è stato offerto degnamente in onore dal devotissimo popolo del nostro emporio. Su decreto di Caio Giulio Secondo, del pretore Caio Id() Memio, Caio Ge(= Afrodisio, Caio Pro() degli altri)

Non meno vanti di sorta, ma, a quanto ne so, questa mia è la prima traduzione integrale dell’iscrizione. Lo stesso commento del Pollidori, d’altra parte, riguarda solo i nessi più significativi di ciascuna linea. Probabilmente chi ha tentato l’impresa si è lasciato scoraggiare dalla lezione del Mommsen che, per quanto autorevole, pone più di un problema di ordine grammaticale, D’altra parte sarebbe bastato tener conto di alcune varianti registrate dallo stesso studioso tedesco in calce al testo. Tra l’altro non sono neppure molte, anzi sono soltanto due: onor per onorem e oblatus per oblatum.

Prima che il lettore resti ubriacato da schede, citazioni, immagini, traduzioni, varianti, congetture e simili, è tempo che io riservi la sua residua sobrietà alla bottiglia di vino NAUNA che all’inizio campeggia accanto alle tavole di bronzo (naturalmente, fittizie). A questo punto qualcuno mi rinfaccerà l’intento pubblicitario del post. Ebbene, sì, lo confesso. tra me e il titolare dalla cantina neretina che lo produce è stato stipulato appena l’altro ieri in località Masserei (praticamente in casa mia …), alla presenza del notaio Se fossi fesso, ti direi chi sono (non esiste cognome più lungo e, come se non bastasse, fornito pure di virgola) un contratto che prevede a mio favore la fornitura gratuita di tale vino vita natural durante nella quantità di una bottiglia al giorno (la penale per la mancata osservanza prevede un risarcimento di tre bottiglie per ognuna non consegnata o, in alternativa, una somma pari al decuplo del prezzo corrente (che non è certo, e, onestamente, non può essere, popolare).

Anche se per ogni giorno che mi resta, appena sveglio, sarò costretto a toccarmi, mi piace pensare che il titolare, invece, per qualche tempo non si toccherà, ma si morderà le mani con cui ha firmato quel contratto, pensando che gli sarebbe costato molto meno, indipendentemente dal rispetto dei patti, rivolgersi alla migliore agenzia pubblicitaria …

Un’ultima riflessione: Nauna si legge Naùna oppure Nàuna? – Ecco il solito maniaco erudito da strapazzo; questa questione dell’accento fa il paio con “il Brexit o la Brexit?” per il quale, addirittura è stato scomodato un referendum tra i lettori (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/07/04/anchio-indetto-un-referendum/) – potrebbe osservare qualcuno dei pochi lettori, forse, arrivati fin qui. Nel fare presente che il referendum scade alle ore 24 di domenica 10 c. m., che non indirò un’altra consultazione, che respingo l’erudito (con i tempi che corrono è un’offesa) ma accetto, in un sussulto d’insolita umiltà il da strapazzo …), che nella ricostruzione della verità non solo storica ogni dettaglio formale (anche una virgola, un articolo, un accento) è prezioso, dico solo, a proposito di quest’ultimo dilemma, che la plausibilissima ipotesi dell’Alessio [dal greco ναῦς (leggi vàus)], ripresa poi dal Ribezzo, imporrebbe la lettura Nàuna (essendo au dittongo, come avviene per l’italiano causa), anche se l’esperienza mi dice che la pronuncia più corrente è, forse, Naùna, perché, non sapendo che au è dittongo, la parola è considerata trisillaba e nella scelta prevale una tendenza quasi istintiva legata alla maggiore musicalità di una  parola piana rispetto ad una sdrucciola.

 

BIBLIOGRAFIA  (alla fine di ogni volume citato riporto l’identificazione proposta, laddove compare, di Nauna).

Francesco Ribezzo, Nuove ricerche per il C. I. M., Roma, 1944, p.187, nota 1. (S. Maria al Bagno, identificazione ribadita nello studio successivo)

Francesco Ribezzo, L’arcaicissima iscrizione messapica scoperta a Nardò e il suo “Portus Nauna”, in Archivio storico pugliese, V, 1952, pp. 68-77. (S. Maria al Bagno)

Mario Bernardini, Panorama archeologico dell’estremo Salento, bARI, 1955, p. 60 (S. Maria al Bagno).

Giancarlo Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Accademia dell’istituto delle scienze, Bologna, 1962, p. 91 (Scalo di Furno).

Alfredo Sanasi, Ricerche archeologico-topografiche su Neretum inetà romana, in La Zagaglia, anno VI, N. 21, 1964, pp. 36-40 (S. Maria al Bagno)

Maria Teresa Giannotta, Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca in Italia e nelle Isole Tirreniche, XII, Pisa-Roma, 1993, alla voce Nauna, pp. 314-316.

Cesare Marangio, CIL IX, 10 e il porto di Neretum, in L’Africa romana. Lo spazio marittimo del mediterraneo occidentale: geografia storica ed economia. Atti del XIV convegno di studio Sassari, 7–10 dicembre 2000, a cura di Mustapha Khanoussi, Paola Ruggeri e Cinzia Vismara, Carocci, Roma,  2002 (S. Maria al Bagno, identificazione ribadita nello studio successivo)

Cesare Marangio, Porti e approdi della Puglia romana, in I porti del Mediterraneo in età classica, Atti del V Congresso di Topografia Antica, Roma 5-6 ottobre 2004, Rivista di topografia antica, XVI, 2006, pp. 101-128  (S. Maria al Bagno).

Rita Auriemma, Chiara Pirelli e Gabriella Rucco, Il paesaggio come museo. Archeologia della costa di Nardò, in Notiziario numismatico dello Stato. Serie “Medaglieri italiani”, n. 8, 2016, pp. 144-150  (Frascone).

 

Un maestro neretino del XV secolo nel ricordo di un suo allievo (1/2)

di Armando Polito

Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro

(Leonardo da Vinci, codice Foster III)

È noto quasi a tutti che Socrate non ci ha lasciato opere di sorta ma in compenso ci è possibile conoscere il suo pensiero attraverso quelle dei suoi discepoli, Platone primo tra tutti. Non succede spesso che il maestro lasci in qualche suo allievo un’impronta così viva da spingerlo a ricordarlo espressamente, magari anche in modo fugace , come nel nostro caso.

Il maestro è il neretino Francesco Securo, l’allievo il mantovano Pietro Pomponazzi, campo comune del loro sapere è la filosofia.

Prima di entrare nel punto centrale del tema credo opportuno dire qualcosa sui due. Su Francesco Securo riporto in ordine cronologico  e in immagini (tratte dal testo reperibile al link volta per volta segnalato in nota e con a fronte la traduzione degli eventuali passi non in italiano), le più significative testimonianze, dicendo subito che quelle da lui cronologicamente più lontane poco aggiungono alle più antiche, che quel poco non è sempre suffragato dall’esibizione di fonti documentarie e che oggi è quasi impossibile, a meno di fortunati ritrovamenti, operare un controllo.

Antonio De Ferrariis detto Il Galateo, De situ Iapygiae (L’opera, terminata già intorno al 1520, fu pubblicata postuma per i tipi del Perna a Basilea nel 1553; il dettaglio sottostante è tratto dalla ristampa del 15581):

Leandro Alberti (1479-1552 circa), Descrittione di tutta l’Italia, Giaccarelli, Bologna, 15502, p. 214r:

 

Antonio Senese Lusitano, Bibliotheca Ordinis Fratrum Praedicatorum …, Nivellio, Parigi, 15853, pp. 81-82:

Quel claruit (fu illustre) del brano appena letto fa credere, almeno secondo l’autore, che Francesco raggiunse la fama nel 1490, cioè dieci anni dopo la morte, se accettiamo il 1480 tramandato dall’Alberti, subito dopo se optiamo per il 1489 riportato dagli altri.

Michele Pio, Della nobile et generosa progenie del P. S. Domenico in Italia, Cochi, Bologna, 16154, p. 382:

 

Ambrogio Del Giudice (detto Altamura), Bibliothecae Dominicane, Tinassi, Roma, 16775, p. 182 (anno 1455) e pp. 204-205 (anno 1480):

 

Niccolò Toppi (1607-1681), Biblioteca napoletana, Bulifon, Napoli, 16786, pp. 94 e 343:

Un Fra’ Felice da Castelfranco fu autore di una breve cronaca dell’ordine domenicano fino al 1565 ed è plausibile che si tratti di quello citato  dal Toppi. Non è chiaro, però, se è pure opera sua l’additione ad Antonium Sabellum in cui si fa l’elenco di alcuni illustri discepoli del Securo, sui quali mi pare opportuno riportare qualche notizia.

Domenico Crimani (1461-1523) non scrisse alcuna opera, ma è ricordato come un raffinato collezionista di sculture, pitture e manoscritti oggi in gran parte nella Biblioteca Marciana a Venezia.

Tommaso de Vio (1469-1534), detto, dalla città di nascita, il cardinal Caetano o Gaetano  fu autore abbastanza prolifico: In librum Job commentarii, Commentaria in III libros Aristotelis De anima, Commentaria super tractatum De ente et essentia Thomae de Aquino, De nominum analogia, Jentacula N.T., In Porphyrii Isagogen ad Praedicamenta Aristotelis, De conceptu entis.

Gaspare Contareno (1483-1542), più comunemente Gaspare Contarini, è cronologicamente incompatibile: come faceva, nato nel 1483, a seguire le lezioni del Securo che, come ci informa l’Alberti, era morto nel 1480? L’incongruenza si perpetua anche in Giovanni degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere Degli scrittori viniziani, Occhi, Venezia, 1754, tomo II7, dove a p. 189 s’include il Contarini tra gli allievi del Securo con citazione in nota del Toppi.

Antonio Pircimano in realtà è Antonio Pizzamano, che fu vescovo di Feltre dal 1504 al 1512, autore di parecchie pubblicazioni: In Divi Thomae Aquinatis vitam praefatio, Vita del Venerabile Sacerdote D. Ludovico Ricci Vicentino, De intellectu et intelligibili, De dimensionibus interminatis, De quaerenda solitudine et periculo vitae solitariae, Opuscula sancti Thome.

Fra’ Geronimo di Monopoli, essendo il meno titolato,  ha riscosso fin dal primo momento la mia simpatia, ma ogni tentativo di sapere qualcosa su di lui è miseramente naufragato.

Luigi Tasselli, Antichità di Leuca, Micheli, Lecce, 16938, p. 531:

Il Cardinale Gaetano è il Tommaso De Vio già citato dal Toppi. Francesco Ferrariense è Francesco Silvestri di Ferrara (1474-1528), famoso teologo e filosofo tomista; la sua opera maggiore è In libros S. Thomae Aquinatis contra gentes commentaria, uscita a Venezia per i tipi di Giunta nel 1524 che fu ripubblicata in un numero impressionante di edizioni prima e dopo la sua morte e per volontà di Leone XIII fu inclusa nell’edizione che da lui ebbe il nome di leonina a fianco del testo di San Tommaso. Altre opere: Adnotationes in libros posteriorum Aristotelis, Eredi Scoti, Venezia, 1517, Apologia de convenientia institutorum Romanae ecclesiae cum evangelica libertate, Viani, Venezia, 1525, In tres libros de anima, uscito postumo nel 1535 a Venezia per i tipi di Ballarino.

Giovanni Bernardino Tafuri, Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, tomo II9, parte II, pp. 321-325:

Giambattista Lezzi10, in AA. VV., Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1826, Tomo XI:

Nella nota a della pagina iniziale della sua biografia, che riporto in dettaglio per comodità del lettore, il Lezzi attribuisce all’Altamura ciò che quest’ultimo mai scrisse:

Per la serie Anche le virgole nel loro piccolo sono importanti  lo dimostra eloquentemente il dettaglio della pagina dell’Altamura già riportata:

Come il lettore noterà, ex Baronibus de Sancto Blasio à puero grammaticen doctus è racchiuso tra due virgole, il che lega indissolubilmente doctus a ex Baronibus e non ad ortus. L’interpretazione del Lezzi sarebbe stata valida se dopo Baronibus ci fosse stata una virgola.

In compenso la biografia del Lezzi reca in testa il ritratto del Securo eseguito da Guglielmo Morghen (1758- 1833). Sarebbe interessante sapere se in qualche modo l’incisore entrò in contatto, se non con la statua ricordata dal Toppi, almeno con l’affresco voluto dal vescovo Salvio11 secondo quanto affermato dal Tafuri12 e da lui ripreso dal Lezzi. Purtroppo del destino della statua non si sa nulla e del ritratto non c’è traccia nel palazzo vescovile.

Nonostante alcuni degli autori qui riportati sostengano l’esistenza di opere a stampa del Securo, peraltro senza riportarne gli estremi editoriali, e Giambattista Lezzi affermi il contrario, del neretino ho trovato l’incunabolo di una summa teologica tomistica, che presenterò in altra occasione.

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/22/un-maestro-neretino-del-xv-secolo-nel-ricordo-di-un-suo-allievo-22/

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1 https://books.google.it/books?id=SmLBPZvkHPsC&pg=PA122&dq=de+situ+iapygiae&hl=it&sa=X&ei=dM2fVZy0B8n_UuLOv5AL&ved=0CDMQ6AEwAw#v=onepage&q=de%20situ%20iapygiae&f=false

2 https://books.google.it/books?id=rCm1TS1GFOMC&pg=RA8-PA379&dq=Descrittione+di+tutta+Italia,+nella+quale+si+contiene+il+sito+di+essa&hl=it&sa=X&ei=OY6fVeP2G4G6sQG5mbXwDg&ved=0CDcQ6AEwBA#v=onepage&q=Descrittione%20di%20tutta%20Italia%2C%20nella%20quale%20si%20contiene%20il%20sito%20di%20essa&f=false

3 https://books.google.it/books?id=fMT1USCck1kC&pg=RA1-PA34&lpg=RA1-PA34&dq=lusitani+bibliotheca+fratrum+praedicatorum&source=bl&ots=WIWQxh-eED&sig=F4KCgYARbP-oSWu_9WMu7-r-MVA&hl=it&sa=X&ei=zfqfVbGFMYXyUJHoh9AG&ved=0CDMQ6AEwAg#v=onepage&q=claruit&f=false

4 https://books.google.it/books?id=2JHxEH1ljfkC&printsec=frontcover&dq=michele+pio&hl=it&sa=X&ei=kCOiVe30GorYU8zok7gN&ved=0CDYQ6AEwBA#v=snippet&q=nard%C3%B2&f=false

4 https://books.google.it/books?id=8RBEAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

5 https://books.google.it/books?id=kVmQuIYy5JkC&printsec=frontcover&dq=ambrosius+altamura&hl=it&sa=X&ei=RyqiVc2rNsesUaukh-AG&ved=0CCcQ6AEwAQ#v=onepage&q=ambrosius%20altamura&f=false

6 https://books.google.it/books?id=dwqHjGEGHmcC&pg=PA195&dq=antonio+pizzamano&hl=it&sa=X&ei=I6qfVf6OCsG-UqyzgbgL&ved=0CCMQ6AEwAQ#v=onepage&q=antonio%20pizzamano&f=false

7 https://books.google.it/books?hl=it&id=Th4hAQAAMAAJ&q=lll#v=onepage&q=lll&f=false

8 https://books.google.it/books?hl=it&id=n5YKJvt0_noC&q=jkk#v=onepage&q=jkk&f=false

9 https://books.google.it/books?id=6bNLAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:lhRjZBX2xbUC&hl=it&sa=X&ved=0CCYQ6AEwAWoVChMIjevc1rraxgIVgls-Ch2oGwAr#v=onepage&q&f=false

10 Su di lui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/07/02/regolamentazione-dei-senza-fissa-dimora-nel-regno-di-napoli-secondo-la-testimonianza-di-giovanni-bernardino-manieri-di-nardo/; nel manoscritto ivi menzionato è assente la biografia del Securo.

11 Sull’alta considerazione che Ambrogio Salvio, vescovo di Nardò dal 1569 al 1577, ebbe di Francesco Securo ecco quanto si legge in Sebastiano Pauli, Della vita di Ambrogio Salvio, Stamperia arcivescovile, Benevento, 1716 (https://archive.org/details/dellavitadelvene00paol), p. 8:

12 Ribadito pure dal suo discendente Michele nella nota 1 all’opera di Giovanni Bernardino Ragionamento storico recitato nell’apertura dell’Accademia degl’Infimi rinnovati di Nardò,  in Opere di Angelo, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Beranardino e Tommaso Tafuri di Nardò stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1848, v. I, p. 68, nota che riporto integralmente da https://books.google.it/books?id=IVFhPm_DxnMC&pg=PA61&dq=tafuri+ragionamento+istorico&hl=it&sa=X&ei=th-iVbv2DseAUYuKjoAM&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=tafuri%20ragionamento%20istorico&f=false

 

 

 

Nardò: il terremoto del 20 febbraio 1743 in una testimonianza poetica diretta, o quasi …

di Armando Polito

L’ideale sarebbe, e non solo per la storia, che di qualsiasi fenomeno fosse testimone oculare, cioè diretto, un esperto, ma esperto veramente … dello stesso fenomeno, perché così sarebbe almeno salva l’attendibilità della testimonianza, nei limiti, tipicamente umani,  in cui anche l’acribia dello scienziato deve fare i conti con la sua sfera emotiva. Certo, la sfiga è sempre in agguato, come quasi duemila anni fa capitò a Plinio per essersi avvicinato troppo, per studiarlo meglio,  al Vesuvio in eruzione. È pur vero che sull’evento e sulla sua fine ne lasciò memoria l’omonimo nipote in due famose lettere indirizzate a Tacito; ma è avventato credere che quella relazione che il destino non concesse di compilare all’autore della Naturalis historia probabilmente avrebbe contenuto qualche dettaglio in più? E poco importa se esso non avrebbe, forse, alimentato la ridda di interpretazioni che nel corso dei secoli si sono accavallate sulle letterine del nipote. Noi, d’altra parte, con tutta la tecnologia che rappresenta, per prendere a prestito (con il solo cambio degli aggettivi possessivi) le malinconiche parole di una canzone di Sergio Endrigo, il nostro orgoglio e la nostra allegria, saremo in grado di consegnare a chi verrà testimonianze chiare, cioè destinate ad un’interpretazione univoca, sui fenomeni della nostra era, inquinamento compreso?

Non mi meraviglierei, ammesso che  mi fosse concesso di farlo in deroga alle leggi naturali …, se non venisse trascurata quella che, forse, è la più alta forma di conoscenza possibile, la poesia. E non sarebbe né la prima né l’ultima volta in cui per indagini di tipo scientifico vengono utilizzati, non come extrema ratio in mancanza di altro ma come probabile elemento integrativo, dati estrapolati da un testo poetico.

È quello che mi accingo a fare pur limitando il mio intervento alla sfera di mia, mi auguro non presunta, competenza; nelle note il lettore comune avrà modo di chiarire il significato di qualche passaggio, l’esperto di terremoti potrebbe trovare qualche indizio per convalidare, integrare o correggere  un’ipotesi.

Poiché all’epoca del terremoto l’autore, che via via scopriremo, aveva 22 anni, è legittimo pensare che il componimento sia stato scritto quando l’eco dell’evento si era, se non spento, quantomeno attenuato, anche a livello psicologico. Può aver sfruttato i ricordi del padre Giovanni Bernardino (1695-1760), del quale scrisse la biografia1 nella quale si legge:

La sua erudizione non meno, che la sua presenza di spirito in qualunque scabroso affare, ben tosto gli guadagnarono una particolar confidenza col Signor Conte di Conversano, da cui nella piccola dimora, che fece in detta Città, gli fu conferito il governo di essa con piena soddisfazione del Pubblico; ed avvenuto in quel tempo il noto orribil tremuoto, che quasi affatto distrusse una Città così riguardevole; ed accorsovi il Signor Duca di Ceresano allora degnissimo Preside nella Provincia d’Otranto, e conosciuta l’abilità, e la destrezza di detto Tafuri con animo quieto, e tranquillo se ne parli, lasciando il tutto raccomandato al di lui prudente regolamento. Ben corrispose egli alla buona opinione di detto Signor Duca, mentre non risparmiando fatiga, né riguardando gl’incomodi di una rigidissima stagione, assistè sempre personalmente a tutto: fè subito aprire le strade ingombrate, e le Chiese dalle precipitate macerie, fè disseppellire i morti, e fè ridurre tutt’i poveri storpi in un destinato luogo per Ospedale, provvedendo tutti di vitto, di Medici, e di medicamenti, e mostrando in tal congiuntura non solo una mente la più metodica, e regolata nel distribuire le cose, ma eziandio un animo ridondante di Cristina Carità, e quel ch’è più senza pregiudicare le solite ore da lui addette allo studio.2

Il componimento che tra poco leggeremo fu pubblicato per la prima volta da Giovanni Bernardino nella seconda parte del terzo tomo (senza segnatura di pagina) della Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli uscito a Napoli, senza nome dell’editore, nel 17523, ma riproduco il testo, perché tipograficamente meglio leggibile, in formato immagine da un’altra pubblicazione4, aggiungendo di mio la traduzione a fronte e in calce le relative note (se il tutto dovesse risultare difficoltoso alla lettura, sarà sufficiente l’invio di un messaggio e il giorno successivo avrò già provveduto).

 


 


 

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1 Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851, v. II, pp. 582-590.

(https://books.google.it/books?id=IgMi5BSSwKcC&pg=PA585&dq=Opere+di+Angelo,+Stefano,+Bartolomeo,+Bonaventura,+Giovanni+Bernardino+e+Tommaso+Tafuri+di+Nard%C3%B2+ristampate+ed+annotate+da+Michele+Tafuri&hl=it&sa=X&ei=u_jEVOfwLIrxUuqYgogO&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=Opere%20di%20Angelo%2C%20Stefano%2C%20Bartolomeo%2C%20Bonaventura%2C%20Giovanni%20Bernardino%20e%20Tommaso%20Tafuri%20di%20Nard%C3%B2%20ristampate%20ed%20annotate%20da%20Michele%20Tafuri&f=false)

2 Op. cit., pp. 589-590. Al padre Tommaso dedicò anche un componimento in distici elegiaci pubblicato da Giovanni Bernardino in Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli, Mosca, Napoli, 1748, tomo II, s. p. (https://books.google.it/books?id=8D40AAAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:lhRjZBX2xbUC&hl=it&sa=X&ei=CgDFVOOrNoitaZmJgvAC&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q&f=false):

 

Traduzione: A GIOVANNI BERNARDINO TAFURI IL FIGLIO TOMMASO. O caro genitore, concessomi dagli astri favorevoli, tu che mi sostieni spinto da un amore particolare, voglia il cielo che io possa  procedere sulle tue orme e pari a te innalzarmi per l’onore del mio ingegno!  In me stesso, se c’è qualche forza, agisce il pericolo e ora grazie a te mi piace la sola Minerva. Quel tuo lavoro continuo mi atterrisce e con le lotte costringi tutti ad indietreggiare. Ma per te hanno un dolce sapore le arti della tua Tritonidea; ogni peso della fatica ha sempre un dolce sapore. Lucifero e Vesperob ti vedono immerso in profondi studi quando sarebbe necessario che anche una breve ora fosse libera da impegni. Ohimè, temo che tu, oppresso da tanta mole di fatica, mi venga a mancare (Dei, tenete lontana questa sventura!)c. Se il primo libro degli Scrittori del regnod piacque da tempo ai Sapienti, dovunque lo dimostra il plauso. Apollo è felice di conservarlo nei suoi scaffali e la dotta Minerva lo legge e rilegge come suo.  Ma il secondo si dirà degno di eterno onore, bella in esso la materia e alquanto piacevole.  Quanti Scrittori per te, quanti libri avesti cura di sfogliare, quante carte sporche di troppa polvere!  Qualsivoglia degli Autori mandò libri da lui messi insieme, ogni Biblioteca è al tuo servizio. Il tuo ingegno molto soffrì, fece, sudò e patì il freddo: ora, orsù, dà una pausa allo studio. La mente torna più sveglia alle consuete fatiche dopo un breve riposo: dunque mettine uno piccolo nel lavoro. Prego tutti gli dei che non mi rincresca ricorrere ai tuoi consigli qualora ti dessero la vecchiaia di Nestoree. O genitore, capo santo per tuo figlio, o veramente mia gloria destinata ad andare per tutte le vie del sole!

a Minerva, nata, secondo una delle tante tradizioni mitologiche, sulle sponde del lago Tritone (in Africa).

b Rispettivamente: stella del mattino e della sera.

c Purtroppo la sua paura si avverò perché Giovanni Bernardino morì a 64 anni.

d Il primo tomo della Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli uscì nel 1744 a Napoli per i tipi di Mosca; la composizione della poesia, perciò, è posteriore a tale data ed anteriore al 1748, anno come s’è detto, di pubblicazione.

e Il più saggio e vecchio dei condottieri greci.

Suo fu anche il testo della lapide apposta sulla tomba del padre nella chiesa di S. Francesco da Paola e poi rifatta nel 1920 da Antonio Tafuri. In essa è dominante il ricordo dell’impegno di studioso del padre.

 

Traduzione: A Dio Ottimo Massimo Qui sono sepolti i corpi di Giovanni Bernardino Tafuri e di Anna Isabella Spinelli coniugi patrizi neretini. Giovanni Bernardino illustre maestro di lettere come attestano moltissime sue opere edite con la fatica, la prudenza giovò alla patria e ai cittadini. Logorato più dal lavoro che dagli anni morì nel mese di maggio del 1760 all’età di sessantaquattro anni. Isabella assidua in chiesa per la carità profusa verso il prossimo, piissima verso dio chiuse la sua vita nel mese di giugno del 1751. Entrambi per la grande devozione verso S. Francesco da Paola, pur avendo  sepolcri gentilizi nel cenobio dei Padri Carmelitani vollero essere sepolti nella sua chiesa, dopo aver lasciato duecento ducati ai Padri per la celebrazione di messe in tempi stabiliti. Ai genitori amatissimi Tommaso Tafuri in lutto pose il 13 agosto 1760 dell’era volgare.

Essendo venuto meno il culto della chiesa la lapide, abbattuta nell’anno del Signore 1850, fu rifatta dall’arcivescovo Antonio Tafuri, figlio del pronipote nell’anno del Signore 1920.

Nell’immagine successiva il ritratto di Giovanni Bernardino Tafuri tratto da Domenico Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, tomo I, Gervasi, Napoli, 1813:

3 http://books.google.it/books?id=2rFRAAAAcAAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad=0#v=onepage&q&f=false

4 Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura …,op. cit, Napoli, 1848, v. I, pp. 51-57. Le pp. 58-60 contengono i poemi minori di Tommaso Tafuri.

 

Quando Nardò era celebrata pure in poesia

di Armando Polito

La celebrazione di cui parlerò non è un semplice ricordo condensato in una sola parola, quasi una citazione toponomastica, come il  … Lacedaemoniumque Tarentum/praeterit et Sybarin Sallentinumque Neretum ( … e oltrepassa la spartana Taranto e Sibari e la salentina Nardò) di Ovidio (I secolo a. C.-I secolo d. C.), Metamorfosi, XV, 50-51.

Si tratta, invece,  di una poesia in latino (59 esametri) che sarebbe stata composta (il condizionale si capirà, come al solito, alla fine) da Bartolomeo Tafuri1 presumibilmente nella seconda metà del XVI secolo e che fu pubblicata per la prima volta dal suo discendente Giovanni Bernardino (1695-1760)  nel primo capitolo (Testimonianze de’ Scrittori, i quali rammentarono con lode la Città di Nardò) del primo libro di Dell’origine, sito, ed antichità della Città di Nardò in Angelo Calogerà, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, Zante, Venezia, 1735, tomo XI, pp. 1-315. Di seguito il frontespizio2.

La poesia nel volume indicato occupa le pp. 9-13; tuttavia mi avvarrò , perché più nitido tipograficamente e più adatto per l’inserimento della mia traduzione (letterale quanto più è possibile) a fronte e delle mie note, del testo in formato immagine tratto da Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri stampate ed annotate da Michele Tafuri, Stamperia dell’Iride, Napoli, v. I, 18483. In questa edizione Michele Tafuri ripubblicò il saggio del suo antenato (che occupa le pp. 325-543) con l’aggiunta del secondo libro mancante nell’edizione veneziana. Il testo della poesia in questione vi occupa le pagine 330-332 e risulta replicato anche tra le poesie superstiti (due, compresa questa che leggeremo) di Bartolomeo alle pagine, 47-48 che sono quelle da me utilizzate. Chiedo scusa al lettore se il testo apparirà tagliato a destra, ma non potevo, questa volta, ridimensionare ulteriormente l’immagine nativa con la certezza, non il rischio, di renderne impossibile la lettura. A quest’inconveniente, a me non ascrivibile, si rimedia cliccando sull’immagine col tasto sinistro e poi, tornando indietro, potrà essere ripresa la lettura del testo principale laddove era stata interrotta.

 

 

 

 

Mi pare doveroso ricordare, anche per spiegare il condizionale usato all’inizio, che la fama di Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò si è un po’ offuscata col passare del tempo, che ha permesso di scoprire in lui il confezionatore, sia pure abile, di documenti falsi; lo scopo era di nobilitare le memorie patrie (con la rivendicazione di privilegi  per questo o quel potere e con tutte le ricadute, anche di ordine economico, che in quei tempi un passato glorioso comportava), ma perseguirlo in questo modo significa violentare le ragioni della scienza che già di suo è  faticosamente alla ricerca della verità.

Però, nel nostro caso, questa poesia, anche se non dovesse essere veramente del suo antenato Bonaventura o un falso, rimarrebbe, comunque, un interessante documento (male che vada, del XVIII secolo) sulla fama, già allora pesantemente ridimensionata (e non solo rispetto ad Ovidio che  non l’avrà citata certo solo per esigenze descrittive), di Nardò. E se la scelta di un galatonese come emblema dei frutti della scuola di Nardò può essere giustificata dallo spessore del personaggio, dalla celebrazione diretta che, come abbiamo visto, egli fece di quella scuola e dalla distanza veramente esigua tra Nardò e Galatone, cosa dire, rispetto al presente che è tanto prosaico da non meritare nemmeno una celebrazione in prosa, di fronte all’augurio contenuto negli ultimi quattro versi, se non un desolante e rassegnato, quasi un’autopresa per il culo, aspetta e spera?

__________

1 Ecco la scheda della famiglia Tafuri tratta dal Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti di G. B. Crollalanza, Presso la direzione del Giornale araldico, Pisa, 1890, v. III, pp. 2-3: TAFURI di Napoli e di Nardò. Originaria di Terra d’Otranto, à goduto nobiltà in Nardò ed in Foggia, ed à posseduto le baronie di Altomonte, Fondospezzato, Grottella, Melignano, Mollone e Persano. ARMA: di verde, alla scala a piuoli posta in banda, col leone saliente, il tutto d’oro, e la crocetta d’argento a sinistra del capo. A meno che il Crollalanza non si riferisca a qualche ramo che io ignoro, non mi risulta che lo stemma dei Tafuri descritto in altri autori sia questo. L’amico Marcello certamente ci illuminerà sul problema, anche in rapporto a quanto si legge in https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/13/i-tafuri-senza-peli-sulla-lingua/

2 L’intero tomo è scaricabile da http://books.google.it/books?id=icY-WjftPMIC&printsec=frontcover&dq=editions:mUboXYF_XlIC&hl=it&sa=X&ei=NOkSVMGDK8S_PP_lgVg&ved=0CFUQ6AEwBzge#v=onepage&q&f=false.

3 Scaricabile da http://books.google.it/books?id=icY-WjftPMIC&printsec=frontcover&dq=editions:mUboXYF_XlIC&hl=it&sa=X&ei=NOkSVMGDK8S_PP_lgVg&ved=0CFUQ6AEwBzge#v=onepage&q&f=false

4 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/05/lelogio-di-un-falsario-neretino-esempio-di-pubblicita-editoriale-ante-litteram/

L’elogio di un falsario neretino, esempio di pubblicità editoriale ante litteram.

di Armando Polito

Qualcuno potrebbe pensare che l’amor di patria mi abbia oggi spinto ad un’azione che contrasta con i miei principi morali, almeno quelli sbandierati…

Ma nella fattispecie io fungo da semplice ambasciatore e, come si sa, ambasciator non porta pena. Il falsario del titolo è, infatti, Giovanni Bernardino Tafuri, letterato di tutto rispetto del secolo XVIII, ma con il vizietto di confezionare documenti falsi per dare visibilità religiosa e laica, con i connessi vantaggi economici…,  alla sua città, col risultato che ogni suo scritto, ormai,  suscita il sospetto,  sicché si può dire che per lui sia finita come il famoso pastorello di “Al lupo, al lupo!”1

Fa rabbia che un innegabile talento sia poi incorso in un inconveniente del genere, tanto che pure in Wikipedia leggo: Giovanni Bernardino Tafuri (Nardò, 1695 – 1760) è stato uno scrittore, bibliografo  e falsario italiano, sicché qualsiasi internauta può oggi sapere ciò che prima dell’avvento della rete era noto solo agli studiosi di storia locale.

 

la piazza di Nardò vista dal colonnato dell’antico municipio

L’elogio, poi, sempre del titolo, è un’elegia di Angelo Calogerà (1699-1766) che inserì un numero notevole di lavori del Tafuri nella sua Nuova raccolta di opuscoli scientifici e filologici2. Il tomo  XVI già nel frontespizio reca il nome del dedicatario e si apre con una lettera di ringraziamento al letterato di Nardò datata Venezia, 10 dicembre 1737, cui segue l’elogio in distici elegiaci, il cui testo riproduco di seguito. Nella traduzione interlineare ho tentato, finché era possibile, di rimanere fedele alle sequenze originali, mentre le note hanno il compito di renderne più agevole ed immediata la comprensione e di permettermi di scagliare ogni tanto la solita frecciata…

Ad Famam

Alla Fama,

in honorem praeclarissimi Viri Joannis Bernardini Tafuri Patritii Neritini.

in onore dell’illustrissimo uomo Giovanni Bernardino Tafuri patrizio di Nardò.

 

Fama sile semper, qui veris addere gaudes

Fama, taci sempre, tu che godi aggiungere al vero

falsa, vel e minimo crescis ubique repens;

il falso o dal minimo cresci ovunque repentina;

conde tubam: nomen Tafuri ut crescat in Aevum

riponi la tromba: perché il nome di Tafuri cresca nel tempo

non opus est ullo Fama favore tuo.

non c’è bisogno, Fama, del tuo favore.

Quae potuit vel adhuc doctis mandare libellis

Ciò che ha potuto pure fino ad ora affidare a dotti opuscoli,

haec illi aeternos demeruere dies.

questo ha meritato per lui giorni eterni.

Illius hinc nomen cunctis venerabile seclis

Perciò il suo nome venerabile per tutti i secoli

pervasit late Solis utramque domus.

si diffuse largamente nell’una e nell’altra casa del Sole (in tutto il mondo).

Contentusque suis nunc Ipse laboribus artes

Ed Egli ora, contento delle sue fatiche, le arti

ingenuas alacer nocte dieque colit.

nobili coltiva alacre di notte e di giorno.

Sacra, tuus Fernande labor, tua gloria Ughelli

L’Italia Sacra, tua fatica, o Fernando, tua gloria

Italia, hoc proprias vindice adauxit opes.

accrebbe la sua importanza grazie a questo garante.3

Crevit opus, totoque effulsit clarius orbe,

Crebbe l’opera e rifulse più chiara in tutto il mondo,

crevit Hydruntini fama, decusque soli.

crebbero la fama e il prestigio del suolo di Otranto.

Et tamen in primo vernabat flore Juventae:

E tuttavia sbocciava nel primo fiore della giovinezza

primaque vix teneris venerat umbra genis.

e a stento la prima barba era spuntata sulle tenere guance.

Implerent multas quae Gesta sonora papyros

Riempirebbero da sole molti volumi quelle gesta eclatanti

Praesulis Armeniae nunc satis una docet.

del Pastore d’Armenia che ora a sufficienza egli fa conoscere.4

Et tamen illius stabat Respublica curis:

E tuttavia la sua Città si manteneva salda grazie alle sue cure:

nec ridebat ei tunc sine nune Polus

né allora il cielo gli arrideva senza nubi.5

Palladiis dederat quos jam sua Patria Castris

Coloro che già la loro patria aveva assegnato all’accampamento di Pallade

lumine vel fecit mox radiare novo.

egli ha fatto ora risplendere di nuova luce.6

Coniger, & Spinellius, & Constantius altis

Coniger7, Spinelli8 e Costanzo9 da tutti i profondi

emersi mendis omnibus ecce nitent.

errori emersi, ecco, splendono.

Constantii & fuerit quam tristibus anxia curis

E quanto stretta da tristi difficoltà sia stata di Costanzo

vita, vel ipsius sedula cura dedit.

la vita, pure il suo studio assiduo ha tramandato.

Quae tulit in propriam Galateus Japygis oram,

Ciò che il Galateo attribuì alla propria terra grazie agli Iapigi

claravit doctis impiger usque notis:

egli illustrò diligente con dotte note:

pauca vel huius adhuc poterat non mandere tempus

le poche cose pure di lui che il tempo non poteva ancora divorare

Phoebea fecit luce repente frui.

fece che fruissero della luce del sole.10

Montibus & Calabris illum qui carmine prisco

Ai suoi monti e Calabri colui che col suo canto antico

Scipiaden cecinit, reddidit Ipse suis.

aveva cantato Scipione Egli restituì.11

Sirenum Regno decus addere quae potuerunt

Quelle scoperte che al Regno delle Sirene poterono aggiungere prestigio

inventa inventis protinus adglomerat,

subito unisce l’una all’altra.12

Neriti historiam gustaverat Orbis, at omni

Il mondo aveva gustato la storia di Nardò13, ma di tutto

impatiens tandem se saturare cupit,

impaziente desidera finalmente saziarsi

atque Hydruntinam voto suspirat eodem,

e attende con lo stesso desiderio quella di Otranto14,

pro qua Coelicolas corde loquente rogat.

per la quale col cuore che parla prega gli abitanti celesti.

Nec minus Acta, quibus Hierarche edixerat olim

Nondimeno gli Atti15 con i quali il Papa aveva un tempo decretato

laeviget ut sacras lima severa Byblos.

per correggere i sacri libri con lima severa.

Cunctaturque Virum seriem, quos Insuber idem

E passa in rassegna la serie di uomini che lo stesso Insubre16

scilicet hoc voluit munus obire pium.

appunto volle che assolvesse a questo compito.

Retro per Euboicas oras quae gesta duobus

I fatti avvenuti per le contrade euboiche17 due

seclis, & scripsit docta, nec una manus,

secoli prima e che scrisse una dotta, non unica mano,

haec optat promissa dari, variisque refertum

desidera che questi, promessi, siano pubblicati  e piena di vari

casibus en tacito corde volutat opus.

eventi, ecco, nel tacito cuore vagheggia un’opera.

Sed noster maiora parat Tafurus in Aede,

Ma il nostro Tafuri prepara cose più grandi in casa,

per quae olli Statuam rite dicabit Honor.

per le quali l’Onore gli dedicherà a buon diritto una statua.

Quos Regio Hippoclidum semper foecunda, mereri

Quelli che la regione degli Ippoclidi sempre feconda18 (che meritassero

sub signis voluit docta minerva tuis

sotto le tue insegne volle la dotta Minerva18)

temporis & spatium Lethaeis merserat undis,

anche lo spazio del tempo aveva sommerso con le onde del Lete19

aut vario affinxit fur quoque Penna solo,

oppure perfino una penna ladra aveva attribuito a terre disparate,

elevat e coeno, maciem tergitque senectae;

(egli) li estrae dal fango e li ripulisce dalla debolezza della vecchiaia;

aut matri natos vindicat ipse suae

o lui stesso rinvendica i figli alla loro madre.20

Huic uni indulget, terit igneus usque laborem:

Cede solo a questo: ardente continuamente consuma la fatica21

et quod monstravit gloria, vadit iter.

e percorre la strada che la gloria gli ha mostrato.

Hinc illi praesens Aetas nunc plaudit, & ipsa

Perciò a lui ora la presente età applaude e la stessa

posteritas laudum debita dona feret.

posterità recherà i doni dovuti delle lodi.

Ulteriora suae documenta puerpera mentis

Ulteriori testimonianze della sua mente come una puerpera

ad votum semper quaelibet Hora dabit.

qualsiasi ora darà secondo il desiderio.

Nota illi via trita illi, qua fila sororum

Nota per lui la via per lui battuta, per dove i fili delle sorelle

fallere jam didicit praecipitemque colum.

ha già imparato ad ingannare e la conocchia  che precipita.22

O Superi, Euboidum, quibus obtigit ora tuenda

O Dei, cui toccò la protezione delle contrade degli Euboidi,

servate hoc natum secula ferre caput:

vigilate che quest’uomo nato sopporti i secoli,

servate ut valeat tot perscripsisse papyrus;      

vigilate affinché abbia un valore l’aver scritto pregevolmente tanti volumi

Quae Sciolis Aevum mille parare queant.

che potrebbero mettere a tacere mille saputelli.

Arridete meis precor o pia Numina votis,

O dei misericordiosi, arridete, vi prego, ai miei voti;

pro tali quae sint irrita vota viro?

quali voti per un tale uomo potrebbero essere inutili?

Enceladi, Caeique Soror Pennata per orbem

O sorella alata di Encelado e di Ceo23, che per il mondo

quae graderis proprio murmure cuncta replens

avanzi riempiendo ogni cosa del tuo mormorio,  

ergo sile, mens ipsa meo sua Fama perennis

dunque, taci!; la stessa sua mente, la fama perenne

ipsaque Tafuro sunt sua scripta tubae.

per il mio Tafuri e gli stessi suoi scritti sono le trombe24.

Che la poesia appena letta sia un elogio è certo, ma dov’è la pubblicità editoriale di cui si parla nel titolo? C’è, c’è,  e non è nemmeno tanto occulta. Il testo latino, infatti, risulta corredato di note che, guarda caso, contengono unicamente il riferimento al tomo della raccolta in cui è contenuto il contributo del Tafuri che volta per volta ha ispirato il Calogerà (in nota 2 ho approntato l’elenco integrale). Per brevità ho omesso di riportarle in originale e in traduzione, per cui quando nelle mie note c’è un riferimento ad un tomo della raccolta significa che vi ho incorporato il contenuto della nota originale.

 

Forse ancora oggi, trascurando l’elogio in distici elegiaci che ha lasciato mogio mogio il passo a prefazioni che spesso con un linguaggio complicato non dicono nulla, parecchi autori (alcuni non falsari ma fasulli)  ed editori non adottano lo stesso espediente del Calogerà spiattellando brutalmente in faccia al lettore, di solito nell’ultima di copertina, un elenco di titoli più o meno nutrito ma, ahimè, poco nutriente…?

____________

1 Favole e novelle di Lorenzo Pignotti aretino, Al gabinetto letterario all’insegna di Pallade, Firenze, 1817 (ma la prima edizione risale al 1782), favola LIX, pag. 290 :

-Al lupo, al lupo; aiuto per pietà!-,

gridava solamente per trastullo

Cecco il guardian, sciocchissimo fanciullo;

e quando alle sue grida accorrer là

vide una grossa schiera di villani,

di cacciatori e cani,

di forche, pali ed archibusi armata,

fece loro sul muso una risata.

Ma dopo pochi giorni entrò davvero

Tra il di lui gregge un lupo, ed il più fiero.

-Al lupo, al lupo!-, il guardianello grida;

ma niuno ora l’ascolta,

o dice: -Ragazzaccio impertinente,

tu non ci burli una seconda volta-.

Raddoppia invan le strida,

urla e si sfiata invan, nessun lo sente;

e il lupo, mentre Cecco invan s’affanna,

a suo bell’agio il gregge uccide e scanna.

Se un uomo per bugiardo è conosciuto,

quand’anche dice il ver non gli è creduto.

2 I primi sedici tomi  furono pubblicati da Cristoforo Zane a Venezia dal 1728 al 1738. Di seguito ho estrapolato l’elenco dei contributi del Tafuri in essi presenti:

Tomo IV, pagg. 329-371

Giudizio di Giovanni Bernardino Tafuri della città di Nardò intorno alla dissertazione della patria di Ennio del signor abbate Domenico De Angelis divisato nella seguente lettera indirizzata all’illustrissimo ed eruditissimo sig., il sig. D. Ignazio Maria Como.

Tomo V,  pagg. 229-264

Lettera del signor Giovanni Bernardino Tafuri patrizio neritino intorno all’invenzioni poetiche uscite dal Regno di Napoli al molto reverendo Padre D. Angelo Calogerà Monaco Camaldolese e Priore di S. Michele di Murano.

Tomo VI, pagg. 51-126 e 309-334

Lettera seconda del signor Don Giovanni Bernardino Tafuri patrizio neritino intorno ad alcune invenzioni uscite nel Regno di Napoli al M. R. P. Don Angiolo Calogerà Monaco Camaldolese e Priore di S. Michele di Murano in Venezia.

Censura di Giovanni Bernardino Tafuri patrizio neritino sopra i giornali di M. Matteo Spinelli di Giovinazzo, indirizzata al signor Ludovico Antonio Muratori.

Tomo VII, pagg. 29-206

Antonii De Ferrariis Galatei De situ Iapygiae liber notis illustratus cura et studio Joannis Bernardini Tafuri patrizii neritini, editio VI post Lyciensem.

Tomo VIII,  pagg. 103-262

Annotazioni critiche del signor Giovanni Bernardino Tafuri patrizio della città di Nardò sopra le Croniche di M. Antonello Coniger leccese indirizzate all’illustrissimo e reverendissimo Sig. il Sig. Abate D. Ludovico Antonio Muratori Bibliotecario del Serenissimo di Modena.

Tomo X,  pagg. 28-124

Notizie raccolte dal sig. Giovanni Bernardino Tafuri patrizio neritino intorno alla persona ed opere di Angelo Di Costanzo con alcune correzioni e supplementi sopra li venti libri dell’Istorie del Regno di Napoli scritte dal medesimo Costanzo.

Tomo XI: nella prefazione (pagg. I-XXIX) il Calogerà delinea la vita e le opere di Giovanni Bernardino Tafuri.

pagg. 1-315

Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò libri due, brevemente descritti dal Sig. Giovanni Bernardino Tafuri Patrizio della medesima Città. (si tratta del Iibro I; nella prefazione del tomo si annuncia la pubblicazione del secondo nel tomo successivo; cosa che non avverrà né in questo né nei successivi).

pagg. 433-477

Risposta alla  critica fatta dal Sig. Don Giovanni Bernardino Tafuri di Nardò al Sig. Abate De Angelis intorno alla patria di Ennio, dedicata all’illustrissimo ed eruditissimo sig. D. Tommaso Perrone patrizio leccese da Metello Alessandro Dariva.

Tomo XII, pagg. 329-437

Continuazione del Sig. Giovanni Bernardino Tafuri, patrizio della città di Nardò, intorno alle sue due lettere Dell’invenzioni uscite nel Regno di Napoli, indirizzate al P. D. Angelo Calogerà, chiarissimo monaco camaldolese.  

Tomo XVI (all’inizio contiene la dedica a Giovanni Bernardino Tafuri con l’elegia qui presa in esame).

pag. 135-239

Serie cronologica degli scrittori nati nel Regno di Napoli cominciando dal secolo V fino al secolo XVI con una breve notizia intorno alla persona ed opere di ciascuno di essi, disposta ed ordinata dal Sig. Giovanni Bernardino Tafuri patrizio della città di Nardò parte I.

3 Allusione alle aggiunte che il Tafuri fece alla serie dei vescovi ed arcivescovi di Terra d’Otranto nell’Italia Sacra di Ferdinando Ughelli, i cui 10 tomi furono pubblicati dall’editore Sebastiano Coleti a Venezia negli anni 1717-1722.

4 Allusione a Breve libretto della vita di S. Gregorio Armeno detto l’Illuminato protettore principale della città di Nardò, s. n., Lecce, 1723.

5 Chissà che parole di esaltazione  il Calogerà avrebbe escogitato se il tomo XVI che contiene questo suo elogio non fosse uscito nel 1738, cioè  cinque anni prima del rovinoso terremoto che colpì Nardò e che vide il Tafuri tra i protagonisti della ricostruzione! Ecco sull’argomento il ricordo del figlio Tommaso (testimonianza, anche questa, fasulla o, tutt’al più, di parte?) nella biografia che di Giovanni Bernardino scrisse e che fu pubblicata in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. I, Napoli, Stamperia dell’iride, 1848, v. II, pagg. 589-590: La sua erudizione non meno, che la sua presenza di spirito in qualunque scabroso affare, ben tosto gli guadagnarono una particolar confidenza col Signor Conte di Conversano, da cui nella piccola dimora, che fece in detta Città, gli fu conferito ilgoverno di essa cn piena soddisfazione del Pubblico; ed avvenuto in tal tempo il noto orribil tremuoto, che quasi affatto distrusse una Città cfosì riguardevole; ed accorsovi il Signor Duca di Ceresano allora degnissimo Preside nella provincia d’Otranto, e conosciuta l’abilità, e la destrezza di detto Tafuri con animo quieto, e tranquillo se ne partì, lasciando il tutto raccomandato al di lui prudente regolamento. Ben corrispose egli alla buona opinione di detto Signor Duca, mentre non risparmiando fatiga, né riguardando gl’incomodi di una rigidissima stagione, assistè sempre personalmente a tutto: fè subito aprire le strade ingombrate, e le Chiese dalle precipitate materie, fè disseppellire i morti, e fè ridurre tutt’i poveri storpi in un destinato luogo per Ospedale, provvedendo tutti di vitto, di Medici, e di medicamenti, e mostrando in tal congiuntura non solo una mente la più metodica, e regolata nel distribuire le cose, ma eziandio un animo ridondante di cristiana Carità, e quel ch’è più senza pregiudicare le solite ore da lui addette allo studio. Poco prima Tommaso aveva ricordato che in precedenza il padre era stato Sindaco Generale dei Nobili.               

6 Allusione all’Orazione XXIII (Ragionamento storico recitato nell’apertura dell’Accademia dell’Infimi Rinovati di Nardò) pronunziata dal Tafuri in occasione della rifondazione dell’Accademia degli infimi e riportata in Bonaventura da Lama, Cronica de’ Minori osservanti Riformati della provincia di San Niccolò, Chuiriatti, Lecce, 1724.

7 Antonello Coniger (XVI secolo); la sua opera fu stampata la prima volta col titolo Le Cronache di m. Antonello Coniger gentilhuomo leccese, mandate in luce dal s. Giusto Palma consolo della Accademia degli Spioni. Con una semplice e diligente relazione della rinovata diuozione verso il glorioso S. Oronzio di Gio. Camillo Palma dottor teologo, e arcidiacono di Lecce, Stamperia arcivescovile, Brindisi, 1700. Le Cronache del Coniger con le annotazioni critiche  del Tafuri furono ripubblicate nel 1733 dal Calogerà nel tomo VIII (, pagg. 109-262,  della sua raccolta.

8 Matteo Spinelli di Giovinazzo i cui diurnali (1247-1268) furono pubblicati  da Ludovico Antonio Muratori nel tomo VII di Rerum italicarum scriptores. Il Tafuri inviò al Muratori una nota critica (pubblicata nel tomo VI, pagg. 309-334 della raccolta calogerana) in cui non metteva in dubbio l’autenticità del documento (oggi unanimemente ritenuto un falso) ma ne metteva in risalto errori di trascrizione.

9 Angelo di Costanzo (XVI secolo), storico e poeta, autore di una Istoria del Regno di Napoli, Giuseppe Cacchio, L’Aquila,  1582. Qui si fa riferimento al contributo del Tafuri pubblicato alle pagg. 28-124 del  tomo X della raccolta del Calogerà.

10 Si riferisce  all’ edizione del De situ Iapygiae del Galateo pubblicata col commento del Tafuri alle pagg. 29-206 del tomo VII della raccolta del Calogerà.e alla pubblicazione fatta dal Tafuri di opuscoli dell’umanista di Galatone fino ad allora inediti.

11 Allude al contributo del Tafuri sulla patria di Ennio (III-II secolo a. C.), pubblicato alle pagg. 329-371del tomo IV  della raccolta del Calogerà. Negli Annali (di cui ci restano solo 600 versi) del poeta di Rudiae veniva, tra l’altro, celebrata la seconda guerra puniche, della quale Scipione, detto poi per questo l’Africano, fu un protagonista..

12 Allusione ai tre contributi del Tafuri sugli scrittori napoletani (in Regno delle Sirene è condensato il mito della sirena Partenope fondatrice di Napoli) pubblicati nella raccolta calogerana: tomo V, pagg. 229-264; VI, pagg. 51-126 e XII, pagg. 329-437.

13 Tomo XI, pagg. 1-135. Furono pubblicati solo i primi sei capitoli del libro I. L’opera integrale è in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. I, Napoli, Stamperia dell’iride, 1848, pagg.  325-543.

14 Nella nota 11 il Calogerà scrive: Hidruntina adhuc extat mss. (La storia di Otranto rimane a tuttt’oggi manoscritta).

15 Si tratta della pubblicazione e del commento di una parte (la ventitreesima) degli atti della congregazione istituita dal papa Gregorio XIV per l’emendazione della Bibbia. Il contributo del Tafuri, qui citato, sarà pubblicato dal Calogerà solo nel tomo XXXI del 1744.

16 Gregorio XIV era nato a Somma Lombardo nel 1535. Gli Insubri erano una popolazione  di origine non chiara migrata forse a partire dal X secolo a. C. nell’Italia nord-occidentale.

17 Allude agli scrittori napoletani del XVI secolo. Contrade euboiche è Cuma, colonia di Calcide in Eubea.

18 I condottieri calcidesi Ippoclide e Megastene secondo parecchi autori del passato furono i primi fondatori di Napoli; Quindi Ippoclidi (discendenti di Ippoclide) qui sta per Napoletani; feconda ricorda la Campania felix di Plinio anche se nello scritto del naturalista felix non allude minimamente alla feracità del suolo ma alla necessità  avvertita di distinguere la Campania antica (sostanzialmente la campagna cumana) da quella più estesa che, in seguito alla divisione augustea delle provincie,  comprendeva un territorio più vasto che si estendeva fino a Roma. Poi nel medioevo la Campania felix sarebbe diventata Terra di laboris (Terra di lavoro); vista la sequenza m’inquieta l’idea della prossima denominazione…

19 In mitologia era il fiume dell’oblio. Il nome deriva dalla radice del verbo greco λανθάνω=restare nascosto; dalla stessa radice, con aggiunta in testa di α privativo, è ἀλήθεια=verità. Anche se nessun dizionario etimologico lo corrobora, per me dalla stessa radice sono i latini letum=morte e il derivato aggettivo letàlis/letale (da cui l’italiano letale).XVI

20 Allusione al contributo pubblicato alle pagg. 135-239 del tomo XVI della raccolta del Calogerà. Esso costituisce la prima parte di un’opera che sarà pubblicata integralmente col titolo Istoria degli scrittori nati nel Regno di Napoli per i tipi della Stamperia Felice-Carlo Mosca a Napoli (il primo tomo nel 1744, il secondo nel 1788). 

21 L’inversione dei ruoli qui è un’efficacissima invenzione poetica per enfatizzare l’instancabilità dell’uomo.

22 Costrutto un po’ contorto a significare la conquista di una immortalità ideale; le sorelle sono le tre Parche, Cloto, Lachesi ed Atropo, che presiedevano alle vite di ogni uomo, definite da Orazio (Odi, 3, 15-16) sororum fila trium=i fili delle tre sorelle). La vita, dunque,  simboleggiata da un filo la cui filatura era riservata a Cloto, mentre Lachesi ne stabiliva la lunghezza e Atropo lo recideva.

23 Nella mitologia greca Encelado era uno dei Giganti e Ceo uno dei Titani. Il primo nella battaglia contro gli Dei cercò di fuggire ma Atena lo sotterrò gettandogli addosso la Sicilia e dal suo respiro infuocato nacque l’attività dell’Etna; il secondo rappresentava l’intelligenza. La fama è definita sorella di Encelado e Ceo da Virgilio (Eneide, IV, 179).

24 All’unica tromba della Fama del verso 3 vengono efficacemente  qui contrapposte innumerevoli trombe, ciascuna rappresentata da un’opera del Tafuri. Vien fuori l’immagine di un’orchestra in cui il flop della solista è riscattato dalla performance del gruppo.

Pezza Petrosa e il fascino di una vexata quaestio: “Della patria di Quinto Ennio"

Quinto Ennio

 Si è tenuta il 20 aprile scorso a Villa Castelli, in una sala consiliare affollata e particolarmente interessata, la presentazione del volume di Pietro Scialpi: “Il Parco Archeologico di Pezza Petrosa a Villa Castelli” (Edizioni Pugliesi, Martina Franca 2011).

La manifestazione, organizzata dall’Assessorato  alle Politiche Culturali – Ufficio Cultura e Turismo, in collaborazione con la Pro Loco di Villa Castelli, con l’Archeoclub di Bari e il Touring Club Italiano – Corpo Consolare della Puglia,  è stata preceduta  da una visita guidata a Visita al Parco Archeologico di Pezza Petrosa e al locale Museo Civico che accoglie numerosissimi reperti del sito archeologico.

Dopo i saluti del sindaco Francesco Nigro e dell’assessore Rocco Alò e alla presenza dell’Autore, il prof.  Rosario Quaranta, della Sezione tarantina  della Società di Storia Patria, ha tenuto una relazione che qui, in parte, si riporta.

  

“PEZZA PETROSA”: L’ANTICA CITTÀ SENZA NOME TRA GROTTAGLIE E VILLA CASTELLI

 

di Rosario Quaranta

 

La Rudia Tarentina, segnata nei pressi di Grottaglie, in una carta dell’Ortelio del 1601

“Lungo la strada che da Villa Castelli porta a Grottaglie in contrada “Pezza Petrosa” riposa, ancora chiusa nel mistero archeologico, una vasta e ricca zona di ruderi che, per alcuni studiosi sarebbero i resti di RUDIA TARANTINA, patria del poeta latino Quinto Ennio. La zona, disseminata di ruderi, tombe e di frammenti ceramici, con resti di mura ciclopiche e di una

A 530 anni dalla guerra di Otranto (1480/81-2011) (I parte)

1480/81-2011 – 530° Anniversario della guerra di Otranto

 

LA GUERRA DI OTRANTO DEL 1480

di Maurizio Nocera

Recentemente, ho riletto l’opuscolo “Trattative coi Turchi durante la guerra d’Otranto (1480-81)” [Estratto da «Japigia», Rivista Storica di Archeologia, Storia e Arte; Anno II, 1931 – IX (Fascicolo II) – Società Editrice Tipografica, Bari] di Salvatore Panareo (Maglie 1872 – Roma 1961), storico, folclorista, linguista e poeta dialettale che, per molti anni insegnò Storia al Capece di Maglie, poi fu preside nei Licei di Agrigento (1922-3), Molfetta (1923-6) e nella stessa Maglie (1926-37), dove fu preside anche del Tecnico Commerciale e dell’Istituto Magistrale.

Gli scritti di S. Panareo sono molti conosciuti in Salento, e il suo nome non sfugge a chi si interessa di storia salentina in quanto collaborò con diverse riviste, fra cui «Maglie Giovane», «Japigia», «Rinascenza salentina», «Archivio per le tradizioni popolari», «Archivio storico pugliese», «Rivista Storica Salentina» (di cui fu direttore nel 1922-3). Panareo fu autore anche di diversi saggi, dei quali ecco alcuni titoli: “Fonetica del dialetto di Maglie in Terra d’Otranto” (1903), “Dileggi e scherni fra paesi dell’estremo Salento” (1905), “Puglia” (Torino 1926), “Il Comune di Maglie dal1901 in poi” (1948). Ancora oggi il suo nome e la sua memoria sono presenti nella Biblioteca comunale di Maglie, dove un importante fondo è intestato al suo nome, perché prevalentemente composto dai libri provenienti dalla sua biblioteca privata.

Ma veniamo al testo. Oggi, più o meno, sappiamo quasi tutto sulla guerra di Otranto, e questo grazie alle relazioni dei memorialisti del tempo e grazie anche agli studiosi che si sono interessati e continuano a interessarsi di quell’evento. Ricordo qui solo gli studiosi antichi.

Antonio De Ferraris detto il Galateo (Galatone 1448 – Lecce 1517), riconosciuto grande umanista salentino, scrisse “Il Liber De Situ Japigiae” (1512-1513), fonte certa e probante, all’interno della quale, sia pure in modo breve e sintetizzato, fa riferimento alla guerra di Otranto. Donato Moro (Galatina 1924-1997), che delle vicende otrantine fu grande cultore per

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