Luigi Chiriatti, il più grande erede culturale salentino di Ernesto De Martino

 

di Romualdo Rossetti

Dopo una lunga malattia che ne aveva fiaccato il fisico ma non certo lo spirito, ha terminato la sua avventura terrena giovedì 25 maggio 2023, all’eta di settant’anni, con il coraggio e la serenità che lo ha sempre contraddistinto, Luigi Chiriatti.

Autore, tarantologo di fama nazionale e internazionale, musicista-cantore, fondatore della casa editrice Kurumuny, nonché direttore artistico del festival “Notte della Taranta” del quale dal 2015 era diventato co-direttore artistico insieme al compianto Daniele Durante, deceduto nel giugno 2021.

Già presidente dell’associazione culturale “Ernesto De Martino – Salento” era divenuto anche direttore scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e dal 2003 al 2009 e nel 2014 e direttore artistico del festival “Canti di Passione”.

Nato a Martano da padre artigiano e madre contadina, saggiò fin dalla più tenera età da entrambi i genitori, dal padre “muratore girovago” la diversità e la complessità culturale del territorio salentino e dalla madre contadina quel complesso sapienziale mitico rituale intriso di magismo. Frequentò con profitto le scuole medie presso il seminario Arcivescovile di Otranto e poi il liceo classico Capece di Maglie, successivamente quello di Lecce. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Filosofia che lo invogliò verso l’indagine etnografica sul territorio salentino nella quale potette approfondire gli studi sui canti alla stisa, sugli scazzamurreddhi o sciacuddhi, sulle opere malefiche delle striare e soprattutto sulle tarantate e i tarantuni.

Kurumuny, il podere dei nonni, dove una variegata umanità di quasi venti anime aveva dato vita ad una colonia culturale e sociale autonoma, si trasformò nel suo punto cardinale tanto che più tardi lo avrebbe scelto come nome per la sua casa editrice. A Kurumuny vivevano le prefiche di Martano e alcuni dei grandi cantori che erano stati contattati dall’antropologia audiovisiva nazionale e internazionale dell’epoca. Vi era anche chi per mestiere incideva le mammelle delle donne afflitte da mastite o operava per slegare i vermi che affliggevano i più piccoli. Fu lì che apprese anche l’arte di raccogliere i funghi, passione che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. A Kurumuny era presente anche sua zia Pascalina che durante i mesi di fine primavera ed estivi suonava un enorme tamburo che serviva tanto a divertire e donare un momento ludico quanto per cercare di alleviare le sofferenze delle donne pizzicate dalle tarante.

Delle tarantate conobbe le storie che le donne gli raccontarono in prima persona e che amplificarono il suo interesse per il misterioso fenomeno coreutico-musicale, soprattutto quando suo padre lo accompagnava a visitare la cappella di San Paolo a Galatina durante la festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu partendo proprio da Kurumuny, durante i suoi studi universitari, che cominciò a prendere in considerazione l’idea di approfondire, tramite una ricerca sul campo, la storia del tarantismo salentino del suo tempo, una ricerca che potesse divenire una prosecuzione di quella intrapresa da Ernesto De Martino negli anni ‘60.

Partecipò in prima a due terapie domiciliari molto differenti fra loro: una suonata e una sonante. Una taranta “ballerina” sensibile alle note dell’armonica e una taranta “sorda” in cui la donna si auto-induceva la trance tramite una nenia. Contemporaneamente cominciò a documentare negli anni settanta la giornata delle tarantate a Galatina, luogo di culto per eccellenza delle spose di San Paolo; in un primo momento con una macchina fotografica con obiettivo fisso di 50mm (Ferrania) e successivamente con macchine da presa.

Fu quello il periodo del suo primo incontro con Gigi Stifani, il “dottore delle tarantate”, musico e terapeuta neretino che tramite il suo violino e la sua presenza costante sul territorio aveva curato decine e decine di donne in preda alle problematiche della morsicatura della taranta. Gigi Stifani gli raccontò del fatto che a suo dire le donne risultavano essere più soggette al morso perché avevano nel sangue “una gradazione in meno” rispetto all’uomo. Il neretino gli disse di credere nell’intercessione del santo di Tarso e ai suoi miracoli così come gli confidò di essere consapevole del suo importante ruolo di “guida sciamanica” nel rituale di liberazione dalle afflizioni del tarantismo. Tutte quelle storie, tutti quei racconti, tutte quelle dicerie delle comari del paese unitamente alle teorie dei medici, dei sacerdoti, costituirono il corpus della sua tesi di laurea dibattuta nel 1978 presso l’insegnamento di Sociologia dell’Università di Lecce perché nessuna altra cattedra “filosofica” avrebbe mai accettato una tesi sul tarantismo in quanto considerato ancora, crocianamente parlando, un argomento tabù di scarso interesse culturale, una specie di infimo fenomeno da baraccone non degno di nota. Nel 1977, prima di laurearsi, aveva inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, fondando successivamente diversi gruppi di riproposizione e recupero delle tradizioni musicali popolari come il famoso Canzoniere di terra d’Otranto e Aramirè.

Considerevoli furono le sue ricerche sul tarantismo pugliese vissute pienamente all’interno della più ortodossa interpretazione gramsciano-demartiniana che supportò con altri importanti spunti ermeneutici.

Memorabili rimangono alcune sue opere di antropologia culturale come il saggio “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino”, edito nel 1995 da Capone Editore e successivamente dalle Edizioni Kurumuny, dove presentò la sua inchiesta sul tarantismo in collaborazione con le registe Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonte, Ronny Daoupulo, ricerca finalizzata alla realizzazione di un documentario dallo stesso titolo uscito nelle sale cinematografiche nel 1981. Nel saggio l’autore si soffermò a raccontare con una scrittura avvincente ma anche molto intima la propria esperienza di libero ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi in cui quella cultura ancora si manifestava seppur sempre con minore vigore.

Si offrì, quindi, ai propri lettori in veste di protagonista di una ricerca volta a ritroso nel tempo e costituita da simboli e luoghi “magico-rituali” da lui frequentati e vissuti in gioventù. Altra sua memorabile fatica fu il saggio storico locale Terra Rossa d’Arneo edito da Kurumuny nel 2017 dove indagò l’imponente movimento di lotta per la terra, culminato nelle occupazioni delle terre d’Arneo del ‘49-51.

In quasi cinquant’anni di ricerca sul campo riuscì a realizzare un autorevole archivio di etnomusicologia e tarantismo con più di 1600 documenti di vario genere tra video, interviste, fotografie e materiale sonoro. Numerose sono state le sue collaborazioni culturali che lo portarono a conoscere personaggi di primo piano della ricerca etnologica ed etnografica come Vittoria De Palma, seconda moglie di Ernesto De Martino, della quale raccolse inedite testimonianze di vita.

Lascia la moglie Marisa Palermo, i figli Salvatore, Anna, Giovanni, Francesca, Fabio e Paolo. Al figlio Giovanni e alla nuora Alessandra Avantaggiato e agli alti figli spetta ora l’onere e l’onore di portare avanti le Edizioni Kurumuny nel solco da lui creato.

 

Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil

Marcus Tullius Cicero,  Epistola ad familiares

 

 

Uccio, un pezzo di storia, la nostra storia

di Daniela Lucaselli

Non si smette mai di essere figlio dei propri genitori“, così Biagio Panico, giovane artigiano originario del Salento, che si prodiga nella diffusione della musica popolare salentina e della pizzica, ci presenta la figura di Uccio Aloisi.

Nato l’1 ottobre del 1928 da una famiglia contadina di Cutrofiano, paese agricolo della provincia di Lecce, è stato l’elemento di unione tra la tradizione orale e la  musica salentina di questi ultimi anni. Testimone attento e vigile della cultura orale del Salento, ha dimostrato come il canto aiuti l’uomo ad affrontare le vicissitudini del quotidiano. Antonio, questo il suo vero nome, da cui il diminutivo Antoniuccio e quindi Uccio, è l’ ultimo di una numerosa e povera famiglia contadina, soggetta alle dure leggi della sopravvivenza. Il faticoso lavoro nei campi veniva alleviato da  note di allegria, tra cui il canto, a voce spiegata per spezzare la stanchezza; le feste popolari riuscivano a compensare le fatiche giornaliere a cui la famiglia era incessantemente sottoposta, infondendo coraggio, amore e serenità. La storia dei canti del lavoro era il comune denominatore di tutte le classi lavoratrici umili del mondo.

Grande lavoratore, ha “zappato” la terra, ha estratto il tufo nelle cave, ma uomo  instancabile non ha mai trascurato il canto e la voglia di trasmettere usanze e costumi.

Nella sua Autobiografia si legge: “Alli puzzi, alle tajate, alle fogge de l’argilla, alle fondazioni, iu l’aggiu chine, iu tabaccu, iu…vignetu, iu cu bau… alli disoccupati, iu aggiu coddu letame de menzu la strada… Ma l’aggiu  fatte tutte ma sempre de la fame aggiu mortu”.

Partecipa  alle feste di paese e alla sagre affollate finché riscopre la musica popolare salentina. Il cantastorie Uccio, attraverso la sua appassionata e genuina voce popolare, ha voluto trasmettere alle nuove generazioni, esattamente come ha fatto il padre prima di lui, l’amore per il suo luogo natio e per le tradizioni della sua terra. L’eco delle sue parole,  del suo canto e dei suoi cunti, arrivano direttamente al cuore di chi l’ascolta, coinvolgendolo  emotivamente. Al ritmo di suggestive danze, tamburelli, stornelli,  ha voluto esprimere, con la sua pura e calda voce,  i sentimenti più intimi dell’animo umano e le storie legate al sudore e alle fatiche della terra del sud. Rinvigorisce il corpo ma anche lo spirito, emoziona, coinvolge e suggestiona.

Intorno alla metà degli anni ’70,  insieme ad alcuni amici, tra cui Uccio  Bandello, e Uccio Melissano, forma un gruppo musicale di cantori, denominato “Li Ucci“; suona anche con Gigi Stifani, il celebrato violinista-barbiere-terapeuta di Nardò. Iniziano una serie di serate e di manifestazioni musicali. Il suo gruppu dà un volto nuovo e moderno al repertorio contadino con palco, microfoni ed amplificazioni. Durante gli anni ’90 la crescente curiosità ed interesse per la musica della terra del  Salento dà forza al gruppo che si ripropone al pubblico esibendosi in Italia ma anche all’estero. Il tempo trascorre inesorabilmente e, dopo la scomparsa nel 1998 dell’amico Uccio Bandello , Aloisi, testimone intramontabile  della pizzica e della melodia popolare salentina, si esibisce con il  gruppo di musicisti e cantori  Uccio Aloisi Gruppu nelle piazze del Salento, coinvolgendo soprattutto i giovani. All’età di 74 anni pubblica il CD “ Robba de smuju” (edito nel 2003).  Uccio, accompagnato dal suo “gruppu” continua ad esibire davanti a migliaia di persone, al suono di tamburelli, mandolino, chitarre, organetto, il suo repertorio, dagli stornelli ai canti di lavoro, ai canti d’amore, ai canti alla stisa, fino a concludere con la frenetica Pizzica-pizzica,“…lassatila ballare ca è tarantolata…“.

Riesce sempre a  coniugare  singolari momenti di profondo lirismo musicale, come quando canta la canzone di Tito Schipa “Quannu te la lai la facce la matina”, con suggestivi e coinvolgenti motivi ritmati con arte dal tamburello. La popolarità non influenzerà mai  la sua semplicità e la sua  fedeltà alla cultura contadina, da cui attinge i contenuti del suo vasto repertorio.

Nonostante le sue precarie condizioni di salute, ha partecipato anche all’ultima edizione (XIII) della “Notte della Taranta” a Melpignano il 28 agosto; a lui, “grande mattatore della pizzica e della melodia popolare salentina” è stato dato l’onore di “aprire le danze“.

Nel corso della sua carriera artistica ha anche collaborato e duettato con i “Buena Vista Social Club”, artisti di fama internazionale.

Addio  indimenticabile Uccio!

 

 

Bibliografia

  • V. Santoro, L’addio a Uccio in “Corriere del Mezzogiorno”, 23 ottobre 2010;
  • Wikipedia, l’enciclopedia libera.

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