Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina,

Giorgio Cretì

 

Poppiti (Il Rosone, 1996) è un romanzo moderno che ha sapore d’antico.

Ne è autore Giorgio Cretì (1933-2003), scrittore salentino, nato a Ortelle, in provincia di Lecce, ma trasferitosi presto a Pavia. Autore di vari racconti pubblicati su “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano, e su altri periodici, Cretì, membro dell’Associazione Stampa Agroalimentare, ha dedicato i propri interessi di studio prevalentemente al settore della gastronomia e della cucina, dando alle stampe pregevoli testi come: Erbe e malerbe in cucina (Sipiel, 1987), il Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, annesso al volume I grandi menu della tradizione gastronomica italiana (Idea Libri, 1998), Il Peperoncino (Idea Libri, 1999), La Cucina del Sud (Capone Editore, 2000), A tavola con don Camillo e Peppone (Idea Libri, 2000), La Cucina del Salento (Capone, 2002), ed altri.

Il romanzo narra una storia d’amore che si volge nella campagna salentina, a Masseria Capriglia, fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi, dove vivono i protagonisti del racconto, Poppiti appunto (o, nelle varianti Ppoppiti, con rafforzamento della lettera iniziale, o ancora Ppoppeti).

Varie le etimologie di questo termine gergale, ma la più accreditata è quella che lo fa risalire al latino post oppidum, ossia “fuori dalle mura del borgo”, ad indicare nell’antica Roma coloro che abitavano fuori dalle mura fortificate della città, dunque i contadini.

Questo termine è passato ad indicare la gente del Salento e in particolare dell’area più meridionale, ovvero di un territorio caratterizzato fino a cinquant’anni da un paesaggio prevalentemente agricolo e dominato dalla civiltà contadina.

ph Giorgio Cretì

 

La storia si svolge all’inizio del secolo Novecento e gli umili contadini del racconto sono Ia e Pasquale, il quale è chiamato alla guerra di Libia del 1911 ed è così costretto a lasciare soli la moglie ed il bimbo appena nato. L’assenza di Pasquale si protrae a lungo perché in guerra egli viene fatto prigioniero. Quando ritorna nel Salento, con grandi progetti per la sua famiglia, Pasquale non trova però la situazione ideale che aveva immaginato ma anzi incombe sulla Masseria Capriglia una grave tragedia.

Del romanzo è stato tratto un adattamento teatrale dalla compagnia “Ora in scena”, per i testi della scrittrice Raffaella Verdesca e la regia dello studioso Paolo Rausa. La rappresentazione teatrale è stata portata in vari teatri e contesti culturali a partire dal 2013 con un discreto apprezzamento di critica e di pubblico. In particolare, fra il maggio ed il giugno del 2014, ad Ortelle, città natale dello scrittore, nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì”, venne allestita in Piazza San Giorgio, la mostra di pittura Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, presso Palazzo Rizzelli. Ortelle commemorava così un suo figlio illustre, con una serie di incontri e conferenze e con la messa in scena dello spettacolo teatrale, a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa. Le parole del romanzo di un cultore di storia patria si intrecciavano ai colori e alle immagini di due artisti del pennello, anch’essi ortellesi. La mostra pittorica di Casciaro e Chiarello ha portato alla pubblicazione di un catalogo dallo stesso titolo della mostra, con doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.

Sulla copertina, in una banda marrone nella parte superiore, si trova scritto: “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta. Il catalogo è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli.

uno dei dipinti di Carlo Casciaro

Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali il primo è proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, tecnica mista 2014, e quello del pittore Giuseppe Casciaro (1861-1941), ch’è forse la maggior gloria ortellese, pittore di scuola napoletana, del quale Carlo è pronipote. Inoltre, l’opera Ortelle, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio; Capriglia, acrilico su tela 2014, con una citazione dal romanzo di Cretì; Largo Casciaro, acrilico su tela 2013, e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro. Di Carlo ho già avuto modo di scrivere che dalla fotografia alla pittura, egli comunica attraverso la sua arte totale. (Paolo Vincenti, L’arte di Carlo Casciaro in “Il Galatino”, 14 giugno 2013).

Laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, ha vissuto a lungo a Milano prima di ritornare nel borgo avito e qui ripiantare radici. L’oggetto privilegiato della sua pittura è il paesaggio salentino. Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri, come Vincenzo Ciardo. È un paesaggismo delicato, fuori dal convenzionale, dal naif. Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali quali pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina del passato. Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, cioè non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra minaccioso e il sole non si mostra quasi mai.

Nel microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio, oggi Carlo fotografa vecchi e vecchine, parenti, amici, personaggi schietti e spontanei di quella galleria di tipi umani che offre la sua comunità, li immortala nei suoi ritratti a matita e pastello e li appende con le mollette a dei fili stesi nella cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. Una delle sue ultime realizzazioni infatti è Volti della Puteca Disegni-Foto-Eventi, Minervino Ortelle Lecce 2016 (Zages Poggiardo, 2017).

Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Agostino Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una Vecchia porta + vetrofania, L’uscio dell’orto (…e lucean le stelle), tecnica mista del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello. Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere che egli, laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, utilizza, per le sue Pittoriche visioni del Salento, le tecniche più svariate con una certa predilezione per l’acquerello. (Paolo Vincenti, Da Sant’Antonio ad Antonio Chiarello in “Il Paese Nuovo”, 18 giugno 2011).

Nel 2005 Chiarello ha realizzato per la prima volta la mostra devozionale “San’Antonio giglio giocondo…”, con “tredici carte devozionali” dedicate al suo santo onomastico ed ha portato questo progetto- ex voto in giro per la provincia di Lecce in tutti i paesi dove vi sia il protettorato o almeno una devozione per il santo. Visceralmente legato alla patria salentina, Chiarello ne ha dipinto le grotte, i millenari monumenti, gli alberi, i suoi borghi incantati, le bellezze di Castro e di Porto Badisco, di Santa Cesarea e di Otranto, di Muro Leccese, di Poggiardo e di tutta la costa adriatica leucadense.

Autore anche di svariate realizzazioni grafiche e di manifesti, nella sua avventura umana ed artistica, ha interagito con amici quali Antonio Verri, Pasquale Pitardi, Donato Valli, Antonio Errico, Fernando Bevilacqua, Rina Durante. All’epopea degli ppoppiti, Chiarello e Casciaro confessano di sentirsi intimamente vicini per cultura, formazione e scelta sentimentale.

Ecco allora, nell’ideale ricerca di un’identità salentina, la pittura dei due artisti poppiti salentini intrecciarsi, in fertile connubio, con la scrittura di uno poppitu di ritorno quale Giorgio Cretì.

Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina, in Identità Salentina 2020, Salento Quale identità quale futuro? Contributi e testimonianze per la cultura e il governo del territorio, Italia Nostra sezione Sud Salento, a cura di Marcello Seclì, Collepasso, Tip. Aluisi, 2021

Su Giorgio Cretì vedi:

Giorgio Cretì – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 Giorgio Cretì come uno sciamano – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Storia di guerra e passione nel Salento rurale – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Vitigliano e i suoi piselli secchi da tutelare e valorizzare

Il pisello secco di Vitigliano, fr. di S. Cesarea Terme (Le), la sua tutela e valorizzazione nel lavoro di giovani agricoltori

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Giuseppe Bene e i piselli sull’aia

 

di Paolo Rausa

A pochi chilometri dal mare Vitigliano, nell’entroterra di S. Cesarea Terme, come Ortelle, a poca distanza da Castro Marina, il Castrum Minervae di Virgilio, un territorio fertile, già richiamato nel nome, gli orti e le viti, una vocazione agricola che data al tempo dei Messapi e che recentemente ha trovato un paladino, da poco scomparso. Quel Giorgio Cretì, di Ortelle appunto, che ha imbastito storie popolari di pòppiti ed eroi antichi, e ha scandagliato non solo la sua terra d’origine ma tutti i posti dove è vissuto alla ricerca della sua Itaca per scoprire prodotti della terra, che spontaneamente dà – sempre parafrasando Virgilio delle Georgiche – al contadino lontano dalle armi.

Di Vitigliano ne aveva già ampiamente parlato Giorgio nei suoi ricettari, attenti alla terra e alla natura dei luoghi, rilevando un prodotto particolare, il pisello secco, ‘cucìulo’, cuocevole, riconosciuto come tipico grazie alla tenacia degli agricoltori antichi e alla volontà di uno sparuto gruppo di giovani agricoltori e agronomi che hanno preso le redini di questa terra ricca di specie vegetali.

Lo abbiamo ascoltato dalla relazione della direttrice dell’Orto botanico annesso all’Università del Salento di Lecce. Giuseppe Bene e Antonio De Santis sono i due pionieri, gli Ulissidi, non un nome altisonante, ma specifico per individuare la loro missione.

Varietà di legumi

Ieri sera in vico Piave a Vitigliano, uno spiazzo a pochi passi dalla chiesa madre e dietro il palazzo ducale, la parte popolare del paese, hanno simulato un’aia riempita di piante secche del pisello da cui viene separato il frutto, dopo fatiche inenarrabili, come ci ha dimostrato la famiglia Guida. Padre, madre e zia, tutti intenti a separare le ultime impurità. Il Presidente della Provincia Gabellone ha ricordato di aver sostenuto – con lungimiranza bisogna dire – questo progetto. Così come il Parco della Costiera Salentina. Nicola Panico, il presidente, ha riportato l’esempio delle 5 Terre dove i nuovi contadini hanno ripreso testardamente e follemente i terrazzamenti e a ripiantare i vitigni che forniscono il dolce nettare, lo schiacchetrà.

I Canali di Vignacastrisi della Porta d’Oriente, le attività dell’Orto botanico, i musei diffusi sono tutte esperienze del territorio che richiedono la saldatura, di essere messe in rete. Intanto il cantastorie P40 snocciola storie inverosimili accompagnate dai ritmi incalzanti delle fatiche dei campi. I legumi cuociono nelle ‘pignate’, ceci bianchi e neri, fagioli, piselli secchi cucìuli, un poker di bontà e sapori, che possiamo ancora degustare grazie all’impegno di chi crede nella terra e la rispetta come fattrice di benessere.

Tommasino Calora e le foto
Tommasino Calora e le foto
La famiglia Guida e Angelo Miggiano
La famiglia Guida e Angelo Miggiano

Pòppiti ad Andrano

giorgio cretì

Spettacolo Teatrale “Pòppiti

29 agosto 2015 ore 21,00 – Castello Spinola Caracciolo, Andrano (Le)

 

Lo spettacolo teatrale ‘Pòppiti ‘ è tratto dall’omonimo romanzo (Il Rosone, 1996) di Giorgio Cretì, (Ortelle, 1933-2013). L’adattamento teatrale del testo è della scrittrice Raffaella Verdesca, la regia di Paolo Rausa.

Protagonista della vicenda narrata e rappresentata è il mondo rurale salentino con le sue fatiche, le sue passioni, la sua voglia disperata di amore, a cui fanno da contorno il paesaggio naturale, i prati, le erbe e le malerbe, presenze animate che colorano la vita dei nostri ‘pòppiti’, i contadini, i cafoni.

Sullo sfondo incombe la guerra di Libia, è il 1911. Tripoli, bel suolo d’amore! Nel minuscolo universo della masseria si intreccia la storia d’amore di Ia e di Pasquale, che l’ha ingravidata e perciò decide di portarla via, in fuga. Pasquale è poi richiamato in guerra, Ia resta col bimbo da svezzare. Il marito è fatto prigioniero e per mesi non dà sue notizie. Sindaco e speziale non sanno dire niente di più sulla sua sorte. La ragazza soffre la solitudine. Potrebbe avere tutti gli uomini delle masserie vicine, ma a guardarla con desiderio è il vecchio suocero. Quando Pasquale ritorna, trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Un dramma che spinge ancora una volta alla fuga con la moglie e il figlio, per iniziare una nuova vita dove può coltivare un’altra terra, lontana, quella che “con il sangue abbiamo conquistato in Libia”.

La Compagnia ‘Ora in Scena’ ha  rappresentato questo spettacolo, una storia d’amore e di passione nel Salento rurale, in anteprima il 1° gennaio 2014 al Faro della Palascìa a Otranto all’Alba dei popoli, aspettando il nuovo anno, a Ortelle il 1° giugno, il 10 agosto alla masseria di Capriglia, fra Vignacastrisi e S. Cesarea Terme  dove nel 1911 si svolsero i fatti narrati nel romanzo, il 30 agosto al Parco archeologico dei Messapi di Vaste (frazione di Poggiardo), il 22 ottobre alla Fiera di S. Vito a Ortelle  (Le), il 10 dicembre 2014 allo Spazio Oberdan-Cineteca Italiana di Milano e il 1° maggio 2015 al Teatro Comunale ‘Domenico Modugno’ di Aradeo.

Giorgio Cretì come uno sciamano

giorgio cretì

di Giuseppe Corvaglia

 

A Natale mi è arrivato   uno dei più bei regali dello scorso anno: il libro di Giorgio Cretì “Ortelle e dintorni” dono per i sostenitori della Fondazione Terra d’Otranto.

Questa pubblicazione, che raccoglie tutte le sue opere letterarie, mi ha richiamato i Meridiani di Mondadori e dopo averlo letto ho pensato che l’opera sia stata un degno modo per valorizzare uno scrittore di spessore non noto ai più.

In questi giorni di questa estate che non si decideva ad arrivare ed ora ci delizia col suo caldo ecco che giunge come un felino predatore la nostalgia per il Salento.

Sei intento a fare le tue cose e a un tratto senti in’inquietudine, non vedi l’ora di ritornarci, di vedere quei posti, quelle persone, quei sapori che sono la tua gente, i tuoi posti, i tuoi sapori. Così gironzolando davanti alla libreria ecco che come magneticamente, mi capita fra le mani il gradito dono e mi vien voglia di rileggere alcuni racconti come panacea alla nostalgia, ma anche per il piacere di immergermi di nuovo in quel mondo come in un liquido primordiale.

Avevo apprezzato già in passato alcuni suoi racconti sul sito e una pubblicazione sulla panificazione e ne ero stato piacevolmente colpito. A parte la gradevolezza e la forza espressiva mi avevano interessato la capacità di trasmettere un sapere antico che io avevo assaporato con i miei nonni, i miei genitori e tutto quel mondo di amici, parenti, vicini di casa, paesani che ti fanno sentire bene parlandoti, sorridendoti, prendendosi cura di te, facendoti crescere non solo nel corpo, ma anche nell’anima.

copertinafronte

Quelle cose che sembrano banali, ordinarie sono le tue radici, il mezzo che ti lega alla terra e che ti porta il suo nutrimento. Non le vedi, non le tocchi, ma ti servono come l’ossigeno dell’aria che i polmoni aspirano e le cellule di ogni parte del corpo utilizzano per vivere. Da quelle radici ognuno trae la linfa che lo farà diventare quello che è.

Ma spesso la memoria si perde, le persone care se ne vanno e non risenti più le storie, i proverbi, i consigli, le istruzioni per fare una cosa, il nome e il posto di quella pianta particolare.

La memoria è uno strumento insostituibile per ognuno di noi così come per la  comunità (memoria collettiva), ma è anche fragile come strumento e talvolta, pure se rimane nel nostro cuore, è impossibile richiamarla nei nostri pensieri.

Ogni comunità cerca di salvaguardare la sua memoria perché da essa deriva la possibilità  di progredire nella propria identità, di crescere senza snaturarsi. Ogni società dovrebbe saperlo e cercare di custodire la memoria che è bene comune.

Nelle comunità primitive c’erano delle persone deputate alla custodia di questa memoria.

Lo sciamano era l’uomo medicina, ma anche l’uomo della sapienza (le parti del nome sciamano fanno riferimento a radici di uomo e sapere) e l’uomo della memoria.

Lo sciamano conosceva rimedi e codici che potevano regolare la vita e la salute della comunità ma conservava anche quel sapere che era memoria. Nelle culture animistiche lo sciamano trae molte informazioni dal rapporto particolare con l’al di là e la maggior parte dei suoi atti sono permeati di magia.

Anche le nostre comunità avevano degli sciamani. Persone rispettate, capaci di stimare ricchezze, raccolti, terreni, di curare mali con erbe, unguenti ed impiastri, di dirimere liti e contrasti, ma soprattutto genti capaci di rispondere alle tante domande della comunità.

Tutti i nostri nonni in qualche modo sono stati sciamani e tutti noi in piccolo o in grande lo saremo.

Ho conosciuto persone che ricordavano canti, nozioni, storie, e la storia della comunità. Noi giovani avidi di conoscere le nostre radici abbiamo cercato e trovato queste persone, ma non sempre abbiamo rintracciato tutte le risposte, e, bisogna ammettere, talvolta, presi da giovanili ardori siamo scappati rimandando a domani le domande e le risposte. Nel crescere anche le domande sono cresciute e non sempre le risposte sono arrivate anche perché spesso chi poteva dartele se ne era andato.

Oggi molte risposte le ho trovate nei racconti e nei romanzi di Giorgio Cretì.

L’amore per la sua terra, quell’amore ancora più speciale perché vissuto da lontano, lo ha portato a farsi tante domande e a trovare tante risposte.  Molte di queste risposte ce le ha rese nelle sue storie. Vedere le splendide chiese di pietra leccese, le lamie assolate coperte di chianche ti porta a chiederti cosa è quella pietra. Puoi andare e vedere le cave di oggi, meccanizzate, moderne, produttive, ma ti chiedi come è stata estratta la pietra per la casa di mio nonno e per le chiese secentesche ed ecco che  vedi con gli occhi della fantasia, ma lo vedi davvero, il cavamonti. Un uomo che si aggira fra sterili rocce terreni buoni solo a produrre timo, dove non si può coltivare nulla che si aggira saggiando quei ” cuti” con gesti misurati ma misteriosi, quasi apotropaici, e scopre una ricchezza sotto.

Oppure rievocare piccoli gesti come preparare una lampada votiva utilizzando come stoppino la corolla di un fiorellino di campo, l’olio e un bicchiere, oppure ancora riecordare piante, fiori, frutti, utensili e piccoli atti di vita.

Il tempo ci ha fatto crescere e ci ha fatto allontanare da quel mondo, ma ne sentiamo forte la nostalgia e per chi, come me in questi giorni, conta i minuti che lo separano dal ritorno, ma anche per chi, pur restando nel Salento,  si è allontanato dal mondo antico per gettarsi a capofitto nel mondo moderno, più accattivante, più scintillante, sicuramente più attraente, ma alla fine non sempre davvero appagante, potersene riappropriare, anche solo con la lettura, è meraviglioso.

Così cerchiamo le nostre radici, ma così come la memoria da riferimento orale è diventata storiografia con lo studio dei documenti e la valutazione critica delle testimonianze, anche lo sciamano moderno non può più esprimersi confidando nel suo rapporto con l’al di là.

Cretì, uomo dall’intelligenza viva, si è fatto tante domande ed ha trovato tante risposte non per magia, ma affidandosi, come un moderno sciamano, alla conoscenza e alla scienza moderna offrendole a noi.

La sua lettura è quindi un piacevole arricchimento letterario ma è anche una splendida bevanda fresca, chiara dissetante che spegne la nostra sete di saperne di più di un piccolo mondo antico.

‘Pòppiti’ alla masseria Capriglia, in agro di Ortelle

 

‘Pòppiti’ alla masseria Capriglia, in agro di Ortelle (Le),

il 10 agosto 2014 a rimirar le stelle

 

Lo spettacolo teatrale Pòppiti dal Faro della Palascìa, il 1° gennaio 2014 alle 4 del mattino, alla piazza San Giorgio di Ortelle il 1° giugno, ora sceglie come proscenio direttamente i luoghi in cui si svolsero i fatti narrati nell’omonimo romanzo di Giorgio Cretì (1933-2013), la masseria di Capriglia, lungo la vecchia strada comunale fra Vignacastrisi e Santa Cesarea Terme. Sentirete parlare di Pitria, Serricella, pajare e ascolterete la storia d’amore e di guerra che ha coinvolto questi pòppiti del basso Salento infuocato, immersi in un paesaggio multicolore, variopinto di erbe e malerbe, mentre la loro vista spazia oltre l’orizzonte verso est in direzione Albania, ancora timorosa delle galee turche,  e verso sud in direzione S. Maria di Leuca, dove i salentini dopo morti ritornano con il cappello in testa, ricorda Vittorio Bodini.

Dal romanzo la scrittrice Raffaella Verdesca ha tratto il testo teatrale, che la Compagnia Teatrale ‘Ora in Scena’ porterà sulle scene naturali dei luoghi in cui si svolse questo dramma popolare. La regia dello spettacolo è di Paolo Rausa,  montaggio e assistente alla regia Ornella Bongiorni. Una storia d’amore e di passione vissuta nel Salento rurale, abbiamo detto. Sullo sfondo incombe la guerra di Libia, è il 1911.

Nel minuscolo universo della masseria si intreccia la storia d’amore di Ia e di Pasquale, che l’ha ingravidata e perciò decide di portarla via, in fuga. Pasquale è poi richiamato in guerra, Ia resta col bimbo da svezzare. Al suo ritorno Pasquale trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Un dramma che spinge ancora una volta alla fuga con la moglie e il figlio, per iniziare una nuova vita dove può coltivare un’altra terra, lontana, quella che “con il sangue abbiamo conquistato in Libia”.

I dialoghi sono accompagnati dai ritmi tradizionali di P40 e Lucia Minutello, immagini di Antonio Chiarello e Carlo Casciaro, la coreografia di Kalimba Studio Dance. Gli interpreti: Ia, Pasquale (Florinda Caroppo, Michele Bovino), Massaro Rosario (Antonio Rizzo), Rocco (Fernando Circhetta), Dorotea (Maria Orsi), Cirina, Peppino Parmatiu (Norina Stincone, Luigi Cazzato).

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere

Omaggio a Giorgio Cretì, i relatori

di Paolo Rausa

Una battaglia, due fronti contrapposti – i relatori e il pubblico, fra cui i famigliari di Giorgio Cretì, schierati per guerreggiare non a fini distruttivi ma per esaltare il figlio di questa terra salentina di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha scritto romanzi (Pòppiti e l’Eroe antico), ‘Erbe e malerbe’, un trattato con i nomi e le caratteristiche delle erbe spontanee utilizzate per alimentare generazioni di ‘pòppiti’, una serie di libri sulle ricette della cultura contadina del Salento e dei luoghi in cui è vissuto o ha stretto amicizie, le terre di Emilia Romagna, Liguria e Lombardia.

Qui si era trasferito, in un paesino in provincia di Pavia Giorgio Cretì, portando con sé l’immagine lussureggiante e dolente del paesaggio salentino, che ha prodotto generazioni di contadini, attaccati allo scoglio o meglio alla zolla – come ha efficacemente ricordato di lui Raffaella Verdesca. La scrittrice con una tecnica tipica della geometria frattale ha esaminato gli scritti di Giorgio colmi di passione e di amore per la sua terra, descritta con tecnica veristica nel ruolo di narratore esterno, pur non indulgente a volte di fronte alle ristrettezze mentali dei contadini e degli umili ma propenso a mostrare un cuore che ha battuto incessantemente per loro.

Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari
Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari

Questi figli del Salento hanno lasciato traccia in un muro a secco, in una pajara, in una masseria testimoni di una civiltà in declino che tuttavia, come dice Eugenio Imbriani, docente di Antropologia all’Università del Salento,  ci appartiene come cultura da tramandare e da immaginare come futuro per i nostri figli a partire dall’esperienza dei nostri ‘pòppiti’. Occorre quindi indurre alla conoscenza del territorio e della cultura che ha espresso, manifestatasi attraverso i segni di una lingua ancestrale dai significati densi, come bagaglio di conoscenza da trasmettere ai nostri giovani.

Il merito del progetto ‘Ortelle e gli ortellesi visti con gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei’ va attribuito all’Amministrazione Comunale, che attraverso le figure del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura, ha sostenuto il progetto, finanziato dal CUIS. La Fondazione di Terra d’Otranto ha curato la pubblicazione del volume antologico che raccoglie i testi dei romanzi e dei racconti di Giorgio Cretì, illustrati dalle fotografie di Stefano Cretì, esposte nell’atrio di palazzo Rizzelli e di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, i quali hanno riproposto le loro opere pittoriche che illustrano paesaggi e personaggi della terra tanto amata da Giorgio Cretì.

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A illustrarne la figura e le esperienze umane è intervento a nome della famiglia Giuseppe, visibilmente commosso quando ha ricordato le escursioni di Giorgio con la macchina fotografica o la tavolozza che imitava i variopinti colori dei prati.

‘Giorgio in realtà non è andato via dalla sua terra. Ha portato via i colori, gli odori e il mare di lutto e di paradiso, zolle del Salento, pezzi e testimoni di questa terra rievocata con nostalgia – ha esordito Raffaella Verdesca -, presentando l’opera letteraria di Giorgio Cretì come omaggio alla sua terra che questa sera restituisce quanto pattuito tacitamente e sancito fra conterranei che si amano e si rispettano.

Il 1° giugno, ‘Pòppiti’ è stato  rappresentato in piazza S. Giorgio dalla Compagna ‘Ora in scena’ su testo della stessa Verdesca. L’appuntamento si rinnoverà ad ottobre durante la festa di S. Vito, quando la cultura si intreccerà con la tradizione della cucina salentina, descritta mirabilmente in tante opere di Giorgio Cretì.

 

La masseria di Capriglia nell’agro di Ortelle in un documento inedito

Ciò che sopravanza della masseria Capriglia
Ciò che sopravanza della masseria Capriglia

La masseria di Capriglia nell’agro di Ortelle in un documento inedito, un contratto di affitto stipulato a Napoli nel 1918 fra la Duchessa di Nardò e Salvatore Merola di Cerfignano

 

di Paolo Rausa

La masseria di Capriglia è conosciuta per essere stato il luogo in cui Giorgio Cretì ha ambientato il romanzo ‘Pòppiti’, ripubblicato recentemente a cura della Fondazione Terra d’Otranto e rappresentato come dramma popolare al Faro della Palascìa a Otranto e parzialmente nella piazza di Ortelle il 1° giugno. La pioggia ne ha impedito la conclusione. Il testo è di Raffaella Verdesca, la regia di Paolo Rausa.

Capriglia l contratto di affitto

In un documento notarile del 20 febbraio 1918 viene trascritto a Napoli il contratto di locazione della ‘vasta masseria denominata Capriglia’ di proprietà della Eccellentissima Duchessa di Nardò, Donna Maria Zunica, gentildonna e proprietaria, con Salvatore Merola di Cerfignano, agricoltore e proprietario.

Di questo atto, descritto con minuzia di particolari negli elementi costitutivi della proprietà e negli obblighi a cui è tenuto il fittuario, è importante estrarre la componente agriculturale di conduzione dei fondi e di manutenzione dei beni, ben definita sia che si tratti di muri a secco, dei locali della masseria, persino del giardino che abbellisce la Cappella di S. Eligio e degli arredi sacri che vengono ricevuti dal precedente affittuario e perpetuati dal nuovo. Il ciclo dei campi si invera e si comprendono le condizioni sociali e culturali che permangono nelle campagne salentine fino a un secolo fa e forse anche oltre. In premessa l’oggetto del contratto, si descrive la composizione dei fondi indicati coi nomi di Pitria, Capriglia, Chiusura Finocchio, Aia, Ortore limitrofo all’Aia, Giardino della Cappella, Santaloja Vecchia, Masseria Capriglia, Ortore adiacente e contigua, Vignali, Serra pascolosa, Monte e Larghi la Croce, Monte Finocchito, Larghi Pezza li Monaci, Caggiubba e Larghi li Monaci, Chiusura lo Viero, Chiusura la Grotta, Cicirumella, Spitali e Pezza la Casa, giusta le antiche denominazioni dei fondi medesimi.

Capriglia Una masseria della zona

L’intera masseria Capriglia è di circa centosettanta tomolate, cioè di circa 83,30 ettari, considerandovi la consuetudinaria tomolata di circa are 49. Seguono gli altri elementi essenziali per la stipula del contratto: la durata in sei anni, dal 1° settembre 1918 al 31 agosto 1924; l’affitto  annuo in lire 8.600 per la masseria da versare con tempi e modalità prestabilite e lire 400 in compenso della decima e metà del prodotto della vigna. Seguono le descrizioni in dettaglio delle doti di cui dispone la masseria: gli animali bovini ‘di giusta età ed atti al lavoro’, sessanta pecore di corpo, delle quali trentasei di ottima qualità, e ventiquattro recettibili, cioè non cieche, non zoppe e né mancanti di denti, tre montoni e quattro capre, di buona qualità. Dopo gli animali la dotazione dei prodotti di scorta, definiti nella quantità, e degli attrezzi che il fittuario riceve dall’uscente: grano,  orzo,  avena,  fave, lupini, ecc., tutti generi di buona qualità e per uso di semenza – viene specificato -, poi paglia di grano e di orzo,  immesse nella pagliera, una carretta, tre aratri ‘coi rispettivi gioghi buoni e servibili’, due vomeri di ferro ‘con la specifica del peso e servibili’, una madia per la ricotta salata, in buono stato ma senza serratura, un caccavo di rame rosso, otto mangiatoie nella masseria; cinque pile ed un pilone vicino al pozzo, e due altre pile vicino alla cisterna della masseria. Tutto specificato nei dettagli in modo che non sorgano liti o incomprensioni.

Questo tanto per cominciare. Nel caso di maltempo o di malattia delle piante che potessero distruggere in tutto o in parte il raccolto, come  grandine e alluvioni, o la mosca olearia, la filossera, la peronospera, l’oscamorina, la grittogama, ecc. il fittuario non può esimersi dal pagare quanto pattuito.

Tra i vari punti da sottoscrivere alcuni si richiamano alla regola d’arte nella coltivazione dei terreni e secondo gli usi locali, per es. seminando ogni due anni i terreni per la pastorizia, lasciando l’ultimo anno della locazione venti tomoli di maggesi e venti di erba, piantando secondo la volontà tabacco, purché non si rechi danno alle coltivazioni e alle piante esistenti, specie agli ulivi. Altri riguardano il governo degli animali in dote alla masseria e quelli aggiunti dal locatario, l’obbligo a farli dimorare e pernottare nella masseria, e di utilizzare il letame per concimare esclusivamente i terreni della masseria e non altri, altrimenti si incorre in una penale. L’approvvigionamento dell’acqua dal pozzo di Capriglia, che  deve essere mantenuto sgombro da materiali, e la cura dei canali di scolo sono altre prescrizioni contenute nel contratto insieme alla manutenzione dei locali affidati e alla loro riparazione ordinaria.

Capriglia
Pòppiti nel territorio di Capriglia

L’adempimento di tutti i patti e le condizioni sono suggellati e garantiti da una ipoteca che grava a garanzia su tutte le  proprietà del fittuario, compresi case e fondi. Oltretutto sono consentite visite ispettive di personale inviato dalla signora Duchessa di Nardò per verificare l’osservanza delle varie condizioni poste  e sottoscritte.

Ce la farà il povero Salvatore Merola di Cerfignano a lavorare la terra e a rispettare tutte queste clausole contrattuali? Non lo sappiamo. Vedendo le condizioni in cui è ridotta la masseria di Capriglia, ora diroccata, sembrerebbe di no.

Ci ritorneremo con lo spettacolo teatrale ‘Pòppiti’ il 10 di agosto, la Notte di San Lorenzo, riportando vita in un lembo di territorio agricolo, seppure per la durata di questo dramma popolare.

L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere

Omaggio a Giorgio Cretì, i relatori

di Paolo Rausa

Una battaglia, due fronti contrapposti – i relatori e il pubblico, fra cui i famigliari di Giorgio Cretì, schierati per guerreggiare non a fini distruttivi ma per esaltare il figlio di questa terra salentina di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha scritto romanzi (Pòppiti e l’Eroe antico), ‘Erbe e malerbe’, un trattato con i nomi e le caratteristiche delle erbe spontanee utilizzate per alimentare generazioni di ‘pòppiti’, una serie di libri sulle ricette della cultura contadina del Salento e dei luoghi in cui è vissuto o ha stretto amicizie, le terre di Emilia Romagna, Liguria e Lombardia.

Qui si era trasferito, in un paesino in provincia di Pavia Giorgio Cretì, portando con sé l’immagine lussureggiante e dolente del paesaggio salentino, che ha prodotto generazioni di contadini, attaccati allo scoglio o meglio alla zolla – come ha efficacemente ricordato di lui Raffaella Verdesca. La scrittrice con una tecnica tipica della geometria frattale ha esaminato gli scritti di Giorgio colmi di passione e di amore per la sua terra, descritta con tecnica veristica nel ruolo di narratore esterno, pur non indulgente a volte di fronte alle ristrettezze mentali dei contadini e degli umili ma propenso a mostrare un cuore che ha battuto incessantemente per loro.

Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari
Omaggio a Giorgio Cretì, il pubblico fra cui i famigliari

Questi figli del Salento hanno lasciato traccia in un muro a secco, in una pajara, in una masseria testimoni di una civiltà in declino che tuttavia, come dice Eugenio Imbriani, docente di Antropologia all’Università del Salento,  ci appartiene come cultura da tramandare e da immaginare come futuro per i nostri figli a partire dall’esperienza dei nostri ‘pòppiti’. Occorre quindi indurre alla conoscenza del territorio e della cultura che ha espresso, manifestatasi attraverso i segni di una lingua ancestrale dai significati densi, come bagaglio di conoscenza da trasmettere ai nostri giovani.

Il merito del progetto ‘Ortelle e gli ortellesi visti con gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei’ va attribuito all’Amministrazione Comunale, che attraverso le figure del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura, ha sostenuto il progetto, finanziato dal CUIS. La Fondazione di Terra d’Otranto ha curato la pubblicazione del volume antologico che raccoglie i testi dei romanzi e dei racconti di Giorgio Cretì, illustrati dalle fotografie di Stefano Cretì, esposte nell’atrio di palazzo Rizzelli e di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, i quali hanno riproposto le loro opere pittoriche che illustrano paesaggi e personaggi della terra tanto amata da Giorgio Cretì.

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A illustrarne la figura e le esperienze umane è intervento a nome della famiglia Giuseppe, visibilmente commosso quando ha ricordato le escursioni di Giorgio con la macchina fotografica o la tavolozza che imitava i variopinti colori dei prati.

‘Giorgio in realtà non è andato via dalla sua terra. Ha portato via i colori, gli odori e il mare di lutto e di paradiso, zolle del Salento, pezzi e testimoni di questa terra rievocata con nostalgia – ha esordito Raffaella Verdesca -, presentando l’opera letteraria di Giorgio Cretì come omaggio alla sua terra che questa sera restituisce quanto pattuito tacitamente e sancito fra conterranei che si amano e si rispettano.

Il 1° giugno, ‘Pòppiti’ è stato  rappresentato in piazza S. Giorgio dalla Compagna ‘Ora in scena’ su testo della stessa Verdesca. L’appuntamento si rinnoverà ad ottobre durante la festa di S. Vito, quando la cultura si intreccerà con la tradizione della cucina salentina, descritta mirabilmente in tante opere di Giorgio Cretì.

 

Ortelle. Paesaggi e personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello

Fiera di Ortelle-il cibo nei quadarotti

di Paolo Vincenti

 

Nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì” che si tiene ad Ortelle sabato 31 maggio e domenica 1 giugno 2014 in Piazza San Giorgio, è allestita la mostra di pittura “Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello”, presso Palazzo Rizzelli sempre nella centrale Piazza San Giorgio.

L’occasione è di quelle importanti. Infatti, nel salotto buono della città, Ortelle rende omaggio ad un suo figlio illustre, Giorgio Cretì autore del romanzo “Pòppiti” con una serie di incontri e conferenze e finanche una riduzione teatrale dell’opera summenzionata a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa.

Ma torniamo alla mostra pittorica di Casciaro e Chiarello, Chiarello e Casciaro.

I due ortellesi offrono un viaggio attraverso i propri personali mondi pittorici che si incontrano e si specchiano in omaggio ad un altro ortellese del passato, appunto Cretì.

Nell’evenienza  della mostra, è stato pubblicato un catalogo, con lo stesso titolo e una doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.

Anche il catalogo vuole essere un omaggio allo scrittore ortellese, come è manifesto dalla copertina che in una banda marrone nella parte superiore reca scritto “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale della copertina, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta.

Il libro è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli. Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali, ultimi realizzati, proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, sotto il quale vengono riportati alcuni versi di Renato Grilli, e quello di Giuseppe Casciaro (1861\1941), pittore del passato e maggior gloria ortellese. Inoltre, l’opera “Ortelle”, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio, “Capriglia”, acrlico su tela 2014,con una citazione di Giorgio Cretì,  “Largo Casciaro”, acrilico su tela 2013 e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro.

Di Carlo ho già avuto modo di scrivere:  <Dalla fotografia alla pittura, Carlo Casciaro  comunica attraverso la sua arte e mi sembra perfettamente integrato con  il microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio e dalla quale osserva il mondo esterno,  senza spostarsi da casa, indagatore dell’anima, collezionista di memorie, archivista di emozioni.  Carlo è un viaggiatore fermo, un nomade stanziale, se mi si perdona l’ossimoro. Da Milano, dove ha vissuto e lavorato diversi anni, è ritornato al paesello, nella sua amata Ortelle, e qui ha ripiantato radici,  la sua è diventata  una scelta di fede, perché è facile essere attaccati al paese dove si è nati, ciò è naturale e scontato, ma quando invece lo si risceglie in piena consapevolezza,  dopo essere stati via per anni, e lo si rielegge a propria residenza,  questo ha un valore raddoppiato. Così  Carlo ha deciso di vivere qui, nell’antica Terra Hydrunti,  a fotografare vecchi e vecchine, parenti, amici, sdentati  e sorridenti personaggi schietti e spontanei  di quella galleria di tipi umani che offre l’ecclesia ortellese, a immortalarli nei suoi ritratti a matita e pastello e ad appenderli con le mollette a quei fili stesi nella sua cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza>.

Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una “Vecchia porta + vetrofania” del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello.

Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere: <Antonio Chiarello, “cuore messapo”, vuole raccontare l’anima vera del Salento… Il nostro autore porta dentro di sé uno smisurato amore per  questa terra di mezzo che sempre affascina chi fa arte e chi ha un animo sensibile disposto all’ascolto. Chiarello si sente per intero  figlio di questa terra bagnata dai due mari e dei suoi angoli nascosti, delle sue pietre parlanti, del culto dei suoi santi, delle sue grotte, dei suoi millenari monumenti, dei suoi alberi e delle sue case, di Castro e di Porto Badisco, del suo cielo incantato e incantatore,  di Santa Cesarea e di Otranto, dei gabbiani che volano basso, delle sue chiese e delle sue storie, che è bello continuare a tramandare come favole di bimbo, come perle di una collana di tristezza e di felicità intrecciate per l’indissolubile.

Tutto queste cose fanno il “Salento d’autore” di Antonio Chiarello, cioè la sua veduta del nostro paesaggio, che è poi l’interpretazione che ad esso dà un pittore-grafico-fotografo di vaglia come il Nostro. Nella sua avventura umana ed artistica, Chiarello ha avuto la fortuna di circondarsi di personaggi di primo piano della cultura salentina, quali, ad esempio, Antonio Verri, Donato Valli, Antonio Errico, Pasquale Pitardi, Fernando Bevilacqua, Rina Durante.  E allora, per accostarsi all’universo poetico di Antonio Chiarello, è bello andare a visitare questa mostra che conferma esattamente quanto diceva Ugo Foscolo, ossia che “L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità”.>  E quest’ultima citazione vale dunque, e anzi doppiamente, come invito per la mostra di Ortelle.

Omaggio a Giorgio Cretì. A Ortelle

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“Per un antico(pòppitu)eroe” è l’incipit che accompagna il progetto/omaggio a Giorgio Cretì, giornalista, scrittore, cultore della gastronomia e delle tradizioni popolari, scomparso lo scorso anno. Ortelle, sua cittadina natale, gli rende merito con due iniziative culturali, che hanno lo scopo di celebrarne la memoria e anche di far germogliare altri semi che Cretì seppe spargere amorevolmente in terre lontane dal suo Salento.

Le manifestazioni si svolgeranno in piazza San Giorgio, agorà del borgo di Ortelle, Sabato 31 maggio con l’illustrazione del progetto “Ortelle e gli ortellesi attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei”, un progetto promosso dal Comune di Ortelle che si è valso della collaborazione della “Fondazione Terra d’Otranto”, finanziato dal CUIS e sostenuto  dall’Università del Salento, Dipartimento Beni Culturali.

Dopo i saluti delle autorità,i familiari di Cretì illustreranno la bio-bibliografia,mentre il presidente della Fondazione Terra d’Otranto dott. Marcello Gaballo presenterà il volume antologico che comprende i due romanzi, racconti inediti e foto d’archivio dello stesso Cretì.

Il volume, riccamente illustrato, sarà distribuito ad ogni famiglia del Comune, con ciò rispettando la volontà di Giorgio Cretì e della stessa Fondazione Terra d’Otranto, a cui sono stati ceduti i diritti dei testi pubblicati.

Domenica 1 giugno, alle 21, si alza il sipario sullo spettacolo teatrale “Pòppiti”, tratto dall’omonimo romanzo di Cretì. Il testo scritto dalla scrittrice Raffaella Verdesca sarà rappresentato dalla Compagnia teatrale ‘Ora in scena’, diretta da Paolo Rausa. Le musiche e le canzoni della tradizione salentina saranno eseguite da P40 e Lucia Minutello, la coreografia daKalimbaStudio Dance. Il racconto è unaffresco di salentinità,una storia d’amore e di guerra ambientata a Capriglia, una masseria collocata nell’entroterra fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi. Le vicende si svolgono nel 1911 e si intrecciano con la guerra di Libia.

Nei due giorni è possibile visitare la mostra “Ortelle /Paesaggi Personaggi” con opere dei pittori locali Carlo Casciaro e Antonio Chiarello e la “lettura” fotografica di Pòppiti a cura di Stefano Cretì, allestita nell’atrio e nelle sale di Palazzo “Rizzelli”, in piazza San Giorgio.

Info: Comune di Ortelle, 0836 958014, www.comune.ortelle.le.it

 

Paesaggi e personaggi a Ortelle

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“ORTELLE. PAESAGGI/PERSONAGGI  …con gli occhi (e il cuore )  di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello“ è il titolo di una mostra pittorica a quattro mani  che si svolgerà a Ortelle dal 23 al 27 aprile .

Allestita negli affascinanti sale di Palazzo “Rizzelli”, in Piazza S.Giorgio, aprirà di fatto le celebrazioni per il progetto “Ortelle e gli ortellesi attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei” attuato dal Comune di Ortelle insieme al Cuis, all’Università del Salento(Dipartimento Beni Culturali)  e alla Fondazione Terra d’Otranto.

Tale evento si terrà il 31 maggio e il 1 giugno p.v. con un nutrito e articolato programma in fase di ultimazione.

La mostra pittorica è quindi l’anteprima di questo omaggio a Giorgio Cretì,”antico (pòppitu)eroe” ortellese scomparso l’anno scorso.

L’esposizione sarà inaugurata significativamente ,il 23 aprile in concomitanza con la festa patronale di S.Giorgio con la seguente scaletta:  ore 19- Saluti  del Sindaco Francesco Rausa e dell’assessore alla cultura Antonella Maggio.

A seguire Con/tibuto poetico di Marina Pizzarelli (Critica d’arte) e lettura della poesia “Ortelle” dalla voce del suo autore Agostino Casciaro.

Le opere in mostra  anche se diverse per stile e tecniche sono un atto d’amore per il borgo natio da parte dei due artisti  e un tributo sia ai loro “illustri compaesani” Giorgio Cretì e Giuseppe Casciaro, che agli umili “pòppiti” che hanno popolato Ortelle e le amene campagne.

L’esposizione sarà visitabile dal 23 al 27 aprile  e poi nei due giorni  31 maggio  e 1 giugno con i seguenti orari: 17-21 feriali  e 10-13,  17- 21 festivi.

 

Paesaggi e personaggi a Ortelle attraverso le pitture di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello

casciaro3di Paolo Rausa

 

Sono visti con gli occhi e con il cuore – ci tengono ad aggiungere i due artisti ortellesi – i Paesaggi rurali e gli angoli più pittoreschi di Ortelle e i Personaggi che li hanno attraversati come meteore, lasciando la scia del loro passaggio, perciò li hanno ritratti in una mostra pittorica, gioco forza a quattro mani,  gli artisti Carlo Casciaro e Antonio Chiarello e li hanno esposti in più giorni, ma non tanti, dal 23 al 27 aprile.

Dove? In una magione dall’architettura imponente che sovrasta piazza San Giorgio a Ortelle, nientemeno che il Palazzo Rizzelli. Ampi saloni, volte geometriche, pareti dipinte, una vista dai suoi balconi che spazia sulle marine di Castro e di Santa Cesarea Terme.

Mostra ancor più significativa perché anticipa e prepara il progetto di omaggio ad un figlio illustre di Ortelle, quel Giorgio Cretì che ha onorato il suo paese con l’amore e la penna scrivendo racconti, romanzi (Pòppiti sarà ripubblicato e presentato la sera del 31 maggio in piazza mentre il giorno dopo sarà rappresentato lo spettacolo teatrale tratto dal romanzo), libri di ricette salentine, del sud, e di alcune regioni del nord, dove ha vissuto, compilati non solo come espressione del gusto ma come strumento di conoscenza di un territorio e della agri-cultura praticata come strumento di armonia con la natura e non di sfruttamento e stravolgimento.

Questo il senso di una vita, questo il senso del progetto complessivo che i due artisti ortellesi introducono con questa mostra pittorica: “Ortelle e gli Ortellesi, attraverso gli occhi di Giorgio Cretì e dei contemporanei”, promosso dal Comune di Ortelle, dall’Università del Salento (Dipartimento dei Beni Culturali), dalla Fondazione Terra d’Otranto e cofinanziato dal CUIS e dal Comune di Ortelle.

E’ stata scelta per l’inaugurazione dell’esposizione la data del 23 aprile, in coincidenza con la festa patronale di S. Giorgio.

La cerimonia di apertura prevede alle 19,00 i saluti del Sindaco Francesco Rausa e dell’Assessore alla cultura Antonella Maggio, a seguire il contributo poetico della critica d’arte Marina Pizzarelli e di Agostino Casciaro, con la lettura della sua poesia dedicata a Ortelle.

Le opere in mostra,  diverse per stile e tecnica per la poliedricità degli artisti, rappresentano un atto d’amore per il borgo natìo  e un omaggio, modesto ma significativo, ai loro illustri compaesani Giorgio Cretì e Giuseppe Casciaro, e ai tanti pòppiti, inteso proprio come villani, contadini,  che hanno costituito il nerbo sociale che ha consentito di preservare il paesaggio rurale ortellese e salentino.

Apertura dal 23 al 27 aprile, il  31 maggio  e 1 giugno con i seguenti orari: 17,00/21,00 nei giorni feriali, 10.00/13.00 e 17.00/21.00 nei giorni festivi.

Info: tel. 0836 958014, fax 0836 958748, www.comune.ortelle.le.it.

La Cucina del Sud, di Giorgio Cretì

di Paolo Rausa

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‘Aspetti significativi della cucina popolare campana, pugliese, lucana, calabrese e siciliana’ è il sottotitolo del dotto ricettario compilato da Giorgio Cretì con riferimento a “quella parte d’Italia costituita dalle regioni che grosso modo corrispondono al territorio degli antichi regni di Napoli e di Sicilia, poi diventati regno delle Due Sicilie sotto Alfonso d’Aragona”. Questa distinzione geografica nasce da una divisione dell’Italia, non politica o amministrativa, ma dal gusto dolce che separa il centro-nord e in genere i paese freddi dal gusto piccante, ‘maru, che caratterizza i paesi del centro sud.

Giorgio Cretì ha una ‘giustificazione’ più nobile, per così dire, dovuta ai  numerosi e qualificati apporti delle varie civiltà che si sono succedute nel Sud e che hanno lasciato tracce significative nell’arte, nella letteratura e nel cibo. ‘Su queste regioni – ricorda Giorgio Cretì – sono passati tanti dominatori’, dai Greci ai Romani, i Bizantini, i Longobardi, gli Arabi, gli Angioini, gli Aragonesi, i Borboni e infine… i Savoia. Gli indigeni, i Messapi, hanno accolto con malcelata generosità questi popoli che hanno tolto la libertà e lasciato qualcosa della loro cultura. Dalle olive verdi al miele i greci, dalla purea di fave alle salsicce e ai sanguinacci i romani, al cuscus arabo, alle spezie dall’Oriente bizantino, alle aringhe e al baccalà nordici, ecc. ‘Cosa abbiano portato i Savoia ancora è un mistero…’ – si chiede con leggera vena ironica l’autore. Ma andiamo con lui in cucina.

La sua premessa è una dissertazione sul gusto piccante, che domina molti piatti napoletani, pugliesi, lucani, calabresi e siciliani tanto che assume nelle varie lingue locali modi tipici di dire: uschiantescantfortevruscente, ecc. Dall’amaro egli passa in rassegna il dolce della pastiera napoletana,  dei babà, delle cartiddhrate, delle zeppole, dei bocconotti, ecc.

E poi le paste, le sagne, i maccheroni, il riso portato dagli arabi e accolto con diffidenza perché ‘cu lu risu nn’ura te mmanteni tisu’ (con il riso un’ora ti mantieni in piedi), i funghi della Calabria, le zuppe di pesce alla napoletana, alla tarantina, allacaddhripulina,  le braciole alla barese, le salsiccie alla napoletana e alla calabrese, ilsanguinaccio alla leccese, le interiora di agnello, le gnemmariedde, le zuppe di verdure, gli ortaggi e le erbe spontanee, ‘nfucatecon crema di fave ecc.,  i legumi secchi definiti ‘la carne dei poveri’, Sua Maestà il pomodoro per il ruolo che riveste nei condimenti, la pizza e la pitta  con passato di patate, la tavola di San Giuseppe, il 19 marzo, minimo nove portate, i formaggi, le mozzarelle, le contaminazioni nordiche con i piatti alla ‘genovese’ e alla ‘parmigiana’.

Giorgio ormai è lanciato e non si fermerebbe più se nel frattempo non fosse giunto il tempo di sedersi a tavola per gustare questo ben di Dio, frutto di una terra che resta, nonostante tutto, un giardino nel Mediterraneo, un paradeisos, alla greca. Buon appettito!

 

‘La Cucina del Sud’ di Giorgio Cretì, Capone Editore, Lecce, 2000, pp. 199, L. 23.000.

Cucina e canti al tempo dei briganti, di Giorgio Cretì

di Paolo Rausa

 

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Il generale José Borgesdon Ciro Annicchiarico di Grottaglie e il lucano Carmine Crocco di Rionero in Vulture, fra gli altri, sono chiamati da Giorgio Cretì a illustrare la loro ‘lunga marcia, per i sentieri impervi della storia, grondanti sangue versato e illegalità,  ruberie, espropri, con uno spirito ribelle contro l’ordine costituito dai piemontesi, nella libertà, nell’illusione di ricostituire il regno dei Borboni. Una illusione, per la verità, foraggiata dai nobili spodestati, retrivi,  che mal digerivano questa incursione straniera nei loro possedimenti. Giorgio Cretì in questo lungo e appassionato racconto nella ‘Cucina e canti al tempo dei briganti’  segue le loro vicende umane dal punto di vista del cibo e delle melodie tristi e amorose che accompagnavano i bivacchi o le soste negli anfratti del territorio, in cui cercavano di issare i loro vessilli. Giorgio si è chiesto: ‘Che cosa mangiavano questi briganti e in quali dolci canzoni annegavano la tristezza della loro vita, la nostalgia di un amore?’ L’autore, come ha già dato prova nei precedenti numerosi saggi e ricettari e nei romanzi, non indulge a sentimentalismi o a simpatie di sorta. E’ sempre attento alla vicenda umana, alla cultura che traspare, attraverso il cibo, di una società semplice che fa dei prodotti che offre la natura un’arte, che va oltre la mera sussistenza. I cibi conservati innanzitutto, le cunserve, di bottarga, i formaggi (il cacioricotta), i salumi (la nduja), la ricotta ‘scante, le verdure sott’olio e sott’aceto, i fichi essiccati che tante generazioni di contadini e di poveri hanno nutrito, le carrube sottratte ai cavalli da pance fameliche degli umani, le patate lessate, in camicia, allu tianu, le spezie e prima fra queste il peperoncino, ‘il pepe del poveri’ come dice l’autore, la cunserva piccante, che arricchisce il desco popolare del suo sapore e dei suoi uschi, i gemiti per quanto brucia il palato e poi dopo, i legumi (lupini, fave, ceci e piselli, la cicerchia), i maccheroni, i funghi sulle montagne calabresi dell’Aspromonte soprattutto, il rancio somministrato nei luoghi più reconditi, utilizzando gli animali razziati dalle greggi o dalle masserie dei benestanti, facendo attenzione a non farsi scoprire dalla soldataglia che guardava in cielo per scoprire le volute del fumo e seguire l’odore di arrosto, la selvaggina e le erbe agresti, le erbe e malerbela papa(ve)rina innanzitutto, stufata con peperoncino piccante e olive nere. Tra un boccale di vino e l’altro, quando ormai la pancia era piena, allora solo allora tornava la nostalgia della casa, della famiglia e di un amore a cui si era scelto di sacrificare tutto, persino la vita. I canti, i cori, le filastrocche cantate, intonate o meno, ripercorrevano le storie fantastiche delle loro vite, chiudendo una giornata che tra mille rischi e pericoli li vedeva per loro fortuna ancora vivi. ‘Cucina e canti al tempo dei briganti’ di Giorgio Cretì, Capone Editore, Lecce, 2011, pp. 134, € 12,00.

“L’eroe antico”, romanzo di Giorgio Cretì

L'eroe antico di Giorgio Cretì

di Paolo Rausa

Nel primo romanzo di Giorgio Cretì, “L’eroe antico”, pubblicato nel mese di giugno 1980, ci sono delineati già tutti gli elementi che confluiranno nella sua successiva produzione letteraria: la fierezza di un mondo contadino umile e semplice, che vive di poco, dai sentimenti elementari; il paesaggio salentino di erbe spontanee che si accompagna alla descrizione del lavoro nei campi frutto di una agricoltura millenaria e rimasta cristallizzata nei gesti e nelle movenze; la fatica del vivere tipica di una cultura povera di tutto ma che trova nella tradizione la forma di sopravvivenza alle condizioni subalterne nei confronti dei proprietari terrieri e delle autorità civili e religiose. Eppure sono proprio le condizioni generali di umanità derelitta a intenerire l’autore che partecipa di quella esistenza, rivendicando i frutti della civiltà legata alla terra, intuendo con anticipo il rischio della scomparsa di quel mondo che si era mantenuto nella sua purezza primigenia nei secoli dei secoli. Concetti che saranno ripresi successivamente  nel romanzo ‘Pòppiti’ del 1996, che già nel titolo ricorda la condizione dei contadini, così denominati con un certo disprezzo dai cittadini del capoluogo salentino. L’autore con questa denominazione rivendica un mondo essenziale, di cultura legata alla terra, ne esalta i colori variopinti nella descrizione della natura che provvede con le erbe e malerbe a nutrire spontaneamente e a curare (‘Erbe e malerbe in cucina’ è del 1987). Quella cultura trova conferme nella pubblicazione di saggi e ricettari sulla cucina popolare salentina: un Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, Il Peperoncino, La Cucina del Sud, Il libro degli ortaggi e delle verdure selvatiche, La Cucina del Salento e infine una incursione nella gastronomia popolare ligure con ‘U prebuggiùn de Tregosa’. Un interesse quello di Giorgio Cretì per il mondo rurale veramente significativo, se già appunto con il primo romanzo il protagonista, Antonio Carotta, meglio conosciuto come Uccio, è l’eroe eponimo di una saga che si svolge tra campagne, uliveti, raccolte del grano e lavorazione nei ‘trappiti’, luoghi infernali ipogei dove si sa quando si entra e non si sa quando e come si esce. La vita si snoda tra levatacce per la raccolta delle olive o tra sieste nei meriggi assolati alle prese con la mietitura sotto l’ombra di un fico o di un olivo o di una quercia, cercando e trovando lo sguardo di una fanciulla innamorata che prelude, ma nulla di più. E poi le migrazioni interne da Capriglia, una masseria sulla costa a sud di Otranto nei pressi di S. Cesarea Terme, sino alle fertili pianure di Sava e di Manduria a nord del Salento per portare cibo, ambasce e resoconti delle famiglie ai lavoranti, ma c’è anche tempo di soste in vecchie osterie dove può accadere di sperare in un caldo abbraccio con l’ostessa, senza possibilità però di costruire un ponte sul futuro. La fatica è inenarrabile. Dentro questa vita, autentica, non vi è neppure la schiarita di un sentimento vissuto nella pienezza, solo la morte e il rimpianto di una esistenza trascorsa nella speranza di un accomodamento affettivo e sociale. La tradizione dei cibi e il rigoglio delle messi e della natura rendono quel mondo magico fuori dalla storia, in cui precipita quando gli avvenimenti esterni incombono e chiedono il loro contributo. ‘Il romanzo ha il sapore, e anche il fascino, delle cose antiche’ dice Donati Valle nella introduzione, a condizione però che si inquadri l’opera di Giorgio Cretì nel progetto di fissare quel mondo in una visione senza tempo, pervasa dalla nostalgia dell’innocenza, ma appesantita dalle condizioni di abbrutimento sociale. “L’eroe antico” di Giorgio Cretì, Edizioni Virgilio, 1980, Milano.

 

Cucina del Salento, ricette di Giorgio Cretì

cucinadelsalento

di Paolo Rausa

Nella ‘Cucina del Salento’ Giorgio Cretì passa in rassegna il repertorio delle ricette salentine, non prima di aver definito il Salento o Terra d’Otranto coincidente grossomodo con la parte della provincia di Lecce posta a sud del capoluogo, la terra dei ‘Pòppiti’, suddivise in cumpanaggi, gli antipasti, le minestre e i sughi, i secondi di terra e di mare, – non dimentichiamo che la penisola italica, come dice Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, ‘apre il suo grembo da ogni lato al commercio dei popoli e lei stessa che, come per aiutare gli uomini, si slancia ardentemente verso i mari!’ – gli ortaggi, i legumi e le verdure agresti, e infine le coseduci, i dolci.

Ma prima di addentrarsi nelle pietanze, negli ingredienti e nella grammature l’autore sottolinea il fatto che il recupero della cultura contadina, espressa nei muretti a secco, nelle pagghiare, nelle aie, nei manufatti, nelle ceramiche e nell’uso della pietra leccese, passa anche attraverso la tutela del patrimonio popolare rappresentato dalla tradizione culinaria, tipica di chi lavorava in campagna dal mattino al sorgere del sole e che non aveva tempo e sostanze per una cucina che non prevedesse l’utilizzo dei prodotti della terra coltivata.

Anche dopo il lavoro, nei rari momenti di socialità trascorsi alla puteca de mieru, le cose non cambiavano molto, anche se qui si potevano gustare i pezzetti di cavallo, la matriata, i turcinieddi annaffiati da ucale di vino, che andavano e uscivano dalla cucina. Ed è lì che ci riporta questo ricettario di Giorgio Cretì con i termini rigorosamente in dialetto salentino, il cui significato si perderebbe nella notte dei tempi se non fossero indicati meticolosamente i nomi e le quantità delle materie prime, che siano erbe e legumi (ciceri e la pignata, fae e fogghe, sanapi e alici, cecore e fae, rape nfucate, ecc), pasta fatta in casa (maccaruni de uergiu cu la recotta scante, recchie cu le rape, tianu de risu pidate e cozze, ecc), pesce e raramente carne (pezzetti e gnemmarieddi o purpu a la pignata) e dolci (mustazzoli, cupeta, carteddate, ecc.).

Una rassegna succulenta che si sofferma di tanto in tanto a spiegare dal punto di vista antropologico i prestiti e le origini di certe pietanze oppure le usanze ex voto delle tavole di San Giuseppe. Ora non resta che mettersi a prepararle, così da gustare i sapori di un tempo perduto e ritrovato. Giorgio Cretì, Cucina del Salento, Capone Editore, Lecce, 2011, € 7,00.

La Fiera di San Vito a Ortelle

Fiera di Ortelle-il cibo nei quadarotti

La Fiera di San Vito a Ortelle (Le), in mostra i prodotti dell’agricoltura, dell’artigianato e dell’allevamento, locali e salentini.

In ricordo di Giorgio Cretì.

 

di Poalo Rausa

 

Torna dal 24 al 27 ottobre ad Ortelle, un paesino a sud-est in provincia di Lecce a metà strada fra gli insediamenti messapici di Vaste (Basta) e di Castro Marina (Castrum Minervae), un qualche migliaio di  abitanti, territorio prevalentemente agricolo e fecondo di artisti – tacendo dei viventi, è necessario citare almeno il pittore Giuseppe Casciaro (Ortelle, 9 marzo 1861 – Napoli, 25 ottobre 1941), l’avvocato e benefattore Francesco De Viti (Ortelle, 4 giugno 1875 – Ortelle 19 Luglio 1919) e da ultimo, non per importanza, Giorgio Cretì (Ortelle 1933 – 9 gennaio 2013), giornalista, fotografo e scrittore, amante della sua terra al punto di aver rivolto il suo esclusivo interesse alla cucina salentina, alle ‘erbe e malerbe’ (il titolo di un suo saggio) e all’epopea dei vinti, in racconti e in romanzi (di ‘Pòppiti’ si sta proponendo la ripubblicazione a cura del Comune e della Fondazione di Terra d’Otranto e la rappresentazione teatrale su testo della scrittrice Raffaella Verdesca e regia di Paolo Rausa).

Intorno al Santuario di San Vito e Santa Marina, costruito poco dopo il 1770, e alla cripta della Madonna della Grotta del XIII secolo, su un sito di culto  preesistente di epoca messapica e forse preistorica, si è sviluppato questo luogo di scambio o mercato  la cui data di origine si perde nella notte dei tempi.

Fiera di Ortelle-vendita del vino
Fiera di Ortelle-vendita del vino

Questo spazio diviene per alcuni giorni, verso la fine del mese di ottobre – quest’anno dal 24 al 27 – , capitale del maiale ospitando la tradizionale Fiera di San Vito, una delle più antiche del Sud Italia. La manifestazione si fregia del riconoscimento di “Manifestazione Fiera Regionale” e si prepara a divenire riferimento per le fiere tradizionali dei paesi del Mediterraneo meridionale. Piatto forte, oltre all’esposizione di prodotti agricoli e artigianali, è la carne di  maiale, preparata e servita in svariate modalità, dalle più tradizionali (lessa e servita con sale e pepe a volontà) alle più originali, che ne valorizzano sapore e proprietà.

La fiera di San Vito però non è solo gastronomia. Oltre alle prelibatezze culinarie, infatti, offre diverse iniziative di arte, cultura, musica tradizionale (protagonisti saranno Nandu Popu dei Sud Sound System che presenta il libro “Salento fuoco e fumo” e il gruppo degli Aria Corte)  e riti sacri.

Spazio anche ad un concorso di fotografia, aperto ai fotoamatori con l’esposizione degli scatti che hanno ripreso la fiera negli anni precedenti, mentre un premio è previsto per lo scatto più significativo che riprende l’evento di quest’anno.

La Fiera di San Vito è organizzata con la collaborazione di Mercatini nel Salento. Info: Comune di Ortelle, Pasquale De Santis, tel. 329.2740780 – infofiera@comune.ortelle.le.it).

Storia di guerra e passione nel Salento rurale

giorgio cretì
Giorgio Cretì

di Francesco Greco

 

Nel Salento rurale dell’altro secolo, mentre sullo sfondo incombe la guerra di Libia, nel minuscolo universo che era la masseria si intreccia una storia d’amore e di miseria, di uomini consumati dal lavoro della terra e dalle passioni. Tripoli, bel suolo d’amore, richiama nel deserto la meglio gioventù. Alla masseria a sud di Otranto, fra Santa Cesarea e Ortelle, c’è anche Pasquale, che ha messo gravida la bella Maria, detta Ia, la figlia di Peppino “Parmatiu” ormai “valagna” (in età fertile). Non resta che organizzare una fuga d’amore per gettare fumo negli occhi della gente e salvare la faccia. Pasquale e Ia se ne vanno in una pajara (trullo a tolos).

E’ l’incipit di “Poppiti”, romanzo che lo scrittore salentino Giorgio Cretì (nato a Ortelle nel 1933, è morto a gennaio scorso, laureato in Scienze Politiche, ha vissuto a Pavia) pubblicò con “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano nel 1996 e che la scrittrice Raffaella Verdesca e il regista Paolo Rausa hanno adattato come testo teatrale in quattro atti, esaltando il pathos di una storia in cui compaiono molti archetipi della cultura meridiana, dinamiche sociali, rapporti famigliari e interpersonali, usi e costumi, spiritualità, sessualità, ecc.

Il tutto calato nella magia della campagna salentina, fra erbe e malerbe, con la natura dotata di un suo struggente carisma, elevata a elemento portante della narrazione. Sintetizzato, scarnificato, colto nella sua nuda, solare essenzialità, il testo risulta si può assimilare al Neorealismo letterario (verghiano) e cinematografico (De Sica), pregno di una energia e una vitalità da leggere come transfert e prosecuzione di quelle in di cui è pregna una terra selvaggia, un popolo onesto e fiero, scosso dal vento del desiderio, delle passioni (politica, civile, sessuale) che tende alla tragedia (dna magnogreco), una cultura che si regge sull’agorà dei sentimenti, una civiltà con la “c” maiuscola di cui s’indovina tuttoggi lo splendore. Pasquale parte “per conquistare l’Africa”, Ia resta col bimbo da svezzare. Il marito è fatto prigioniero e per mesi non dà sue notizie. Sindaco e speziale non sanno dire niente di più sulla sua sorte. La ragazza soffre la solitudine, “non sono da buttare, che scema!”. Potrebbe avere tutti gli uomini delle masserie, ma a guardarla con desiderio è il vecchio suocero: “Tu mi piaci ragazza e… non come figlia”. “Io sono la moglie di Pasquale, tuo figlio, non dimenticartelo!”.

Quando questi fa ritorno dalla Libia, trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Dopo essera andato a un funerale “nero come l’angoscia che mi porto dentro”: non gli resta che emigrare: “Bandirò dai miei occhi e dai miei pensieri questa terra… Andrò a coltivarne un’altra lontana, quella che con il sangue abbiamo conquistato in Libia, e mia moglie e mio figlio verranno con me a iniziare una nuova vita”.

Dopo la prima a Poggiardo, a casa Rausa (la dimora del grande poeta Fernando Rausa, “Terra mara e nicchiarica”), la compagnia “Ora in scena!” porterà in autunno lo spettacolo a Ortelle, nel contesto di un progetto di valorizzazione dell’opera dello scrittore di Ortelle voluto dal sindaco del paese.

Sono previste anche altre tappe. Pasquale, Rocco, Dorotea, Ia, Cirina, Crocefissa, massaro Rosario e Peppino Parmatiu sono interpretati da Michele Bovino, Florinda Caroppo, Luigi Cazzato, Norina Stincone, Francesco Greco, Maria Orsi, Rosaria Pasca, Tiziana Montinari. Musiche di Pasquale Quaranta (P40) e Lucia Minutello.

 

La fidanzata di Spongano

di Giorgio Cretì

Ippaziantonio, o Patintoni,  in quel periodo aveva la zita, la fidanzata, a Spongano e da lì andava e tor­nava in bicicletta. Ma andare e venire così, semplicemente, non poteva durare a lungo e ora, dopo quasi un mese, sia la Nina, la zita, che i suoi parenti gli imponevano di presentarsi con i suoi.

Con quasi tutte le fidanzate che aveva avuto era sempre andato in casa e questo comportava una certa tranquillità rispetto al fidanzamento scusi, di nascosto, che ri­chiedeva continui stratagemmi per potersi incontrare con la ragazza, ma comportava anche la difficoltà, di notevole peso, che prima o poi i genitori del fidanzato dove­vano recarsi in casa della fidanzata e su­gellare così un patto prematrimoniale che diventava impegnativo anche agli occhi della co­munità.

Ippaziantonio continuava a tergiversare, ma quelli insistevano. “Sì, sì egli diceva, li porterò”. Ma sapeva molto bene che non avrebbe potuto: sua madre non gli avrebbe nemmeno lasciato fare la richiesta e suo padre, come minimo, gli avrebbe assestato un paio di calci nel culo, anche se solo a parole. Gli rimaneva, perciò, solo una pos­sibilità: cercarsi un’altra fidanzata. Ma siccome non poteva abbandonare il terre­no così presto, ne inventò una delle sue.

C’era allora in paese una donna povera che si chiamava Concetta, tanto povera che a malapena riusciva a mangiare tutti i giorni. Ippaziantonio si recò da lei.

“Concetta”, disse subito dopo averla salu­tata, “vogliamo fare un negozio?”.

“Che cosa devo fare, Ippaziantonio?”, disse la donna incuriosita.

“Devo portarti in un posto, a casa di una mia fidanzata, e tu devi venire con me, come se fossi mia madre. Se vieni è sicuro che ci scappa una buona mangiata”.

Concetta, che per una buona mangiata avrebbe fatto chissà che cosa, perché in casa sua la fame aveva dimora stabile, fu subito inte­ressata alla proposta, ma gli fece capire che c’era qualche difficoltà da superare. Esistevano limiti

Giorgio Cretì

Caro lettore,

se sei nato prima degli anni Cinquanta forse mi conosci. Io sono nato a Ortelle, in via Garibaldi numero 13, il 12 febbraio del 1933. In casa. Sì, in casa, perché allora era lì che si nasceva, da mia madre Nunziata assistita dalla levatrice comare Splendida. Di nome e di fatto, a detta di tutti. So che è così perché è scritto nel libro dell’anagrafe del comune, anche se esiste il ragionevole dubbio che sia nato due giorni prima, quando mio padre Donato, preso dai lavori nella vigna e non avendo altre braccia da lavoro in famiglia, sembra non avesse tempo per andare a denunciare la mia nascita. Che sia nato in quella casa è certo, me lo conferma sempre mia cugina Vincenza classe 1924 – emigrata a Sanremo e con più RAM del mio PC –, quando me lo racconta: era di pomeriggio e passava la processione del Coregesù.

Poi sono andato via, come tanti altri della mia generazione, molti dei quali si sono fatto onore altrove e sono  diventati cittadini di terre anche molto lontane. Ma, come dice il proverbio, la turtula all’acqua torna, e noi presto o tardi siamo tornati. Vien anche da dire che più si va in là con gli anni  più si diventa tortore e si scoprono tante cose belle di quando si è stati bambini ed i desideri erano pochi perché ci si accontentava di poco. E si parla di queste cose, soprattutto con coloro che sono rimasti e ai quali va il merito di aver conservato valori antichi che altrimenti sarebbero andati perduti; essi da un lato non hanno avuto il coraggio di rompere con le tradizione, dall’altro ne hanno avuto più di noi a restare.

Già qualche anno fa pensavo questo (era il 1987) ed osservavo che “l’uomo apprezza compiutamente un bene solo quando si accorge che sta per perderlo ed allora si affanna nel tentativo di porre riparo agli errori commessi e, a volte, riesce ad operare recuperi ritenuti impossibili.” Ciò avviene “perché l’umanità non procede compatta, essendo costituita di avanguardie e di retroguardie; mentre le prime stendono i ponti verso il futuro, le seconde li mantengono con il passato”. Questo è molto importante secondo me.

 

Giorgio Cretì, è nato a Ortelle (Lecce) nel 1933. E’ autore di vari racconti pubblicati su “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano, e su altri periodici a partire dal 1980 e di due romanzi: “L’Eroe Antico”, segnalato dalla Giuria del Premio Stresa 1980, e “Poppiti” (Il Rosone, 1996). Ha pubblicato ricerche di storia locale sul Bollettino della “Società Pavese di Storia Patria” (1992, 1998, 1999). Collabora con riviste di gastronomia e cucina ed aderisce all’Associazione Stampa Agroalimentare. Ha pubblicato inoltre “Erbe e malerbe in cucina” (SIPIEL, 1987), il “Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali”, annesso al volume “I grandi menu della tradizione gastronomica italiana” (Idea Libri, 1998), “Il Peperoncino” (Idea Libri, 1999), “La Cucina del Sud” (Capone, 2000), “A tavola con don Camillo e Peppone” (Idea Libri, 2000); “Il libro degli ortaggi e delle verdure selvatiche” (Idea Libri, 2001), in collaborazione con il fratello Antonio; “La Cucina del Salento” (Capone Editore, 2002), “Intervista a Sergio Stagnaro da Trigoso” sulla Semeiotica Biofisica e sul Terreno Oncologico (2002), “U prebuggiùn de Tregosa”, sulla gastronomia popolare in Liguria (2003).

Funnucrudeu

 

pajaru

testo e foto di Giorgio Cretì

Funnucrudeu era una proprietà coltivata da quattro mezzadri, cioè da quattro famiglie, ed era suddivisa più o meno equamente in quattro partite ognuna costituita da una buona parte di bassura arativa e da un’area più piccola di cuti1). Tutte le bassure erano coltivate, i cuti solo in piccola parte, con le zappe naturalmente. Il resto era lasciato alla flora spontanea: al timo, ai fùmuli(2) e alle fracilische(3) che una volta secchi venivano raccolti per il forno. Spontanei crescevano anche i lampascioni(4).

Le colture più praticate erano costituite da orzo, grano e piselli, a seconda delle rotazioni. Non si coltivavano ortaggi perchè il fondo era lontano dal paese e c’era soltanto un piccolo ricovero semi diroccato, segno di un’epoca in cui c’era stata la vigna distrutta poi dall’attacco della fillossera alla fine dell’Ottocento. C’era anche una cisterna, ma non mateneva più l’acqua perchè era stata a lungo trascurata ed ora dentro c’erano delle grosse pietre buttatevi chissà da quali mani vandaliche. Per bere bisognava approvvigionarsi alla cisterna di un fondo vicino tenuta sempre in ordine. D’inverno, però, c’era acqua pulita sui cuti di Funnucrudeu, in certe conche naturali impermeabili a forma di cono rovesciato, che venivano tenute regolarmente pulite dalla terra e dalle erbe.

fracilisca (Ferula communis)

Funnucrudeu era ripartito tra Raffaele della Luna, Rafeli, Angelo Cisterna, Ancilu, suo fratello Rocco e la famiglia di una loro sorellla che si chiamava Gesira. Quell’anno Peppino aveva imposto di seminare avena, un cereale che a lui serviva ma non ai mezzadri che avevano dovuto subire il sopruso. A loro servivano il grano, l’orzo ed i piselli. Anche se questi ultimi, coltivati lì, non erano molto apprezzati, però, perchè la terra scarseggiava di certe sostanze minerali e non era adatta per i legumi: non cuocevano mai.

La terra rossa veniva lavorata al secco nei mesi estivi dalle zappe di due chili e mezzo che rivoltavano ernormi zolle puntando nelle spaccature del terreno. Raffaele, con il gomito sinistro poggiato sull’anca, piano piano e da solo zappava al secco tutta la sua partita.

La terra poi veniva era arata da Peppino D’Aprile, il padrone, in autunno dopo le prime piogge che ammorbidivano le grosse zolle rimaste al sole tutta l’estate. Peppino aveva un solo cavallo bianco, paziente come un asino, che assolveva il suo compito come poteva. L’aratro era quello di legno con il timone a forca e il vomere a punta triangolare. I coloni, mezzadri, arrivavano a piedi la mattina presto e risalivano al paese la sera tardi.

Erano sopravvissuti i fichi piantati ai margini della proprietà lungo i confini e addossati ai muri a secco ancora ben tenuti. I frutti prodotti dalle vecchie piante andavano tutti a Raffaele che se li faceva stimare, circa due tomoli(5), e li consumava tutti per mirenna(6) quando zappava. I figli giovani degli altri mezzadri, però, quando arrivavano prima di lui gli rubavano i più belli e li mangiavano loro, a volte glieli portavano via soltanto per fargli dispetto. Questo a lui dava molto fastidio perché era geloso delle sue cose e il giorno che se ne accorse, arrivò prestissimo e raccolse tutti i fichi, maturi e acerbi. Scavò una specie di cassettone in mezzo alle zolle assolate, vi sistemò tutti i fruttti e li coprì di fùmuli e zolle di terra. I ragazzi non tardarono ad accorgersi dell’operazione e stettero all’erta. Non tardarono a scoprire che durante le soste per la mirenna, quando si riunivano tutti assieme all’ombra, Raffaele lasciava gli altri e con una scusa qualsiai andava in un punto della terra zappata e fingeva di muovere qualcosa con la zappa. Poi infilava le mani sotto le zolle e al tatto sceglieva i frutti più buoni da mangiare.

ficus carica

E consumava la bellezza di circa due tomoli di fichi verdi a mirenna. I ragazzi che avevano scoperto il suo segreto e volevano portargli via il tesoro, furono fermati da Angelo che fece la voce grossa, usando anche qualche bestemmia.

Poi arrivò l’autunno con le piogge. Peppino faceva i solchi ed i mezzadri con grande perizia spargevano dentro i semi man mano.

Passò anche l’inverno e dopo la sarchiatura arrivò anche il tempo delle messi. Era abitudine recarsi a mietere tutti assieme.

Ficus sicomorus

Decisero quell’anno di mietere la mattina della festa di Sant’Antonio, anche se Raffaele aveva aderito soltanto pensando di tornare a casa ad una certa ora per andare a messa. Lui andava sempre a messa. E la Nena, sua moglie, lo sapeva bene. Giunse il momento in cui secondo Raffaele bisognava smettere e tornare in paese e cominciò ad agitarsi. Nona diede una voce a Gesira che era più vicina.

“Gesira?”, disse.

“Che cosa c’è, Nona?”, disse Gesira.

“Voi non andate a messa?”.

“No”, intevenne Angelo secco, “No. Visto che ci troviamo finiamo di mietere, poi la festa a Sant’Antonio la facciamo stasera”.

“Nona ce n’andiamo? Andiamo a messa”, tagliò corto Michele alla moglie.

“Stai zitto”, rispose lei, se no loro finiscono di mietere prima di noi”.

“Sangue così”, insistette Raffaele, “che noi non abbiamo neanche portato il pane per la mirenna”.

“Ancilu”, chiese lei, “non avete qualche frisella in più che noi non abbiamo portato pane?”.

“Sì, Nona, ce l’abbiamo”, rispose Angelo e fece cenno a Gesira di darle il pane.

“Ecco Raffaele”, disse Nona, “tieni il pane”.

Fu un attimo, Raffaele prese una frisella e gliela fiondò sulla schiena come una sassata.

“Se vuoi lavorare lavora, io me ne vado”.

E scaraventò in terra anche l’altra frisella assieme alla falce dentata.

Muscari comosum

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(1) Cuti. Rocce superficiali, affioranti.

(2) Fumuli. Iperico (Hyperiicum perforatum).

(3) Fracilisca. Specie di Ferula nana (Ferula communis L.).

(4) Lampascioni. Gigliacea spontanea (Muscari comosum) con poche foglie lineari erette e fiori violetti a ciuffo molto belli a vedersi. Se ne consumano i piccoli bulbi globosi di color rosso-vinoso chiaro, soprattutto nell’Italia meridionale. A seguito delle grandi migrazioni verso il nord il consumo si è esteso a tutto il territorio nazionale ed il nome toscano è stato sostituito con quello pugliese di lampascione. I bulbi si utilizzano di solito in insalata, previa cottura in acqua bollente, conditi con olio, sale, pepe e aceto; si consumano anche in altri modi: alla genovese, fritti, dorati, etc.

(5) Tomolo. Equivalente a 2 mezzetti, a 4 quarte, a 24 misure e a55,545113 litri (legge 6 aprile 1840 di Ferdinando II).

(6) Mirenna. Colazione mattutina dei contadini.

La fidanzata di Cerfignano

Resti del feudo San Giovanni Calavita (ph Maria Cretì)

di Giorgio Cretì

(Inedito)

Col solito sistema dell’ambasciatrice-ruffiana, più volte collaudato, Ippaziantonio s’era cercata una fidanzata a Cerfignano: lì conosceva diversa gente ed aveva anche dei parenti. Ma Cerfignano non era vicino come Spongano o Marittima e la strada da fare era molta di più perché c’era da fare il giro dalle Vele di Santacesarea con una bella salita che partiva dalla vora di Vitigliano. L’inizio non era stato difficile, come sempre, perché il suo bell’aspetto faceva sempre colpo sulle giovani ragazze. Aveva messo gli occhi su una brunetta che aveva visto più volte prendere acqua alla fontana del largo Cànica(1) e le aveva inviato la sua ambasciata proprio con una parente che si chiamava Tetta, cioè Concetta. Per la cronaca, quella fontanella  esiste ancora, ma le hanno cambiato posto perché veniva ripetutamente abbattuta dai parcheggiatori distratti.

L’ambasciata era stata gradita, ma la ragazza non era riuscita a farsi trovare sola in luogo appartato nemmeno una volta: tante occhiate furtive e tanti sospiri, ma nessun incontro intimo, soprattutto perché il padre di lei che era un gran lavoratore era anche uomo un po’ violento e per tale ragione anche  la madre di lei non aveva avuto il coraggio di rischiare di portarsi in casa il ragazzo.

Così Ippaziantonio andava e veniva da Cerfignano tutte volte che poteva scappare con la sua bicicletta, ma più di qualche occhiata di soppiatto non ne aveva ricavato, anche se qualche volta era riuscito ad accompagnarla fino a casa sulla via per Cocumola. E proprio in una di quelle occasioni aveva notato che vicino alla casa di lei, proprio addossato al muro, c’era un palo della luce che sembrava messo lì

Quando si ha stoffa per guadagnarsi il Cielo. In ricordo di Giorgio Cretì

cretì

di  Raffaella Verdesca

 

Non era da molto che mi aggiravo tra le pagine del blog di “Spigolature Salentine”, oggi confluito nel prestigioso sito della “Fondazione Terra d’Otranto”.

Me ne avevano parlato bene, dicevano che avrei sempre e comunque trovato un articolo di mio gradimento, come in un grande bazar ricco di oggetti sconosciuti e preziosi. Curiosa e perennemente in cerca di novità interessanti, avevo quindi iniziato a frequentare questo affascinante mercato, fermandomi qua e là a comprare luccichii e colori tra la merce esposta.

E’ stato proprio in una di queste occasioni che ho incontrato Giorgio Cretì. A prima vista non era facile individuarlo, nascosto com’era dietro alle ricche tessiture dei suoi racconti, ma rigo dopo rigo me lo son visto venire incontro imponente come un gigante, unico con quel suo modo gentile e al tempo stesso crudo di trattare la vita comune della gente e la gente comune di ogni vita.

“Leggete, signori, leggete tra i banchi di questa colta piazza le belle storie di Cretì!” si diffondeva irresistibile il richiamo in ogni angolo.

Si tratta di storie in cui si respira il Salento, in cui un uomo esprime l’ardore e la delicatezza dell’amore per la sua terra rossa e profumata, di ‘chianche’ cosparsa e di luce e di mare, di sudore e di ulivi accesa e consumata.

L’uomo della strada così come il signorotto dei più sperduti paesi di campagna non ha scampo dinanzi all’analisi introspettiva di Giorgio, dinanzi a quel processo di lavaggio e tinteggiatura degli animi, dei difetti, delle virtù e delle debolezze che ogni essere umano porta con sé. L’intreccio dei suoi racconti non è mai barocco, ma semplice, setoso ed estremamente prezioso. Te ne accorgi ogni volta che lo sfiori col pensiero, con la naturale curiosità nata dalle sue trame avvincenti, materia viva al tatto e al cuore.

Di vera la merce è vera, originale, bella da farti accapponare la pelle, così fitta da spingerti a provare le stesse sensazioni dei suoi fili fin nelle pieghe familiari e di paese.

Il fidanzato bontempone, il bracciante, il padrone, la dama e la contadina, l’anziano, il giovane, l’ingenuo e lo scaltro, non c’è nessuno che manchi all’appello narrativo di questo straordinario autore.

Nei suoi scritti c’è sempre un posto d’onore per la tradizione popolare, per le memorie di vedute antiche oggi a rischio d’estinzione, per il pathos e la risata, per il grottesco e il drammatico, il tutto sullo sfondo di dinamiche politiche e culturali simili a ricami a vista.

Lirismo e poesia sfumano le tinte forti dell’esistenza grama dei poveri, incantevoli dipinti bucolici invadono i sensi come stampe su seta illuminando a giorno le pagine fitte di odori e di sapori, cari all’autore come ad ognuno di noi.

E’ la fiera delle meraviglie.

Ma oggi il proprietario del mio banco preferito non c’è.

Mi hanno detto che ha accettato di esporre le sue splendide stoffe in una piazza più grande e luminosa, quella degna dei giusti, e allora mi è venuto da pensare alla fortuna che abbiamo avuto tutti nell’incontrarlo, nel comprare da lui, in questo lasso di tempo, ogni merce possibile pagandola con ammirazione e affetto sonanti. E’ ormai chiaro che nessuno potrà contraffare una simile grandezza, né mai improvvisare la ricchezza con cui finora ci ha avvolto.

Prima di andare, Giorgio Cretì ha tuttavia voluto affidare alcuni dei suoi tesori alle migliori mani possibili, al fine di non interrompere bruscamente i suoi sogni e le nostre certezze. Come avrebbe potuto lasciarci nudi di sè e delle sue emozioni?

Con questo grazie a nome mio, della Pissa, di Donna Maresca e di tutti, colgo l’occasione, Giorgio caro, per dirti che so quanto questo mio ultimo commento ti sia piaciuto più degli altri.

 

Racconti salentini/ Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

Faccellavatu

coll. priv. Giorgio Cretì (riproduzione vietata)

di Giorgio Cretì

Biagio Sannimaro giunse nel pomeriggio inol­trato di un’afosa giornata d’agosto. Era stato in giro tutta la mattina montando uno di quei caval­li arabi che il barone aveva acquistato di recente e che si erano dimostrati ottimi anche per il dipor­to e per la caccia. Egli aveva il compito di batte­re ogni giorno il territorio delle due masserie che con il loro feudo costeggiavano il litorale adriatico e, quando vi passava vicino, si fermava al casino a conferire con il barone oppure a scambiare due chiacchiere con il casiniere che, come lui, parlava volentieri, e per ristorare il cavallo.

A volte, quando d’inverno la famiglia del ba­rone non c’era, dormiva lì, ma la sua residenza fis­sa era alla masseria Bruficu(1).

Durante la notte non era calata muttura(2) e, av­vicinandosi alla zona la mattina presto, egli si era soffermato qua e là a parlare con i mezzadri sparsi per la campagna. Le macchie di terra rossa zappata rompe­vano ogni tanto la monotoria delle stoppie brucia­te delle grandi colture cerealicole. Vicino ai casolari sparsi i contadini coltivavano anche piccole strisce di cotone e pomodori, dolici(3)  e altri ortaggi, quanti se ne po­tevano permettere in base alla capacità delle ci­sterne di acqua piovana che avevano a disposizione.

Intorno a quelle costruzioni dall’architettura molto essenziale, lussureggiavano a filari le chio­me dei fichi, grande fonte di frutta secca per l’inverno.

ph Giorgio Cretì

Poi i sentieri che Biagio aveva percorso si inoltravano fra i grandi boschi di ulivi, o in mezzo alle vigne, per perdersi nella macchia bassa che copriva un largo tratto dalla parte del mare. Se n’era andato, in quell’intrico di arbusti, un po’ al trotto e un po’ al galoppo, con il cavallo che sembrava divertirsi a volare sopra lentischi e ginepri spinosi, come ricordasse le scorribande di un suo

Il presepio in cantina

presepe di Ortelle del 2011, realizzato da Antonio Chiarello

di Giorgio Cretì

Era andato al bosco dello Scravasciu per tagliare qualche ramo di alloro da mettere come sfondo al presepio che sta­va costruendo con i bambini in un ango­lo della cantina, tra la catasta della le­gna e l’angolo della capra. Lo costruiva lì per due motivi: primo perché quello era l’unico spazio disponibile e poi perché in cantina non c’era mai freddo.

Il supporto era costituito da due casse da tabac­co vuote, affiancate e poste contro la pa­rete coperta in molti punti dal salnitro, bianco come zucchero, che, a causa dell’umidità, affiorava dalla pie­tra. Certi ciocchi di ulivo, massicci e pe­santi, si prestavano molto bene per l’ar­chitettura della parte montagnosa del paesaggio e, una volta sistemati, veniva­no ricoperti con carta ricavata da vecchi sacchi di cemento, spruzzata con calce e tempera di vario colore. La stessa archi­tettura prevedeva anche la grotta verso la quale si spostavano le statuine rappresen­tanti i Magi che venivano da lontano, i pastori, i contadini e gli artieri con le loro umili bot­teghe. La parte piana veni­va ricoperta con il velluto, il muschio, pure raccolto nel fitto del bosco dello Scravasciu ed un frammento di spec­chio, ben camuffato, serviva a dare l’idea di un laghetto o di un fiumiciattolo presso cui venivano piazzati gli armenti. I Magi viag­giavano a dorso di cammello e giungeva­no dal sentiero tra le montagne sullo sfondo del quale, tra le frasche dell’allo­ro, si intravedevano alcune palme da dattero, abbozzate su carta da imballag­gio azzurrina. Sopra una grossa radice nodosa e contorta, che era servita per ri­cavare la forma della grotta, era già piantata una stella di latta che comincia­va ad arrugginire.

Era tornato a casa con i rami di alloro ed aveva trovato i bambini che armeg­giavano per conto loro con i ciocchi di le­gna, con una certa difficoltà. Montò

La Tumara

thymus capitatus (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

Allora, da maggio ad ottobre, la gente si trasferiva a vivere in campagna ed in paese tornava solamente per comperare il sale e qualche altro genere di stretta necessità. Quasi tutti coltivavano tabacco ed il tabacco aveva bisogno di cure molto assidue.

Alla Tumara c’erano ben cinque famiglie, alloggiate in seccatoi ad un solo spiovente con il tetto di coppi. Una vera e propria comunità, anche se ciascun nucleo familiare economicamente viveva per proprio conto e non aveva interessi in comune con gli altri. In alcune stagioni la comunità raggiungeva anche le venticinque persone.

Tumara, poi, era il termine per indicare una zona al alto degrado vegetale, dove il timo(1) la faceva da padrone, assieme al mentastro(2), alla salvia selvatica(3), al rosmarino(4): tutte piante molto aromatiche. In primavera, dal sottilissimo strato superficiale di humus prorompeva la vita vegetale ed il suolo si copriva prima di un bellissimo verde e poi diventava una variopinta tavolozza di colori cui concorrevano il giallo dei ranuncoli(5), il bianco delle pratoline(6) ed il lilla della scabiosa(7) e di tanti altri fiori meno appariscenti, come le ombrelle delle carote selvatiche(8) ed i ciuffi dei sonaglini(9) e dell’avena selvatica(10)) che fremevano creando suggestive vibrazioni alla carezza del vento. Fra le fitte e sottili foglie del lino delle fate(11)), spuntavano anche le scarpette della Madonna(12)), piccole orchidee nere che sembravano di velluto.

Uno dei due seccatoi, quello abitato dai due mezzadri, aveva le soglie affacciate sulla tumara, l’altro, che era di proprietà degli occupanti, dava sulla strada di campagna che proseguiva un po’ più oltre e si perdeva fra gli ulivi della contrada detta Fogge, che formavano un vero e proprio bosco.

I due edifici erano posti a elle, leggermente distaccati l’uno dall’altro, nel punto più alto di un piccolo rilievo che scendeva con leggera scarpata verso una zona eluviale di terra rossa, molto adatta a varie colture, dove si piantava tabacco.

Dall’alto si scorgeva l’inizio dell’oliveto che andava fino a Diso e Vignecastrisi.

Origanum vulgare (ph Giorgio Cretì)

In mezzo la gariga di timo, in qualche piccolo affossamento che raccoglieva un po’ di terreno, o in qualche piccola tasca terrosa, crescevano piante isolate di fico che erano tenute in gran conto.

Ogni due o tre anni le zappe raschiavano il poco humus formatosi sulla roccia calcarea e ne facevano piccoli mucchi.

Il timo sradicato serviva per il fuoco domestico e per il forno del pane. I mucchi di pietre sparsi, venivano spostati, e rimessi insieme con perizia, per ricavare altro terreno da coltivare. Questo era ricco di sostanze organiche prodotte dalle erbe seccate, da gusci di chiocciole, da millepiedi scarabei glomenidi morti e da licheni e somigliava molto al letame. In quei mucchietti si piantava orzo o legumi e, se durante la primavera successiva cadeva sufficiente pioggia, si poteva anche avere un raccolto. Altrimenti, se era secco, ci si rimetteva la semente, perché i frutti morivano sulla pianta prima ancora di maturare. L’humus grattato dalla roccia veniva poi regolarmente dilavato verso il basso.

Ampie zone di roccia rimanevano nude ed erano segnate qua e là da cadinaz, che sono quelle vene verticali di roccia più dura resistente all’erosione, che in alcuni punti, a seconda dello spessore, emergono come muriccioli.

A fine maggio, le erbe secche o le stoppie davanti ai seccatoi venivano bruciate e tutto quello spazio era destinato ai telai del tabacco da seccare e, più tardi, anche ai cannicci dei fichi spaccati e messi al sole.

Calamintha nepeta (ph Giorgio Cretì)

Donato e Angelo, i due mezzadri, con le loro famiglie coltivavano le terre del padrone dei seccatoi che abitavano; Angelo le aveva tutte dentro la “Tumara”, Donato nel fondo attiguo che era leggermente sottoposto e si trovava al piano della strada provinciale, diritta bianca e polverosa. Angelo aveva anche la vigna, in una pietraia verso le Fogge; la vigna di Donato era nel fondo di un altro padrone, ma non era lontana.

La maggior parte dello spazio all’interno dei seccatoi era occupato da un’intelaiatura fissa, alta fino al soffitto per sostenere il tabacco, man mano che seccava e si metteva da parte; nel resto si lavorava, mangiava e dormiva, salvo occupare per intero anche questo spazio quando minacciava pioggia e si doveva proteggere il tabacco che non era ben secco, perchè una sola goccia d’acqua ne avrebbe compromesso la qualità e abbassato il prezzo. Riuscivano a farci stare anche i cannicci dei fichi, accatastati a ridosso di una parete, con un sistema che permetteva, a mezzo di canne, di tenerli staccati uno dall’altro.

Daucus carota (ph Giorgio Cretì)

La gente, in campagna, si portava anche gli animali, ossia la capra o la pecora che davano il latte occorrente alla famiglia e le galline che fornivano le uova da vendere. Angelo aveva anche un corvo nero che sapeva dire qualche nome e lo ripeteva quando gliene veniva l’estro. Esternamente al seccatoio, Donato e Angelo avevano costruito le loro cucine che avevano appena lo spazio per accendere il fuoco in terra e accostarvi le pignate dei legumi o per sistemare un treppiedi per usare la pentola.

La cucina di Angelo era coperta di coppi, quella di Donato di fronde di leccio che ogni anno bisognava rinnovare. Dietro la cucina, al mattino tenevano legata la capra che spostavano dietro il seccatoio quando girava il sole.

Un po’ distante avevano costruito un piccolo recinto di pietre che serviva da gabinetto. Quello di Angelo era in parte coperto da lastre di pietra (chianche) per creare un po’ di ombra nei caldissimi mesi estivi.

Myrtus communis (ph Giorgio Cretì)

Completava i servizi il pollaio che era costituito da un riparo più ampio con una porticina che poteva essere chiusa per il riparo vero e proprio e uno molto più piccolo e aperto, dove le galline facevano le uova.

Le galline razzolavano tutto il giorno in due gruppi separati, sempre mantenendosi nei pressi dei seccatoi e la sera tornavano ai loro pollai che venivano poi chiusi dall’esterno con un blocco di tufo, perché la notte quando tutto era silenzio vi si aggirava la volpe.

Con la scusa della devozione, la gente si prendeva due o tre giorni di riposo all’anno, che poi si traducevano in pellegrinaggi religiosi di una giornata a questo o quel santuario. Il più importante era il santuario dell SS. Crocefisso a Galatone dove si fa festa ancora ai primi di maggio; poi c’era quello di San Rocco di Torrepaduli, a metà agosto, e da ultimo, quando la raccolta del tabacco era ormai terminata ed i contadini potevano un po’ rifiatare, l’otto settembre, c’era la Madonna di Sanarica; si andava anche a Leuca, quando si poteva – almeno una volta nella vita lo si doveva fare! – ed al Santuario di Montevergine sulla Serra di Palmariggi. La gente si muoveva a piedi scalzi, perché non poteva permettersi il lusso di consumare quell’unico paio di scarpe che teneva custodite per il giorno del suo funerale, e portava con sé il pane ed anche un po’ di companatico: brodetti di peperoni o melanzane fritte. Partiva la mattina all’alba e tornava la sera ch’era già buio. A Leuca ed a Galatone, ch’erano un po’ più lontani, si andava con una vettura da noleggio, uno scerabbà. Le ferie non propriamente dedicate al culto religioso, due o tre giorni di fila al massimo, si prendevano per l’Assunta ed in quei giorni la gente partiva la mattina e si riversava sulla costa con ogni bendidio da mangiare. La sera, però, tornava sempre a casa.

Salvia trilobata (ph Giorgio Cretì)

Alla Tumara la raccolta del tabacco quell’anno era terminata; ormai era rimasto soltanto qualche cannicciodii canne (cannizzu) di fichi da seccare, oltre a qualche lavoro nella vigna. Adesso si poteva veramente rifiatare e la Madonna delle Grazie, la Madonna di Sanarica, cadeva proprio nel momento più propizio. Quell’anno partirono tutti, grandi e piccoli, rimasero lì alla Tumara soltanto Uccio e suo zio Donato.

Uccio aveva raccolto i fichi maturi dal culummu nero che, insinuatosi con le sue radici in una fessura della roccia, lussureggiava maestoso presso l’angolo che si formava tra i fondi Montepozzello e Cinesi: ad ogni raccolta quell’albero, da solo, dava tre cannicci di fichi spaccati ed era una specie di brogiotto nero unifero, che non produce fioroni, con frutti particolarmente adatti ad essere seccati. Uccio stava all’esterno e suo zio, ch’era tornato dalla vigna con una bisaccia d’erba per la capra, stava ora dentro al seccatoio sistemando certi telai del tabacco che s’erano schiodati o erano andati fuori squadra con il peso e con il sole. Dalla parte dei Cinesi salì un questuante con un sacco in spalla, di quelli che allora giravano per le campagne a raccogliere derrate per la festa di un santo.

“San Rocco!”, il forestiero disse quando arrivò vicino al ragazzo.

Uccio chiamò suo zio.

“Zio Donato, esci che c’è uno per San Rocco”.

Suo zio si affacciò sull’uscio con in mano un martello e rivolto al nuovo venuto disse: “Che cosa ti serve?”.

“San Rocco!”, disse quello.

“E’ passato”, disse lo zio, e intendeva ch’era già passata la festa.

“Da che parte è andato?”, chiese quello che non aveva capito.

“E’ andato di là con un sacco in collo”, lo zio concluse dando un’occhia d’intesa al nipote.

“Mannaggia la prima donna. Quando lo trovo, per il patretercu, …”, disse il forestiero e se n’andò bestemmiando tra i denti. Uccio a stento riuscì a trattenere il riso, sapeva che suo zio più di una volta si divertiva a prendere in giro il prossimo.

Le donne andando via la mattina avevano lasciato a zio e nipote le istruzioni per la giornata: “Scoprite i fichi e attenti al tempo…”.

“Sì, sì non preoccupatevi, andate tranquille”.

Non pioveva da mesi ed il cielo era terso e luminoso come ogni altro giorno.

Tolti i cannizzi di paglia, messi lì la sera per riparare i fichi spaccati di fresco dall’umidità della notte, ed assolte ciascuno per suo conto altre faccende, zio e nipote consumarono un’abbondante zuppa fredda fatta con patate lesse, pomodori, cipolle e peperoncino, e poi scrutarono il cielo come facevano spesso per abitudine. C’era qualche lembo bianco di nuvola qua e là ma non si era ancora formato nessun cumulo tale da impensierire. Lo zio si accese la pipa di creta e si distese sulla littera, poi quasi subito posò la pipa in terra, si abbassò la coppola sugli occhi e si addormentò supino. Uccio, che fumava di nascosto, approfittò del momento di tranquillità per diseppellire il suo tabacco e trinciarlo con calma; quindi lo sistemò in un borsellino di pezza e lo nascose di nuovo. Diede un’ultima occhiata al cielo, disse “Mah” e si sdraiò anche lui. Si addormentarono perché non avevano preoccupazioni particolari.

Non si sa quanto dormirono, forse un bel po’, finché il ragazzo non percepì un toc toc toc familiare. Pioveva.

Schizzò subito fuori pensando ai cannicci dei fichi che bisognava prendere in due per portarli dentro.

“Zio Donato, zio Donato… Piove”.

Lo zio si svegliò e venne subito sull’uscio.

“Come piove?!”, esclamò.

“Zio Donato, alzati che sta piovendo. Sta dilluviando”.

In effetti dai cannizzi colava acqua che subito aveva preso il colore dell’aceto.

“Ormai”, disse lo zio Donato quando si rese conto della situazione, “ormai non c’è più niente da fare, abbiamo fatto il pancotto. Sai cosa facciamo adesso? Ci sediamo qui, tu di là ed io di qua, e ci godiamo lo spettacolo”.

Ed osservarono la pioggia cadere copiosa e formare rigagnoli veloci dopo aver inzuppato il suolo polveroso. Nemmeno un tuono di avvertimento come succedeva spesso quando pioveva d’estate!

Come era prevedibile, al ritorno dei pellegrini zio e nipote se ne dovettero sentire di tutti i colori.

“Vi abbiamo lasciati qui in due apposta e siete stati capaci di bagnare i fichi! La mia meraviglia”, diceva la zia Nunziata, “non è tanto per il ragazzo…”, e via rimbrotti al marito.

“Noi non volevamo farli bagnare”, disse lo zio Donato dopo aver incassato in sislenzio per un po’. “Ci ha presi il sonno. Che cosa volete fare? Vuol dire che il prossimo anno a Sanarica andremo noi due e la guardia ai fichi la farete voi”.

Raccoglievano le ulive una per una da terra…

di Giorgio Cretì

D’inverno Antonio aveva sempre trasportato le donne alle ulive. Allora si alzava molto presto per pulire la stalla e governare il cavallo e quando le donne arrivavano, ancora sonnolente e intirizzite dal freddo, egli aveva già attaccato ed era pronto a partire.

Alcuni poderi di don Nino erano lontani dal paese e durante il viaggio, ch’era ancora buio, mentre Antonio sedeva davanti con le gambe penzoloni, le donne si accucciavano nel letto del carro e si coprivano con i sacchi vuoti. Nessuno parlava.

A volte c’era la brina e, giunti sul posto, Antonio accendeva un fuoco intorno al quale tutti si scaldavano le mani rattrappite e mangiavano in piedi il pane che si erano portati da casa. Nel pane ci mettevano intingoli molto piccanti che bruciavano un po’ la bocca, ma scaldavano il sangue e facevano svegliare. Poi le donne cominciavano a lavorare e, curve sulla schiena, raccoglievano le ulive una per una da terra. In genere, il terreno sotto gli alberi era stato lavorato e le ulive cadevano al pulito, ma qualche volta era pieno di spini secchi dell’anno precedente e la raccolta, allora, era molto dura. Anche i ragazzi molto giovani, che non erano in grado di zappare al passo degli uomini, erano adibiti a questo lavoro.

Antonio doveva solo svuotare i panieri e caricare i sacchi sul carro, ma qualche volta aiutava le donne a raccogliere le olive da terra.

Il fattore girava continuamente per gli uliveti, per controllare la caduta e disporre per la raccolta delle olive e, quando incontrava le donne, ogni tanto si fermava a parlare con le più anziane. Le più giovani allora rimanevano con la schiena curva, lavotavano più in fretta e non dicevano una parola. Poi, quando il fattore se n’era andato, c’era silenzio finché le anziane non riprendevano i discorsi interrotti. Ma le giovani non erano chiamate a questi discorsi e, quando riuscivano a mettersi in coppia, parlavano tra di loro a bassa voce. Molto spesso, però, non parlavano affatto perché veniva loro vietato o per paura di essere prese in giro: sembrava che loro sapessero dire solo sciocchezze.

Durante la sosta di mezzogiorno era permesso a tutti di parlare e l’ora era sempre molto attesa. Quando si sentivano i rintocchi delle campane dei paesi vicini, le anziane cominciavano a raddrizzare la schiena, seguite dalle giovani, e lo facevano molto lentamente perché, dopo essere state piegate per tante ore, ormai la schiena faceva più male a raddrizzarla che a tenerla curva. Spesso mezzogiorno suonava più volte ad intervalli irregolari, dipendeva dai sagrestani dei vari paesi, ma il primo era quello buono.

Antonio, un po’ prima dell’ora, andava ad attingere acqua alla cisterna più vicina e poi si occupava del cavallo. Con le donne ci stava poco e le giovani lo sbirciavano mentre era intento alle sue faccende. Tra di loro parlavano di lui e facevano congetture sulla ragazza che poteva occupare i suoi pensieri, non senza un pizzico di malignità e gelosia da parte di quelle che avrebbero volentieri accettato di essere da lui corteggiate. Così giustificavano il suo carattere taciturno e un po’ assente: se non considerava le presenti, doveva pur pensare a qualcun’altra. Se saltava fuori qualche nome, c’era sempre qualcuna che abbassava gli occhi delusa.

Le campagne erano sempre molto affollate in certe stagioni. Nella vicina vigna, di quelle basse alla latina, gli zappatori sconcavano le viti e con la terra tolta, man mano che procedevano lungo i filari, formavano un cavalletto che sarebbe rimasto così fino al momento di accavallare, cioè fino all’operazione inversa di fine inverno. Ogni zappatore portava avanti il suo cavalletto ed era incalzato dallo zappatore che lo seguiva. In genere, conduceva un uomo robusto che poteva zappare più o meno in fretta a seconda che avesse dietro gente capace o ragazzi non ancora forti per tale lavoro.

A mezzogiorno si fermavano anche gli zappatori e si mettevano al riparo dal vento per mangiare il pane che si erano portati da casa. I giovanotti, anche se stanchi, mangiavano in fretta e, seguiti dalle beffe degli uomini, migravano verso gli ulivi a cercare compagnia. Quì venivano presi in giro dalle donne, ma era un gioco anche questo e loro ci stavano, pur di sedere vicino alle ragazze. Non che le coppie avessero la possibilità di appartarsi, ché le sanzioni sociali per la ragazza sarebbero state pesanti, ma c’era il modo, a volte tollerato, di stabilire un incontro per la sera, quando con il favore del buio, il giovane scavalcava il muro di un giardino e abbracciava la sua bella. Gli incontri dietro casa, però, non sempre erano possibili e, tuttavia, erano sempre di breve durata, così come quelli che si riusciva a combinare con la scusa di far visita ad un’amica e compensando un fratellino o una sorellina al seguito della ragazza che, in nessun modo, poteva uscire di casa da sola la sera.

I veri incontri d’amore potevano avvenire in campagna e anche qui ogni precauzione era presa per evitare di essere visti e di passare sulla bocca di tutto il paese.

Quando il vento soffiava da Levante, il mugghìo del mare che si sfracellava contro la scogliera, si udiva da molto lontano e si sentiva l’odore della salsedine che superava la serra di Capriglia e si spandeva per l’aria umida. Gli elementi della natura diventavano vivi e, nel profondo silenzio dell’inverno del Sud, gli uomini e le donne, che riposavano al riparo di un muro di pietre, li percepivano distintamente.

Antonio, in quelle ore di riposo, se ne stava appartato, seduto sopra un sacco con le spalle appoggiate ad una ruota del carro e attendeva la folata di vento che lo facesse viaggiare lontano. Vagava attraverso le chiome degli ulivi, fin dove non aveva più percezione di nulla e gli sembrava di volare, invisibile con il vento e di diventare salsedine, nuvola e aria. Ma volando non passava mai sulle ragazze che lo facevano oggetto dei loro pensieri, perché i luoghi che egli visitava non erano abitati. A volte viaggiava addirittura al buio, avvolto in un involucro di caligine lieve e impalpabile.

Non era mai il primo a rimettersi in piedi, perché decidere l’ora di ripresa del lavoro non spettava a lui; attendeva sempre che le donne si avviassero e poi si muoveva. Sistemava la coperta al cavallo, al quale dava nuovamente da bere, e poi, con in mano il sacco da riempire, lentamente si avviava verso le donne.

Quando non era cattivo tempo, le donne lavoravano fino a che ci si vedeva. Antonio per allora aveva già attaccato il cavallo ed aveva caricato i sacchi pieni sul carro. Le donne gli portavano gli ultimi panieri ed egli sistemava il carico in modo che loro vi si potessero sedere sopra. Si partiva per tornare a casa.

Man mano che il carro si avviava lungo lo stradone, le donne sembravano rianimarsi e non erano silenziose come al mattino, una ben visibile agitazione le prendeva tutte. Le anziane perché era finita una giornata di fatica e tornavano a casa, le giovani con il pensiero alla funzione serotina e alla possibilità di scambiare un’occhiata o qualcosa di più con un giovanotto. Se tornando dalla chiesa si attardavano, sapevano di potersi buscare qualche ceffone, ma vi erano preparate.

Sulla strada incontravano altri carri che pure riportavano a casa donne e tanti erano i carri tanti erano i cori che si muovevano nella sera. Anche con il freddo nel ri torno verso casa, le donne cantavano.

Antonio, se riceveva lo stimolo giusto da arie consone al suo carattere, si distraeva dai suoi pensieri e cantava con le donne: con una voce maschile, anche se ancora non molto marcata, il coro acquistava più vigore. Quando si lasciava trasportare dalla canzone, cantava il ritornello con tutta la forza della sua voce e si sentiva trasportato lontano lontano e sicuro di sé. Per le ragazze diventava il giovane più desiderabile del paese.

Il cavallo che come le donne era contento di tornare a casa, procedeva ad un trotto lento ma cadenzato, mentre il vento di tramontana prendeva d’infilata la strada. Le donne se ne stavano accucciate sui sacchi pieni, alle spalle di Antonio che ogni tanto stimolava il cavallo ad andare più in fretta.

Quando entrarono in paese, le campane della chiesa chiamavano puntuali alla funzione della sera e il coro si interruppe su questa strofa:

«L’acqua ci te llavi la matina,

te preu Ninella mia nu Ila minare.

A dhu ci la mini tie nasce nna spina,

nasce nna rosa russa pe ‘ndurare».

 

(capitolo secondo de “L’Eroe Antico”, stampato a Milano
nel 1980 e segnalato dalla Giuria del Premio Stresa)

Funnucrudeu

(Inedito)

testo e foto di Giorgio Cretì

Funnucrudeu era una proprietà coltivata da quattro mezzadri, cioè da quattro famiglie, ed era suddivisa più o meno equamente in quattro partite ognuna costituita da una buona parte di bassura arativa e da un’area più piccola di cuti1). Tutte le bassure erano coltivate, i cuti solo in piccola parte, con le zappe naturalmente. Il resto era lasciato alla flora spontanea: al timo, ai fùmuli(2) e alle fracilische(3) che una volta secchi venivano raccolti per il forno. Spontanei crescevano anche i lampascioni(4).

Le colture più praticate erano costituite da orzo, grano e piselli, a seconda delle rotazioni. Non si coltivavano ortaggi perchè il fondo era lontano dal paese e c’era soltanto un piccolo ricovero semi diroccato, segno di un’epoca in cui c’era stata la vigna distrutta poi dall’attacco della fillossera alla fine dell’Ottocento. C’era anche una cisterna, ma non mateneva più l’acqua perchè era stata a lungo trascurata ed ora dentro c’erano delle grosse pietre buttatevi chissà da quali mani vandaliche. Per bere bisognava approvvigionarsi alla cisterna di un fondo vicino tenuta sempre in ordine. D’inverno, però, c’era acqua pulita sui cuti di Funnucrudeu, in certe conche naturali impermeabili a forma di cono rovesciato, che venivano tenute regolarmente pulite dalla terra e dalle erbe.

fracilisca (Ferula communis)

Funnucrudeu era ripartito tra Raffaele della Luna, Rafeli, Angelo Cisterna, Ancilu, suo fratello Rocco e la famiglia di una loro sorellla che si chiamava Gesira. Quell’anno Peppino aveva imposto di seminare avena, un cereale che a lui serviva ma non ai mezzadri che avevano dovuto subire il sopruso. A loro servivano il grano, l’orzo ed i piselli. Anche se questi ultimi, coltivati lì, non erano molto apprezzati, però, perchè la terra scarseggiava di certe sostanze minerali e non era adatta per i legumi: non cuocevano mai.

La terra rossa veniva lavorata al secco nei mesi estivi dalle zappe di due chili e mezzo che rivoltavano ernormi zolle puntando nelle spaccature del terreno. Raffaele, con il gomito sinistro poggiato sull’anca, piano piano e da solo zappava al secco tutta la sua partita.

La terra poi veniva era arata da Peppino D’Aprile, il padrone, in autunno dopo le prime piogge che ammorbidivano le grosse zolle rimaste al sole tutta l’estate. Peppino aveva un solo cavallo bianco, paziente come un asino, che assolveva il suo compito come poteva. L’aratro era quello di legno con il timone a forca e il vomere a punta triangolare. I coloni, mezzadri, arrivavano a piedi la mattina presto e risalivano al paese la sera tardi.

Erano sopravvissuti i fichi piantati ai margini della proprietà lungo i confini e addossati ai muri a secco ancora ben tenuti. I frutti prodotti dalle vecchie piante andavano tutti a Raffaele che se li faceva stimare, circa due tomoli(5), e li consumava tutti per mirenna(6) quando zappava. I figli giovani degli altri mezzadri, però, quando arrivavano prima di lui gli rubavano i più belli e li mangiavano loro, a volte glieli portavano via soltanto per fargli dispetto. Questo a lui dava molto fastidio perché era geloso delle sue cose e il giorno che se ne accorse, arrivò prestissimo e raccolse tutti i fichi, maturi e acerbi. Scavò una specie di cassettone in mezzo alle zolle assolate, vi sistemò tutti i fruttti e li coprì di fùmuli e zolle di terra. I ragazzi non tardarono ad accorgersi dell’operazione e stettero all’erta. Non tardarono a scoprire che durante le soste per la mirenna, quando si riunivano tutti assieme all’ombra, Raffaele lasciava gli altri e con una scusa qualsiai andava in un punto della terra zappata e fingeva di muovere qualcosa con la zappa. Poi infilava le mani sotto le zolle e al tatto sceglieva i frutti più buoni da mangiare.

ficus carica

E consumava la bellezza di circa due tomoli di fichi verdi a mirenna. I ragazzi che avevano scoperto il suo segreto e volevano portargli via il tesoro, furono fermati da Angelo che fece la voce grossa, usando anche qualche bestemmia.

Poi arrivò l’autunno con le piogge. Peppino faceva i solchi ed i mezzadri con grande perizia spargevano dentro i semi man mano.

Passò anche l’inverno e dopo la sarchiatura arrivò anche il tempo delle messi. Era abitudine recarsi a mietere tutti assieme.

Ficus sicomorus

Decisero quell’anno di mietere la mattina della festa di Sant’Antonio, anche se Raffaele aveva aderito soltanto pensando di tornare a casa ad una certa ora per andare a messa. Lui andava sempre a messa. E la Nena, sua moglie, lo sapeva bene. Giunse il momento in cui secondo Raffaele bisognava smettere e tornare in paese e cominciò ad agitarsi. Nona diede una voce a Gesira che era più vicina.

“Gesira?”, disse.

“Che cosa c’è, Nona?”, disse Gesira.

“Voi non andate a messa?”.

“No”, intevenne Angelo secco, “No. Visto che ci troviamo finiamo di mietere, poi la festa a Sant’Antonio la facciamo stasera”.

“Nona ce n’andiamo? Andiamo a messa”, tagliò corto Michele alla moglie.

“Stai zitto”, rispose lei, se no loro finiscono di mietere prima di noi”.

“Sangue così”, insistette Raffaele, “che noi non abbiamo neanche portato il pane per la mirenna”.

“Ancilu”, chiese lei, “non avete qualche frisella in più che noi non abbiamo portato pane?”.

“Sì, Nona, ce l’abbiamo”, rispose Angelo e fece cenno a Gesira di darle il pane.

“Ecco Raffaele”, disse Nona, “tieni il pane”.

Fu un attimo, Raffaele prese una frisella e gliela fiondò sulla schiena come una sassata.

“Se vuoi lavorare lavora, io me ne vado”.

E scaraventò in terra anche l’altra frisella assieme alla falce dentata.

Muscari comosum

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(1) Cuti. Rocce superficiali, affioranti.

(2) Fumuli. Iperico (Hyperiicum perforatum).

(3) Fracilisca. Specie di Ferula nana (Ferula communis L.).

(4) Lampascioni. Gigliacea spontanea (Muscari comosum) con poche foglie lineari erette e fiori violetti a ciuffo molto belli a vedersi. Se ne consumano i piccoli bulbi globosi di color rosso-vinoso chiaro, soprattutto nell’Italia meridionale. A seguito delle grandi migrazioni verso il nord il consumo si è esteso a tutto il territorio nazionale ed il nome toscano è stato sostituito con quello pugliese di lampascione. I bulbi si utilizzano di solito in insalata, previa cottura in acqua bollente, conditi con olio, sale, pepe e aceto; si consumano anche in altri modi: alla genovese, fritti, dorati, etc.

(5) Tomolo. Equivalente a 2 mezzetti, a 4 quarte, a 24 misure e a55,545113 litri (legge 6 aprile 1840 di Ferdinando II).

(6) Mirenna. Colazione mattutina dei contadini.

La pesca con le “botte”

Rammendo delle reti – Castro 1966 (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

Tutti i mercoledì la gente di Castro si reca­va al mercato di Poggiardo. A piedi. Andava­no tutti scalzi e con le scarpe legate tra di loro per i lacci ed appese ad una spalla. Non facevano grandi acquisti, perché di soldi ne avevano pochi, ma andavano ugualmente, specie d’inverno quando il tempo non permetteva di uscire in mare; anche se poi acquistavano solo qualche chilo di verdura. A Poggiardo compravano anche la canapa ed il cotone che poi davano da filare a Mastro Pativito, per le lenze e per le reti.

Nunzio andò anche lui al mercato, a fare provvista di materia prima. Comprò da Elia, dove andava sempre per questo genere di spese, un chilo di co­loratu – sali di acido clorico –,   mezzo chilo di solfuro di antimonio, che era una polvere nera come il carbone e pesante come il piombo, ed un quarto di pece greca. Nascose il tutto in fondo alla bisaccia e di sopra vi pose un paio di chili di cavoli ed una manna (un mannello) di canapa grezza.

Tornando a casa pensava alle sarpe(1). Le aveva osservate per un po’ di tempo, sotto uno scoglio alle Striare. Perlamadonna, si andava dicendo, devo prenderle! Dieci, quin­dici chili di sarpe gli avrebbero fatto proprio comodo, a venderle se ne poteva ricavare al­meno settanta lire. Tutti i giorni, ad una cer­ta ora, andavano lì a brucare le alghe alla foce di un fiumicello sotterra­neo – erano ghiotte di quell’erba morbida che i pescatori chiamavano erba di seta –. Co­me le pecore, pensava Nunzio, sono proprio come le pecore, per la loro madonna!

Giunto a casa si mise subito all’opera. Ma­cinò nel mortaio la pece greca e la passò al se­taccio della farina, poi prese un pezzo di car­ta azzurra, di quella che allora veniva usata per involgere la pasta, e con la massima at­tenzione cominciò a fare la miscela per le botte. Bisognava fare tutto con arte e perizia. Quello non era un mestiere da pulcinella, ma di gente seria; qualcuno che ci si era messo a farlo senza conoscerne bene l’arte, o ci aveva rimesso la vita oppure era rimasto mutilato di una mano o, anche, di un occhio. Nah, perlamadonna!  Bisognava  assolutamente evitare l’attrito tra le diverse polveri, adesso. Non c’era pericolo di esplosione, ma la mi­scela poteva incendiarsi e bruciare come bru­cia la benzina. Chi gli dava poi le sette lire per andare ancora da Elia? A credenza, ad uno come lui, non dava niente nessuno! Pre­se un altro pezzo di carta, ne fece una specie di cilindro, piano piano lo riempì di miscela e pressò bene il tutto. Mise la miccia, che per il lancio che aveva in mente stimò sufficiente della lunghezza di mezzo fiammifero, chiuse l’ordigno e lo legò stretto con lo spago, come si legano le cartucce dei fuochi d’artificio. Nascose ogni cosa in un posto dove i bambini non  potevano arrivare e scese al Porto per altre faccende. La sua vita era lì.

La sera andò a letto presto, come di con­sueto, anche prima dei bambini. La moglie rimase a rammendare alla luce di una piccola lampadina di quindici candele.

Adunata al vecchio porto – Castro 1966 (ph Giorgio Cretì)

Aveva mangiato poco e sognò molto. Un branco di cefali, di oltre mezzo chilo l’uno, continuava a girare vicino alla sua postazio­ne, ma non veniva mai a tiro ed egli si girava e rigirava nel letto. Poi la visione dei cefali svanì ed egli dormì tranquillamente per qual­che ora.

Si trovò seduto sopra una roccia. Poteva essere il mese di giugno e dal mare soffiava una leggera brezza di scirocco, increspando appena appena le onde che battevano sotto di lui e si frantumavano in spuma frizzante. Stava lì seduto ed attento perché era l’ora in cui le sarpe venivano al pascolo. Teneva pog­giata sulla roccia, alla sua sinistra la bomba pronta per essere innescata e lanciata e alla sua destra teneva accesa una vecchia corda di gabbia di frantoio avvolta stretta con un pez­zo di rete. La corda imbevuta di olio emana­va un acre odore di lucerna.

Aveva anche pronto il coppo(2) a portata di mano, per buttarsi in mare dopo l’esplosione e raccogliere i pesci che sarebbero venuti a galla riversi.

Le sarpe non si facevano vedere. Eppure, perlamadonna!, era l’ora. Controllò l’ordi­gno e ne osservò bene la miccia, tutto era a posto.

Stava con gli occhi fissi al mare, quando intravide sotto il pelo dell’acqua il branco che si avvicinava. Attese che i pesci si avvici­nassero di più e, intanto, con la sinistra prese la botta e ne verificò ancora la miccia. Senza voltarsi allungò la destra per prendere la cor­da accesa e… sentì al tatto una cosa fredda e viscida che non si attendeva, una sacara(3) perlamadonna!, e, d’istinto, scaraventò tutto in acqua.

Si svegliò di soprassalto e si rese conto ch’era ora di alzarsi. In casa tutti dormivano profondamente.

Si infilò in fretta i calzoni, li legò con un pezzo di corda resa rigida dalla salsedine e in­dossò un maglione scuro che aveva comprato chissà quando. Mise in tasca due botte ed uscì. Dalla posizione delle Pleiadi potevano essere le tre e mezzo.

Prese il ripido sentiero che collegava a mo’ di strada diretta il paese alla marina e, quando giunse nel punto in cui questo tagliava la litora­nea, trovò la macchina della Finanza che fa­ceva il giro d’ispezione notturno. Cercò di ti­rare diritto, ma il brigadiere lo chiamò.

“Hei, Nunzio, dove vai?”

“Stavo scendendo al Porto”, Nunzio ri­spose fermandosi. Apparentemente era cal­mo.

“Sali che vieni con noi”, lo invitò il briga­diere.

“Grazie, comandante, disse Nunzio, giù di qua sono già arrivato”.

“E sali..”., lo invitò ancora il brigadiere.

E Nunzio salì e con loro fece il giro di Santa Croce. Nessuno dei finanzieri parlò finché non giunsero sulla piazzetta del Porto.

“Che cosa bevi, Nunzio?”, chiese il briga­diere mentre entravano nel bar di sotto.

“Il compare lo sa, Nunzio disse, compare dammi un Sammarzano”. Pensò che le guar­die erano brave persone, ma siccome le pre­cauzioni non erano mai troppe, disse: “Per­messo un momento, quanto vado qua dietro a urinare”.

Uscì con molta calma, ma appena fuori controllò con la coda dell’occhio i finanzieri e si diresse di corsa verso la parete rocciosa. Prima trasse di tasca le due botte e le nascose in una fessura e poi urinò. Allora tornò al bar, non solo tranquillo, ma anche spavaldo.

“Dov’eri?”, finse di chiedergli il barista.

“Come dov’ero, perlamadonna! Ho detto che andavo fuori a urinare! Dammi il mio Sammarzano, dammi! E ne vogliamo noi di questi!”, disse alzando il bicchiere e schiz­zando l’occhio al compare.

“E ne vogliamo!”, confermò il barista, che sapeva molto bene di quale piede Nunzio zoppicasse.

I finanzieri, bevuto che ebbero, se ne an­darono verso Tricase. Nunzio salutò, andò a riprendersi ciò che aveva prima nascosto e scese al porticciolo. Aveva i suoi attrezzi in una delle grotte naturali ai piedi del monte, li raccolse e li portò nella barca.

Tirò su la mazzara(4), slegò la zuca(5) dell’ormeggio e, remando con ritmo lento ma vigoroso, si avviò verso la Punta Mucurone.

L’alba si preannunciava radiosa.

Sarpe, salpe.

Coppo, retino.

Sacàra, sorta di serpe di considerevoli dimensioni. E’ il Cervone o Colubro a quattro righe che può raggiungere il peso di 3 chili e la lunghezza di 260 centimetri. Una diceria popolare voleva che la sacara, molto ghiotta di latte, durante la notte succhiasse alle mammelle delle donne mettendo la sua coda in bocca ai bambini per farli star buoni.

Màzzara, àncora.

Zuca, generalmente corda di sparto o di giunco, la meno resistente e la meno costosa, in questo caso cima d’ancoraggio.

 

(“il Rosone” – Anno VII n. 4-5, 1984)

Si conclude la saga di Cretì. Ippazziantonio si accasò…

Fidanzata e sposa

di Giorgio Cretì

Alla fine, poi, Ippazziantonio si accasò e con una ragazza alla quale era arrivato da solo, direttamente, senza alcuna intermediaria o ruffiana.

Era ancora il tempo delle sanzioni economiche all’Italia, dell’autarchia fascista e della raccolta di derrate alimentari gestite dallo Stato, nonchè dell’occultamento  di ciò che veniva sottratto all’ammasso. Doveva essere dichiarato qualsiasi raccolto, anche se si trattava di pochi tomoli, poi le autorità decidevano qual era il fabbisogno del contadino-produttore.

Tabacco al sole (ph Giorgio Cretì)

La gente nascondeva di tutto, però: grano, legumi, olio e soprattutto tabacco, nei posti più impensati ed a poco servivano le ispezioni, che, per la verità, non erano molto fiscali. Si coltivava il tabacco ma i fumatori, per mantenere il vizio, non potevano adoperarlo e dovevano comprare quello del Monopolio. Qualcuno per nascondere l’olio aveva escogitato un sistema molto originale: scavava una buca nel terreno, vi sistemava, per esempio, una giara piena d’olio e poi copriva con una lastra di pietra e con la terra; quindi, piantava le fragole o il prezzemolo che innaffiava regolarmente. I muri a secco delle strade campestri nascondevano il tabacco migliore che i contadini fumavano durante le soste dal lavoro. I caini della Finanza per sorprenderli con il contrabbando, a volte dovevano rimanere acquattati per ore e per mezze giornate per poter appioppare loro una contravvenzione.

Dal mese delle messi alla Madonna del Rosario quasi tutti gli abitanti dei paesi si trasferivano in campagna e dormivano anche in ricoveri di fortuna; principalmente per la coltura del  tabacco e poi per gli ortaggi in genere, i pomodori e la raccolta dei fichi da seccare per i mesi invernali quando si tornava ad abitare in paese.

Dopo la disfatta di Cerfignano, dove aveva rischiato di rimetterci le cuoia, Ippaziantonio aveva preso a frequentare la Madonna di Costantinopoli, una

La fidanzata di Marittima

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Ippaziantonio, questa volta, si era trovata una fidan­zata a Marittima e l’andava a trovare in bicicletta. Tutti, allora, andavano in bi­cicletta, soprattutto i giovani che si spostavano da un paese all’altro per i loro svaghi.

Esisteva una procedura particolare per trovarsi la fidanzata, che in certi ca­si diventava complessa, ma bisognava seguirla perché era la regola. Un giovane non si avvicinava ad una ragazza per strada né le si accostava in alcun luogo pubblico. Tutto sommato, però, l’ap­proccio non era difficile, nemmeno per i più timidi. Era necessario avere una in­termediaria, ecco! Bastava che il giova­ne manifestasse le proprie intenzioni al­la ruffiana, che in ge­nere era persona già conosciuta e si pre­stava a questo tipo di ambasciate, e le di­cesse che gli piaceva la Tizia. La ruffiana riferiva e poi portava la risposta, che di solito era di attesa: non lo conosco, bisogna che lo veda. Così il giovane faceva in modo di essere visto e se la ragazza gli mandava a dire che era interessata, la cosa era fatta. A questo punto la ruffia­na poteva anche togliersi di mezzo, ma spesso era lei stessa ad organizzare il primo incontro.

Diversamente, bisognava ritentare e, in tal caso, il ruolo della intermediatrice ed il suo prendersi più o meno a cuore il caso erano molto importanti.

Così Ippaziantonio si era trovata quel­la fidanzata ed ora era giunto il giorno, il due di luglio, del patrono di Marittima. Egli l’aveva atteso, non per San Vitale, a cavallo di un baio che sembrava un asi­no – altro era il cavallo bianco di San Giorgio –. Del santo ad Ippaziantonio non importava proprio nulla. Gli importava, invece, incontrare la fidanzata e “parla­re” un po’ con lei. Si diceva

Faccellavatu

coll. priv. Giorgio Cretì (riproduzione vietata)

di Giorgio Cretì

Biagio Sannimaro giunse nel pomeriggio inol­trato di un’afosa giornata d’agosto. Era stato in giro tutta la mattina montando uno di quei caval­li arabi che il barone aveva acquistato di recente e che si erano dimostrati ottimi anche per il dipor­to e per la caccia. Egli aveva il compito di batte­re ogni giorno il territorio delle due masserie che con il loro feudo costeggiavano il litorale adriatico e, quando vi passava vicino, si fermava al casino a conferire con il barone oppure a scambiare due chiacchiere con il casiniere che, come lui, parlava volentieri, e per ristorare il cavallo.

A volte, quando d’inverno la famiglia del ba­rone non c’era, dormiva lì, ma la sua residenza fis­sa era alla masseria Bruficu(1).

Durante la notte non era calata muttura(2) e, av­vicinandosi alla zona la mattina presto, egli si era soffermato qua e là a parlare con i mezzadri sparsi per la campagna. Le macchie di terra rossa zappata rompe­vano ogni tanto la monotoria delle stoppie brucia­te delle grandi colture cerealicole. Vicino ai casolari sparsi i contadini coltivavano anche piccole strisce di cotone e pomodori, dolici(3)  e altri ortaggi, quanti se ne po­tevano permettere in base alla capacità delle ci­sterne di acqua piovana che avevano a disposizione.

Intorno a quelle costruzioni dall’architettura molto essenziale, lussureggiavano a filari le chio­me dei fichi, grande fonte di frutta secca per l’inverno.

ph Giorgio Cretì

Poi i sentieri che Biagio aveva percorso si inoltravano fra i grandi boschi di ulivi, o in mezzo alle vigne, per perdersi nella macchia bassa che copriva un largo tratto dalla parte del mare. Se n’era andato, in quell’intrico di arbusti, un po’ al trotto e un po’ al galoppo, con il cavallo che sembrava divertirsi a volare sopra lentischi e ginepri spinosi, come ricordasse le scorribande di un suo

La fidanzata di Depressa

Il Municipio di Ortelle (ph Antonio Chiarello)

di Giorgio Cretì

Quella volta Ippaziantonio aveva puntato abbastanza in al­to: alla figlia del segretario co­munale di Depressa, e, natural­mente, per avere la vita più faci­le e darsi un’immagine di perso­na per bene, si era fidanzato in casa.

Nell’occasione si era spac­ciato per impiegato comunale. Aveva potuto farlo perché era di carnagione chiara e nessuno, che non lo conoscesse bene, l’avreb­be creduto un contadino che zap­pava dalla mattina alla sera. In più, in quel periodo era stato ma­lato e l’aspetto di colui che sta esposto tutto il giorno ai raggi del sole e alle intemperie non l’aveva proprio.

Innocente Sucamèle, con il quale poi divenne compare, allo­ra aveva la fidanzata a Tricase e lì andava in motocicletta la sera e quando era festa. Anche Ippa­ziantonio andava con lui e si faceva lasciare a Depressa, dove, al ritorno, Innocente passava a pren­derlo e tornavano a casa assieme.

Avenne che (c’era sempre qualche avve­nimento a guastare le cose), avvenne che in quell’anno si faceva il censimento della po­polazione ed il Segretario di Depressa pensò bene di farsi dare una mano dal futuro gene­ro, visto che era già addentro alle pratiche amministrative del suo Comune. E glielo chiese aspettandosi entusiasmo ed una rispo­sta affermativa subito. Ma Ippaziantonio, che pure all’istante fu colto alla sprovvista, lungi dal farsi prendere in castagna, rispose che l’avrebbe fatto molto volentieri, dopo aver

La fidanzata di Spongano

di Giorgio Cretì

Ippaziantonio, o Patintoni,  in quel periodo aveva la zita, la fidanzata, a Spongano e da lì andava e tor­nava in bicicletta. Ma andare e venire così, semplicemente, non poteva durare a lungo e ora, dopo quasi un mese, sia la Nina, la zita, che i suoi parenti gli imponevano di presentarsi con i suoi.

Con quasi tutte le fidanzate che aveva avuto era sempre andato in casa e questo comportava una certa tranquillità rispetto al fidanzamento scusi, di nascosto, che ri­chiedeva continui stratagemmi per potersi incontrare con la ragazza, ma comportava anche la difficoltà, di notevole peso, che prima o poi i genitori del fidanzato dove­vano recarsi in casa della fidanzata e su­gellare così un patto prematrimoniale che diventava impegnativo anche agli occhi della co­munità.

Ippaziantonio continuava a tergiversare, ma quelli insistevano. “Sì, sì egli diceva, li porterò”. Ma sapeva molto bene che non avrebbe potuto: sua madre non gli avrebbe nemmeno lasciato fare la richiesta e suo padre, come minimo, gli avrebbe assestato un paio di calci nel culo, anche se solo a parole. Gli rimaneva, perciò, solo una pos­sibilità: cercarsi un’altra fidanzata. Ma siccome non poteva abbandonare il terre­no così presto, ne inventò una delle sue.

C’era allora in paese una donna povera che si chiamava Concetta, tanto povera che a malapena riusciva a mangiare tutti i giorni. Ippaziantonio si recò da lei.

“Concetta”, disse subito dopo averla salu­tata, “vogliamo fare un negozio?”.

“Che cosa devo fare, Ippaziantonio?”, disse la donna incuriosita.

“Devo portarti in un posto, a casa di una mia fidanzata, e tu devi venire con me, come se fossi mia madre. Se vieni è sicuro che ci scappa una buona mangiata”.

Concetta, che per una buona mangiata avrebbe fatto chissà che cosa, perché in casa sua la fame aveva dimora stabile, fu subito inte­ressata alla proposta, ma gli fece capire che c’era qualche difficoltà da superare. Esistevano limiti

La fidanzata di Cerfignano

Resti del feudo San Giovanni Calavita (ph Maria Cretì)

di Giorgio Cretì

(Inedito)

Col solito sistema dell’ambasciatrice-ruffiana, più volte collaudato, Ippaziantonio s’era cercata una fidanzata a Cerfignano: lì conosceva diversa gente ed aveva anche dei parenti. Ma Cerfignano non era vicino come Spongano o Marittima e la strada da fare era molta di più perché c’era da fare il giro dalle Vele di Santacesarea con una bella salita che partiva dalla vora di Vitigliano. L’inizio non era stato difficile, come sempre, perché il suo bell’aspetto faceva sempre colpo sulle giovani ragazze. Aveva messo gli occhi su una brunetta che aveva visto più volte prendere acqua alla fontana del largo Cànica(1) e le aveva inviato la sua ambasciata proprio con una parente che si chiamava Tetta, cioè Concetta. Per la cronaca, quella fontanella  esiste ancora, ma le hanno cambiato posto perché veniva ripetutamente abbattuta dai parcheggiatori distratti.

L’ambasciata era stata gradita, ma la ragazza non era riuscita a farsi trovare sola in luogo appartato nemmeno una volta: tante occhiate furtive e tanti sospiri, ma nessun incontro intimo, soprattutto perché il padre di lei che era un gran lavoratore era anche uomo un po’ violento e per tale ragione anche  la madre di lei non aveva avuto il coraggio di rischiare di portarsi in casa il ragazzo.

Così Ippaziantonio andava e veniva da Cerfignano tutte volte che poteva scappare con la sua bicicletta, ma più di qualche occhiata di soppiatto non ne aveva ricavato, anche se qualche volta era riuscito ad accompagnarla fino a casa sulla via per Cocumola. E proprio in una di quelle occasioni aveva notato che vicino alla casa di lei, proprio addossato al muro, c’era un palo della luce che sembrava messo lì

Il muto

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Lo chiamavano “Muto”, non perché non possedesse il dono della favella, ma perché parlava pochissimo e solo con poche perso­ne. La gente non sapeva dire da dove venis­se. Chi si ricordava di quando era arrivato, e chi lo aveva sentito parlare qualche volta, di­ceva che doveva essere di un paese in fondo al Capo, dalle parte di Gagliano. Tore Capijancu ricordava che un giorno si era presen­tato alla Petrosa, una sua cisura(1), e gli aveva chiesto se poteva fare qualche prova sopra una spianata di roccia affiorante, co­perta solo di licheni e di qualche arbusto. Si era presentato con un piccone da cava, una pala ed un sacco, dentro cui teneva poche sue cose.

Tore non aveva avuto nulla in contrario, perché proprio di quella cutara(2) non sape­va cosa fare, anzi gli aveva dato anche il per­messo di dormire nel pajaru(3) costruito al­la buona, anche se solido, che serviva da ri­paro in caso di pioggia.

Così Sante, che questo era il suo nome, aveva iniziato a spianare quella chiancara(4), partendo dalla linea che segnava il con­fine con la strada campestre. Secondo lui, lì c’era un banco di roccia buono da sfruttare per qualche anno.

Tore non ci credeva perché nessuno ave­va mai provato a saggiare la pietra in quella contrada e se ne era andato a zappare in un pezzo di terra, bonificata dalle pietre, che in autunno intendeva mettere a grano.

Sante aveva poi comincialo a tagliare, con fessure a caso, e senza misure, la roccia di superficie. Quindi con la ucca del suo pic­cone, la parte larga e corta

Maletiempu a Porto Badisco

Il faro di Punta Palascìa

testo e foto di Giorgio Cretì

 

Da Castro ad Otranto non c’erano approdi se non la caletta di Porto Miggiano che, in casi estremi, poteva servire da rifugio di fortuna. Adesso non c’è più perchè è crollato tutto.

A Santacesarea non c’erano barche e non c’erano neanche marinai, così come non c’erano barche e marinai al Porto Badisco di Uggiano. Durante la bella stagione le barche di Castro andavano agli Archi ed anche a Sant’Emiliano la mattina e tornavano a casa la sera.

Finché un certo Ponente non prese moglie a Uggiano e diede inizio ad una piccola comunità di gente di mare part time. A Porto Badisco allora non c’era nessuno, non c’era nessuna delle case che si vedono adesso. C’era soltanto quella palazzina centrale di fronte a Pippi de mesciu ‘Ndrea, subito prima della bottega che vende cozze tarantine e ricci per chi ama deliziarsi il palato con le squisite cruditès locali. Pippi era detto Balilla e faceva il commerciante; suo padre si chiamava Guerrino. Insomma, questo Pippi, avvicinò al mare anche gente di terra che aveva sempre esercitato altri mestieri: uomini che pur rimanendo furesi(1) e zoccaturi(2), divennero anche pescatori.

Erano anni di miseria, quelli, e conseguentemente di fame. La gente la mattina usciva di casa con il pane per la giornata e spesso lo guardava e si voltava dall’altra parte per non cadere nella tentazione di mangiarlo subito. Parte degi uomini di Castro si imbarcavano sui pescherecci calabresi dello Jonio o su quelli di Monopoli, Molfetta, di Bari e riuscivano a guadagnare fino a cinque lire al giorno; le loro donne andavano alla masseria Girifalco di Ginosa, per la stagione del tabacco; i bambini rimanevano a casa di qualche parente. Gli uomini che che non andavano via si arrangiavano come potevano: con barche a quattro remi uscivano fino a metà del canale con i loro conzi(3) di sei-settecento ami, che calavano a cento, centoventi passi di profondità, e quasi sempre usciva loro la giornata, ma a volte tornavano a riva a debito, senza guadagnare neanche una lira.

Era l’inizio della Primavera e una di queste barche con quattro uomini a bordo che pescava non lontano dal porto di Otranto, aveva salpato le reti  gettate la sera prima ed aveva portato a riva quasi un quintale di spicaluri(4)

Punta Palascìa

Non era stata una pesca miracolosa, ma visto che allora si camminava per la fame, nessuno si era lamentato. Il giorno successivo, però,  non avevano preso niente e tutti d’acccordo decisero di tornare a Castro. Il cielo era coperto, nero come la fuliggine, ma il mare era piatto, calmo come una tavola. Il più anziano dei quattro, però, cominciò a dire che quel tempo non gli

Fuga d’amore

Ortelle (ph Giorgio Cretì)

di Giorgio Cretì

Antonio aveva ereditato un giardino sulla strada vecchia per andare a Poggiardo, un luogo intimo, hortus conclusus cintato da alti muri di pietre a secco. Lì, come aveva imparato da suo padre teneva il ben di Dio di frutti e tanta verdura che bastava per la sua famiglia e ne cresceva anche. E lì trascorreva molto del suo tempo quando non era impegnato come autista di piazza a portare i ragazzi a scuola o le donne al mercato; d’estate per la frescura e d’inverno perché era al riparo dai venti di tramontana o di scirocco che spesso soffiavano molto fastidiosi sia per gli uomini che per gli animali. Aveva una casetta di un solo vano ed un ricovero per l’asino e per la pecora.

Una pianta di mele cotogne portava certi frutti mai visti da quelle parti che facevano gola a quanti passavano e li vedevano appesi ai rami che superavano il muro di cinta. Antonio era stato attento a non far pendere l’albero sulla strada, per non indurre in tentazione, ma le mele cotogne venivano rubate sistematicamente ogni anno da qualcuno che si arrampicava a raccoglierle dall’esterno. Il fatto lo contrariava; se li volevano per metterli nel comò a profumare la biancheria, potevano chiederli perché lui glieli avrebbe dati volentieri, ce n’eran tanti, ma gli dava proprio fastidio che glieli rubassero mentre lui era a casa. Così quell’anno decise di scoprire il ladro e una mattina se n’andò al giardino prestissimo; per non essere visto fece il giro da lontano e attese sotto l’albero dietro il muro. Non passò molto che sentì passi lesti e leggeri di donna che si avvicinavano, poi qualcuno si arrampicò sul muro e iniziò a staccare dai rami i frutti più belli e più gialli, con naturalezza come fossero suoi. Allora Antonio riconobbe la donna e la chiamò per nome; quella non si scosse e continuò a raccogliere i frutti che riusciva a raggiungere. “Ehi, comare Palmira”, disse, “ma tu lo sai che quest’albero l’ha piantato mio padre e che le cotogne sono mie?”

“Lo so”, disse la donna affacciandosi dal muro, “lo so, è che quando passo e le guardo sento che mi chiamano”.

“Ah sì”, disse Antonio, “e tu fai finta di non sentire e tira dritta”.

La donna se n’ando con i pochi frutti raccolti, come se nulla fosse accaduto, ma Antonio decise di raccoglierli lui quelli rimasti e di portarli a casa per conservarli nella paglia.

Le nuvole basse spinte dal vento di scirocco quasi lambivano le cime degli alberi e incupivano la giornata. Comunque, alla fine d’ottobre spesso il tempo era così.

Di lì a poco venne a trovarlo Angelo Vito, il proprietario delle macchine da noleggio. Per qualche minuto parlarono del più e del meno poi Angelo Vito cambiò discorso. “Ascoltami bene compare”, disse, “c’è da compiere un’azione decisa e per compierla ci vuole la tua faccia”.

“Cala”, disse Antonio, “dobbiamo fare uno sbarco in Grecia?”

“No”, disse Angelo Vito, “no. Conosci Cosimino Fracilisco, no?”

“Sì che lo conosco, figurati…, e conosco anche tutta la sua famiglia, tredici o

Rosario

 

di Giorgio Cretì

Quante genti erano passate per quelle contrade aride, seccate dal sole eppure opulente in certe stagioni. Genti che prima era­no venute dal mare esuli dalle loro ricche e civili città e lì avevano  trasportato i loro usi, i loro costumi, le loro divinità, la loro cultura e le loro colture.

Poi erano venute altre genti ed il più forte aveva sempre avuto ragione del più debole. Così i Romani avevano vinto i Messapi ed i Goti i Romani. Così quelle aride contrade, che schiudevano le porte del mare, erano state colonie dei Bizantini, dei Longobardi, dei Saraceni, dei Normanni, degli Aragonesi, degli Spagnoli, degli Austriaci e dei Savoia.

Ma Rosario queste cose non le sapeva, anche se in lui c’era la somma di tutte quelle genti; al massimo aveva sentito raccontare qualche leggenda che si riferiva alle scorrerie dei pirati o qualche fatto che aveva per protagonista il brigante Serafi­no che si nascondeva nei fitti boschi del Belvedere e la cui cappa serviva ad aprire qualsiasi porta.

Eppure di segni ce n’erano a testimonianza di tanta storia. Lì, giù verso Malepasso, alta sul mare c’era una torre di quelle fatte costruire da Carlo V che era collegata a vista con altre più o meno dirute, sempre alte sul mare, verso Tramontana e verso Scirocco e poi c’erano le masserie Grande e Piccola, retaggio dell’organizzazione agricola che aveva introdotto le colture intensive dei cereali per maggior comodità di prelievo fiscale. C’erano altri segni nei monumenti e nei manufatti di ogni tipo e le parole che egli usava tutti i giorni per comunicare erano un misto di greco e di latino, con qualche elemento di francese, di spagnolo e di arabo.

dimora rurale a Cerfignano (ph Giorgio Cretì)

Ma egli queste cose non le sapeva. Aveva sempre saputo, però, ed era importantissimo, che per campare bisognava lavorare la terra, anche quella

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