La Cicceide Legitima, un libro proibito tra gli scaffali di una biblioteca monastica in Nardò

di Marcello Gaballo

Frontespizio della Cicceide

Frontespizio della Cicceide

In una delle tante escursioni fra le scaffalature della biblioteca comunale di Nardò attirò la mia attenzione un insolito titolo, La Cicceide Legitima, che non mi orientava in alcun modo verso un’epoca, tantomeno verso argomenti noti. Sconosciuto anche l’Autore, tanto che con la solita frase di manzoniana memoria mi chiedevo: Chi era costui?

Si trattava addirittura di una terza edizione, quindi di un libro di provato successo, che era stato scritto da un uomo del Seicento, Giovan Francesco Lazzarelli da Gubbio (5/4/1621-4/8/1693).
Di lui si conosce ben poco: fu un magistrato con funzioni di segretario di stato, quindi prevosto a Mirandola, presso Alessandro II Pico. Appartenne dunque all’alta borghesia, all’interno della quale il comporre era diletto frequente. Socio dell’Arcadia scrisse anche un Oratorio sul sepolcro di Cristo.

Perché mi interessavo di quel titolo? Confesso che ciò che destò la mia curiosità fu soprattutto una nota manoscritta, unica di tal genere fra le migliaia di volumi che i frati minori del convento neritino di S. Antonio da Padova avevano raccolto nei secoli.

Intanto il possesso, come si legge nell’annotazione superiore del frontespizio, rimanda al padre Giandomenico di Brindisi Dif (Definitore?). Applicato al Convento di Sua Patria. 1765. Di mano diversa l’altra annotazione: Dello studio del convento di Nardò.
Un terzo frate aveva invece scritto su tre righi, con grafia ben leggibile e ordinata: Lettor attempo, non aprire adesso. Poiché, se mai leggeste il Galateo, Il mostrar i Coglion non è permesso.

Stranamente non risultava nel piede della copertina la sottoscrizione tipografica.

Neanche il più distratto e pio lettore avrebbe ignorato l’ammonimento ed io, curioso e appassionato di antiche edizioni, non potevo esimermi dallo sfogliare quelle pagine ingiallite. Un chiaro invito già lo avevo ricevuto dall’insolito titolo, ma se ancora non ne avessi avuto il tempo e la voglia, ci avrebbe pensato il frate amanuense con quell’ammaliante invito, che equivaleva ad evidente raccomandazione a sfogliarlo e leggerne il contenuto.

La breve introduzione dell’amico curatore diceva che

questi suoi componimenti sono un mero sfogo di poetico capriccio affatto discordanti dalla pietà dell’animo suo… e questi sono più tosto scherzi di una penna, per trastullarsi, che sentimenti d’un cuore intento all’offesa d’altri, ti prego a credere ch’egli non mi avrebbe permesso mai la libertà di rimandarlo alle stampe, se non si fidasse dell’ingenuità del tuo cuore, che saprà trastullarsi coll’ingegno senza trascorrere colla volontà à denigrare né pur col pensiero la fama incorrotta del suo decantato protagonista…

chiaro segno che mi trovavo di fronte a piacevoli schermaglie e sottili considerazioni, quindi un qualche poemetto ironico-satirico, con la solita verve settecentesca che difficilmente può far almeno sorridere l’uomo del Duemila, avvezzo a ben altro e orami abituato ai continui turpiloqui che ogni mezzo di comunicazione quotidianamente gli propina.Lasciva est nobis pagina
leggo infine nella introduzione A CHI LEGGE.
Quindi, prima del Proemio, a pagina 5, trovo:
Della Cicceide. Parte prima. Le testicolate.
dove ancora l’amanuense ha annotato con la medesima sua grafia invogliante:
Divo Ciccio coglion primo Maximo.

Sfido chiunque a trascurare la lettura di un così allettante titolo e subito, ma ancora mostrandomi disinteressato nei confronti del personale di sala, divoravo la prima ottava:

A cantar di D. Ciccio un violento
Poetico furore oggi mi chiama,
E quindi al genial componimento
Promette Apollo eternità di fama:
La man però ne l’orditura, e trama
Di questo, ancorché nobile argomento,
D’arpa, o di cetra d’oro usar non ama
Le fila, o d’altro armonico istromento;

e poi subito la seguente:
Ma, d’una Piva sol fatta elezione,
(Come più confacevole, ed attiva
Per tal soggetto) a l’opera si pone;
E la cagion del così far deriva,
Perché sa la strettezza, e connessione,
La quale han tra di lor C….. e Piva
.

Ditemi se non dovevo proseguire… un libro del genere, di tutt’altro che fine umorismo, tra quelli di teologia, patristica, filosofia, del convento di Nardò! Ritenni utile mettermi comodo perché, ad intuito, valeva la pena soffermarsi su qualche altra sudata carta.

La mia curiosità era più che mai desta e, con malcelata indifferenza, facevo capire all’assistente di sala che forse era il caso di sederci entrambi per poter agevolmente scorrere quel volumetto in sedicesimo, di 228 pagine, con oltre quattrocento componimenti, in maggior parte sonetti, a carattere burlesco, con prosa leggera e alquanto fluida.
Prima di coinvolgervi nel mio divertimento riferirò alcune notizie che ho trovato a riguardo.

frontespizio di una delle edizioni della Cicceide

Il protagonista è un tale “Don Ciccio”, al secolo Bonaventura Arrighini da Lucca, nei confronti del quale si snoda una divertente parodia, sin dal momento del concepimento e finché non arriva in cielo.
L’Autore, suo collega, gli dedicò tanta irriverente attenzione, senza mai stancarsi di studiarlo e ammirarlo nella forma e nello stile, tanto da proporlo come esempio utile per parlare delle umane condizioni e dei tempi in cui egli visse.

“Don Ciccio”, auditore alla Rota di Genova, nel 1661 fu trasferito a Macerata, dove ebbe la sfortuna di entrare nelle “grazie” del poeta, che probabilmente dovette sopportarlo pazientemente per molti anni, pensando bene di rendergli il dovuto immortalandolo nella Cicceide di nostro interesse. Tanto stupido non doveva comunque essere neppure il protagonista, visto che a soli venticinque anni si era addottorato a Pisa, esercitando per molti anni presso la curia romana.

Forse le sue sembianze, il suo modo di fare, oppure un aspetto goffo e imbranato dovettero suscitare tanta curiosità nell’improvvisato poeta, che tralasciando il ritegno della carica probabilmente scrisse l’opera per proprio soddisfacimento o per stuzzicare l’intelligenza dei suoi amici. Difatti non era nelle sue intenzioni dare alle stampe la raccolta, che invece abusivamente e a sua insaputa fu stampata a Venezia.
La prima edizione, esaurita nel giro di un mese, è priva delle indicazioni tipografiche e riportava falsamente di essere stata stampata “in Cosmopoli”, come allora era in uso per la stampa di libri proibiti, pur di non incorrere nelle sanzioni della censura. In copertina figurava un poeta con corona di alloro e in abiti rinascimentali che mostra un cartiglio con il nome dell’opera; in basso, in una cornice, il falso luogo di stampa (in realtà Venezia). I componimenti sono 259, cui sono aggiunti dodici indovinelli, che non saranno più presenti nelle successive edizioni curate dall’Autore. Nelle altre il Lazzarelli provvide anche a sostituire le parole più volgari con i puntini di sospensione.
Prima ancora che uscisse la seconda, riconosciuta ed emendata dall’Autore e perciò detta “La Cicceide legittima”, chi aveva curato la prima ristampò il lavoro aggiungendovi altri quattro componimenti che costarono la messa all’indice dell’operetta.

Il divieto ne aumentò la fama e tutti gli ambienti culturali si preoccuparono di reperirne copia pur di trascorrere divertenti giornate con i sodali, tanto da essere inclusa nella produzione letteraria italiana tra Seicento e Settecento. Infatti la risonanza continuò e di conseguenza le edizioni, con ulteriore gaudio dell’irriverente ma capace Lazzarelli.

L’edizione conservata a Nardò è la terza, probabilmente stampata dal veneziano Giovan Giacomo Hertz intorno al 1750, e se non è da considerarsi una rarità bibliografica è certamente poco diffusa, introvabile nelle biblioteche pugliesi. Come abbia trovato rifugio tra i cimeli della nostra biblioteca minoritica non è dato di sapere, anche perché era un titolo censurato e perciò difficilmente reperibile.

frontespizio dell’edizione del 1885

Ma vediamo qualcuno dei primi componimenti, addirittura cominciando dal concepimento di don Ciccio (IV):
Ne la notte fatal che i Genitori
A formar di D. Ciccio erano intenti,
Dal Trono suo fra lucidi fulgori
Parlò Giove col Sole in questi accenti:
Tu ne’ due giorni prossimi seguenti
Sospendi al Ciel di Lucca i tuoi splendori,
E immobil fra gli opposti abitatori
Arresta il passo a tuoi Corsieri ardenti

Tre dì sotterra il lume tuo soppresso

Al concepirsi d’un, che deve anch’esso
De C… del Mondo essere l’Alcide.

e nel seguente (V):
A la Natura un dì venne in pensiere
Di praticar con la maggior finezza
Gli estremi sforzi del suo gran potere
Nel fare un uom di tutta compitezza.

Pria dunque n’ideò l’architettura,
Poi fatto di D. Ciccio l’embrione
Con una somma diligenza e cura,
Gli diede al fin la forma d’un C…

e disse—Ne la sferica figura
Più che ne l’altre sta la perfezione
.

E sempre la stessa bizzarra Natura per dargli una fantastica orditura (VI):

Sopra del Cul gli collocò la faccia,
E gli pose i Testicoli sul volto.

Una volta concepito bisognava provvedere alla struttura del corpo, che si marchiò con una bella “voglia”. Ma ecco come avvenne (VII):
Esposti a lusingar lo sguardo altrui
Vide un par di testicoli d’agnello
La Madre di D. Ciccio in un macello
Quand’era appunto gravida di lui:
Videli, e tosto i desideri sui
Persuasi da l’avido budello,
Con sal, pepe ammaccato, e limoncello
L’invogliaro a mangiarseli ambi dui:
Ma perché l’uno, e l’altro a lei fu tolto
Da un altro più sollecito ghiottone,
Alzò le mani, e sen percosse il volto.
Or questa con effetto è la cagione,
Che ‘l figlio poi, da l’utero disciolto,
Nacque con quella faccia, di C…

Nacque don Ciccio di sette mesi, i primi di maggio, perché così dispose il sommo Giove (IX):

Poiché fra tanti fior, c’ora congiunti
Sorgon dal suolo a inghirlandare il Maggio
Vò che ‘l fior de C… anch’egli spunti
.

e quando arrivò il giorno del Battesimo si cominciò da parte dei suoi parenti a discutere sul nome da darsi, senza facilmente giungere all’accordo (XIII)
S’ei con effetto avea da nominarsi
Per la migliore o Cuius, o C…
Ma il Parrocchian con voto decisivo
Pronunciò ch’egli era in grado eguale
L’un e l’altro vocabolo espressivo.
E la ragion, che ne portò fu tale:
Il vocabolo Cuius è genitivo
E il vocabol C… è genitale.

Per ribadire la sua condizione ci pensò il vescovo di Lucca nel giorno della Cresima (XIV):

Se già ti battezzò per un C…
La provida Comar, come ho già detto,
Eccoti adesso la confermazione.

La crescita del giovane non si rivela felice e i difetti risaltano sempre più, tanto che i conoscenti sono sconcertati per l’alterigia di don Ciccio, che addirittura non osa rispondere al saluto. Ecco pronta la risposta (XXIV):

La cagion più germana, e ‘l fin più certo:
Guardisi ogn’un di lor dentro i calzoni,
E vedrà, che lo star sempre coperto,
Come voi fate, è proprio de’ C…

e quando il malcapitato viene colpito da una fastidiosa congiuntivite che al pover D. Ciccio i lumi oscura per quasi due mesi sì che stiam con grandissima paura, che mai più non rivegga i rai del Cielo, ecco pronto il conforto (XLII):

Mentre ogn’un sa, che sogliono i C…
Senza già mai veder luce di Sole,
Viver sempre all’oscuro entro i calzoni.

Evidente che non si tratta solo di sottile ironia ma assai di più, tanto che i toni del sarcasmo arrivano quasi all’impossibile, le riserve vengono abbandonate (XLIII):

Cert’è D. Ciccio mio, che voi puzzate
A tutti della Curia in generale,
E che puzzate loro in guisa tale,
Che torce il naso og’un quando passate.
È ver, che sete d’una condizione
Da dare un odorifero ristoro
Al naso d’ogni sorte di persone.
Ma questo non fa punto al caso loro;
Ch’essi vi tengon ben per un C…
Ma non tutti i C… son di Castoro
.

Più divertente, senza mai cadere di tono, il LXX, dove l’Autore riflette come si voglia dimostrare l’affetto dei cari tenendo presso di sé un quadro o un ritratto:

Io ch’amante ti son, servo e amico,
porto il ritratto tuo sempre pendente
in una borsa sotto a l’umbilico
.

Terribile il LXXIII, a proposito di un regalo fattogli:
Ne’ giorni addietro un Padre Teatino,
C’ha con D. Ciccio qualche obligazione,
Gli fece d’una gabbia donazione,
Con dentro un delicato cardellino.
Or egli, a fin d’averlo a se vicino,
Perché ha del canto suo delettazione,
Sel tien sopra la testa pendolone
A un fil di ferro incontro al tavolino.
E forse il mise in quella positura,
(Come che veramente ha gran cervello)
Per l’ordine serbar de la Natura;
Ch’essa, quando de l’uom fece il modello,
Vediam, che con prudente architettura
Pose a star i C… sotto a l’uccello.

E con la solita arguzia lo canzona anche quando indossa un nuovo vestito a la Polacca, una casacca foderata di pelle di crapetto, e quando osserva che tutti son tratti da si ridicolo oggetto, sentenzia (CV):
… le sue sono invenzioni
Ch’ei imparò da la natura istessa;
Ponendo l’anatomiche lezioni,
Che La Natura suol coprire anch’essa
Di tre varie pellicce i C…

(parzialmente modificato rispetto al testo già pubblicato su “Spicilegia Sallentina” n°5, agosto 2009)

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