Giacinto De Metrio, ritratto di un grande amico

Giacinto

di Gianluca Fedele

Ho iniziato a scrivere queste righe piene di amarezza e nostalgia qualche settimana fa per il solo scopo di esorcizzare una sensazione di vuoto dentro di me che avverto come incolmabile. Uno svuotamento provocato dalla scomparsa del Professore Giacinto De Metrio.

Una serie infinita di emozionanti ricordi si palesano nella mia testa, in forma del tutto disordinata, e in questo breve scritto cercherò di riassumerne qualcuno dei più significativi, per me.

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Tutti abbiamo dei punti di riferimento, delle persone che vorremmo imitare; il mio sguardo, in questo senso, è stato sempre rivolto a lui. Ho considerato Giacinto con sincera ammirazione, per la sua passione per l’Arte – che insegnava e praticava – per i suoi riconosciuti successi, i premi internazionali, ma anche il senso di appartenenza verso un paese che spesso lo deludeva. Poi, non ultima, l’accanita voglia di vivere, manifestata con l’arte, nonostante una lunga e progressiva malattia lo avesse reso quasi del tutto cieco.

Devo a lui, senza indugio alcuno, la mia formazione culturale, oltre che la determinante scelta artistico-professionale. Conservo un ricordo etereo di quelle lunghe conversazioni, fatte di riflessioni e di indimenticabili racconti d’altri tempi dei quali fui invidioso.

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Come accadde a molti altri ragazzini delle scuole medie che ebbero la fortuna di essere suoi alunni, prima e dopo di me, mi colpì l’approccio non convenzionale con tutti noi, adolescenti e non, coi quali si poneva senza quella specie di barriera fisiologica che ci può essere nel rapporto alunno-insegnante. Il Professore De Metrio parlava schietto, non impersonando un ruolo professionale, ma con la capacità di intendere il proprio interlocutore e trattarlo da pari, spaziando tra argomenti didattici e sociologici che, se vogliamo, non esulavano dalla materia da lui insegnata: educazione artistica. Magari vi sembrerà che io, in questa descrizione, ne stia tessendo le lodi allo scopo di produrre una rievocazione “post mortem” tutta personale, ma non è così: ho ascoltato e letto i commenti che la notizia della sua recente scomparsa ha stillato e mi è parso di intendere che tutti ne tracciassero lo stesso identikit, allineato al mio.

Poi, ovviamente, i rapporti personali sono eterogenei e talvolta prendono delle pieghe inaspettate.

Mi ritrovai a frequentarlo, come altri compagni, anche al di fuori dell’edificio scolastico perché era lui stesso che ci invitava a fargli visita presso il suo personale studio di pittura, per coinvolgerci, per sensibilizzarci all’arte e perché aveva piacere a trascorrere qualche pomeriggio in nostra compagnia. Qualcuno ci andava spesso, qualcun altro non ci è uscito più…

Ricordo che nel suo studio, in via XXIV Maggio, c’era quel tipico odore di vernice e acquaragia. Al primo sguardo i nostri occhi di adolescenti erano attratti dalle figure di nudo, poi le pile di riviste, oggetti di design, trofei, medaglie, targhe, diplomi, inviti (reminescenze di sue mostre). Mi piacquero molto i busti e le maschere in terracotta realizzati da “lu zi’ Michilinu” e credo rappresentarono uno dei primi argomenti di conversazione. Per lo zio Michele Gaballo – noto ai più soprattutto per essere l’autore della Fontana del Toro – Giacinto nutriva un naturale affetto, oltre che per il grado di parentela, anche per aver raccolto da lui la ponderosa eredità artistica.

Dello studio mi rimase impresso perfino quell’enorme ombrello coloratissimo (ogni spicchio una tinta diversa) aperto e sospeso poco sotto il soffitto.

Era una persona ingegnosa oltre che creativa. Un Natale acquistò una specie di rete di luci a led e la posizionò anch’essa sospesa in aria a mo’ di cielo stellato. Pur non essendo un gadget decorativo inflazionato come in questi anni non fu comunque utilizzato per un utilizzo convenzionale. La trovammo una soluzione molto suggestiva.

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Per lavorare aveva pochi indispensabili strumenti: la cassettiera colma di tempere, pennelli, la tavolozza e un lavandino che originariamente presumo fosse stato bianco. C’era persino un Dante realizzato da lui, in gesso patinato bronzo, ad altezza naturale, che mi guardava con aria crucciata e io non capii mai per quale ragione, almeno fino a quando non mi sono interessato alla scrittura. Lo donò alla scuola media dove insegnò prima di andare in pensione.

Voi adesso, da questa descrizione, desumerete che si trattasse di un grande locale, uno studio di importanti dimensioni, ma tutta questa roba, e tanto altro, ci rientrava in poco più di venti metri quadri. E quasi dimenticavo i dipinti, dandoli per scontati, dipinti in ogni angolo di muro libero.

Dipinti espressionisti che trasudavano passione, desiderio, malinconia, gioia di vivere.

Io ci andavo finiti (si fa per dire) i compiti. Girato l’angolo si sentiva la musica delle audiocassette – prediligeva cantautrici e quasi sempre Mina – o la telecronaca calcistica la domenica pomeriggio.

Giacinto era sull’uscio e indossava un grembiule blu, prevedibilmente macchiato di tempere, e i suoi occhiali dalle spesse lenti fumé sul naso. In quel periodo, credo di averlo visto pochissime volte senza un pennello tra le dita, come fosse un’estensione naturale del suo braccio, con di fronte a se il suo cavalletto e la tela. Non mi potere sentire ma credetemi, io sospiro troppo spesso da qualche giorno a questa parte.

Quand’ero fortunato la tela la vedevo immacolata, poi i primi tratti di matita a segnare il pensiero, successivamente le tracce di colore e infine, dopo qualche settimana, finalmente l’opera completa.

Di tanto in tanto ho anche visto compiersi il “sacrilegio” del riutilizzo di una tela già dipinta. Mi permettevo di chiederli il motivo, con scherzosa aria di rimprovero, e mi rispondeva che il prossimo sarebbe stato migliore.

A distanza di anni, mi confidò del glaucoma e della decisione obbligata di separarsi dalla pittura; fu un trauma che, in maniera certamente differente, condivisi con lui, viziato com’ero a trascorrere lì parte delle mie giornate.

L’ultimo quadro che gli vidi dipingere ritrae un occhio posto simbolicamente su un pentagramma e circondato da variopinte note musicali. Quasi a rafforzare il senso di gratitudine nei confronti della vista, un ultimo omaggio a quei suoi occhi che lo stavano per abbandonare.

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Nei giorni successivi mi trattenni volentieri qualche ora in più del solito e in quell’occasione facemmo una catalogazione, una cernita di tutte le cose presenti: ciò che reputava cianfrusaglia della quale voleva disfarsi gettandola al cassonetto (qualcosa la recuperai), e i ricordi che invece volle riportare a casa per conservarli.

Neppure l’incedere della malattia fermò il suo estro artistico. Ebbe inizio in quel modo un’altra stagione artistica nella quale realizzo delle installazioni con fili e bacchette di ferro: dal cavallo alato “voglia di libertà” alla sagoma femminile “magnetismo” passando per il “torero”.

In quel modo esorcizzava la malattia come a voler dire “ti prendo per le corna!”.

Siamo rimasti sempre in stretto contatto e spesso veniva a trovarmi in studio. Qualche volta siamo usciti insieme per goderci un tramonto sul mare, spettacolo naturale del quale lui scorgeva solo qualche fioco riflesso.

Anche al mare era legato in maniera viscerale; aspettava la primavera come un recluso attende di essere scagionato. Aveva una pellaccia dura che mi faceva rabbia: “il mio medico dice che ho la cervicale annodata come il tronco di un ulivo e che c’è gente con una situazione molto meno grave delle mia che soffre di vertigini e altri mille sintomi. Ma sai che io sto benissimo? Come se non ce l’avessi!”. Io invece, ovviamente, appartengo alla categoria descritta dal suo medico…

L’estate cominciava ad aprile e i bagni terminavano a novembre. Sempre all’ “Ave Mare”: «conosco quegli scogli palmo palmo, anche se non li vedo li conosco!». Un estate si offrì volontario perfino per una simulazione di salvataggio e venne riportato a riva da un cane della Guardia Costiera. Poi, un brutto giorno, uno scoglio gli fece lo sgambetto e decise che non ci sarebbe andato più.

Ci sentivamo spesso soprattutto perché ultimamente la musica era diventata un diversivo indispensabile, compagnia devota con la quale trascorrere lunghi momenti di raccoglimento. Mi domandava di cercargli titoli e canzoni della sua giovinezza (missione impossibile ogni volta), quelle che ascoltava su “Radio Margherita”, legate anche alla sua lunga parentesi fiorentina. In quella maniera rianimava i suoi ricordi e il suo spirito ne traeva giovamento. Ho conosciuto in quella maniera una fetta di cantautorato italiano – e non – a me totalmente sconosciuta che spazia da Narciso Parigi a Gabriella Ferri passando per Charles Aznavour.

Era soprattutto un premuroso amico che si preoccupava di telefonarmi per conoscere le mie vicissitudini, forse più di quanto io non facessi con lui.

Lo mettevo al corrente dei miei alti e bassi, le traversie sentimentali, il lavoro e tutto si racchiudeva in un “insomma, le solite cose”. Lui rispondeva sarcastico: «Uei cu ti cciu? Tu uei cu mueri, di allu giustu!» e ci infilava in mezzo un’imprecazione che mi fa ancora sorridere.

Conservo negli orecchi i “bravo” che mi indirizzava qualora lo mettessi al corrente di una nuova poesia premiata. Glie la leggevo e lui mi rimproverava di non saperla recitare: «la Poesia si declama, non si legge!». Infine, dopo qualche preambolo che trasudava soddisfazione, concludeva amaro: «queste sono le soddisfazioni che riempiono lo spirito e svuotano lo stomaco, le conosco bene».

La notte che ha seguito la notizia della sua morte ho messo a soqquadro lo studio e la casa, con gli occhi pieni di dolore, alla ricerca di suoi ricordi; una serie di movimenti meccanici e convulsi. La cosa è andata avanti per una mezz’ora buona finché non mi sono trovato di fronte le buste contenenti i bigliettini di auguri che mi aveva consegnato in occasioni delle feste.

All’interno di una di esse un biglietto in particolare: mi augurava buon trentesimo compleanno.

Compio trent’anni oggi.

 

Giacinto, questi scherzi non si fanno!

Intervista a Giacinto De Metrio, un artista da riscoprire

il maestro Giacinto De Metrio

di Gianluca Fedele

Se si volesse descrivere l’atteggiamento che la città di Nardò ha assunto negli ultimi decenni nei confronti dell’arte, probabilmente utilizzerei questa similitudine: terra argillosa, dove l’acqua non drena.

Una rappresentazione decisamente pessimistica, ma altrettanto realistica, in quanto sono numerosi gli artisti che hanno attraversato in varie forme il ‘900 neretino. In ogni caso quasi nessuno ha fatto breccia, col proprio passaggio, né sulla critica internazionale né tanto meno sul mercato locale.

Ricordo sempre una frase del mio caro professore di educazione artistica delle scuole medie, Giacinto De Metrio, che mi disse: “A Nardò è più facile vendere una busta di verdura piuttosto che un dipinto di Picasso”; citazione che esprime, nella sua semplicità, tutta quell’amarezza di chi dedica la propria esistenza all’estro artistico, con la sensibilità che ne consegue.

Proprio al mio professore, nonché carissimo amico, ho deciso di rivolgere qualche domanda, per farmi spiegare quali, secondo lui, sono le condizioni sociali che determinano il disincanto dei più nei confronti del bello e cercare di comprendere i meccanismi che portano alla conseguente aridità, guardando con gli occhi di chi l’arte l’ha prodotta quotidianamente per oltre mezzo secolo.

D: Caro Giacinto, nelle vene della famiglia De Metrio scorreva già il sangue denso della creatività ben prima della tua nascita. Tuo zio Michele Gaballo, infatti, è stato un autorevole testimone del primo Novecento a Nardò, nonché autore d’importanti opere divenute poi simboli indiscussi della città, basti pensare alla sua fontana del toro in piazza Salandra. Essendo quindi diretto erede di principi morali ed artistici, qual è la tua posizione in merito alla prima ristrutturazione alla quale è stato sottoposto proprio il monumento su citato?

R: Il monumento, venne realizzato nel 1932, in occasione dell’inaugurazione dell’acquedotto pugliese. Da allora, dacché io abbia memoria, è stato sempre trattato con estrema indifferenza ed incuria da ogni amministrazione che si sia succeduta a Palazzo Personé. Gli pseudo-restauri che io ricordi sono stati diversi, ma solo un paio sono più clamorosi; originariamente il colore della fontana parietale era di un grigio marmoreo, poi, a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90 l’intera opera venne completamente pitturata di bianco con pallida calce, alla stessa stregua di un qualsiasi muretto di campagna. Ultimamente, addirittura, è stata trattata con due diverse cromie, neanche fosse un mobile di bassa fattura, in barba a qualsiasi semplice criterio di restauro. Ma non è tutto, c’è dell’altro. Negli anni ‘80 l’assessorato preposto alla cultura e al turismo, prese incarico di stilare una guida che riguardasse le storie dei maggiori monumenti neretini, tra questi, immancabile, la fontana murale in oggetto. In questo elaborato sono state trattate notizie non veritiere, tanto da mettere in dubbio, per i più sprovveduti, persino la paternità del gruppo marmoreo, laddove invece, a tuttora, si può benissimo leggere la sua firma autografa.

Nardò, fontana del toro prima dell’ultimo restauro (per gentile concessione di Giacinto De Metrio)

 

D: Che altre opere importanti sono state realizzate dal Gaballo?

R: Le sue opere sono innumerevoli, ma quella che ricordo con più affetto e rammarico è “Il rimorso”, opera che sino a qualche anno addietro era posta all’interno della sala consiliare del municipio di Nardò. Ora è rovinosamente danneggiata da concittadini incivili che assistevano ai consigli e che sfogavano le loro misere frustrazioni sul gesso di cui era fatta. In seguito ad un maldestro restauro è stata resa praticamente irriconoscibile rispetto all’originale plastica di cui ora si può solo fantasticare, e la si può per così dire ammirare  nella biblioteca comunale “Vergari” dove attualmente è collocata. Alla luce di questo, voglio ricordare che quando venne donata, fu imposta ai custodi un’unica clausola, cioè che il Comune prendesse incarico di fonderla in bronzo proprio per evitare eventuali danneggiamenti. Potete immaginare quindi, quale dispiacere ho nel saperla nelle attuali condizioni. Tra i lavori più celebri aggiungerei anche il busto di Benito Mussolini, realizzato del “XV anno” per una sala del complesso Vittoriale di Lecce e del quale si sono perdute le tracce. Un altro busto importante, quello del On. Grassi, Ministro di Grazia e Giustizia, di origini salentine, nonché ultima scultura realizzata. Questa, trova la sua collocazione all’interno del tribunale di Lecce.

Michele Gaballo, Il Rimorso (per gentile concessione di Giacinto De Metrio)

D: Come è stata ricordata negli anni la figura di questo illustre scultore?

R: In vita mio zio era molto popolare ed apprezzato, popolarità che è andata scemando con il susseguirsi delle generazioni. Ora, mi spiace dirlo, ma il suo ricordo  è stato praticamente cancellato del tutto, tant’è vero che nel 2001, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte, nessuno tra i nostri rappresentanti politici o solo tra i concittadini gli ha dedicato un pensiero, né pubblico né privato. Solo tra noi familiari Michele Gaballo è stato onorato col ricordo. Io stesso, infatti, amareggiato affidai ad un breve comunicato la sua memoria, facendolo pubblicare dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

 

D: Oltre al Gaballo, anche tuo fratello Michele, ormai venuto a mancare, era dedito all’arte e al teatro. Come veniva visto dai nostri concittadini?

R: Mio fratello era molto amato e ben voluto per la sua umanità; lo ricordo come pittore e soprattutto come grande uomo di teatro: infatti si occupava tanto di regia quanto di recitazione. Queste grandi doti, le espresse in maniera magistrale, nell’opera Risorgimento che andò in scena al teatro comunale nel 1948, dove lui stesso interpretava il ruolo principale del Patriota Conte Vitaliano Lamberti conseguendo un notevole successo sia di pubblico che di critica. Persona di grande fede, manifestata in occasione di un funerale, dove il Vescovo dell’epoca fece vietare il rito religioso e Michele, arbitrariamente, portò la croce dinanzi al corteo per l’intero percorso.

 

D: Ma quanto ha inciso la figura dello zio scultore sulla vocazione artistica dei nipoti?

R: Michele Gaballo è stato per noi assolutamente fondamentale, oserei dire determinante!

 

D: Ma ora veniamo a noi. La tua formazione culturale e stilistica avviene all’interno del liceo artistico di Firenze: qual’era il fermento creativo che si respirava nel panorama fiorentino dell’epoca? E quali erano le differenze rispetto all’ambiente culturale locale che ti lasciavi alle spalle?

R: Firenze era, e forse lo è ancora, la culla dell’arte, una meta agognata per chi, come noi, si formava nel segno delle belle arti. Mi ritrovai in terra fiorentina in compagnia di mio fratello: quei tempi e quei luoghi ora mi appaiono così romantici e ricchi di significato rispetto ad un sud che continua, culturalmente parlando, a svuotare piuttosto che a formare. Fortuna volle che a plasmare la mia personalità e la mia cultura provvedessero insegnati e artisti di chiara fama: ricordo Piero Bigongiari, mio professore di lettere e illustre poeta ermetico, recentemente scomparso e commemorato dal Corriere dalla Sera. E c’erano pure gli artisti: i professori Pucci, Pozzi, Gallo, Colacicchi, Peiron e anche il critico d’arte Michelangelo Masciotta.

Giacinto De Mterio, Magnetismo

D: So che sei stato premiato in occasione di eventi e concorsi nazionali di valenza internazionale, me ne elenchi qualcuno? [Si allontana un attimo per prendere un piccolo foglio come memorandum dove ha annotato tutti i premi vinti]

R: Nel 1961, vinsi il secondo premio nel concorso di pittura durante la mostra campionaria di Galatina.

Nel 1965, nella mostra-concorso, presso la pro-loco Santa Caterina di Nardò, ricevetti una coppa d’argento omaggiata dall’Amministrazione Provinciale di Lecce.

 Al concorso Internazionale di Torino “la telaccia d’oro”, ho vinto tre premi: nel 1993 con la scultura Tossicomane mi venne assegnato il terzo premio che consisteva in una targa d’argento della Regione Piemonte; nel 1994 con la scultura in marmo Il silenzio dell’urlo conquistai il settimo premio della relativa categoria; nel 1998, con il dipinto ad olio Sogno d’artista, giunsi terzo classificato e ricevetti in premio una medaglia d’argento.

 D: Quale è stata la risposta, in termini di riconoscimento, che la nostra Nardò ti ha dato per la gloria riflessa che esportavi con le tue opere?

R: A parte l’affetto e la stima di pochi familiari ed amici, praticamente nulla. E pensare che io posso vantare, tra l’altro, di aver donato a Sua Santità Giovanni Paolo II un’opera pittorica, offertagli in occasione di un viaggio-scuola e che ritrae la guglia di piazza Salandra, arbitrariamente situata su una spiaggia. Di tale dono, lo stesso Papa, per mezzo del suo segretario, ha ringraziato i ragazzi della scuola media III nucleo per il significativo omaggio.

 D: Molti dei tuoi lavori, soprattutto quelli appartenenti all’ultimo periodo, hanno uno spiccato gusto introspettivo, qual è la ragione?

R: L’arte, di per sé, riflette l’animo e le sensazioni emotive. Ora come ora, e ancor di più per via del mio delicato stato di salute presente, trovo di enorme sollievo riversare le tensioni in ciò che realizzo, un motivo in più per non darmi per vinto.

 

D: Anche se ne conosco la risposta o posso intuirla, quale soggetto ha rappresentato meglio la tua fonte d’ispirazione?

R: La donna in tutte le sue sfaccettature. Una sorta di donna assoluta, fonte di inesauribile bellezza.

 

D: Un’ultima domanda per concludere. Hai istruito e avvicinato all’arte migliaia di ragazzini, per tantissimi anni, presso scuole medie  inferiori di mezza Italia: qual è il principio d’insegnamento a cui più tenevi?

R: Per me l’insegnamento non è mai stato un mestiere. E con un certo orgoglio posso ammettere di aver svolto il mio ruolo di professore con passione e impegno assoluti. Ho sempre cercato d’infondere nei giovani non solo i valori dell’arte, ma ho sempre, innanzitutto, esaltato le qualità che ognuno di loro possedeva; doti che, secondo me, vanno stimolate ed evidenziate sempre attraverso l’autostima.

A questo punto la conversazione si conclude, un po’ per la commozione del momento, un po’ perché il tempo è davvero volato via. Adesso, a mente fredda la sensazione che mi rimane nel cuore dopo questa intervista, è un senso di ingiustizia che la nostra terra, i nostri luoghi, sanno così ben dispensare nei confronti di chi, per una vita, ha cercato di amarli omaggiandoli con la propria arte.

dipinto di Giacinto De Metrio
dipinto di Giacinto De Metrio

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