Il dipinto delle sante Maria Maddalena e Francesca Romana del pittore Donato Antonio D’Orlando

 

di Stefano Tanisi

Donato Antonio d'Orlando

Soggetto: Sante Maria Maddalena e Francesca Romana

Epoca: 1618

Autore: Donato Antonio D’Orlando (1560 ca. – 1636)

Tecnica: olio su tela

Misure: cm. 263,5 x 166

Stato di conservazione: recente restauro

Provenienza: Ugento, Museo Diocesano (già nella chiesa delle Benedettine di Ugento)

Iscrizioni: DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618/ S. M. MADALENA / S. FRANCESCA ROMANA / scene lato sinistro: Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem / Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat / Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur / Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret / Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit / scene lato destro: Moltiplica il pane in refettorio / Esce odore soavissimo del suo corpo / Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi / Sana un putto del mal caduco / […]

 

La tela, proveniente dalla chiesa delle Benedettine di Ugento, raffigura le due Sante Maria Maddalena e Francesca Romana. È un’opera autografa del pittore Donato Antonio D’Orlando di Nardò, da come si può leggere dalla firma “DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618”. Datata dunque 1618, allo stato attuale è l’ultima opera che si conosce con certezza del pittore neretino.

Il dipinto, come spesso si riscontra nelle opere del pittore, ha un carattere devozionale e didattico, grazie all’utilizzo di scenette che ritraggono gli episodi salienti della vita delle due sante accompagnate dalle relative didascalie che permettono ai fedeli una più facile lettura della rappresentazione sacra. Come in altre opere, il pittore utilizza delle bordature in foglia oro per delimitare le scene.

In passato la Chiesa latina accomunava nel culto di santa Maria Maddalena tre donne diverse: 1) la peccatrice perdonata a casa di Simone il lebbroso; 2) Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro; 3) l’indemoniata Maria Maddalena (da Magdala, città da dove proveniva) liberata da Gesù che diverrà la sua devota discepola. Essa fu tra le donne che assistette alla crocifissione e divenne la testimone diretta della resurrezione di Cristo. Ed è quest’ultima che va correttamente indicata come la nostra santa.

Nel dipinto ugentino la Maddalena è raffigurata a sinistra in ginocchio con le mani congiunte in segno di preghiera; il suo sguardo è diretto verso il cielo. Alle spalle è un vaso di vetro trasparente contenente il profumo con il quale avrebbe dovuto ungere la salma di Cristo la Domenica di Pasqua. Il lato sinistro è ripartito da cinque scenette con gli episodi della vita della santa, accompagnate da sintetiche didascalie in latino stentato, dove troviamo a partire dall’alto: Gesù mentre è a cena a casa di Simone guarito dalla lebbra, la peccatrice s’inginocchia ai suoi piedi (Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem); a casa la santa fa penitenza in ginocchio frustandosi il petto con una catena d’oro di fronte a un tavolo dove è poggiato un crocefisso, il vaso dei profumi e il teschio simbolo della vanitas (Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat); Maria con la sorella Marta insieme a un gruppo di donne ascoltano la predica di Cristo posto su di un pulpito (Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur); lo sbarco della Maddalena a Marsiglia, anche se la didascalia allude a una predica con san Pietro a Roma (Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret); la morte della Maddalena e la gloria tra gli angeli (Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit).

Donato Antonio d'Orlando

La Maddalena ugentina, pur nella rigidità della posa, ricorda la stessa santa raffigurata nella Crocifissione della chiesa matrice di Galatone. Entrambe, anche se dipinte specularmente, si dimostrano simili nella fisionomia del volto, nell’attacco della testa al lungo tozzo collo, nel modo di trattare la fluente capigliatura, nell’anatomia delle mani.

Donato Antonio d'Orlando

Queste due opere si rivelano assai decisive nell’attribuzione al D’Orlando di un noto dipinto raffigurante la Pietà, conservato nella chiesa dei Carmelitani di Nardò, attribuito nel 1964 da Michele D’Elia e Nicola Vacca al pittore Gian Serio Strafella (documentato dal 1546 al 1573) di Copertino: nonostante il recente restauro che ha evidenziato i colori e le forme, nel 2013, nel catalogo della mostra leccese dedicato ai pittori manieristi (Cassiano-Vona, 2013), gli studiosi hanno confermato tale dipinto al pittore copertinese. È chiaro che la qualità pittorica e coloristica dei tre dipinti menzionati è certamente differente (cosa assai palese nella produzione del pittore), ma mettendo a confronto i tre volti della Maddalena sorprendentemente si richiamano tra loro nella configurazione del naso e delle palpebre dell’occhio, particolari fisiognomici – riscontrabili anche in altri dipinti autografi – che sono peculiari della produzione del D’Orlando. Conferma si ha quando si raffronta anche l’anatomia del corpo esanime del Cristo nel compianto di Nardò con quella del Crocifisso di Galatone (confronta anche con il corpo di Cristo della tela della Madonna della Misericordia della chiesa omonima di Nardò o con quello dell’Allegoria del Sangue di Cristo della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Seclì).

Simmetricamente a destra troviamo raffigurata, sempre in ginocchio, santa Francesca Romana. La santa, vissuta tra il XIV e il XV secolo, fu sposa, madre, vedova e fondatrice a Roma dell’ordine religioso delle Oblate Benedettine di Monte Oliveto. Ha dedicato la sua vita all’unità della Chiesa, ai poveri, malati e morenti. Nel dipinto ugentino l’oblata è raffigurata nella sua consueta iconografia: vestita con abito nero e lungo velo, mentre nelle mani regge il libro delle regole. È affiancata dall’angelo custode – abbigliato con una vistosa dalmatica rossa e tiene in mano una palma con i datteri – che la difese dal demonio. Anche il lato destro è occupato da cinque scene dei miracoli della santa, con le relative didascalie scritte invece in italiano, dove troviamo: santa Francesca che moltiplica il pane nel refettorio di fronte alle consorelle (Moltiplica il pane in refettorio); la salma della santa distesa su un catafalco, dal cui corpo esce un odore soave, mentre le consorelle assistono sorprese e un monaco gli si è inginocchiato ai piedi (Esce odore soavissimo del suo corpo); la santa raffigurata in ginocchio davanti il tabernacolo mentre è rapita in estati dopo la Comunione (Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi); la santa guarisce dall’epilessia un giovane trattenuto da un anziano (Sana un putto del mal caduco); la santa visita un’ammalata distesa nel letto (didascalia consunta).

Lo sfondo, dalle contrastate tonalità fredde grigio-verde, è occupato in alto dal cielo plumbeo che va gradualmente a rischiarirsi sulle vette delle montagne alle cui pendici compaiono dei piccoli nuclei abitativi.

Il recente restauro ha restituito i colori e i dettagli del dipinto, oscurati da numerose ridipinture e strati di sporco. Nella rimozione delle parti ridipinte è emerso che le labbra delle due sante sono state in passato volutamente sfregiate.

 

Bibliografia:

– D’Elia M. (a cura di), Mostra dell’Arte in Puglia dal tardo antico al rococo, catalogo, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1964, p. 136;

– Vacca 1964 = Vacca N., Nuove ricerche su Gian Serio Strafella da Copertino, in Archivio Storico Pugliese, XVII, 1964, p. 33;

– Corvaglia F., Ugento e il suo territorio, ristampa, Tipografia F. Marra, Ugento, 1987, p. 110;

– Palese S., Monasteri e società in Terra d’Otranto. Le monache benedettine di Ugento, in «Archivio Storico Pugliese», Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, a. XXXIII, 1980, pp. 271-272;

– Cazzato M., Sulle vie delle capitali del Barocco, Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII Sec.), Aradeo 1986, p. 22

– Cassiano A., Il Museo Diocesano di Ugento, in Antonazzo L., Guida di Ugento. Storia e arte di una città millenaria, Galatina, Congedo Editore, 2005, p. 90;

– Cassiano A. – Vona F. (a cura di), La Puglia il manierismo e la controriforma, catalogo della mostra, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 56-57, 224-225.

 

(Tratto da: Tanisi S., Scheda 6. Sante Maria Maddalena e Francesca Romana, in S. Cortese (a cura di), La fede e l’arte esposta. Catalogo del Museo Diocesano di Ugento, Domus Dei, Ugento 2015, pp. 51-53)

Il Cristo deposto nella chiesa del Carmine in Nardò

 

di Marcello Gaballo

Tra le opere pittoriche conservate nella chiesa del Carmine di Nardò, già chiesa conventuale carmelitana poi parrocchia, di gran rilievo è senz’altro la tela della Pietà o del Cristo deposto sorretto da angeli finora attribuita al copertinese  Gianserio Strafella, collocata sul secondo altare della navatella destra. Di cm. 152×205 non è ad olio, ma una tempera grassa su tela, come emerso dall’ultimo restauro del 1999 eseguito da Francesca Romana Melodia.

Nonostante sia stato ridotto rispetto alle dimensioni originarie ed il pigmento abbia perduto di consistenza materica a causa di una precedente violenta pulitura, il dipinto è un’opera davvero importante del cinquecento salentino e tra le più belle esistenti in città.
Continuando a ritenerla opera del copertinese, come ancora sostiene la critica, lo Strafella nasce attorno al 1520 da Pietro e Maria Mollone, ed è documentato dal 1546 grazie alle pale d’altare presenti in alcuni centri di Terra d’Otranto. Restano incertezze sulla data di morte dell’artista, da collocarsi tra la fine del 1573 e il 1577, e pochi sono ancora gli studi finora condotti, se si eccettuano quelli più noti di Nicola Vacca, ripresi da Giovanni Greco.

Una delle prime opere sembra sia stata la Trinità, un olio su tavola autografo conservato in Santa Croce a Lecce, ma il capoluogo può vantare un’altra pittura al medesimo attribuita, La Vergine col bambino e i santi Michele e Caterina d’Alessandria nella chiesa di S. Francesco da Paola, del 1564.
Sua è pure la Madonna in Gloria, un tempo nella chiesetta di S. Maria di Costantinopoli in Gallipoli ed ora nell’episcopio; da qualche Autore gli vengono erroneamente attribuite anche l’Assunzione nella parrocchiale di Cocumola e la Pietà nella cattedrale di Castro.

Più fortunata la sua città natale nella cui chiesa matrice di Santa Maria ad Nives sono conservati quattro dipinti coevi, del 1554, raffiguranti ieratici e solenni santi Pietro, Paolo, Gregorio Magno e Gerolamo, che sembra formassero un polittico purtroppo privo della tela centrale; altri due ritraggono il Coepit flere di san Pietro e la più nota Deposizione o Schiovazione del 1570. Anche la cappella di san Marco, nel castello, fu dipinta dallo stesso, sebbene il livello non possa ritenersi così alto come nell’opera neritina. Tale diversità richiede necessari approfondimenti, per poter continuare a ritenere la tela di Nardò opera certa del copertinese.

Copertino, S. Maria ad Nives, La Schiovazione di Gianserio Strafella (particolare)(ph M. Gaballo)

Rinnovatore della pittura figurativa salentina di metà secolo, la formazione sembra sia stata determinata da probabili contatti con Pellegrino Tibaldi (1527-1596) che avrebbe potuto conoscere nel cantiere di Castel Sant’ Angelo, in cui il romano dipingeva l’appartamento di Paolo III.
Il medico leveranese Girolamo Marciano definì il nostro, enfaticamente, “pittore nobilissimo, discepolo di Michelangelo, il quale non solamente si può eguagliare al suo maestro e a Raffaello da Urbino, ma agli antichi Apelle e Zèusi”. Più pacato, ma senz’altro veritiero, è il giudizio espresso nel 1882 dal leccese Cosimo de Giorgi, che lo riteneva “uno dei pochi pittori veramente esimi di Terra d’Otranto”.

 

La Pietà conservata nel Carmine di Nardò, dalla critica postdatata al 1562, conferma le capacità artistiche e le chiare influenze desunte dai maestri del tempo, con particolare richiamo al Cristo morto sorretto da angeli di Giovanni Bellini o quello di Giovanni Santi.
Il Salvatore, appena deposto dalla Croce, è il personaggio principale e il suo corpo esanime, sorretto da due angeli dolenti, mostra le piaghe ancora sanguinanti, chiaro segno del dramma appena consumato. L’angelo centrale, che effettivamente sorregge il corpo, è l’unico con lo sguardo rivolto all’insù, verso il Cielo, quasi sia l’unico a recepire consapevolmente il misterioso disegno divino sull’unico Figlio.
San Giovanni, alla sinistra di Cristo, ne sostiene il braccio dello stesso lato, mentre Maria Maddalena, dai lunghi e riccioluti capelli biondi, prostrata, sembra ancorarsi alle gambe, quasi per trovare conforto allo strazio provato e per rendere l’estremo tributo prima che sia riposto nel sepolcro.
Prospetticamente arretrate nella parte superiore le due figure di Giuseppe d’Arimatea sulla destra e della Vergine a sinistra, anch’esse dolenti e quasi isolate dal contesto. La mano sinistra materna accentua la triste sorte toccata al corpo del Figlio ed è incapace, come tutti gli altri, di osservarlo in così misero stato; il suo sguardo affranto è rivolto verso l’osservatore, quasi a volerlo indirizzare alla figura centrale. All’orizzonte nubi basse e scure tracciate sommariamente, sopravanzate da sciagurati ridimensionamenti della tela, documentano i cieli oscurati delle Scritture.

La modulazione manierata delle vesti, la ricca e brillante cromia, l’affollamento e l’intensa psicologia dei personaggi, il sapiente intreccio di mani e la profondità degli sguardi, le proporzioni e la fisicità delle figure ne fanno un lavoro tra i più significativi della pittura  meridionale, auspicando nuovi studi ed approfondimenti che diano la certezza dell’attribuzione e comunque il giusto risalto ad una personalità sottovalutata del cinquecento salentino, magari non ancora scoperta.

 

Bibliografia:
voce Gianserio Strafella, in Dizionario della Pittura e dei Pittori, V, Torino 1994, pag. 390; in La Pittura in Italia – Il Cinquecento, tomo II, Napoli 1988, pp. 508-847/848;
G. GRECO, Gianserio Strafella, pittore copertinese, Ed. Pro Loco, Copertino 1990, p.51;
E. MAZZARELLA, Nardò Sacra, (a c. di M. GABALLO), Galatina 1999, p.148;
N. VACCA, Nuove ricerche su Gian Serio Strafella da Copertino, in “Archivio Storico Pugliese”, Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, 1964.

Il castello di Copertino

di Fabrizio Suppressa

Immerso tra il verde degli ulivi salentini e a pochi chilometri dal blu del mare Ionio sorge Copertino, un comune popolato da poco meno di 25000 abitanti. Se dovessimo descrivere questa ridente cittadina con un’immagine che la rappresenta, senz’altro ci lasceremmo catturare dalla mole bruno-carparo del castello cinquecentesco e dal mastio angioino inglobato nella fortezza. Una perfetta macchina da guerra, che seppur svaniti i cupi periodi bellicosi, continua tutt’ora a destare rispetto e meraviglia ai turisti che giungono a visitare il Monumento Nazionale.

veduta aerea di Copertino

Ripercorriamo brevemente le origini del fortilizio celate nelle gagliarde murature, sino ad arrivare all’attuale conformazione del “più grande, bello e forte castello che si vegga nella provincia”, per dirla con le parole del Marciano, opera di Evangelista Menga “Architettore eccellentissimo, (..) della Cesarea Maestà di Carlo V”. 

Delle primordiali origini del castello di Copertino vi sono molte ipotesi, la più avvincente riguarda una possibile fondazione bizantina di un castéllion o di una piccola cittadella fortificata che amministrava fiscalmente e militarmente i limitrofi casali. Nonostante accurati saggi di scavi e rilievi a cura della Soprintendenza, ad oggi non sono state rinvenute tracce risalenti a questo periodo storico.

Il primo nucleo ben identificabile è l’antico mastio sorto probabilmente sotto il dominio Svevo e portato a termine dagli Angioini, come testimoniano l’esistenza di alcuni stemmi e l’iscrizione “CAROLUS ANDEGAVENSIS 1267”.

castello di Copertino (ph F. Suppressa)

In seguito, a causa di successioni ereditarie, il feudo copertinese, assieme a quelli di Leverano, Veglie e Galatone, passa ai Gualtieri di Brienne, che appongono il proprio stemma in pietra leccese sul lato Est con l’iscrizione (non più esistente)  “GUALTERIUS DE BRENNA COMES CUPERTINI”.

Possiamo immaginare questa magnifica opera come isolata e probabilmente munita di recinzione e fossato di difesa, non molto differente dalla vicina torre federiciana sita in Leverano. D’altronde in alcuni punti non avvolti da superfetazioni, sono ben visibili una pronunciata scarpa alla base della torre e superiormente dei beccatelli mutilati che sorreggevano probabilmente un camminamento in legno. L’interno era poi costituito da solai lignei, sostituiti poi nel ‘700 con volte in muratura, mentre una scala a chiocciola, realizzata nella spessa muratura, collegava tra loro i vari piani.

Il dongione era praticamente inespugnabile poiché l’accesso originario era collocato alla quota del primo piano, e comunicava con l’esterno tramite un ponte levatoio, di cui oggi permangono gli scassi dei bolzoni sul lato Nord che tracciano sulla scarna muratura una sorta di grossa croce latina.

Con il matrimonio tra Caterina, figlia di Maria D’Enghien e Raimondo Del Balzo Orsini, con il Cavaliere francese Tristano di Chiaromonte, il feudo e il castello vengono donati ai novelli sposi. Tristano, divenuto ora Conte di Copertino, cinge di mura le terre del proprio feudo ed erige il raffinato e tutt’ora esistente Palazzo Comitale, arricchendolo successivamente da un grazioso loggiato con bugne a punta di diamante.

Non passa poco tempo che feudo e castello vedono nuovamente cambiare signore. Con la guerra tra Angioini e Aragonesi e la vittoria di quest’ultimi, le proprietà vengono concesse ai Principi Castriota Scanderberg d’Albania come ringraziamento degli aiuti prestati.

Ma siamo oramai agli inizi del XV secolo, l’invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria sconvolge radicalmente le tecniche difensive di castelli e rocche. In tutta Europa le esili mura medievali vengono sostituite con cortine e opere bastionate ed anche il nostro castello di Copertino verrà perfettamente rimaneggiato alla maniera moderna.

Promotore di queste nuove ristrutturazioni è Alfonso Castriota come ci ricorda la lunga iscrizione che corre lungo il prospetto Nord-Est:

D. ALFONSO CASTRIOTA MARCHIO
ATRIPALDI DVX PRAEFECTVSQVE CAESARIS
ILLVSTRIVM D ANTONII GRANAI CASTRIOTAE
ET MARIE CASTRIOTAE CONIVGVM FERRANDINAE
DVCUM ET COMITVM CVPERTINO, PATER, PATRVVS
ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI
HONOREM CAROLI QVINTI REGIS ET IMPERATORIS
SEMPER AVGVSTI STATAM. ANNO DOMINI MDXL.

Costui affida l’incarico al copertinese Evangelista Menga, architetto militare nativo di Francavilla Fontana, già divenuto celebre per le sue fortificazioni di Malta, Mola e Barletta.

Il nuovo sistema difensivo, realizzato tra il 1535 e il 1540, si sviluppa attorno agli edifici preesistenti e ricalca planimetricamente il cortile trapezoidale dell’antico Palazzo Comitale. Vengono realizzate le spesse cortine di difesa, suddivise in due ordini di fuoco di cui quello superiore in “barbetta” e i quattro bastioni a punta di lancia collegati tra loro con una lunga galleria che scorre all’interno del perimetro del castello.

Contemporaneamente viene anche realizzato il portale di accesso (sempre opera di Evangelista Menga), dalle geometrie che ricalcano le linee angioine-durazzesche, arricchito inoltre da decorazioni scultoree in pietra leccese e da augustali con i volti dei personaggi che hanno contribuito alla storia dell’abitato.

particolare del portale del castello di Copertino (ph F. Suppressa)

Possiamo immaginare il castello nel pieno del suo splendore grazie ad un anonima descrizione settecentesca custodita presso l’Archivio Vescovile di Nardò:

“Così è fabbricato con ogni regola militare, che sempre a difesa dei suoi cittadini servirà da palladio contro i nemici. Né il suo fabbrico potrà mai venir meno, che per le sue fondamenta appoggiate si veggono sopra il sasso; tanto più sempre durevole, quanto ch’è pietra viva. E’ di passi 200 di circulo la sua pianta, cingendola per intorno il fossato largo passi 17 dalle cortine di fuore, e dalli Baloardi passi 8. Ha quattro torrioni in faccia de quattro venti più principali, difendendo la terra per ogni parte dai suoi nemici: ogn’uno di quelli ha quattordici finestroni, ed in ciascheduno di quelli vi sono due finestre una diversa dall’altra, per dove a traverso può giocare il cannone. (…)

Nella sua porta maggiore non solo vi è il rastrello, ma anche il ponte a trabocco; a fronte di chi, prima di entrare nel suo cortile, vi sono due fenestroni che con delle bombarde minacciano l’ingesso.

Succedendo il bisogno di far mine, e contro mine, così vi sono altre sotterranee corsie, come sotto de li baluardi in terra piana, che guardano le fossate. Vi sono stanze per abitare di varia sorte di genti e per risposta d’ogni attrezza di guerra. Forni, e molini per macinare grani, e polvere, ritrovandosi in quantità nelle sue grotte il salnetro. Non mancano le provviste dell’acque piovane nelle molte cisterne; come in un pozzo l’acque surgenti dolcissime, ed in abbondanza. Il fabbrico delle sue mura è largo palmi 35 con calcina di molta gran forte mistura. Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artiglieria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro. Il piano vicino al castello è tutto minato, e con difficoltà questa fortezza potrà essere abbattuta.”

Con l’estinzione del ramo Castriota, il feudo viene messo all’asta dal regio demanio e acquistato dagli Squarciafico, banchieri genovesi con molte attività nel Salento. A questa famiglia dobbiamo la realizzazione di un capolavoro nel capolavoro, ovvero la costruzione della cappella di San Marco (realizzata al di sopra di una angusta cripta tutt’ora esistente) interamente affrescata dal pittore copertinese Gianserio Strafella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento; senza tralasciare un ulteriore opera d’arte custodita nella cappella: il monumento funebre di Stefano e Uberto Squarciafico realizzato dallo scultore gallipolino Lupo Antonio Russo in stile manierista.

Negli anni a seguire si susseguiranno ulteriori nobili famigli, quali i Pinelli, i Pignatelli e i Granito di Belmonte, che passata la paura ottomana, trascureranno il nostro castello a favore di palazzi molto più sfarzosi e confortevoli nelle città più importanti del Regno.

L’ultimo periodo di gloria per il castello avverrà verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il re Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio rifugiandosi a Brindisi, stabiliscono qui il Comando di Presidio dell’Esercito. Tutti i locali interni e le aree attorno saranno destinate al ricovero delle truppe someggiate.

Verrà in seguito, dopo anni di abbandono ed incuria, acquistato dal Ministero che in accordo con la Soprintendenza darà il via ai lavori di restauro e di restituzione dell’opera come polo culturale ai suoi legittimi possessori: i cittadini di Copertino.

Copertino. La chiesa matrice di Santa Maria ad Nives elevata a basilica pontificia minore

di Aldo Zuccalà

 

La chiesa matrice Santa Maria ad Nives in Copertino è stata elevata dal Santo Padre Benedetto XVI alla dignità di “Basilica Pontificia Minore”.
Tale solenne proclamazione è avvenuta il 3 luglio 2011 durante la celebrazione eucaristica, presieduta da S. Em. il Card. Salvatore De Giorgi, concelebrata da S. Ecc. il Vesc. Domenico Caliandro, dal parroco Mons. Giuseppe Sacino e da tutto il clero copertinese.
La messa solenne ha visto la partecipazione tanto delle istituzioni locali, nelle vesti del Sindaco di Copertino e del presidente della Provincia di Lecce, quanto di numerosissimi fedeli (la chiesa era stracolma di gente anche sulle navate laterali e sul sagrato) plaudenti e gioiosi per l’evento.
L’insigne titolo, materialmente visibile con l’apposizione degli stemmi pontifici sul prospetto principale e con una lapide commemorativa posta all’interno, concesso alla chiesa di Santa Maria ad Nives in Copertino per la sua particolare importanza storica, artistica e religiosa, lega ora la Collegiata copertinese in modo speciale con la Chiesa romana e il Sommo Pontefice; inoltre le conferisce specifici compiti e privilegi, riservati alle Basiliche Pontificie Minori.

Copertino, chiesa collegiata, la cosidetta “porta dei leoni”

La chiesa matrice, o collegiata, dedicata a “Sancta Maria ad Nives” (Madonna della Neve), rappresenta lo scrigno della storia religiosa e civile di Copertino.
Le collegiate erano praticamente delle cattedrali ma, mancando la figura del vescovo, non potevano rappresentare la sede episcopale né adempiere alle funzione di governo della diocesi. Esse facevano da corona alla chiesa vescovile e i membri appartenenti, oltre a curare le cerimonie liturgiche, erano tenuti a far vita comune insieme (da cui il nome).
Esistevano due tipologie di collegiate: quelle “a pieno titolo”, oppure quelle “ad instar”, e tale differenziazione nasceva dall’onorificenza del “canonico” del quale si fregiavano i componenti delle prime; mentre le seconde erano formate da semplici sacerdoti.
Nella diocesi di Nardò, dipendevano dalla cattedrale neretina due chiese propriamente collegiate (Copertino e Galatone) e due “ad instar” collegiate (Casarano e Parabita).

L’attuale chiesa matrice di Copertino fu fondata sull’antica chiesa di San Nicola di rito greco-bizantino, nel 1088, quando nel Salento, per volere e ad opera del conte Goffredo il Normanno, si andò affermando il rito latino. Purtroppo non si sa nulla sulle caratteristiche della chiesa precedente, né di quella edificata nel 1088.
Essa venne riedificata da Manfredi, come possiamo leggere in una fonte tutt’ora conservata negli archivi della stessa Collegiata:

Giacinto Dragonetti, Difesa del Real Patronato
della Collegiata di Cupertino fondata nel
MLXXXVIII (1088) dal Conte Goffredo Normanno
e nel MCCXXXV (1235) riedificata e dotata dal
serenissimo re Manfredi, Napoli.

Manfredi di Svevia, conte di Copertino, la dotò di numerosi privilegi elevandola a basilica con il titolo di Vergine delle Nevi, dedicazione che sostituì quella originale dell’Assunta.
Dopo il 1235 la chiesa matrice subì solo delle modifiche e dei restauri, senza essere completamente distrutta. La struttura ha subito, infatti, ampliamenti e rimaneggiamenti nel corso dei secoli, sopratutto nel corso del ‘500 e del ‘700, per poi assumere la forma che noi oggi possiamo ammirare.

La facciata a capanna, è caratterizzata dalla presenza di archetti pensili, medievali, appartenuti alla prima costruzione medievale e dal portone principale, realizzato in bronzo nel 1985 dagli artisti R. Del Savio e G. Gianese.

Copertino, chiesa collegiata, l’ingresso principale

Sul portale maggiore di ingresso esiste un’epigrafe che cita e ricorda il nome di Manfredi e la data di costruzione della riedificazione.
Il cosidetto “portale dei leoni” è quello che si apre sulla facciata del lato destro, in prossimità del campanile, così chiamato per la presenza di due leoni stilofori, romanici.
Questo portale, molto più elegante di quello maggiore, è affiancato da due colonne rinascimentali, che lo separano da due nicchie; al di sopra dell’architrave, è incisa la seguente frase latina di dedica alla vergine Maria della Neve: “Divae Mariae ad Nives Dicatum” ed è impreziosito da un piccolo rosone scolpito nella pietra leccese, sormontato dal un timpano spezzato al cui centro è collocata la statua lapidea della Vergine.

Il campanile, sorto sui resti dell’antico cimitero di Copertino, fu innalzato tra il 1588 ed il 1603 dal magister lapidarius Giovan Maria Tarantino da Nardò.
Tale torre campanaria, in stile tardo rinascimentale, per molti aspetti stilistici e strutturali richiama quella della chiesa matrice di Galatone e le altre dell’Immacolata e del Carmine di Nardò. Da una attestazione risulterebbe che ai piedi del campanile, nel 1460 vi fosse una cappella dedicata allo Spirito Santo, sita iuxta parochialem, nel cortile della chiesa di allora, oggi sostituito dal sagrato.

Copertino, chiesa collegiata, interno

All’interno la chiesa Matrice si presenta con una pianta basilicale a tre navate, un tempo sorrette e scandite da colonne rinascimentali, poi rivestite ed incassate negli attuali pilastri tardo-barocchi del XVIII secolo; entrando dall’ingresso principale sul primo pilastro a destra è possibile scorgere da una fessura, lasciata appositamente, tale stratificazione di stili architettonici.

Il vano absidale, pentagonale, realizzato nel 1576, è opera del Tarantino, lo stesso del campanile, e di Francesco Maria Dello Verde, suo concittadino.
La collegiata di Copertino fu radicalmente restaurata a partire dal 1707 per volontà del vescovo di Nardò, Antonio Sanfelice. Ciò causò l’inglobamento delle colonne romaniche interamente affrescate e dei relativi capitelli in poderosi pilastri; scomparve anche la volta a capriate, nascosta da un tetto decorato con stucchi in stile rococò; il tutto ad opera di valenti artigiani provenienti dall’area barese.

Copertino, chiesa collegiata, particolare del portone bronzeo

Nell’antico rituale religioso delle collegiate il luogo deputato per la recita dell’Ufficio, la partecipazione alla messa “conventuale” e le eventuali riunioni capitolari era il coro (o aula capitolare), posto dietro l’altare maggiore. Sulla parete frontale rispetto all’altare maggiore vi erano gli scranni riservati alle “dignità” del Capitolo, mentre gli altri posti venivano occupanti dai restanti. L’ordine superiore era  riservato ai sacerdoti mentre i cosiddetti “beneficiari minori” (chierici, accoliti, mansionari…) occupavano posto nell’ordine inferiore.
Il coro della Matrice è formato da stalli, intagliati in legno, attribuiti a Raffaele Monteanni, che lo realizzò nel 1793, per volontà testamentaria di Vito Nicola Saggese..

La zona del transetto sinistro è occupata da un altare settecentesco con la tela della “Gloria di San Giuseppe” (1754); sul lato destro si trova il magnifico altare, in pietra e indorato, eseguito nel 600, dal celebre scultore copertinese Antonio Donato Chiarello e dedicato alla Vergine della Neve, contenente, incastonato al centro un affresco di stile tardo-gotico, raffigurante Gesù Bambino e la Madonna, la quale è rappresentata mentre viene incoronata da due angeli.

Copertino, chiesa collegiata. Antonio Donato Chiarello, altare in pietra e indorato, eseguito nel 600

Nella stessa sezione di questo altare è raffigurato il Miracolo della Neve.
Si racconta che a metà del IV secolo d.C, ad agosto, in piena estate, una forte nevicata si abbattè su Roma. Fu così che papa Liberio tracciò un solco, tra la neve caduta, sul colle Esquilino, esattamente nel luogo nel quale poi sarebbe sorta la basilica di Santa Maria Maggiore, conosciuta anche tempio della Vergine della Neve. Dopo questo prodigioso miracolo il culto della Madonna della Neve si diffuse ampiamente ed in suo onore, nel Salento, oltre alla matrice di Copertino, furono edificate la cappella a Galugnano, la parrocchiale di Strudà ed una chiesetta a Neviano.

In una cappella nel transetto a destra è collocata una tela con la rappresentazione del Trionfo dell’Eucarestia, affiancata da delle tavole raffiguranti le effigie di San Pietro, San Paolo, San Zaccaria e San Gerolamo, dipinte dal copertinese Gianserio Strafella. Queste tavole, risalenti al 1554, probabilmente erano parti di un unico polittico di cui non esiste più la figura centrale.

Rinnovatore della pittura figurativa salentina della metà del ‘500, lo Strafella, fu enfaticamente definito dal medico leveranese Girolamo Marciano, “pittore nobilissimo, discepolo di Michelangelo, il quale non solamente si può eguagliare al suo maestro e a Raffaello da Urbino, ma agli antichi Apelle e Zèusi”.

Più veritiero, è invece il giudizio espresso nel 1882 dallo studioso leccese Cosimo de Giorgi, che lo riteneva ”uno dei pochi pittori veramente esimi di Terra d’Otranto”.
L’attività manierista dello Strafella, oltre che nei dipinti presenti nella matrice, è visibile negli affreschi della cappella di San Marco nel Castello di Copertino ed è rintracciabile in molti dei principali centri dell’epoca (Lecce, Nardò, Gallipoli) e conferma le capacità artistiche dell’artista copertinese e le chiare influenze desunte dai maestri del tempo.
Interessanti sono le decorazioni barocche degli altari delle cappelle laterali, posti nel 700, in sostituzione di quelli rinascimentali; tra essi, spiccano quelli dedicati a Sant’Anna, al Cristo morto, con l’altra celebre tela dello Strafella, al Crocefisso ed alla Visitazione.

La collegiata di Copertino è il tempio salentino, nel quale gli elementi architettonici di vario stile e di varie epoche si fondono tra di loro, rendendo questo monumento mariano un bene prezioso, pieno di fascino e di arte, tenuto da sempre in enorme considerazione dagli storici, per via anche del suo archivio storico plurisecolare.

Da secoli attrae l’attenzione di fedeli, turisti e studiosi, provenienti dall’Italia e da tutta Europa, e da oggi, con l’elevazione a Basilica Pontificia Minore, si spera possa mantenere indiscusso ed inalterato nel tempo questo suo splendore e possa essere motivo di vanto per tutta la comunità copertinese e salentina.

 

 

le foto sono di Marcello Gaballo. Vietata la riproduzione.

Fonti:
– Salento Mariano – Valerio Terragno – Rubrica de “L’Ora del Salento” del 5 settembre 2009
– Topografia Medievale: Copertino e Sternatia, Studio di due Borghi in Età Medievale – 2004/205 – I. Alemanno
– http://www.facebook.com/l/lAQD3R6ZgAQD-yXbRJoCH4QE5Xr-9Sw8mpqk5h-Pep_3Jkg/www.comune.copertino.le.it/

Il Cristo deposto nella chiesa del Carmine in Nardò

 

di Marcello Gaballo

Tra le opere pittoriche conservate nella chiesa del Carmine di Nardò, già chiesa conventuale carmelitana poi parrocchia, di gran rilievo è senz’altro la tela della Pietà o del Cristo deposto sorretto da angeli finora attribuita al copertinese  Gianserio Strafella, collocata sul secondo altare della navatella destra. Di cm. 152×205 non è ad olio, ma una tempera grassa su tela, come emerso dall’ultimo restauro del 1999 eseguito da Francesca Romana Melodia.

Nonostante sia stato ridotto rispetto alle dimensioni originarie ed il pigmento abbia perduto di consistenza materica a causa di una precedente violenta pulitura, il dipinto è un’opera davvero importante del cinquecento salentino e tra le più belle esistenti in città.
Continuando a ritenerla opera del copertinese, come ancora sostiene la critica, lo Strafella nasce attorno al 1520 da Pietro e Maria Mollone, ed è documentato dal 1546 grazie alle pale d’altare presenti in alcuni centri di Terra d’Otranto. Restano incertezze sulla data di morte dell’artista, da collocarsi tra la fine del 1573 e il 1577, e pochi sono ancora gli studi finora condotti, se si eccettuano quelli più noti di Nicola Vacca, ripresi da Giovanni Greco.

Una delle prime opere sembra sia stata la Trinità, un olio su tavola autografo conservato in Santa Croce a Lecce, ma il capoluogo può vantare un’altra pittura al medesimo attribuita, La Vergine col bambino e i santi Michele e Caterina d’Alessandria nella chiesa di S. Francesco da Paola, del 1564.
Sua è pure la Madonna in Gloria, un tempo nella chiesetta di S. Maria di

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