Una Wunderkammer nel cuore di Lecce

Antonio Miglietta

 

di Giancarlo Brocca

Entrando da Porta Rudiae e percorrendo via Libertini, vera galleria d’arte e di storia sotto il ridente cielo leccese, pochi metri dopo la chiesa di Santa Teresa, ma sul lato opposto, si incontra una porta a vetro bianca posta un po’ defilata rispetto alla strada. Questa reca sul fianco sinistro una targa in pietra con incisa la parola Laborarte: una parola – impossibile da trovare tra le pagine di un dizionario – che indica la presenza del laboratorio di un artista. Invano però chi cercasse di sbirciare otterrebbe di vedere il maestro al lavoro, perché la sala dove opera è nascosta dietro un muro sul quale sono affastellati oggetti singolari ed enigmatici.

Se a prima vista il luogo può apparire impenetrabile al visitatore curioso, basterà battere pochi colpi alla porta per vedersi apparire un uomo alto che torreggia tra i suoi cimeli. Qualcuno l’ha definito “gigante dal cuore di pane”.

Antonio Miglietta 4

Aperta la porta al visitatore, un sorriso del maestro ne rivela la bontà e la sua sagoma, a prima vista rude, è addolcita dai modi cortesi con cui accoglie chiunque. Tuttavia, né la sua intelligenza né la simpatia possono rivelare a pieno le peculiarità di quest’uomo che difficilmente parla di se stesso, perso com’è nel mondo dell’arte. Chi ha avuto la possibilità di entrare nel suo Laborarte ne è uscito stupefatto come quei pochi eletti che in tempi lontani potevano accedere alle Wunderkammer. Erano queste delle vere camere delle meraviglie che custodivano oggetti strabilianti e introvabili, provenienti dai quattro angoli del mondo: ne esistevano pochissime in tutta Europa e ancor meno erano i privilegiati che potevano ammirarle su invito di qualche galante collezionista.

Si chiama Antonio Miglietta lo scultore leccese che in oltre trent’anni di lavoro ha trasportato nel proprio atelier un numero incalcolabile di cose che lui trova singolari e che provengono dal mondo della natura o dall’artificio umano. Analogamente alle antiche Wunderkammer, queste rarità, sparse alla rinfusa o custodite in scrigni di pietra, possono essere suddivise in naturalia e artificialia. Tra le prime vi sono scheletri di animali e denti di squalo (uno dei quali è custodito come una reliquia perché trovato dall’artista all’interno della prima pietra da lui scolpita durante l’infanzia), crostacei di ogni tipo e impronte di uccelli impresse nel gesso. Le seconde vanno da un antico asse che ancorava una campana della chiesa di Sant’Irene, distrutta nel secondo conflitto mondiale, fino alle creazioni di maestri e amici d’arte. Si conserva un’opera in gesso del decano degli scultori salentini moderni, Marcello Gennari, e del più colorito ed estroso di questi, Bruno Maggio, si può ammirare una piastrella di ceramica con impresso il profilo di Antonio Miglietta quando era un giovanotto volenteroso di apprendere.

Antonio Miglietta 5

Altre creazioni ed attrezzi incomprensibili di antichi artigiani fanno capolino qua e là sugli scaffali. Tra queste si scorge l’autoritratto in argilla del padre dell’artista, anche lui scultore, che sembra vegliare ancora sull’operato del figlio. Tante altre cose si potrebbero elencare di questa Wunderkammer nel cuore di Lecce, ma l’”inventario” risulterebbe sempre incompleto, dal momento che se ne aggiungono continuamente di nuove.

Il laboratorio di Miglietta è un compendio della cultura e dell’arte leccese e per questa sua caratteristica rappresenta un luogo di ispirazione non solo per lo scultore, ma anche per amici e nuovi discepoli. Non si sbaglierebbe ad intendere il Laborarte, con tutte le sue mirabilia, una vera e propria opera d’arte nata da un’esigenza insita nell’animo dell’artista, che lo muove verso lo studio e la conoscenza della realtà circostante. Per lui è la casa della riflessione e delle idee, ogni oggetto è fonte di ispirazione per giungere ad una nuova opera, che spesso si rivela lontanissima dal suo punto di partenza. Il Laborarte di Antonio Miglietta fa ritornare alla mente le parole dello storico dell’arte E. H. Gombrich: un artista è come un’ostrica laboriosa che si serve di un granello di sabbia trovato nelle vicinanze intorno al quale sa costruire una perla preziosa e perfetta.

Liborio Riccio a Muro Leccese

A Muro Leccese si restaura il Sacrificio di Abramo di Liborio Riccio

La vicenda storico-artistica dell’opera

di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella

 

 

Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera  del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.

Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più  affascinanti dell’Antico Testamento.

L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.

Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti all’Arca dell’Alleanza.

In una data imprecisata – ma sicuramente dopo il 1768 – il quadro fu spostato nel braccio destro del transetto e corredato da una cornice in legno e stucco, oggi dorata, su cui fa capolino la testa di un moro, stemma della città.

Fin dall’inizio dei lavori, il restauro del Sacrificio di Abramo (così è intitolata l’opera nelle fonti)  è sembrato un’occasione propizia per uno studio più accurato sull’opera, che servirà certamente a chiarire numerosi dubbi circa le sue vicende storiche.

Intanto la parte posteriore del quadro ha già rivelato alcune novità: si sono riscontrate due aggiunte nelle porzioni laterali, realizzate nel momento in cui l’opera venne spostata dalla sua prima collocazione. Nella stessa circostanza, la parte superiore del corpo centrale della tela, ossia la più antica, fu ritagliata a forma di centina e si provvide anche a modificare il telaio per adattarlo alla nuova collocazione.

Forse, nei prossimi mesi,  ciò che più desterà l’interesse degli studiosi e dei restauratori, sarà l’intervento di pulitura della pellicola pittorica, che certamente promette di riservare molte novità.

Sino a quando lo si è osservato dal basso, posto com’era a diversi metri d’altezza, il quadro risultava abbastanza omogeneo: ora invece, ad un esame ravvicinato, si rilevano delle differenze stilistiche abbastanza evidenti tra il corpo centrale e le due aggiunte laterali.

Queste ultime risalgono a una fase matura dell’artista, di cui se ne riconosce lo stile, mentre la parte centrale, che dovrebbe essere un’opera giovanile, presenta delle affinità stilistiche con la produzione di Serafino Elmo.

Probabilmente il giovane Riccio, all’inizio della sua carriera, prese a modello anche le espressioni del pittore leccese, presente nella sua città già dal 1734, ricordandolo  da vicino in alcuni episodi della sua pittura, al punto tale che verrebbe quasi  la suggestione di vedere nella  parte centrale dell’opera  la mano dello stesso Serafino Elmo, autore delle altre due grandi tele alle quali questa faceva compagnia, (si confronti, ad esempio, la figura dell’angelo del Sacrificio di Abramo con una simile eseguita per la tela di Santa Rosa nella chiesa di San Giovanni Battista a Lecce).

Tuttavia, il Sacrificio di Abramo è da sempre attribuito a Liborio Riccio e  A. Antonaci  sostiene che sia stato commissionato all’artista da parte del Capitolo di Muro nel 1752, senza citare la fonte.

A ogni modo, il pittore  ripropose almeno altre due volte il tema del Sacrificio di Abramo: nella chiesa della Purità a Gallipoli e in quella dell’Immacolata a Taviano. Le opere ricordano quella murese nell’impostazione, ma le figure risultano sacrificate per adattarsi  alla forma a lunetta delle tele.

Il restauro dell’opera approfondirà certamente la conoscenza circa le vicissitudini storico-artistiche a cui si è accennato, ma l’augurio è che ciò possa accadere senza  dover modificare l’ultimo aspetto dato al quadro dal suo stesso autore, il quale lo ingrandì e ridipinse in più parti con l’aggiunta e l’occultamento di alcune figure (come nel caso dell’ariete sulla tela centrale, nascosto da uno strato di colore scuro e riproposto nell’aggiunta al lato destro), per adattarlo al nuovo assetto architettonico e decorativo che la Matrice Murese cristallizzò alla fine del ‘700.

Tali riflessioni, valide per meglio inquadrare l’opera ai fini dell’importante restauro in corso, sono da considerarsi preliminari ad un contributo storico-critico più organico ed esaustivo che sarà possibile realizzare a lavori ultimati.

Liborio Riccio a Muro Leccese

A Muro Leccese si restaura il Sacrificio di Abramo di Liborio Riccio

La vicenda storico-artistica dell’opera

 

di Giancarlo Brocca e Santo Venerdì Patella

 

 

Recentemente sono iniziati, a Muro Leccese, i lavori di restauro della grande tela raffigurante il Sacrificio di Abramo, opera  del pittore e sacerdote murese Liborio Riccio (1720-1785), realizzata per la chiesa matrice della sua città natale.

Il quadro è di dimensioni considerevoli: misura quasi 30 metri quadrati, sui quali è campito uno degli episodi più  affascinanti dell’Antico Testamento.

L’opera è attestata per la prima volta nel 1754, nell’inventario redatto durante la visita pastorale dell’Arcivescovo di Otranto Mons. Caracciolo.

Si sa invece con certezza che fino al 1768 la tela aveva una collocazione diversa dall’attuale ed era posta dietro l’altare maggiore tra i due grandi quadri di Serafino Elmo: Eliodoro cacciato dal Tempio e La danza di David davanti

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