Tessere del tempo che fu

di Armando Polito

Sembra essere tornata di moda la citazione dotta, meglio in lingua originale, ammesso che chi la esibisce sia in grado poi di tradurla, correttamente,  allo sfortunato destinatario. In passato essa era la spia non solo di erudizione (la quale, però, se fine a se stessa, è solo una sottospecie della cultura, puro esibizionismo intellettuale) ma di una saggezza che aveva radici molto lontane, anzi costituiva le nostre stesse radici. Progressivamente ma rapidamente si è passati, secondo me, dalla saggezza più o meno profonda all’esibizionismo più o meno patente, e peraltro virtuale ma non per questo meno deleterio, favorito oggi in modo esponenziale da questo o da quel social network; sicché la citazione che in passato poteva essere pure sostanza oggi è quasi sempre apparenza.

Per non sembrare (sarebbe un successo già se riuscissi in questo intento…) anch’io un vacuo intellettuale da strapazzo lascerò chiudere al pensiero altrui questo post e mi abbandono, perciò, all’onda dei ricordi nel tentativo di dare concretezza ad un titolo che sembra grondare retorica da tutti i pori …

In origine (parlo degli inizi degli anni ‘50) ci fu la bicicletta, anzi uno strano quadriciclo che mostrava, montate su bracci laterali sullo stesso mozzo della ruota posteriore, due rotelle. Fungevano da stabilizzatori continui: il primo aliscafo di linea in Italia, la mitica Freccia del sole, sarebbe arrivato solo nel 1956.

immagini tratte da http://www.bicigiri.it/m01_001.htm
immagini tratte da http://www.bicigiri.it/m01_001.htm

L’eliminazione delle rotelle corrispondeva a quei tempi, in termini emotivi,  press’a poco al primo rapporto sessuale di oggi, sicché il bambino poteva cominciare ad utilizzare una bicicletta normale, magari da adulto (allora non c’erano le taglie, nemmeno per le biciclette), cioé sovradimensionata, il che comportava, specialmente se era una bicicletta da maschio con la sua brava canna (quella oggi più in voga era praticamente sconosciuta …), movimenti degni di un contorsionista per poterla usare.

Non mi meraviglierei che qualche psico- (o pseudo-?) sociologo avanzasse l’ipotesi che la presenza della canna nel modello maschile, così come la sua assenza in quello femminile, avesse un riferimento, magari inconscio (ma consapevolissimo, di messaggio subliminale,  nel progettista; ma che dico, allora pure la pubblicità era innocentemente diretta …), di natura sessuale , in senso specifico anatomica, quasi la canna, data anche la posizione del pedalatore, fosse un prolungamento del pene e la sezione di telaio curva nel modello femminile corrispondesse, in qualche modo, alla vagina. Io, appena uscito da  Ladri di biciclette e da Bellezza in bicicletta, appena entrato in Sesso di biciclette o Sesso in bicicletta1, ritengo che la presenza della canna in quella maschile non fosse neppure dovuta all’esigenza di rafforzare il telaio (anche perché all’epoca l’ideale femminile era quello della donna, se non obesa, certamente in carne e mi pare esagerato che, nonostante la scarsa considerazione del gentil sesso, le si lesinasse la sicurezza) e neppure (nonostante il fatto che i pantaloni indossati da donne che non fossero amazzoni fosse all’epoca motivo di scandalo) al fatto che l’eventuale canna avrebbe conferito alla gonna un movimento sali/scendi che sarebbe coinciso con un peccaminoso (per la donna, non per l’uomo chi si fosse trovato o si fosse dato da fare per guardare …) vedo/non vedo. E allora? Il motivo rimane sempre legato al sesso o, almeno, all’elemento che contraddistinguerebbe quello maschile, cioè la pura forza fisica, per cui era assolutamente impensabile che una donna potesse portare (o, peggio, rimorchiare) qualcuno in canna. E forse non era nemmeno solo per questo, considerando il fatto che chi pedalava manovrava pure il manubrio e i freni, insomma faceva tutto lui, era l’unico detentore del potere: e chi ha visto mai un detentore del potere (oggi maschio o femmina che sia) disposto a cederlo?

Comunque fosse, da maschio o da femmina, la bicicletta era un simbolo di movimento, di indipendenza, di libertà. All’epoca, però, c’era anche il Mosquito2, fabbricato dalla Marelli, che trasformava la bici in ciclomotore (insomma, l’antenato del Ciao, che la Piaggio avrebbe prodotto dal 1967 al 2006).

È da sempre nelle corde dell’umanità aspirare a qualcosa di più evoluto, specialmente se questo già esiste; solo che nei bambini di una volta, a differenza degli adulti che firmavano cambiali, ciò era possibile con l’unica dote che, forse  (non mi meraviglierei se fosse solo un presuntuoso abbaglio umano …), ci distinguerebbe (il condizionale rafforza la riflessione prima in parentesi e contemporaneamente rende ancor più fragile il forse precedente) dagli animali: la fantasia.

Bastava, così, nu ccappèttu3 (una molletta da bucato, solo di legno, allora … ma quasi eterna) e un cartoncino rettangolare che, dopo essere stato piegato attorno a un braccio della forcella in prossimità di una delle due ruote, vi veniva fermato con la molletta. Mentre si pedalava, il cartoncino, sbattendo contro i raggi, produceva un rumore che nella fantasia del ragazzo  equivaleva a quello del motore. C’era chi, addirittura, optava per il bimotore e applicava il dispositivo su entrambe le ruote, dopo opportuna valutazione delle controindicazioni: il doppio meccanismo, infatti, raddoppiava sì il rumore ma con la sua resistenza ai raggi anche la fatica di chi pedalava.

Passarono gli anni  e col boom economico anche in casa mia entrò la 600. Non appena conseguii la patente, siamo nel 1963, usai tutti i miei risparmi per cambiare il pomello del cambio con una cloche degna di un aereo, il cruscotto, il volante con uno dalla corona in legno e dalle razze, credo, in alluminio; quello, però, che, almeno nelle intenzioni, doveva fare scena, specialmente in accoppiata con la doppia debraiata o con il punta-tacco, fu il cambio della rachitica e asfittica marmitta in dotazione con una a doppio scarico; il tutto, poteva essere altrimenti?, marcato Abarth. Nella fantasia di un giovane di allora era come avere sotto il sedere (la macchina, per chi non lo sa, si guida col sedere, non solo per motivi scaramantici ma perchè è questa parte del corpo che per prima avverte le reazioni della strada e del mezzo) una Ferrari. Quello di oggi possiede un’astronave,  ma è come se avesse una carriola…

Il tocco finale, poi, fu la scritta metallica FIAT ABARTH da applicare nella parte inferiore (io scelsi la sinistra, quasi forse un avvertimento per chi avesse avuto l’ardire di sorpassare simile  bolide …) del cofano posteriore. Un sussulto di residuo buon gusto mi impedì di completare l’arredo interno con il famigerato pupazzo sospeso con una ventosa al cristallo posteriore o applicando ai sedili copertine leopardate …

 

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immagini tratte da:

http://www.subito.it/accessori-auto/fiat-600-fiat-600-abarth-pomello-cambio-nuovo-catanzaro-57818790.htm

http://www.abarth-andronico.com/ricambi/cruscotti/crus_19.jpg

http://www.abarth-andronico.com/ricambi/volanti/volant_2.jpg

http://www.abarth-andronico.com/ricambi/marmitte/marm_18.jpg

http://www.ebay.it/itm/SCRITTA-FIAT-ABARTH-METALLO-CROMATO-FIAT-500-EPOCA-/370450022734

 

Chissà quanti ricordi le immagini appena viste, riproducenti fedelmente gli unici, o quasi, optionals dell’epoca, hanno evocato in chi ha i miei anni!

Un terzo ed ultimo quadretto, avente come oggetto del ricordo sempre il rumore, lo voglio dedicare alla tròzzula, cioè alla raganella di Pasqua, vale a dire quello strumento di legno costituito da un perno che funge da manico, sul quale è montata una ruota dentata che, sfregando contro una lamella di legno o di ferro, produce un suono secco e fragoroso simile al verso del maschio della raganella. Questo strumento ha il nome di tròzzica a Squinzano; a Nardò è chiamato trènula, di origine onomatopeica, voce usata pure, sempre a Nardò (in altre zone minòscia, trascrizione dell’italiano minugia, dal latino minùtiam, da minùtus, da minus) per indicare la schiuma di mare o latterini, pesciolini appena nati usati anche per esca; in tal caso, però, la voce o è diminutivo di trena=trina, perché il loro branco ricorda un merletto, o più probabilmente deformazione di trèmula per i loro movimenti caratteristici. A Gallipoli tròzzula è tanto la raganella di Pasqua quanto la carrucola del pozzo; ricordo, infine, che da tròzzula sono derivati, con l’aggiunta in testa di n-,  dalla preposizione in con aferesi, i verbi ntruzzulàre che a Nardò è sinonimo di procedere a passo molto spedito e ‘ndruzzelà che a Cisternino  è sinonimo di avvolgere, abbindolare), La tròzzula accompagnava tromba e tamburo in occasione delle processioni immediatamente precedenti la Pasqua per annunciare le funzioni della Settimana santa nei giorni in cui è vietato suonare le campane, poi, ridotto al rango laicale, divenne uno dei giocattoli d’obbligo esposti, sempre nel periodo pasquale, sulle bancarelle.

http://www.memoriapopolare.it/storie/tradizioni/lu-terremotu/69
http://www.memoriapopolare.it/storie/tradizioni/lu-terremotu/69

Non è da escludersi che la tròzzula sia un’invenzione tutta salentina se corrisponde al nostro strumento quello descritto nella Suda (o Suida, lessico bizantino probabilmente del X secolo ), dove alla voce Ἀρχύτας (si tratta di Archita di Taranto,  matematico e filosofo della scuola pitagorica fiorito nella prima metà del IV secolo a. C.) si legge: Καὶ παροιμία Ἀρχύτου πλαταγή ὅτι Ἀρχύτας  πλαταγή εὗρεν ἥτις ἐστὶν εἶδος ὀργάνου ἦχον καὶ ψόφον ἀποτελοῦντος (Anche il detto la raganella di Archita poiché Archita inventò quella che è l’immagine di uno strumento che produce suono e rumore). Ho tradotto πλαταγή con raganella, anche se alla lettera la parola greca significa genericamente strumento ligneo o metallico per produrre strepito (da πλαταγέω=battere le mani, rumoreggiare, percuotere rumorosamente, a sua volta da πλατύς=largo, prolungato, diffuso).

Prima di chiudere voglio stemperare, come al solito, la nostalgia del ricordo con la distrazione etimologica ; e non sarà una distrazione di poco conto, visto che entreremo in contatto con pozzi e con vasi, questi ultimi addirittura  messapici …

Se l’italiano raganella è diminutivo di ragano, voce centro-settentrionale sinonimo di ramarro (probabilmente di origine onomatopeica), qual è l’origine di tròzzula?

Spero che il lettore comune (cioè, nella fattispecie, digiuno di filologia) come lo sarei io se mi si dovesse spiegare, per esempio, un fenomeno geologico, non proverà fastidio se lo guiderò passo passo, come avrei fatto se ancora esercitassi il mestiere privilegiato (non mi riferisco certo all’aspetto economico o, peggio ancora,  burocratico …) dell’insegnante. Userò, perciò, all’inizio il metodo induttivo (dal particolare al generale, dal concreto all’astratto, dal fenomeno alla regola).

Chiedo al lettore e a me stesso  se voci come pàssulastìpula presentano qualche dettaglio in comune con tròzzula. Non ci vuole molta fatica per constatare che sono tutte sdrucciole e tutte presentano la terminazione –ula. È ancora troppo presto per dire che questa terminazione è un suffisso dalla funzione semantica tutta da definire. Nulla vieta, però, di ipotizzarlo. In tal caso, eliminandolo dalle parole in questione, mi rimarrebbero rispettivamente: pass-, stip– e trozz-, tre radici che dovrebbero contenere il significato fondamentale. Per avere con buona probabilità la parola di partenza debbo aggiungere a queste tre radici la desinenza, che sarà –a perché è legittimo presumere che, se la parola di partenza è un sostantivo, quella derivata ne abbia conservato il genere, femminile nel nostro caso. Ottengo, così, passa, stipa e trozza. Vado ora a controllare la loro congruità semantica con i presunti derivati: passa (pure in italiano femminile di passo, sinonimo di appassito, avvizzito) si accorda perfettamente con pàssula (per il momento faccio notare solo che la perdita di acqua connessa con l’essiccazione comporta una diminuzione di volume, dunque di dimensioni); stìpula è deverbale da stipulàre, ma questo, a sua volta è dal latino stipulàri=esigere un impegno solenne, impegnarsi formalmente; stipulàri è da stìpula=pagliuzza, quella che veniva spezzata al momento dell’atto; stìpula è diminutivo di stipa non attestato nel latino classico, anche se probabilmente usato in quello volgare, ma in quello medioevale col significato di piccolo albero; per quanto detto stìpula si accorda perfettamente con stipa del quale appare chiaramente diminutivo; per quanto riguarda trozza rinvio per brevità all’indirizzo https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/04/03/la-ngegna-forse-figlia-di-una-radice-molto-prolifica/

Dopo la lettura di quanto lì ebbi a scrivere il lettore non avrà difficoltà a concludere che tròzzula è diminutivo di trozza, tenendo conto che una ruota in entrambe è l’elemento costitutivo fondamentale.

Trozza di villa Scrasceta a Nardò. Foto di Marcello Gaballo
Trozza di villa Scrasceta a Nardò. Foto di Marcello Gaballo

Oltre al pozzo (appunto, la trozza), però, avevo messo in campo il vaso messapico. Come ognun sa, il suo nome è trozzèlla, dopo tròzzula altro diminutivo di trozza. Ma che ci azzecca, direbbe qualche nostalgico di Antonio Di Pietro, il vaso con il pozzo? –Come,- potrebbe ribattere qualcuno -il vaso non serve per attingere acqua dal pozzo?-. Le cose non stanno così, anche perché mi sembra problematico farlo con una trozzella senza far saltare almeno uno o entrambi i manici.

In realtà il rapporto tra trozza e trozzèlla sta ancora una volta nella somiglianza di elementi costitutivi: la ruota della carrucola e la corda che vi passa nella trozza, le quattro rotelline  e  i segmenti dei manici che ad esse si uniscono nella trozzella.

immagine tratta da http://win.tuttocasarano.it/cultura/trozzella_V_sec.a.c..jpg
immagine tratta da http://win.tuttocasarano.it/cultura/trozzella_V_sec.a.c..jpg

 

Chiudo, come avevo preannunciato, con tre pensieri altrui,  disposti in ordine cronologico (nel vir bonus del primo non c’è alcun riferimento autorefenziale dell’autore e tanto meno di me che l’ho citato …) :

Ampliat aetatis spatium sibi vir bonus; hoc est/vivere bis, vita posse priore frui (Marziale, Epigrammi, 10, 23, 7-8): L’uomo buono si amplia lo spazio della vita. Questo significa vivere due volte, poter godere della vita passata …

La fantasia … altro non è che memoria o dilatata o composta. (Giambattista Vico, Principi di scienza nuova, I, 50)

Il corso della nostra vita somiglia a un mosaico: non possiamo conoscerlo e giudicarlo prima di esserci messi ad una certa distanza. (Arthur Schopenhauer, Nachlaβ, da Anacleto Verrecchia, Arthur Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale,  Rusconi, Milano, 1992, s. p.

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1 Tra i vari titoli ammiccanti dei film sexy degli anni ’60 (oggi roba da centro di penitenza …) avrebbero fatto la loro brava figura …

2 Dallo spagnolo mosquito (o moschito)=zanzara, da mosca. Divenne nome commerciale, prima ancora del motore Marelli, di un aereo da combattimento (il De Havilland DH.98 Mosquito realizzato alla fine degli anni ’30).

3 Da ccappàre=fissare, prendere; corrisponde all’italiano incappare, con sostituzione della preposizione in con ad, assimilazione (*accappàre) e successiva aferesi. La voce dialettale è sempre transitiva, anche quando è sinonimo di imbattersi in qualcosa di spiacevole (mo ti contu cce àggiu ccappatu=ora ti racconto cosa mi è successo).

 

 

 

 

 

Il triste destino di un gioco e di un cultivar: la stàccia

arancia_staccia

di Armando Polito

Che il gioco delle bocce sia antichissimo lo testimoniano alcuni reperti archeologici consistenti in rudimentali sfere di pietra, i cui esemplari più datati risalgono al 7° millennio a. C.

La difficoltà di trovare in natura pietre di forma sufficientemente sferica e l’ingegnosità dei ragazzi di un tempo consentono di avanzare l’ipotesi che il gioco della staccia sia, se non l’antenato di quello delle bocce o dei birilli, almeno un suo adattamento.

Il gioco prendeva il nome dallo strumento principale, la staccia appunto, che era una pietra piatta di cui ogni giocatore disponeva. Una pietra a forma di parallelepipedo detta pisùlu1 venica posta verticalmente a circa 10 m. di distanza: essa fungeva da birillo o, se preferite, da pallino, e sulla sua sommità veniva collocata la posta in gioco, che poteva essere una pila di figurine o di tappi di bibite o di bottoni o, più raramente, per motivi che ormai solo chi ha molti anni può immaginare, di monete.  I giocatori lanciavano a turno la loro staccia con l’intento di colpire il parallelepipedo. Si vinceva la parte della posta crollata che si trovava vicino alla propria staccia ad una distanza che non doveva superare il palmo.

Ma, qual è l’etimologia di stàccia? Lascio parlare il Rohlfs. Al lemma stàccia1 (pag. 693)2 leggo “Cfr. il calabrese stàccia=piccola pietra da  giuoco, dal francese estache=fermaglio?  V. stacca2 , stàcchia.”.

Al lemma stacca2nella stessa pagina: “Identico al provenzale estaca, spagnolo estaca=marca di pagamento, antico italiano stacca=fermaglio, fibbia, d’origine germanica: stakka=stecca; v. tàccia, stàcchia.”.

Al lemma stàcchia: “v. stacca2, stàccia1”.

Al lemma tàccia (pag. 728): “Chiodetto con testa larga, bulletta [cfr. il calabrese taccia id., dallo spagnolo tacha id.].”

Proprio quest’ultimo lemma, secondo me, spiega le perplessità manifestate dallo studioso col punto interrogativo contenuto nel trattamento di staccia1, perplessità giustificata dall’imponente slittamento semantico che gli altri lemmi considerati presentano. Oltretutto, se staccia fosse collegato al francese estache avremmo avuto, secondo me, stàscia come pòscia=tasca da poche (è più naturale che la voce dialettale ricalchi la pronuncia e non la grafia della voce straniera da cui dovesse essere derivata).

E allora? mi sembra di sentirmi chiedere da chi fin qui mi ha seguito. Non è già tanto che io sia riuscito, forse, a comprendere il significato di quel punto interrogativo di un grande studioso e, mi auguro, a comunicare chiaramente la mia deduzione? Non è sufficiente notare, anche per quanto riguarda lo slittamento semantico (da pietra a fermaglio) da me prima definito imponente, che, in fondo, anche una pietra sovrapposta ad un oggetto lo mantiene fermo? Resta l’amaro in bocca, ma se non è riuscito il Rohlfs…

Ma l’amaro in bocca aumenta se penso che l’arancia staccia, così detta per la sua forma schiacciata, è il frutto di un cultivar della Basilicata (tipico di Tursi e di Montalbano ionico) quasi sicuramente introdotto dagli Arabi, che ora, per la dura legge di un mercato idiota e di consumatori altrettanto stupidi, è in via di estinzione, preceduto nella sua scomparsa (a costo di sembrare passatista e nostalgico dubito che pure questo sia stato un vantaggio…) dal gioco a cui, quasi certamente, deve il nome.

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1 Pisùlu era anche la pietra che segnava un confine o fungeva da paracarro. La voce (che sopravvive nel neogreco pezùli=blocco di pietra, è da considerarsi un diminutivo del classico peza=caviglia, piede, estremità, bordo, a sua volta da pus=piede)

2 Staccia2, peraltro considerata dubbia, significa trappola per uccelli.

Galatina. I racconti della Vadea: palla de pezza, tuddhi e catasca!

 

da repubblica.it
da repubblica.it

di Pippi Onesimo

Vico San Biagio, che promana da Via Biscia e ad essa si aggrappa disperatamente per non ruzzolare rovinosamente giù verso la Staffa de cavallu (piazzetta Cavoti), si trova esattamente nel cuore del centro antico, a monte di piazza Vecchia, che sonnecchia da secoli in precario equilibrio lungo la ripida discesa di via Vignola.

La chiesa delle Anime, saldamente ancorata a valle sulla sua strategica pianta ottagonale, dal basso osserva la più antica piazza di Galatina con trepida apprensione e la sorregge con generosa solidarietà cristiana, da quando si è resa conto che la Casa paterna dei Vignola, pur confinante e precariamente ancorata a Vico Vecchio, non riesce più a tenerla su per i vistosi acciacchi della sua vecchiaia.

A chi osserva vico San Biagio dall’alto, la stradina sembra stretta, buia, triste, angosciante e nervosamente tortuosa, come se piangesse languidamente ripiegata su sé stessa.

Dopo un breve tratto pianeggiante, in precipitosa successione, scivola frettolosamente giù in una silenziosa, irrazionale confusione come un rivolo, che trascina, spingendoli a valle, i suoi fitti misteri e le sue ombre così cupe e dense, che tenacemente riescono a sconfiggere anche la luce del giorno.

In questo suo scorrere vi è tutta la voglia di liberarsi dalle sue ansie, e gridare prepotentemente il bisogno di sorridere e di rivedere il sole.E a valle del pendio si affanna a prendere, finalmente, una boccata d’aria vicino all’ antica arcata, da pochi mesi riaperta, e che solo ora riesce a riaffacciarsi sulla Staffa, dopo la rozza, degradante e offensiva decisione del Palazzo di tenerla murata per molti decenni.

Poi alla fine, con impazienza frenetica, abbraccia voluttuosamente, in un mistico e avvolgente amplesso, lo slargo (abbrutito dalla ingombrante, perenne presenza delle auto in sosta ) di via Lillo, che si modella, per una strana e misteriosa bizzarria architettonica, fra Palazzo Galluccio, la fontanina pubblica, l’imboccatura di vico Freddo e la strozzatura della Staffa).

Intanto, proprio sull’ansa di via Biscia, na decina de vagnuni (alcuni ragazzini) scalzi e accaldati rincorrevano, a frotte ondeggianti in un turbinio confuso e imprevedibile, una rudimentale palla di pezza.

Era stata costruita artigianalmente dal ragazzino più grande e più esperto, nel cortile di casa, arrotolando in un calzino di lana o in una calza di nylon brandelli di stoffe dismesse, poi rinforzata e appesantita cu lle curisce (strisce) di una camera d’aria, recuperata dalla ruota di una vecchia bicicletta in disuso.

Altri, cinque o sei, quasi appartati, fermi più in fondo verso vico San Biagio, attenti e riservati giocavano a tirassegnu cu lli nuci, disinteressandosi di tutto il frastuono che li circondava.

E’ un gioco antichissimo, che risale nella notte dei tempi.

Consiste nel tentare di colpire a turno, da una distanza convenuta, cu lla paddhra (una noce più grossa, scelta fra le più dure e robuste, possibilmente con un guscio a tthre cantuni) una serie di noci, che costituivano lu piattu (la posta), fornite, una ciascuno, da ogni giocatore partecipante e tenute allineate e dritte con sabbia o terra umida disposta su una riga, tracciata sulle chianche. Le noci colpite, e che rimanevano riverse per terra lontane dalla riga, costituivano la vincita.

A volte, se non di frequente, qualche giocatore sfortunato, comunque scorretto, o qualche spettatore invidioso, escluso dal gioco perché non aveva noci da mettere in palio, organizzava la catasca (dal greco katàschesis: il prendere con forza, l’afferrare qualcosa).

Gridando all’improvviso, come uno spiritato, “catasca“, arraffava da terra, con una velocità supersonica, quante più noci possibile e si dileguava in un baleno, correndo a piedi nudi per le vie del borgo, inseguito, spesso senza successo, dai compagni di gioco, inviperiti per l’affronto, per lo scorno, ma soprattutto per il furto. E al danno spesso si aggiungeva la beffa.

Infatti era facile, per chi era nato in quel rione, ricamato da una fitta rete di piazzette, corti, vicoli, viuzze e cortili, attraversare piazzetta Arcudi, dirigersi verso vico del Verme e svicolare da corte Ferrando per uscire a rretu llu spitale vecchiu (alle spalle del giardino del vecchio Ospedale) e poi perdersi fra vico Vecchio o vico Lucerna.

Magari a volte, in segno di sfida e con notevole faccia tosta, risaliva da via Vignola, o dalla via de lu Cazzasajette per vico San Biagio e tornava sul luogo del delitto per godersi impunemente, di nascosto, lo spettacolo di chi era rimasto sconsolato e seduto, a mani vuote, su llu pazzulu de na porta. Ma se veniva afferrato e riconosciuto, ia spicciatu de mmètere e de pisare (non aveva più scampo, perché non gli lasciavano addosso nemmeno i vestiti!)

Anche se nessuno poi, in fondo in fondo, si arrabbiava più di tanto, perché tutti sapevano che il rischio della catasca faceva parte del gioco e che tutti, a rotazione, potevano farla, o subirla.

Intanto due ragazzine, poco più che bambine, silenziose e composte con le loro treccine nervose, asimmetriche, rigide e sporgenti sulle orecchie, come imbalsamate, perché tenute su da un fiocchetto di stoffa colorata, erano sedute, una di fronte all’altra in una zona d’ombra, sul pazzulu di un anfratto di via Biscia, posto accanto al limbatale (soglia) della porta di casa. Giocavano serie e appartate a tuddhri ( sassolini arrotondati e ben levigati di pietra viva).

Era un gioco semplice, allora praticato da tutti i ragazzini perché non costava un centesimo, divertiva e rasserenava lo spirito e soprattutto portava a socializzare; era un gioco antichissimo che veniva da molto lontano (forse risale ai tempi dei Messapi) e si perdeva nella memoria della tradizione popolare.

Adesso è sconosciuto, come tanti altri.

Mazza e mazzarieddhru, la campana, ficura o scrittura, la schiattalora, le stacce, cavaddhru barone, a scundarieddhri, ai quatthru cantuni, alla rota, lu curuddhru, alla linea allu risciu, a spacca chianche ecc.erano alcune semplici testimonianze, veraci ed autentiche, della nostra cultura e della nostra tradizione.

Erano briciole della nostra storia, piccoli scampi del nostro vivere quotidiano, ora irrimediabilmente perduti. Peccato!

Il gioco de li tuddhri si svolgeva con cinque sassolini, scodellati per terra.

Un giocatore, estratto a sorte, afferrava, pizzicando col pollice e il medio della mano destra, un sassolino alla volta e lo lanciava in aria all’altezza del viso, cercando poi di recuperarlo, durante la ricaduta e prima che toccasse terra, nell’incavo che si formava sul dorso della stessa mano, raccogliendo a sé, e tirandoli in su, l’indice, l’anulare e il mignolo.

Le regole del gioco, che proclamavano il vincitore, erano varie e complesse e presentavano delle varianti a secondo dei tempi e dei luoghi in cui si svolgeva.

Non mancava, certo, la fantasia ai bambini!

Passatempi ingenui, semplici e solari che rappresentavano per i ragazzini d’allora, quelli venuti fuori dalla fame, dalla disperazione e dallo scempio morale e psicologico di una guerra vissuta direttamente sulla propria pelle, l’unico diversivo, l’unico divertimento, il loro solo vizio.

Questi rappresentavano per loro la cosiddetta droga povera, quella gratis che si comprava allegramente e liberamente sui marciapiedi, agli angoli delle strade, nei cortili di casa, fra le aiuole dei giardini pubblici, fra i viottoli di campagna e nella fantasia sconfinata, fatta solo di immaginazione, di candide finzioni e di sogni che rimanevano sempre tali, perché non svanivano mai.

La droga ricca invece, quella vera, (c’era anche allora) scorreva solo (fortunatamente per li vagnuni, che non corsero mai il rischio di essere infettati dalla cancrena letale del consumatore di droga a fini di spaccio) nei salotti bene, nelle tasche de li Signurini o nelle borsette delle pulzelle di alto lignaggio e serviva per scacciare la loro noia, ma non la loro insipienza. Poveretti!

Non era facile per loro passare le tante, inutili e vuote giornate, fatte di nulla, di vuoto assoluto, di ozio perenne nei loro ricchi palazzi desolatamente vuoti, ma riempiti di un assordante silenzio, bui e freddi, specialmente d’ inverno, nonostante i camini accuratamente accesi dalla servitù accorta e servizievole.

Il freddo, come la loro aridità, derivava sopratutto dalla mancanza del calore dei sentimenti, dalla incapacità di voler bene, di rispettare gli altri, i diversi, e riconoscere loro la inalienabile dignità di esseri umani.

I giorni, poi, che passavano d’estate nelle immense tenute di campagna erano sempre esageratamente riempiti solo di fatui sbadigli e di insulsi, stupidi capricci.

La loro, era solo una felicità artificiale, dorata ma finta.

Al di fuori da quei palazzi, o lontano da quelle assolate e lussureggianti ville, la vita era più ricca (di sentimenti), più viva, più felice, più vera, più solidale perché, pur se povera, era fatta di momenti autenticamente spontanei e più semplici.

Bastava affacciarsi sull’ansa di via Biscia per capire, gustandola, tutta la differenza !

Vi era un ingenuo, gioioso vociare divertito e scanzonato, fatto di schiamazzi vigorosi che rimbombavano di cantone in cantone. O un groviglio avvolgente di gambe annerite e sbucciate sugli spigoli arrotondati de li scansacarri (paracarri).

O un turbine di inevitabili spintoni che si potevano ricevere sull’onda frenetica e imprevedibile di una palla goffa e irriverente, che ti schizzava accanto.

Qui la vita batteva i suoi ritmi, mentre i giochi scandivano i tempi e le cadenze della felicità.

Questa allegra e scanzonata confusione convinse facilmente la comitiva de lu Cheròndula di scegliere, a ragion veduta, la soluzione della chiesa della Purità.

Oltretutto, così aveva deciso lu Piethruzzu! E dovevano necessariamente assecondarlo, perché, da attore navigato, era molto intransigente.

Pretendeva e otteneva, senza discutere, silenzio, calma, quiete piatta per raggiungere il giusto raccoglimento, scenograficamente adatto, per i suoi contatti… spirituali.

Per tutta questa messinscena qualcuno sosteneva (e forse non a torto) che lu Piethruzzu fosse tutt’altro che della buccata, ma un sornione, inossidabile, bonario… fiju de… bbona mamma.

 

 

NdR: Pubblicato su Il filo di Aracne, la cui direzione si ringrazia per la concessione

Trottole e antichi giochi di fanciulli salentini

Gioco di abilità e intelligenza

 LU CURUDDHRU

Anche i figli degli antichi romani mandavano il “turbo”

di Piero Vinsper

“Costruire delle casine, attaccare i topi ad un carrettino, giocare a pari e caffo, cavalcare una lunga canna” sono per Orazio i primi giochi infantili: giochi di ragazzi romani e giochi dei nostri.

A pari e caffo (par impar) si giocava così: uno teneva chiusi nel pugno alcuni sassolini (noci, ecc.) ed invitava il compagno a dire se erano in numero pari o dispari. Apriva poi la mano, e si vedeva se l’interrogato ci aveva dato giusto.

Si usava anche giocare capita et navia, cioè, come diciamo noi, “a testa e croce”, e nel dialetto galatinese “a capu e litthri”, gettando in alto una moneta e cercando di indovinare, prima che cadesse, se sarebbe rimasta in alto la parte con la testa o la parte con la nave.

E si giocava alla morra (digitis micare), si mandava la trottola (turbo) con lo spago o con la frusta, o il cerchio (orbis, trochus), servendosi di un bastoncino diritto o ricurvo (clavis).

Molto giocavano con le noci, tanto che Persio dice “lasciate le noci” volendo significare “passato il periodo dell’infanzia”.

Da allora ai nostri giorni il gioco non è cambiato affatto: si mettevano su delle capannelle con tre noci sotto e una sopra, e se uno riusciva a farle crollare, colpendole con il “bocco” (boccus = corpo rotondo, la nostra “paddhra”), le noci erano sue.

Va detto che, nel periodo posteriore all’invasione della cultura greca, tutti i giochi infantili greci divennero abituali in Roma: come, per esempio, l’altalena sospesa alle funi (αίώρα) o su di un’asse in bilico (πέταυρον),l’aquilone (άετóς) e il fare ad acchiappino (άποδιδρασκíνδα, il nostro zzaccarreste) e a mosca cieca.

Mosca cieca in greco si dice mosca di rame (χαλκή μυΐα); un ragazzo con gli occhi bendati brancolava cercando di afferrare uno dei suoi compagni e diceva:”Darò la caccia alla mosca di rame”; e i compagni, ronzandogli intorno con un bastoncino:”La caccerai e non l’acchiapperai”; e giù botte.

Ora prendiamo in esame il gioco del turbo latino, della trottola, cioè, nella nostra κοινή διάλεκτος, de lu curuddhru.

gioco11

Curuddhru deriva dalla forma tardo-latina currulus, che si rifà al verbo curro e sta a significare una cosa che corre, che scappa, che ti sfugge di mano.

Tre sono i tipi di curuddhri: curuddhru propriamente detto, mathrecòcula e pinnetta.

Lu curuddhru ha forma conica, la base del quale è sormontata da un cerchietto rotondo, la chìrica, il vertice termina con una punta d’acciaio.

Per far fitare (da φοιτάω: vado qua e là, su e giù, avanti e indietro, corro, giro, ecc.) lu curuddhru è necessario avvolgere, a partire dal vertice, intorno alla sua superficie, una cordicella; l’abilità del giocatore consiste, appunto, nel far aderire perfettamente questa corda in modo che, lanciandolo, e facendo presa sull’estremità della corda che si tiene in mano, si possa imprimere una forza tale da fargli acquistare un’accelerazione che duri un certo periodo di tempo.

La mathrecòcula è ‘nu curuddhru schiricatu, un po’ più panciuto, mentre la pinnetta, dalla forma più snella e slanciata, ha al vertice una punta d’acciaio ben più spessa.

Due sono i tipi di gioco cu llu curuddhru: sotta manu e a morte e si devono svolgere su terra battuta. Sia nell’uno che nell’altro gioco il numero dei partecipanti è illimitato; la differenza consiste nel modo di far fitare lu curuddhru.

Sotta manu: dopo aver avvolto intorno a llu curuddhru la corda, tenendo fra le dita il capo dell’altra estremità della corda e facendo attenzione che lu curuddhru che si ha in mano abbia il vertice rivolto verso l’alto, lo si lancia in senso orizzontale sulla superficie da gioco. Vince il giocatore che fa fitare lu curuddhru in un tempo maggiore rispetto agli altri.

A morte: sempre la solita operazione. Però in questo caso lu curuddhru viene lanciato a picco, in senso verticale, sul terreno da gioco.

La cosa si complica se subentra la mathrecòcula; e qui è messa a dura prova l’intelligenza del ragazzo, perché, in breve tempo, deve calcolare traiettoria, distanza, tempo e raggio d’azione per poter colpire il bersaglio.

Si traccia allora per terra un cerchio, ed il gioco diventa più difficile se il cerchio è più piccolo di diametro. Dapprima si fa fitare nel cerchio la mathrecòcula, poi ogni giocatore deve colpirla tirando a morte la pinnetta o lu curuddhru. Se l’una o l’altro riesce a colpire in pieno la mathrecòcula accade spesso che quest’ultima si spacchi in due.

Ed il momento più opportuno per cercare di centrare la mathrecòcula è quando questa rotea su se stessa con una velocità tale da sembrare che stia ferma. Naturalmente risulta vincitore chi colpisce la mathrecòcula.

(in “Il filo di Aracne”, n°1 – 2006)

(Lu curuddhru = la trottola)

Il triste destino di un gioco e di un cultivar: la stàccia

di Armando Polito

Che il gioco delle bocce sia antichissimo lo testimoniano alcuni reperti archeologici consistenti in rudimentali sfere di pietra, i cui esemplari più datati risalgono al 7° millennio a. C.

La difficoltà di trovare in natura pietre di forma sufficientemente sferica e l’ingegnosità dei ragazzi di un tempo consentono di avanzare l’ipotesi che il gioco della staccia sia, se non l’antenato di quello delle bocce o dei birilli, almeno un suo adattamento.

Il gioco prendeva il nome dallo strumento principale, la staccia appunto, che era una pietra piatta di cui ogni giocatore disponeva. Una pietra a forma di parallelepipedo detta pisùlu1 venica posta verticalmente a circa 10 m. di distanza: essa fungeva da birillo o, se preferite, da pallino, e sulla sua sommità veniva collocata la posta in gioco, che poteva essere una pila di figurine o di tappi di bibite o di bottoni o, più raramente, per motivi che ormai solo chi ha molti anni può immaginare, di monete.  I giocatori lanciavano a turno la loro staccia con l’intento di colpire il parallelepipedo. Si vinceva la parte della posta crollata che si trovava vicino alla propria staccia ad una distanza che non doveva superare il palmo.

Ma, qual è l’etimologia di stàccia? Lascio parlare il Rohlfs. Al lemma stàccia1 (pag. 693)2 leggo “Cfr. il calabrese stàccia=piccola pietra da  giuoco, dal francese estache=fermaglio?  V. stacca2 , stàcchia.”.

Al lemma stacca2nella stessa pagina: “Identico al provenzale estaca, spagnolo estaca=marca di pagamento, antico italiano stacca=fermaglio, fibbia, d’origine germanica: stakka=stecca; v. tàccia, stàcchia.”.

Al lemma stàcchia: “v. stacca2, stàccia1”.

Al lemma tàccia (pag. 728): “Chiodetto con testa larga, bulletta [cfr. il calabrese taccia id., dallo spagnolo tacha id.].”

Proprio quest’ultimo lemma, secondo me, spiega le perplessità manifestate dallo studioso col punto interrogativo contenuto nel trattamento di staccia1, perplessità giustificata dall’imponente slittamento semantico che gli altri lemmi considerati presentano. Oltretutto, se staccia fosse collegato al francese estache avremmo avuto, secondo me, stàscia come pòscia=tasca da poche (è più naturale che la voce dialettale ricalchi la pronuncia e non la grafia della voce straniera da cui dovesse essere derivata).

E allora? mi sembra di sentirmi chiedere da chi fin qui mi ha seguito. Non è già tanto che io sia riuscito, forse, a comprendere il significato di quel punto interrogativo di un grande studioso e, mi auguro, a comunicare chiaramente la mia deduzione? Non è sufficiente notare, anche per quanto riguarda lo slittamento semantico (da pietra a fermaglio) da me prima definito imponente, che, in fondo, anche una pietra sovrapposta ad un oggetto lo mantiene fermo? Resta l’amaro in bocca, ma se non è riuscito il Rohlfs…

Ma l’amaro in bocca aumenta se penso che l’arancia staccia, così detta per la sua forma schiacciata, è il frutto di un cultivar della Basilicata (tipico di Tursi e di Montalbano ionico) quasi sicuramente introdotto dagli Arabi, che ora, per la dura legge di un mercato idiota e di consumatori altrettanto stupidi, è in via di estinzione, preceduto nella sua scomparsa (a costo di sembrare passatista e nostalgico dubito che pure questo sia stato un vantaggio…) dal gioco a cui, quasi certamente, deve il nome.

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1 Pisùlu era anche la pietra che segnava un confine o fungeva da paracarro. La voce (che sopravvive nel neogreco pezùli=blocco di pietra, è da considerarsi un diminutivo del classico peza=caviglia, piede, estremità, bordo, a sua volta da pus=piede)

2 Staccia2, peraltro considerata dubbia, significa trappola per uccelli.

Galatina e i suoi fanciulli di un tempo

di Rino Duma

Spesso m’accade, soprattutto durante le lunghe notti insonni, di riandare con la mente ai tempi della mia fanciullezza, quando la vita m’appariva come un meraviglioso sogno avviluppato in strani ed arcani misteri.

Il mio è un ritorno piacevole e, al tempo stesso, nostalgico; mi sforzo di ricordare immagini, volti, circostanze e, nel mentre, mi volto e mi rivolto tra le lenzuola. Mi assale una smania indescrivibile ed ho voglia di fugare dai pensieri i numerosi affanni quotidiani, i tormenti e i pesi notevoli di questa parte della vita.

Sono, perciò, portato a scavare nel mio lontano passato, a rovistare freneticamente, a mettere a soqquadro la memoria, sperando di tirar fuori episodi particolari della mia dolce infanzia, mai rievocati.

L’infanzia, già!… Era l’età piu bella, un’eta che sembrava non dovesse finire mai. Erano i tempi delle gioie piene e dei lunghi sorrisi… dei sorrisi che via via si smorzavano sul viso al comparire delle prime amare certezze della vita; erano i tempi delle tante paure, delle lacrime facili, dei numerosi ma necessari rimproveri, sia paterni che scolastici, fatti di dure parole ma anche di schiaffoni e di colpi di riga.

Erano i tempi dei giochi semplici e spensierati, ma soprattutto di studio, di tanto studio che si protraeva sino a tarda sera sotto la luce di una lampada da venticinque watt.

Lo studio di allora era martellante, insopportabile e, almeno per noi, inspiegabile ed inutile.

Per le vacanze di Natale, i professori, sempre severi ed inflessibili, ci assegnavano una caterva di compiti: dovevamo trangugiare pagine e pagine di storia e geografia, imparare a memoria una cinquantina di versi dell’Iliade o dell’Odissea oppure un’interminabile poesia, tradurre alcune versioni di francese e di latino, queste ultime da riportare sull’odiato “analizzatore”, risolvere diversi problemi di geometria ed esercizi di aritmetica, fare il riassunto scritto di alcuni brani antologici, eseguire quattro- cinque lavori di disegno ornato e/o geometrico e, come se non bastasse, svolgere almeno tre temi d’italiano su argomenti diversi.

Che bei Natali!

Darei, comunque, un anno del mio futuro, che di certo sarà ricco di pesi e di inquietudini, pur di ritornare indietro e ritrovare, almeno per un giorno o soltanto per poche ore, i miei genitori, gli odiati ed amati professori, i compagni d’allora, i trastulli, i progetti di fanciullo, le mie prime emozioni d’amore, quello strano e inconfondibile sapore che la vita d’allora mi offriva a piene mani.

Poi ripenso a quei tanti “ragazzi di strada” – buona gente, intendiamoci, o meglio “bravi monelli” – che pativano le pene dell’inferno.

Erano ricoperti piu che altro da stracci, indossati negli anni precedenti da una carovana di fratelli maggiori ed altri piu piccoli attendevano il loro turno. Erano perennemente affamati e denutriti, con le gambe sbucciate ai ginocchi e segnate dai rigori invernali, con i capelli sporchi e pieni di pidocchi, con il muco che pendeva dal naso, con le cispe arroccate alle estremità degli occhi.

Le scarpe, poi, risuolate piu volte con cartone pressato o con copertoni di bicicletta, erano tenute ben salde dalle famose “tacce”, che limitavano al massimo il logorio delle suole.

Il maglioncino unto, bisunto, smagliato e consumato all’altezza dei gomiti, i pantaloncini corti, rattoppati in piu parti con stoffa di diverso colore e disegno, mantenuti da un’unica bretellina, davano l’idea di trovarsi di fronte a veri e propri scugnizzi napoletani.

Con gli occhi vispi, scaltri come furetti e con l’intuito sempre pronto, non perdevano mai l’occasione di accaparrarsi in ogni modo, lecito o illecito, i mezzi di sostentamento necessari a migliorare, seppure di poco, la loro miserevole esistenza.

Somigliavano ai “Piccoli Apostoli” di don Zeno Saltini a Nomadelfia.

Quante volte ho svuotato nelle loro insaziabili mani le mie tasche ricolme di fichi secchi!

Quante volte mi sono privato della merendina, pur di veder brillare un timido raggio di gioia sul loro viso!

Tutti insieme si giocava, si correva, ci si picchiava, per poi riconquistare, tempo qualche giorno, le antiche amicizie e la vita di sempre.

I gruppi erano saldamente uniti da un fermo vincolo di solidarietà e da un eccezionale spirito di aggregazione, che difficilmente si riscontrano nei ragazzi di oggi, nonostante abbiano dalla loro parte innumerevoli vantaggi.

Non c’erano ostacoli che potessero intaccare o dividere i gruppi di fanciulli dei vari rioni, tra i quali era sempre vivo uno spirito campanilistico da… guerra mondiale.

Nell’interno di ogni gruppo vigeva una ferrea legge di gerarchie. Il capo, riconosciuto tale a seguito di aspre contese e dure lotte, era “circondato e servito” come un vero monarca da alcuni amici fidati, ai quali erano aggregati altri elementi di minore spicco, sino a comprendere i ragazzi poco abili al gioco, di scarsa iniziativa e poco coraggiosi.

Per essere riconosciuto capo si dovevano superare diverse prove di forza e di coraggio. Ricordo di essermi arrampicato sul cipresso più alto del cimitero (vi assicuro che si tratta d’impresa ardua) e, peggio ancora, di aver attraversato con Tommaso, un altro compagno di ventura, gli interminabili sessanta metri dello stretto cunicolo della fognatura di Piazzale Stazione.

Oggi, guardando quella stretta imboccatura, mi viene da rabbrividire.

La vita associativa era per lo più svolta in strada, che per noi fungeva da palestra, da grande madre, lontano dai pericoli rappresentati dalle autovetture, dalla droga e dall’aids.

Il primo pomeriggio, subito dopo pranzo, era vissuto intensamente e trascorreva in fretta, senza che ce ne accorgessimo.

Poi, nel bel mezzo della spensieratezza, si udiva una voce acuta e stentorea, un perentorio richiamo: erano i nostri genitori che ci ricordavano di riprendere la dura e ossessionante fatica quotidiana, qual era lo studio.

Ed allora nel nostro cuore scendeva un velo d’amarezza e di sconforto; ma intanto ci si dava appuntamento a sera, compiti permettendo.

Il gioco maggiormente preferito era il calcio (calcio alla carlona, tanto per intenderci). Infatti, tutti i giocatori rincorrevano la palla di gomma (quando si era fortunati ad averne una) o la palla di pezza o di carta pressata: tutti attaccanti e tutti difensori dietro a quella magica sfera.

Il “terreno di gioco” (si fa per dire) era generalmente il Piazzale “Stanzione” (lo chiamavamo cosi), quando si era fortunati a trovarlo libero, oppure ci si spostava ai “Banchini” (attuale Largo San Biagio) o anche dietro alla “Vecchia distilleria” o, quand’altro non ci fosse, su un campetto di fortuna ricavato tra alcuni binari morti della Ferrovia Sud-Est.

Durante il torneo annuale di calcio si giocava in trasferta sui campetti dei vari rioni, i piu importanti dei quali erano la “Stanzione”, la “Porta Luce”, la “Porta Nova”, la “Chiesa Madre”, “Santa Caterina”, “Santu Sebastianu” e “l’Anime”.

Il calcio non era tutto; infatti, c’impegnavamo in tanti altri giochi, per alcuni dei quali era richiesta molta concentrazione ed una bravura innata. Su tutti, ricordo il gioco “Uno monta la luna”, che raramente si portava a termine, poiche vi era sempre qualcuno dei partecipanti che, per imperizia o per carenza atletica, non riusciva a superare le quindici dure prove di abilita. Non meno impegnativi erano i giochi de “Li tuddhri” e de “Mazza e mazzarieddhru”.

Il primo consisteva nel superare, utilizzando cinque piccole pietre ben modellate, alcune difficili prove manuali; il secondo, invece, assomigliava al baseball americano. Dal campo base un giocatore, servendosi di una “mazza”, lanciava quanto più lontano possibile “lu mazzarieddhru” (un pezzetto di legno lungo 10-12 cm, ricavato da un manico di scopa appuntito alle estremità). Vinceva chi totalizzava un certo numero di “balle” (una balla corrispondeva, non certamente ad una frottola, bensi alla misura corrispondente alla lunghezza di cento “mazze”).

Eravamo anche molto industriosi nel realizzare magnifici aquiloni, sfruttando la carta dura dei sacchetti di cemento, oppure nel costruire pattini di legno, fionde di ulivo, perfetti archi per frecce, ricavati dai ramoscelli di eucalipto o di felce, ma anche strani ed efficienti apparecchi, che rappresentavano un lontano prototipo del telefono. Per questi ultimi, bastava avere due barattolini di rame (ad es. di crema da scarpe), uno spago lungo una trentina di metri e un po’ d’ingegno. Grazie ad un chiodo, si praticava un foro centrale nei due coperchi, i quali, in seguito, erano collegati a distanza dallo spago ben teso. Era sufficiente parlare, anche a bassa voce, perche la “telefonata” si trasmettesse da un capo all’altro. Erano i cellulari di quei tempi… ma a tariffa zero.

La domenica pomeriggio, poi, dopo aver assistito in Piazza Fortunato Cesari alla partita di calcio della Pro Italia Galatina, si andava al cinema per godersi il film. I più gettonati erano quelli a sfondo storico, western, di guerra e, un po’ meno, quelli comici. Ricordo che per acquistare i biglietti d’ingresso del film “Ulisse” (interpretato dal famoso attore Kirk Douglas), dovetti sudare le proverbiali “sette camicie”, tanta e tale era la ressa all’ingresso del cinema.

Dopo oltre un’ora di spintoni e pedate, riuscii finalmente ad “approdare” al botteghino. Per la cronaca, vidi il film per ben tre volte.

I cinematografi di Galatina che andavano per la maggiore erano il Cinema Teatro Tartaro ed il Cavallino Bianco; meno frequentati erano la Sala Lillo,la Sala parrocchiale Santa Caterina e l’Arena Italia.

Da grandicelli, verso i 13-14 anni, fummo attratti da un movimento giovanile che a quei tempi impazzava in tutt’Italia: ”I Boys Scout”. Lo scoutismo rappresentò per noi un’ottima occasione per affinare l’incerto carattere ed educarci alla vita di gruppo.

Fu per noi una sana regola di vita (ancor oggi si fa sentire) che ci induceva a coltivare le più importanti qualità dell’individuo, come il compiere il proprio dovere, l’essere leali e coraggiosi, l’amare il prossimo, il sacrificarsi per l’intento comune, il disprezzare la vita comoda, il coltivare la purezza del pensiero, delle parole e delle azioni, l’avere rispetto di tutti gli uomini, senza distinzione di classe, di razza e di religione.

Ora, ritornando mestamente ai nostri duri e difficili giorni, mi sembra come se quelle virtù siano state bandite dal mondo attuale, sempre più rivolto verso ben altre finalità e dimentico ormai di quei semplici, sani e virtuosi valori d’un tempo, di quando cioè tutto appariva un meraviglioso e ineguagliabile sogno.

Ma questa di oggi, purtroppo, è tutta un’altra storia… è una storia brutta e inquietante, dalla quale l’uomo difficilmente saprà tirarsi fuori.

Pubblicato su “il filo di Aracne” n. 3 anno 2008.

Profumi di infanzia: giochi di strada a Taranto in un caldo pomeriggio di luglio


di Daniela Lucaselli

In un pomeriggio caldo di luglio la voglia di esser sola con me stessa mi inoltra nei vicoli del Borgo antico. Una silente solitudine mi avvolge, solo il rumore dei miei passi rimbomba sulle chianche lucide e corrose dal tempo.

Mi piace godere di questi momenti, osservo ciò che si offre al mio sguardo scrutatore che indaga e va cercando una risposta a questo mio stato d’animo.

Di subito schiamazzi di ragazzi mi riportano alla realtà e guidano i miei passi verso una piazzetta. Un’ilarità generale mi strappa alla mia malinconia. Un silenzio imbarazzante e gelido subentra impavido. Il gruppo si è accorto di una presenza estranea.

L’incantesimo è infranto.

Mi avvicino al capo, gli porgo la mano e viene suggellato un patto di sangue: ad uno ad uno si avvicendano e pronunciano il loro nome timidamente in segno di fratellanza, facendo svanire in una nube quella vena di scetticismo e di titubanza che avevo letto pochi istanti prima nei loro occhi.

Sono di loro.

Orgogliosi di ergersi a maestri di strada e di vita, di scatto Pietro, al grido di Marco, toglie di testa a Giacomo il berretto, che poi passa, come se si trattasse di una palla, da un ragazzo ad un altro. Giacomo corre disperatamente, come se fosse un ubriaco, nel vano tentativo di riprendersi quello che gli appartiene, mentre tutti gli altri in coro ridono e si divertono alle sue spalle. Stremati da un’affannosa corsa, ci sediamo, con le ginocchia incrociate, in cerchio a terra. Il più spavaldo inizia a raccontare barzellette mimandole con perspicacia e astuzia. Ma all’improvviso Sonia dà uno scappellotto a Luciana che, una volta ricevutolo, cerca al più presto di scontarlo verso il compagno che ha di fianco. L’allu scùonde continua tra grida e riso. Presi dal fiatone si condivide a canna un sorso d’acqua fresca. Ed è la volta de lu sckaffe. Anche qui il rituale si ripete: dopo il consueto tocco, uno del gruppo va sotto, dà le spalle ai compagni ed è pronto a ricevere lo schiaffo, mentre copre la guancia designata ad essere martoriata con una mano. Quando lo ha ricevuto, si gira per indovinare l’artefice e trova che tutti agitano l’indice, come se tutti fossero colpevoli. Solo quando il malcapitato indovina chi è stato, viene da questi sostituito a passare sotto. E il giro ricomincia per essere a breve sostituito da l’ a botta ‘ngule. Colui che va sotto, questa volta pone la testa in grembo alla “madre”, che è seduta. Riceve lo schiaffo nel “sedere”, si rivolge alla donna dicendo: “Signora maèstre, so stète abbattùte”. Quella risponde : “Pigghie pe rècchie a ci è stète”. Dunque il maldestro deve anche questa volta indovinare chi è stato per essere da lui sostituito.

E così fino a penombra inoltrata si alternano questi giochi di strada, che mi hanno fatto rivivere,  in quel caldo pomeriggio di luglio, l’emozione di un’infanzia non ancora perduta.

Bibliografia

F. Laterza. Giochi tradizionali della strada in territorio tarantino, Taranto
(1980).

Primo maggio, tradizioni popolari a Nardò

di Marcello Gaballo

Fino ad una ventina d’anni fa il primo maggio era particolarmente atteso dai bambini di Nardò per una usanza loro spettante, tanto da farne la loro festa, come mai sarebbe potutto accadere nel resto dell’anno.

Appena svegli e subito dopo la colazione si ritrovavano con gli amichetti, ognuno provvisto di un vassoio (la quantiera), e giravano tra le abitazioni di amici e conoscenti, comunque del quartiere in cui risiedevano, bussando alle loro porte e presentando agli abitanti quel vassoio dopo avergli proferito: lu pumu di maggiu (ancor più lontano negli anni quel maggiu era detto masciu).

Era doveroso ricompensare il piccolo questuante con un dono: biscotti, un tarallo, qualche caramella o i più rari cioccolatini; se proprio non si disponeva di alimentari e dolciumi si poteva riporre qualche soldino (cinque, dieci lire di allora).

Ricordo che spesso nel mio vassoio qualche solita taccagna riponesse uno-due baccelli di fave verdi, in quella stagione nel pieno della produzione, il più misero tra i doni desiderabili, visto che nei giorni precedenti avevamo già fatto man bassa negli orti vicini alle nostre case.

Quando il vassoio era colmo ci si ritrovava con gli altri amici sui gradini della vecchia casa abbandonata per godere dell’abbondanza ricevuta, magari riflettendo sulla bontà di tale zia o dell’altra vicina che, sebbene disturbasse a tutte le ore per chiedere alla mamma il solito sale o caffè improvvisamente terminato, si era limitata a riporre nel mio luccicante vassoio inox decorato in stile rocaille una sola fava verde (che ancora oggi si chiama ùngulu) o una misera caramellina al limone, che era il gusto generalmente evitato nel già magro assortimento di caramelle miste.

Ci si scambiava con gli amici più cari un dolcetto (magari lui ne aveva avuti due-tre dall’amica fidata della sorella o dalla zia notoriamente ricca). I più preziosi tra i doni erano le monete di cioccolato e per averne una dal compagno di gioco si sarebbero cedute anche tre figurine Panini o il ricercato Omar Sivori (per avere Boninsegna invece si sarebbe dovuto cedere quasi tutto il vassoio).

Inutile dirlo che le più inflazionate erano le fave verdi, vista l’ampia disponibilità nei campi, ma noi soliti bambini terribili avremmo comunque gareggiato per vedere chi avesse ricevuto quella più lunga o la più bizzarra. Una insolita forma subito ci avrebbe ispirato di piazzargli quattro mezzi stuzzicadenti, quasi fossero gli arti di una strampalata pecorella. Tutte insieme improvvisavano un gregge e gli amici più cari consentivano che la pecorella del vicino restasse affianco alla propria, allontanando quella dell’antipatico mascalzone, quasi vendicandosi del torto subito qualche giorno prima o magari per non aver condiviso con i restanti i frutti della questua giornaliera.

Il gregge sarebbe rimasto lì, in posa, per qualche decina di minuti, magari aspettando che le amichette fossero finalmente lasciate in libertà dalle mamme e venire dunque a godere della mostra improvvisata sullo scalone sgaruppato. Erano particolarmente gradite le critiche, senza però esagerare, perchè un giudizio severo sulla zampa più corta o più lunga rispetto alle altre le avrebbe escluse dal bottino che avevamo faticosamente messo su dopo tanto peregrinare.

Il gruppo raramente diventava branco (almeno nel mio quartiere e per quello che posso ricordare), ma spesso il gregge fantasiosamente messo su veniva assalito dal lupo vorace che il solito bullo del quartierino si era costruito con la fava portatasi da casa, senza neppure girare di porta in porta. Si era svegliato due ore dopo di noi, aveva fatto colazione con gli squisiti biscotti a tre buchi della Doria, si era fatto costruire il lupo dalla sorella maggiore e veniva di proposito tra noi per rompere il sogno concretizzato in quella misera galleria d’arte.

Lo ricordo ancora il gradasso, ma sfuma nella mente la sua arroganza, mentre resta indelebile il piacere dello
stare con gli altri, della creatività, della fantasia, della solidarietà, della compartecipazione, del vantaggio di restare insieme per fronteggiare il nemico e per far sapere alle bande vicine chi comandava in quel quartiere.

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