La samaritana e il clandestino

samaritana

di Gino Schirosi

Chi è e cos’è dunque “clandestino”? La voce ha chiara origine francese: “clandestin” (lat. “clam”, di nascosto, e aggiunta mutuata dal lat. “destinare”, attaccare). Oltre ogni interpretazione etimologica e semantica, indica non solo chi, fuori dal proprio habitat naturale, cela pubblicamente il vero stato d’identità per simularne un altro, ma soprattutto chi opera senza l’approvazione e contro il divieto dell’autorità costituita, non obbedendo, volutamente o no, a norme vigenti di qualsivoglia diritto. E fin qui, senza dubbio, dovremmo essere un po’ tutti d’accordo.

Clandestino/a si attribuisce a una varietà di situazioni: giornale, foglio, pubblicazione, edizione e tipografia, bisca, lotto, gioco e scommessa, gruppo, movimento, partito e lotta, mercato, commercio e traffico, passeggero e persino matrimonio.

Non esiste però in assoluto l’uomo che sia di per sé clandestino o, se si vuole, irregolare, specie se viene a trovarsi in uno stato di necessità e di pericolo, in particolari contingenze piuttosto tragiche della storia. L’essere umano resta comunque una creatura di Dio, seppur irregolare secondo parametri istituzionali, del tutto convenzionali e variabili. Si potrebbe tuttavia definire irregolare chi, per dolo o profitto, cerchi di vivere in condizioni di clandestinità, ovvero senza documenti o con documenti falsi, all’interno di uno Stato cosiddetto di diritto; ma in ogni modo il termine ha valore relativo, in quanto non sarebbe sempre tale altrove e altrimenti, non essendo omologabili o comparabili le regole e le circostanze. Fatto è che in relazione a varie e molteplici motivazioni storiche, etno-socio-antropologiche, politiche, economiche e naturali possono esistere altre realtà mutevoli della condizione umana.

Chiunque, ufficialmente regolarizzato, acquisisce di fatto la patente di cittadino, ma per varie ragioni potrebbe finire per perdere il diritto della propria cittadinanza e assumere altra identità più o meno definitiva: nomade, apolide, migrante, emigrante, immigrato, rifugiato politico, profugo, confinato, esiliato, deportato. Tutte categorie d’individui sradicatidal proprio vissuto familiare e sociale, condannati, ovviamente contro la propria volontà, a dover affrontare ogni disagio in cerca se non di migliore fortuna almeno di un futuro diverso, migliore e garante della sopravvivenza, il che nessuno può avere il potere e la presunzione di impedire, vietare o negare.

In verità ogni uomo per natura nasce eguale agli altri suoi simili, sia “villano, papa o re”, ognuno cittadino del mondo, cosmopolita appunto, sebbene, a sua insaputa, venga registrato da una anagrafe per essere catalogato e quindi riconoscersi membro del consesso sociale d’origine, distinto da convenzioni precostituite, secondo cui solo per puro caso ciascuno si trova a nascere e/o a vivere lungo un meridiano o ad una certa latitudine, in un emisfero o in un altro, a nord o a sud del mondo, ad avere disparità di pelle, lingua, religione, costume, civiltà, diverso in tutto dal resto della sua stirpe. Per una sola ragione: sin dalla nascita è costretto ope legis dal “contratto sociale”, che identico dovrebbe appartenere a tutta l’umanità, a far parte di una ben definita e consolidata società “nazionale” circoscritta entro precisi confini, ma si trova pure schedato e inquadrato dalla legislazione vigente a convivere entro determinati schemi di una cosiddetta “patria”, che assai spesso, per svariati motivi, è persino in contrasto con concorrenti e rivali limitrofi da cui difendersi.

Non credo tuttavia che, dopo millenni, vi sia oggi qualcuno che possa vantare la sua origine autoctona, a gloriarsi della purezza del suo albero genealogico, della sua discendenza, progenie, razza. Se c’è, va ricordato che proprio la storia dell’umanità ha mutato la geografia del pianeta. È una storia infinita di guerre e di sangue, lutti, sopraffazioni, violenze, rivoluzioni, trasformazioni, perché, tutto sommato, la storia dell’uomo è la ricerca affannosa di spazi vitali, di competizione a conseguire fortune, primato, progresso. Ma è anzitutto una storia di migrazione, una fuga incessante da est verso ovest, da sud verso nord, in una corsa frenetica dalle sacche di miseria alla speranza, a cominciare dai nostri avi e dai loro antenati sin dalla notte dei tempi… A fronte di tale argomentazione ci si accorge facilmente quanto occorra riflettere e meditare con serietà senza essere banali né superficiali.

Ciò premesso, comprendo benissimo che è molto più facile definire clandestino chi, pur potendo vivere felicemente in uno Stato ordinato e tranquillo senza problemi, ad un certo punto per capriccio o per motivi futili o discutibili progetta di lasciare la sua terra, la sua casa, la sua famiglia in cerca di ventura e, solo per fare altre esperienze anche negative per sé e per la comunità ospitante, tenti d’inserirsi “subdolamente” in una nuova realtà esistenziale e sociale.

Ma come si può invece tacciare di essere “clandestino” chi, povero di tutto ma ricco solo di dignità quale essere umano al pari di noi, l’altro da noi, di noi più sventurato, rischia la vita per sfuggire ad una condizione disumana di degrado, malessere e inferiorità, di grave iattura, come tirannide, oppressione, repressione, paura, guerra, morte, miseria, fame, epidemia, precarietà, incertezza, emergenza, tutto il male che noi fortunati qui in occidente non possiamo in alcun modo conoscere né tanto meno immaginare? Costui non può essere un irregolare, perché, al di là dei documenti, va considerato un profugo, quali che siano le ragioni, politiche o economiche. Sciagure che, come spada di Damocle, notoriamente non risparmiano nessuno ed ovviamente possono capitare a chiunque, anche a chi si sente estraneo, immune o al sicuro (“Lu bbinchiatu nu’ crite lu dasciunu”).

Chiamiamoli pure come si vuole, forse più correttamente quali in realtà mostrano di essere, straccioni, indesiderati, persino “rompiballe”, e meglio spiegheremo cosa intendiamo per clandestini. Saremo più onesti e sinceri, tradendo il nostro vero volto di farisaica ipocrisia, vigliaccamente occultando la nostra indole razzista. Ma è proprio questo il punto di demarcazione, il confine che separa due avverse scuole di pensiero, due orientamenti ideologici, storicamente contrapposti. Chi vive tutelando il proprio esclusivo orticello, mentre osserva il mondo dall’alto della propria agiatezza, è indubbiamente malato di egoismo. Ma solo chi, nel benessere, guarda al di là del proprio io, per interessarsi del “prossimo”, può davvero sentirsi appagato e gratificato del proprio ruolo nella società, stando in pace con sé e con gli altri, con la propria coscienza, con l’etica dell’esistere e del consistere tra i suoi simili. Questa si chiama semplicemente carità cristiana, praticata nell’anonimato, ed è l’altruismo, che non è un brutto termine tra quelli negativi del nostro vocabolario.

In conclusione l’insegnamento evangelico non dev’essere una facciata di maniera, si realizza nella pratica quotidiana, non a chiacchiere. Sta proprio in tale interpretazione della vita il senso più profondo e positivo della civiltà. Accoglienza e ospitalità sono concetti nobili e non astratti, propri della filantropia. L’umanitarismo è appunto il fondamento sostanziale della democrazia, che, orfana di solidarietà e tolleranza, è solo demagogia e pura propaganda, deleteria e ingannevole soprattutto quando si definisce cristiana. È ciò che l’umanità dovrebbe perseguire con coraggio, ancorché sembri utopia e forse resti un sogno. Questo è comunque il pensiero di un cristiano e di un democratico, come mi sento di essere, ma non avrei dato giudizi diversi se invece fossi stato ebreo, islamico, buddista o scintoista.

La questione è sorta in occasione dell’esegesi del passo evangelico relativo alla Samaritana, ben noto per chi conosca i rapporti ostili tra Samaritani e Giudei sotto l’aspetto etnico e religioso. Al cospetto della donna straniera e sconosciuta seduta al pozzo di Giacobbe, Cristo, il giudeo, stanco e assetato, appare come un clandestino bisognoso di accoglienza e di soccorso, anzitutto del bene primario come l’acqua. Ma, si è voluto precisare, sulla terra non ci sono né devono esserci clandestini, nella misura in cui deve essere debellata la povertà insieme col bisogno ed ogni discriminazione. La ricerca di altra acqua più duratura e di altro genere di soccorso è problema che compete alla Fede, alla dottrina e al fine escatologico, per antonomasia il mistero apparentemente inesplicabile, il dogma basilare del Cristianesimo.

Protagonista don Salvatore Leopizzi, parroco di S. Antonio da Padova a Gallipoli. La sera di domenica 27-3-2011, durante l’omelia (legata al tema dell’acqua con gli inevitabili risvolti e riferimenti teologici e sociali) ha lanciato un messaggio di verità. Ha gridato con la commozione in gola e con tutta la “rabbia” covata in corpo chissà da quanto: “Cosa significa clandestino? Non ci sono clandestini nel mondo! Nessuno è clandestino!”. L’assemblea dei fedeli, in piena sintonia, è rimasta sensibilmente turbata e ammutolita, mostrando apprezzamento ma soprattutto condivisione. Per tante ragioni l’episodio meritava quanto meno un approfondimento.

La verità è che non è stato tuttora risolto un vecchio enigma, se cioè gli uomini di Chiesa abbiano diritto di curarsi esclusivamente delle anime e non anche del destino degli uomini, specie degli ultimi e derelitti soggetti passivi di un’emergenza umanitaria, occupandosi parimenti di giustizia, libertà, legalità, dignità, dei valori etici calpestati in un’epoca storica in cui è palese l’assenza di esempi positivi che provengano dall’alto. La Chiesa a buona ragione, oggi più che nel passato, allorché si sentiva sollecitata e coinvolta a sostegno di determinate istanze politiche collaterali alla vecchia classe dirigente, deve avvertire l’obbligo morale di fare da supplente a chi è latitante o distratto. Specie se la società e la politica, smarrendosi egoisticamente dietro a risibili e non sempre vaghi disegni e trasgredendo ai propri doveri e alla propria missione, sono impegnate a predicare tutt’altro, anche privilegiando con faziosità il proprio “particulare”, anteponendo gli interessi privati e personali, ma trascurando spudoratamente l’utilità pubblica, il bene comune.

Al riguardo, giusto per offrire un contributo più concreto e una risposta più adeguata al tema trattato, la figura di Don Tonino Bello, il Vangelo della carità senza pregiudizi o remore sperimentato per strada nella realtà dell’impegno sociale, sembra la più emblematica e la più esaustiva, anche perché non ha bisogno di ulteriori commenti. Ma non è più tra noi, come Padre Balducci e Padre Turoldo, altri paladini scomodi del civismo libertario e democratico. Resta la testimonianza coraggiosa di Don Luigi Ciotti, isolato nella lotta contro il malaffare e l’illegalità, a tutela quindi dei principi laici e valori etici di civiltà. Che fare? Lo priviamo della scorta, lo confiniamo all’interno di una chiesa obbligato a dir soltanto messe e a provvedere alla salvezza spirituale dei fedeli oppure lo mettiamo all’indice per il suo disimpegno nella difesa del potere oligarchico e temporale?

Gallipoli. Il castello angioino, centro nevralgico della storia cittadina

 

L’UMILIANTE CONDANNA ALL’INCURIA PER IL CASTELLO ANGIOINO DI GALLIPOLI

di Gino Schirosi

Per diretta esperienza sembra proprio difficile il rapporto tra cultura e politica. La cultura ha il compito di rincorrere ed incalzare la politica, spesso distratta da impegni istituzionali, anche perché coinvolta nella lotta esclusiva per il potere ad ogni costo pur di occupare poltrone e posti di riguardo. Rischiando di disattendere le primarie aspettative sacrosante della collettività, ormai dai politici, in tempi di magra, nessuno pretende né si aspetta miracoli, essendo lontano il miraggio di vedere realizzate opere importanti o faraoniche. È tuttavia auspicabile almeno che si possa provvedere a quanto è nell’evidenza: salvaguardare la realtà paesaggistica e l’eredità storico-artistica esistente da esaltare per promuovere l’eccellenza.

Gallipoli è naturalmente una città maliarda e tale deve restare al cospetto del forestiero non meno innamorato dei residenti. Nel corso della sua bimillenaria storia non ha mai avuto bisogno di protettori o padrini; è stata sempre libera e franca, mai dipendente da feudatari né svenduta impunemente a nessun capitano di ventura. È l’unico centro del Salento che può vantarsi della sua libertà senza aver mai conosciuto sudditanza da una classe nobiliare. Non sono difatti mai esistiti stemmi araldici di conti, baroni, duchi! È ampiamente documentato come alla sola Corona l’Università gallipolitana dovesse dar conto e corrispondere, senza intermediari.

Testimonianza del suo glorioso passato è il castello angioino, centro nevralgico della storia cittadina, cui sopratutto ha l’obbligo di guardare il primato della politica come dovere civico e impegno culturale. Si tratta del maniero più ricco, articolato e complesso finora sopravvissuto nel panorama dell’architettura militare di Terra d’Otranto, la piazzaforte più sicura nell’estremo avamposto del Regno di Napoli, caposaldo di rilievo a difesa del Salento e del Mediterraneo sud-orientale.

Il primitivo fabbrico della monumentale opera difensiva appartiene agli Svevi, ma la costruzione definitiva è degli Angioini, ancorché non siano mancati interventi marginali in periodi successivi fino al secolo scorso. Dopo il tragico fatto d’arme, sfociato nell’assedio e nell’occupazione veneziana del maggio 1484, e fino agli inizi del XVI sec. gli Aragonesi ne consolidarono ulteriormente la struttura prima che fosse aggiunta la fortezza del rivellino, con la successiva dotazione di torri costiere di avvistamento, torrioni, bastioni e baluardi.

Per secoli ha costituito la roccaforte della città-isola murata e bastionata e il castellano, reggente responsabile della piazza, era una personalità di prestigio nella stessa amministrazione civica, pur essendo sempre d’origine spagnola al pari di molti vescovi succeduti per secoli nella sua esigua diocesi. Oggi, debitamente restaurato, potrebbe invero costituire il più significativo contenitore culturale della città e del suo hinterland. Ma così non è ancora e, se non sono per nulla noti i motivi, il rammarico è più che giustificato e non è irrilevante.

Quale tra i castelli salentini vanta tanta storia quanto il castello di Gallipoli? Né il castello Carlo V di Lecce né di Copertino né di  Corigliano e neppure quello di Otranto hanno goduto della stessa gloria. Una storia a sé è Acaya. Di quali fatti militari sono stati protagonisti? Mai hanno avuto un ruolo di rilievo nello scacchiere strategico a presidio della periferia orientale del Regno di Napoli. Quali vicende storiche hanno minato più di tanto la sicurezza della provincia prima del XVI sec.? Solo allora fu costruito l’attuale castello idruntino in sostituzione del fragile fortilizio caduto senza difficoltà sotto i colpi fatali delle scimitarre della mezza luna (1480).

Eppure oggi negli antichi manieri, proprietà della collettività, aperti al territorio e al pubblico di visitatori, si celebrano costantemente manifestazioni culturali di vario genere: teatro, concerti, mostre d’arte, editoria, artigianato e antiquariato, convegni, congressi, tavole rotonde, incontri di studio e di lavoro con associazioni ed Enti, concorsi letterari, progetti culturali d’Istituti scolastici di ogni ordine e grado con vari forum monotematici multimediali.

Per il restauro del castello angioino di Gallipoli si è sempre accennato a fondi regionali ma non si sa in quale direzione o lotto sono stati dirottati e per fare che cosa e per chi. È tuttora inagibile in quanto degradato, specie il prospetto e l’ampio salone ennagonale, addirittura il Comune non è in possesso delle chiavi e nessuno può ipotizzare e garantire quale sarà il suo destino! La cittadinanza, insieme con cultori di storia patria e di arte, insieme con turisti e visitatori, attende di vederlo quanto prima aperto e fruibile in tutta la sua struttura, com’è stato prima dell’oscuramento causato dalla realizzazione del mercato coperto ben oltre un secolo addietro. Indubbiamente è il più importante contenitore culturale ereditato dalla storia. Solo se restituito dal demanio alla città e liberato dalle infauste superfetazioni legittimate dall’utilizzo improprio che lo Stato ne ha fatto ospitando per lunghi decenni la caserma della GdF e insieme il deposito dei Monopoli di Stato, potrebbe divenire un volano di sviluppo per un turismo culturale di eccezionale portata proiettato per le più disparate attività: riferimento per cittadini e forestieri, strumento di rivalutazione dell’antico borgo medievale, in grado di raccontarci l’eredità del glorioso passato che resiste tuttora ad insegnarci cosa fare nel presente e soprattutto cosa programmare per il futuro.

Se poi, tra le altre opzioni progettuali da tempo in cantiere, si volesse pervicacemente insistere, come finora s’è fatto, a “riqualificare” l’ex mercato coperto dando seguito ad un’idea scellerata, inadeguata e solo dilatoria senza rendere più vivibile l’attigua piazza Imbriani, salotto di richiamo del centro storico, sarebbe un’altra opportunità persa per la “perla dello Ionio”. Ma, perché possa restare davvero una perla a tutti gli effetti, vanno messe in sicurezza e rivalutate tutte le risorse culturali esistenti insieme con quelle naturalistiche e paesaggistiche di cui il nostro territorio si pregia.

Un serio e attento amministratore non può non coniugare turismo, ambiente e cultura, essendo ormai tale connubio una necessità urgente e improrogabile. Un cambio di rotta e di mentalità è indispensabile per il decollo definitivo della “bella città”, che notoriamente non ha nulla da invidiare ad altre ma che viceversa è ingiustamente umiliata e abbandonata al suo destino. Palese, difatti, è il suo graduale declino generato da varie impunite responsabilità, facilmente identificabili in precise inadempienze istituzionali, frutto dell’arroganza legittimata da una democrazia malata, ma pure falsata dall’indifferenza generale.

Senza andare assai lontano, la lezione di Otranto docet! Chiara la “morale”! Per il definitivo decollo della città ionica non c’è spazio per opportunisti, insipienti e irresponsabili, servi sciocchi e ballerini, avventurieri, acrobati e saltimbanchi della politica, gente effimera dal fiuto infallibile dietro al “vecchio che avanza” e che ritorna a dettar legge, sadico in “poltrona” con una regia occulta. Siano dunque all’erta, pronti a consigliare e suggerire quanto è da fare con sollecitudine, almeno i benpensanti, oggi più che mai delusi e in attesa che risorgano i valori della cultura. Tutto dipende ovviamente dalla buona politica, ossia dalla volontà non tanto di conoscere e interpretare, quanto di affrontare e risolvere i più elementari problemi che più ci assillano.

Agli amministratori va ribadita la solita lagnanza con un accorato appello: l’urgenza di priorità improrogabili da perseguire senza perdere ulteriore tempo. Chi sceglie Gallipoli si aspetta realizzato un certo modo di vivere nel rispetto di una moderna civiltà fatta di ordine e pulizia ad ogni livello, a partire dal centro storico tuttora sacrificato e derelitto, prigioniero di assurdi, ingiustificati ritardi. È proprio questo il problema principe e resta ancora un sogno per chi con dolore e rammarico attende ansioso di ammirare i beni culturali finora impunemente trascurati, come il castello chiuso nel suo degrado e soffocato non si sa da quali oscuri misteri!

Se si riuscirà a risolvere questo cruciale problema,  tutto il resto verrà di seguito come naturale conseguenza. Ma sarà possibile solo se s’intende operare unicamente per il bene comune, con trasparenza e competenza, tenacia e integrità morale, facendo politica autentica, mai ricorrendo a strumenti inequivocabili di un mortificante imbarbarimento del teatrino della politica, deteriorata e declassata fino al qualunquismo trasversale e strisciante, orfana di dialogo e tolleranza.

Ma, se Gallipoli stenta ancora a decollare, la responsabilità morale appartiene agli stessi gallipolini, mai sagaci, svegli e liberi da umilianti ricatti o condizionamenti con cui purtroppo si crea maggioranza e governo di una democrazia piuttosto fragile. Un imperativo categorico deve guidare in futuro quanti, capaci, operosi e consapevoli dell’impegno civile, si sentono legati alle loro radici, allo “scoglio”, stanchi di sbirciare dalla finestra, disponibili non alla facile critica denigratoria, demolitrice, ma alla dialettica democratica, per  “riappropriarsi” con fierezza delle sorti della città da governare con onore e rispetto, non verbis sed rebus.

Potranno pure essere, per indole, amanti del forestiero alla ribalta, non senza tuttavia essere politicamente maturi e pronti a denunciare e respingere i mercanti di voti e privilegi, sempre più spregiudicati in periodo elettorale nel costruirsi solide e facili “fortune”, mai domi e mai sazi di potere, figlio diretto del moderno dio dell’opulenza. A quanto pare, qui da noi la politica è di rado amante della cultura e il suo motto resta ancora legato al vile ricatto, che tradotto vale tristemente: “Ma cci me tocca a mme?”.

Intanto, nell’indifferenza generale, non pare siano ancora conclusi i lavori nell’ex mercato coperto addossato al castello, di cui peraltro invano si auspica l’apertura definitiva. Ma quando? Spetta agli intellettuali, al mondo della cultura incalzare il lavoro dei politici, ma spetterà alla politica investire per tutelare lo scrigno delle nostre risorse culturali da renderle fruibili alla collettività. Il potere finora ci ha irriso, forse sicuro di presentarci domani il conto di non si sa quali risibili “atti concreti”!

 

 

Antonietta De Pace, patriota gallipolina

 

di Gino Schirosi

 

Gallipoli ha l’obbligo morale di celebrare con orgoglio, soprattutto oggi, la sua figlia più illustre: Antonietta De Pace. Una piccola donna, ma una grande eroina, una patriota mazziniana, fervente e intrepida rivoluzionaria, collaboratrice di Garibaldi e Pisacane, Poerio e Settembrini, Valentino, Libertini e Castromediano.

Singolare e indomita figura femminile che nella vicenda risorgimentale occupa un posto di primo piano, assieme con i grandi della patria, nell’universo storico e politico dell’800, un secolo difficile per le incomprensioni, le diffidenze e le ostilità. Notevole risulta la sua intensa attività politica contro le forze di polizia della potente dinastia borbonica.

La sua lotta è tesa solo ad affermare la propria ideologia, la propria fede politica in opposizione alle forme di governo retrive e repressive di ogni libertà. Propugna il senso di giustizia sociale, la propria avversione ad ogni tipo d’illegalità o sopraffazione a difesa di emarginati ed oppressi, dei più deboli della società. Il suo impegno civile, unicamente dedito a contribuire alla nascita dell’Unità nazionale e inteso a modificare il corso degli eventi, non conosce tentennamenti né compromessi, ma le cagiona, tra ostacoli e rischi, la detenzione nelle tristemente note galere borboniche, insieme con altri suoi compagni di lotta.

Una donna antesignana del femminismo moderno e protagonista del suo tempo nella periferia del regno, personaggio inflessibile e coraggioso, intrepido e indomito nell’affermare i suoi princìpi liberali e democratici, i suoi ideali romantici e risorgimentali di italianità. Partecipa in prima fila all’impresa garibaldina fino a festeggiare la liberazione di Napoli. Entra in città cavalcando insieme con Garibaldi attraverso via Medina in direzione della reggia.

Figura apparentemente leggendaria, ma vera e autentica, umana e poetica, modello di ben altro protagonismo che oggi è solo miraggio, ma che va additato ad esempio di forza morale e civica in un mondo, quello attuale, che ha snaturato ogni ideologia, ha smarrito o non conosce più i valori della storia patria e delle nostre radici.

Da tale testimonianza i nostri giovani dovrebbero dedurre una nobile lezione di vita, conoscere anzitutto i segreti che si celano nel sogno di questa gallipolina, una donna sulle barricate del nostro Risorgimento. Dalla sua città tuttora non è stata debitamente gratificata se non con l’intitolazione di una via. Forse non si è abbastanza compreso che, in qualche modo, anche

Gallipoli. La festa di S. Cristina compie 145 anni, ma molti di più la devozione popolare

di Gino Schirosi

Dopo i patroni ufficiali S. Agata e S. Sebastiano, dopo l’acquisito compatrono S. Fausto, Gallipoli gode anche dell’ausilio di S. Cristina, nostra coprotettrice da quasi un secolo e mezzo. La giovane santa nata a Roma nel 270 fu martirizzata ventenne il 24 luglio 290, imperante Diocleziano, ma a lei si riconduce persino il miracolo dell’Ostia sanguinante che nel 1264, con Bolla papale, diede origine sia alla festività del “Corpus Domini” sia all’edificazione del superbo Duomo della vicina Orvieto che tuttora custodisce la prova visiva del lino insanguinato nel misterioso e sovrannaturale episodio di Bolsena (PG).

Accadde cioè che nella cappella dedicata alla martire sull’isola Bisentina, dinanzi alla pesante lastra di pietra (oggi pannello d’altare), con la quale la giovane fu legata e gettata nel lago per risalirne a galla incolume ed essere infine barbaramente uccisa, si verificò il fatto straordinario del “Corpo Mistico” che sanguinò tra le dita tremanti di uno scettico sacerdote boemo.

Santa Cristina di Nicolas Régnier (1590-1667)

Per S. Cristina è nota la devozione del popolo gallipolino. Ne è testimone, nella chiesa di S. Maria della Purità, la leggiadra statua, oggetto di culto e somma venerazione, opera mirabile di “felicissima interpretazione”, commissionata col contributo di devoti. Fu realizzata a grandezza naturale dal cartapestaio leccese Achille De Lucrezi nel biennio 1866-67, peraltro nel rispetto dell’agiografia della giovane martire di Bolsena. La sacra effigie, rispettosa della storica vicenda tratta dal Martirologio Romano di Cesare Baronio (1600), rappresenta la santa legata ad un albero e trafitta dalle frecce, mentre un Angelo le porge la corona di santità e la palma del martirio.

Il bellissimo simulacro, giunto da Lecce la sera del 22 luglio del 1867, fu

Il ruolo dei Domenicani nella città di Gallipoli

di Gino Schirosi

Finora non era stato mai abbastanza riconosciuto quanto importante fosse stato il ruolo dei Padri Predicatori Domenicani in più di tre secoli e mezzo di presenza a Gallipoli. E quale fosse stato il contributo del loro impegno di predicazione e insegnamento nell’influire positivamente, forse ancor più dei Francescani, nel tessuto civile della nostra comunità, nell’evoluzione culturale della società, nella formazione dei giovani anche fuori dalle fasce elitarie, nella preparazione delle professioni e del clero, nel cammino dottrinario della Chiesa locale e persino nel radicamento istituzionale così come nella stima e nel favore popolare.

La storia dei P.P. Domenicani ebbe inizio nella primavera del 1517, allorché, grazie ai buoni uffici del governo spagnolo presso le autorità locali, raggiunsero Gallipoli invitati a fondare una loro comunità sulle estreme mura di ponente.  A reggere l’esigua diocesi gallipolitana (l’isola abitata ed il contado) era il cardinale Francesco Romelino, chiamato a ricongiungersi con l’Eterno Padre proprio l’anno successivo.

Erano trascorsi quattro anni dopo l’ultimo ufficio liturgico in lingua greca celebrato in cattedrale, da quando, chiusa la lunga parentesi bizantina, si avviava anche qui il rito latino, già in uso a Nardò e consolidato dai Normanni con feudatari e vassalli locali.

I Domenicani sostituirono l’ultimo abate di S. Mauro, appartenente ai monaci orientali di rito greco seguaci di S. Basilio, ormai in via d’estinzione nell’occidente cristiano. I frati si avvicendarono nel prendere possesso dell’antico cenobio greco-orientale, il “Magnum Monasterium Sanctae Mariae Servinarum Sancti Basilii”, citato in una bolla di papa Gregorio IX (m. 1241). Era stato distrutto, pare, durante l’assedio rovinoso di Carlo II d’Angiò (1284). Passarono ai frati di S. Domenico tutti i beni, già dei monaci Bizantini del monastero basiliano, presenti a Gallipoli dal sec. VIII dopo le persecuzioni iconoclastiche. Il patrimonio, con l’avallo delle autorità ecclesiastiche, fu trasferito alla diretta amministrazione dei nuovi arrivati.

La scienza teologica con lo studio e la disciplina caratterizzava l’Ordine domenicano che ha avuto il più rilevante influsso nella storia della Chiesa, nella cultura e nella società, se nell’era moderna è stato sempre protagonista nel bene e nel male. Neppure si dimentichi la feroce critica dantesca messa in bocca al grande domenicano S. Tommaso, celebratore di entrambi gli archimandriti fondatori dei due Ordini paralleli, ma inflessibile denigratore dei

Bilancio del carnevale gallipolino 2011

LA NUOVA MASCHERA  DEL CARNEVALE GALLIPOLINO

 

di Gino Schirosi

 

Tra le maschere italiane della commedia dell’arte, accanto alle due note figure di popolani cialtroni e inaffidabili, come il napoletano Pulcinella (scaltro e volubile) e il veneziano Arlecchino (ambiguo servitore di due padroni), hanno pure un loro ruolo Colombina, Balanzone, Pantalone, Stenterello, Gianduia e Brighella, altrettanto famosi per altre categorie di vizi o virtù. Inoltre, a margine di tanti illustri sconosciuti, esistono nella nostra regione Farinella (Putignano), Ze Peppe (Manfredonia), Paulinu (Grecìa salentina) e Titoru, voce volgarizzata da Teodoro (“dono di Dio”), singolare maschera storica della tradizione popolare carnascialesca di Gallipoli. Ognuno di questi tipi o caratteri ha una sua storia particolare con una metafora da raccontare. Il carnevale gallipolino, in particolare, ha ruotato da sempre attorno alla figura del Titoru, sebbene figlio di una storiella del tutto fantasiosa, ancorché paradossale, apparentemente avulsa nell’atmosfera gioiosa di popolo.

La nostra manifestazione, senza peccare di campanilismo, è la più nota nel Salento, quest’anno nella sua 70^ edizione (per avversità climatiche dirottata a sabato 12 e domenica 13 marzo). Come nel 2010 hanno fatto da corona carri allegorico-grotteschi di singolare valore artistico, gruppi mascherati e personaggi di varie caratterizzazioni socio-etno-antropologiche, con figurazioni storiche e attuali, sfarzose e popolane. Coinvolgendo alla pari uomini e donne, adulti e non, è stato un carnevale dignitoso che ha continuato la sua tradizione imponendosi tra tanta concorrenza ogni anno sempre più ferrata nell’ambito della provincia, miseramente falliti i tentativi di consorziare similari avvenimenti dell’hinterland.

A conferma del suo successo il nostro carnevale, ribadendo il suo solito volto col medesimo programma collaudato, è stato ulteriormente rivalutato

L’unità, il tricolore e l’inno di Mameli patrimonio nazionale

da http://www.ilbrigante.it/

 

di Gino Schirosi

Ci mancava pure questo nel nostro Bel Paese! Dopo un secolo e mezzo di monarchia e di repubblica, c’è chi si è accorto all’improvviso che dei vari modelli istituzionali prospettati e discussi nell’800 tra il monarchico Cavour, il repubblicano Mazzini, il neoguelfo Gioberti e il federalista Cattaneo, proprio il federalismo (fiscale, demaniale, municipale, regionale, ecc.) avrebbe comunque potuto calzare a pennello alla variegata e poliedrica realtà italiana. Capita inoltre di ascoltare da tanti sputasentenze giudizi strani e paradossali, come quello secondo cui l’Italia sarebbe ancor più unita se fosse uno Stato federale.
Ciò premesso, non è tuttavia facile comprendere le vere ragioni che da un bel po’ inducono faziosi o fanatici della Lega Nord a bofonchiare in ogni occasione, e sino alla noia, unicamente per denigrare, insieme col tricolore, l’Unità d’Italia al suo 150° anniversario. Non solo! Persino l’Inno nazionale è oggi oggetto di puntigliosa critica pretestuosa, animata dalla pretesa di volerlo sostituire col coro “Va’, pensiero” del Nabucco verdiano (datato 1842).
È pur vero che ai tempi di Giuseppe Verdi l’antico dramma degli Ebrei esiliati in Babilonia fu interpretato come chiara allusione alla triste condizione del Lombardo-Veneto sotto dominazione asburgica. Se poté sembrare allora una valida giustificazione, di certo dettata da sentimentalismo patriottico del tempo, ciò non toglie che non contiene alcun riscontro logico con l’Italia, il suo popolo, la sua storia di ieri e di oggi. Il coro in questione, intonato dagli Ebrei deportati in terra straniera, è solo il canto di un popolo storicamente estraneo alla nostra cultura e alla nostra civiltà, un popolo sconfitto 2600 anni fa dal re babilonese Nabuccodonosor e trattenuto in cattività lontano dalla terra promessa.
Non si sa di cosa possano lamentarsi le popolazioni dell’Italia settentrionale dopo tanti anni di unificazione nazionale, ideologicamente vissuta peraltro in una pacifica identità etnica, politica e sociale, non già sotto tirannide o in esilio. Dall’Unità, tacitamente sponsorizzata dal Piemonte (grazie alla strategia diplomatica di Cavour), condivisa dalla Lombardia (per mero opportunismo economico) e favorita dal Veneto (per calcoli politici relativi alle terre irredente sul confine slavo), il Nord non è mai stato succube di nessuno né tanto meno del Sud.
Per la verità storica è stato proprio il Sud a subire la storia, la politica e l’economia, accettando persino la bandiera tricolore nata a Reggio Emilia quale emblema della Repubblica Cisalpina (1797), così come l’inno nazionale concepito nel 1847 da due genovesi: l’autore del testo, Goffredo Mameli, eroe mazziniano caduto combattendo a 22 anni per le sue idee risorgimentali a difesa della giovane Repubblica romana, e il compositore dello spartito musicale, Michele Novaro.
C’è chi critica le parole troppo retoriche e ampollose usate da Mameli. Ma

Il mito di Pandora oltre l’utopia

Dante Gabriele Rossetti (1828 – 1882), Pandora (da http://www.liverpoolmuseums.org.uk/)

di Gino Schirosi

“Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi…” – strilla il venditore nel celebre dialogo delle Operette morali di Leopardi. Ma il poeta ha da ridire, non condividendo la consuetudine di rinnovare brindisi augurali per l’anno nuovo. Secondo la sua amara visione della vita, è cerimonia assurda: la felicità non esiste! Esiste solo l’illusione che si colloca non nel presente ma nel passato, come ricordo che continua a logorarci, o nel futuro, come speranza che ci lusinga e poi ci inganna prima di cedere le armi alla resa. Meglio astenersi dal salutare “l’anno che verrà”, soddisfatti dei risultati comunque conseguiti! Sconcertante ma giustificato! Già l’essere sopravvissuti per ricominciare costituisce motivo probante a festeggiare la conclusione di una tappa della nostra vita, col meritato addio al tempo ormai alle spalle. Non è poco l’aver superato indenni una lunga serie di esperienze, miste di sogni e delusioni. Anche se tutto è relativo, non c’è chi possa asserire che il 2010 è stato più propizio del 2009 o il 2008 più del 2007. E il 2011 quali garanzie ci può offrire o quale sorta di felicità ci promette rispetto all’anno trascorso? Perché allora rivoli di denaro in fumo, fragorose frenesie vanificate in aria tra folli sprechi e sperperi all’insegna del conformismo e a dispetto dell’angosciante urgenza della storia? Avrà pure un limite di decenza la corsa all’irrefrenabile consumismo a fronte della morale comune e della drammaticità del presente, paradigma di una umanità da se stessa ferita, tristemente allo sbando!

Nicolas Réignier, Pandora

L’uomo non ha ancora superato lo stadio ancestrale della sua genesi. Il peccato d’origine (superbia e cupidigia) resta protagonista delle vicende umane, tra epidemie, cataclismi, paure di miseria, terrore, morte. Può il male sbandierare ancora al vento il vessillo del suo trionfo? L’uomo è cieco e sordo, sempre più distante dalla vera passione, che non è il denaro, effimero e venale. Dio, creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, dopo un breve riposo, ha avuto il tempo di riflettere sin dall’ottavo giorno. Poi ha inviato la “luce tra le tenebre” che non l’hanno riconosciuta né accolta. Ma continuerà a meditare per l’eternità! Pare intanto essersi rammaricato della sua creazione per le irrazionali malefatte delle sue creature. E con noi si mostra distratto, forse per non avergli creduto abbastanza. Ma, a dirla con Manzoni, c’è da fidare: “Dio non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”. Anzi, assicurava papa Giovanni Paolo II, “non ci abbandona mai, anche nelle prove più difficili e dolorose”. Chi può scrutare nella mente dell’Altissimo per interpretare i segni e i disegni divini?

“Sì che tu sei terribile!” – proruppe Manzoni quasi blasfemo e irriverente allorché fu visitato dal Signore in occasione dell’immatura perdita della sua “musa”, la giovane Enrichetta (Il Natale del 1833). Il manrovescio della malasorte è sempre in agguato e nessuno lo può mettere in conto: Ercolano e Pompei, Messina e Reggio Calabria, Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, New York, Indonesia, L’Aquila, Haiti… Ma sono tante le devastanti tragedie con fatali “tsunami” e sismi in ogni angolo del mondo, ogni giorno e con voci abituali, in un silenzio privo di allarmismi (per non parlare di epidemie, fame, guerre)! Senza accendere riflettori o scomodare termini biblici: apocalisse epocale, diluvio universale, ecatombe, inferno, come si usa nel tipico e stereotipo linguaggio mediale! Al bivio della storia, per mutare logica e stile di vita, due le alternative: illudersi di persistere in siffatto modello “epicureo”, fidando il meno possibile nel domani (“Carpe diem” oraziano) o credere in qualcosa di positivo e sperare nella Provvidenza. Ma cos’è la speranza?

Il mito di Pandora è un messaggio criptico ancora da decifrare. C’è chi si ostina passivamente a vedere nella speranza un supino, placido adagiarsi su una situazione di comodo, privata di stimoli e proiezioni verso un anelito di evoluzione sociale (“le magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, di cui diffidava Leopardi). Anche se il Cristianesimo ne ha ribaltato il presupposto mitologico o pagano, con altra interpretazione ideologica, quella leggenda è lezione morale da approfondire.

Pandora fu la prima donna del mondo classico e, come la biblica Eva, fu origine di ogni rovina, cagione di tutti i mali che affliggono l’umanità, tra cui la morte. Zeus, invidioso del progresso umano foriero di felicità, secondo il vecchio motivo della speculazione greca sugli dei (Euripide, Alc. 1135), era adirato con Prometeo, il previdente, per il furto del fuoco donato agli uomini. Per punizione commissionò ad Efesto di plasmare con terra ed acqua una bella figura di donna. Gli dei fecero a gara per ben dotarla: Afrodite col fascino della bellezza, Atena con le abili arti, Ermes con l’ingegno. Da ciò l’appellativo di Pandora (ricca di tutti i doni). Zeus, malevolo, le offrì però una scatola chiusa che conteneva, inoffensivi, tutti i mali del mondo: malattia, guerra, povertà, vecchiaia, morte… La diede poi in sposa ad Epimeteo, lo sprovveduto fratello di Prometeo. Ma la sventurata, indotta per curiosità muliebre o per volere divino, aprì la scatola e i mali là racchiusi volarono via diffondendosi sulla terra. Accortasi dell’errore, fece tuttavia in tempo a richiudere il coperchio costringendo all’interno la sola fallace speranza, ormai innocua, l’eterno desiderio verso cui è però diretto ogni istinto e progetto dell’umana esistenza, l’ultimo dei mali, astratto e invisibile, che rode dentro e arrovella ogni coscienza insoddisfatta, vittima del bisogno, traviata dall’ambizione, dall’inquietudine e dall’attesa.

La storia si compone di varie fasi tese al progresso ed alla civilizzazione del genere umano, pur con risvolti non sempre positivi: l’età dell’oro (felicità), dell’argento (accidia), del bronzo (violenza), del ferro (decadenza morale), del petrolio (consumismo), dell’atomo (paura). Segue l’incognito, un mondo condannato al peggio che non si conosce, in balia del fato, dominio del male estremo, la morte. Ma, dinanzi a questo dramma esistenziale, è un dovere vincere la paura per esorcizzare il fantasma del nulla ed evitare la disperazione, cui l’uomo è comunque destinato (sì come teorizzato da Sartre).

Oggi, assaliti dal dubbio di una crisi d’identità smarrita, si parla di era tecnologica e mediatica di globalizzazione, con conseguente crisi di valori e caduta di certezze. L’unico rimedio in un mondo senza anima è l’ottimismo: pensare in positivo e sperare aprendoci all’altro, alla cultura della solidarietà, l’unica ancora di salvezza, la zattera possibile. Non tuttavia l’ottimismo di Leibniz, ossia la rassegnazione (“questo è il migliore dei mondi possibili”), né di Voltaire con la soluzione di Candido, la resa come rifugio nel proprio orticello, segno di egoismo e irresponsabile rifiuto della socialità (il finale di Renzo nel romanzo manzoniano). La speranza, a fronte del pessimismo della ragione, non può non essere che l’ottimismo della volontà, ossia il “volontarismo” come realtà possibile (secondo la lezione gramsciana). Deve mostrarsi attiva e dinamica, governata come la fortuna machiavellica, inseguita con audacia e scaltrezza ma pure assecondata. Può essere l’avventura dell’ignoto, il rischio del nuovo per una vita più proficua, la partenza per lidi fortunosi, dove sfuggire rassegnazione e sconfitta (la scelta del giovane Malavoglia nell’ultima pagina lirica dell’opera verghiana). Attendere la speranza non ha alcun profitto, neanche se sorretta da pie illusioni (quelle foscoliane), che non creano solide certezze oltre la poesia. Neppure è consolatrice come ultima dea, perché nulla può affiorare al di là dell’ultima spiaggia, nulla se non di rado e prodigioso.

La vera speranza, in chiave cristiana ed escatologica,  si arricchisce invece di doti insite nell’umano intelletto, corroborata dalle virtù, la fede e l’amore, specie per gli ultimi della terra. Ma è rassicurante e feconda a condizione che risponda in pieno allo spirito filantropico di solidarietà umana e sociale, segno di civiltà. Se non è fondata e salda diviene realtà sempre più diafana ed evanescente. Senza un credo, l’ottimismo non ha luogo d’essere, si fa utopia (non-luogo), impossibilità presente e futura, angoscioso male di vivere, ossia pessimismo e persino nichilismo, malattia delle società opulente occidentali, come nel pensiero, ancorché dissimile, di Nietzsche e Heidegger.

Eppure l’uomo alle origini viveva morigerato e parco, anzi erano tutti eguali e beati, finché per invidia gli dei, sospettosi della felicità dei mortali, inviarono sulla terra il “Piacere” a provocare sconcerto, dissidio, a dividere l’umanità in plebe e nobiltà. Davvero singolare e intrigante la favola sapientemente satirica di Parini. Dalla discriminazione in classi ebbero inizio ineguaglianza e ingiustizia: il bisogno e la sofferenza per gli uni, la ricchezza e il lusso per gli altri, l’ingenuità, il sacrificio e la precarietà da una parte, l’astuzia, la corruzione e la lussuria dall’altra. L’eguaglianza di partenza fu snaturata e l’umanità fu condannata ad una lotta di classe impari ed ardua. Le resta l’antico sogno: ripristinare la primitiva parità sociale, debellare l’individualismo, per riscattare se stessa e uscire dal tunnel di una depressione amara ed esasperante. Costretta a patire una condizione di crisi esistenziale e d’infelicità, tra disagi e incertezze, non sembra ancora in grado di trovare una via d’uscita e di salvezza.

L’unica alternativa cui affidare le aspettative più ottimistiche è l’unità nel collettivo (la “social catena” dell’ultimo Leopardi nella Ginestra). Una speranza certa rimane la società costituita, ossia lo Stato, garanzia assoluta, la più affidabile, al pari della fede. Lo Stato però ha il dovere di porsi al servizio dei cittadini nella misura in cui essi, per capacità produttive e contributive, sono al suo servizio senza furberie o egoismi, al fine di renderlo più sicuro ed efficiente, vicino a problemi e bisogni generali, secondo norme democraticamente sancite per il bene comune. Il solo pensare di fare affidamento ad una forma di Stato privatistico, indifferente e patrigno, e per tal progetto affannarsi a signoreggiare l’agone politico sarebbe un abbaglio. È come prendere a calci una realtà oggettiva che non si prostituisce supinamente a calcoli di egemonie illiberali o demagogie qualunquiste. La legge del più forte, con la gestione arrogante del potere tra soprusi e privilegi scientificamente pianificati, appartiene alla giungla o al medioevo, non si addice alle moderne democrazie evolute dell’Occidente.

Potremmo solo augurarci che la speranza, come male innocuo, sia davvero rimasta prigioniera di Pandora. Nessuno si sentirebbe obbligato a sperare! Chi non spera, senza arrendersi, ha quasi tutto o quanto meno è ricco di potenziali certezze. Altrimenti, in attesa che si compia un prodigio, non rimane che lottare perché i poveri siano meno poveri e soprattutto più felici, in una società più equa, più umana. È dovere civico – osservava Ciampi – “guardare con fierezza al passato e con serenità al futuro”, forti della propria dignità, con valori e ideali condivisi. Sarebbe una fortuna se il più povero tra i poveri, pur con risorse inferiori, potesse un giorno sorridere alla pari del più ricco tra i ricchi. La vita è bella così, ci rasserena Benigni, ma lo dev’essere per tutti. È bene tuttavia che ci accompagni e sempre ci sorregga il sorriso! Tra ambasce personali e storiche sciagure ci attendono ulteriori ostacoli da superare, con qualche gioco da fare e, chissà, la possibilità di un bel premio finale da vincere. Anche se la felicità assoluta non è di questo mondo, ma è solo relativa ed episodica. Se mai si possa domani godere in eterno, oggi il solo sperare non costa proprio nulla!

Nella prospettiva di un miracolo salvifico, questo l’auspicio per il tempo a venire: rattoppato il buco dell’ozono, la natura e il paesaggio senza condoni, una umanità cosmopolita, una pace planetaria, una realtà politica ormai l’Europa unita, l’Italia prospera e competitiva fuori dal tunnel, Paese normale e garante, il Mezzogiorno scommessa di Stato, la Puglia feudo di nessuno, possibile e giusta, il Salento prestigioso per qualità della vita, Gallipoli gratificata da amministratori lungimiranti, la nostra comunità serena, la gioventù rassicurata senza ali spezzate, ciascuno più fiducioso nel domani, nel trionfo del Bene sul Male assoluto. Forse è un’ingenua iperbole, ma non è mai abbastanza. Se potrà sembrare sterile persino il sognare, non ci resta che collaborare per lo stesso obiettivo, come traguardo cui credere fermamente. Privi di velleità progettuale, la speranza sarà una mina vagante, un male cronico destinato ad acutizzarsi, per farsi disperata utopia, totale rifiuto di un ottimismo di fondo. E intanto godiamoci la fine di quest’anno perché effettivamente, pur in una corsa ad ostacoli, ci siamo giunti incolumi, ma prepariamoci per un altro viaggio da compiere giorno dopo giorno senza vane o pie illusioni.

Periodici salentini/ Anxa News

di Paolo Vincenti

“Cum Anxa pugnavimus”, si potrebbe dire, parafrasando il sottotitolo di una storica pubblicazione gallipolina, lo Spartaco, una delle numerosissime riviste che fiorirono a Gallipoli a cavallo fra i due secoli Ottocento e Novecento. Oggi, dopo un passato glorioso dal punto di vista editoriale, l’unico giornale di opinione a Gallipoli è Anxa News, periodico di cultura, attualità e storia gallipolina.

Questo giornale non ha paura di schierarsi e lo fa puntualmente ad ogni nuova uscita, con coraggio e chiarezza. Solo che il giornale non si schiera a favore di una  parte politica piuttosto che di un’altra ma,sempre, dalla parte della verità.

L’Associazione culturale Anxa, che edita la rivista, si propone di recuperare le radici e salvaguardare la memoria storica della città di Gallipoli, promovendo studi e ricerche di storia patria. Molti sono stati, infatti, in questi tre anni di vita del notiziario, gli interventi di eminenti studiosi e cultori di patrie memorie che, con i loro contributi, hanno ridestato

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