Lauree, honoris causa e non, di ieri e di oggi

di Armando Polito

A Gerard Rohlfs, un gigante della filologia contemporanea, l’Università della Calabria conferiva il 13 aprile 1981 la laurea honoris causa in Lettere; per uno studioso di fama mondiale che era già stato, fra l’altro, docente di Filologia romanza all’Università di Tubinga e a quella di Monaco di Baviera … praticamente un declassamento, che sanciva, secondo me, solo il disonore del conferente.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:G_rohlfs.jpg
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/File:G_rohlfs.jpg

 

Per i pochi (almeno, mi auguro) che non lo sapessero, il Rohlfs è, tra l’altro, l’autore del Vocabolario dei dialetti salentini (Terra d’Otranto) in 3 volumi edito da Congedo a Galatina nel 1976. Un tedesco ha scritto un testo, ancora oggi di riferimento, che nessun italiano in generale o salentino in particolare è riuscito a scrivere … basta questo per giustificare la presenza di questo post nel contesto del sito.

Poteva sembrare difficile compiere un gesto più idiota, ma la scala dell’idiozia vanta un numero tanto elevato di pioli che, guardando dal basso, non si riesce a vedere l’ultimo, nemmeno con un telescopio …

Archiviato l’”incidente” del Rohlfs, appena due decenni dopo, sulla scia di una nefasta ideologia che ha voluto equiparare la Scuola ad un’azienda eliminando, però, dalla parola profitto ogni significato puramente culturale ed esaltando quello economico-finanziario, iniziò la corsa dei vari istituti di ogni ordine e grado verso l’accaparramento degli iscritti da suggestionare con un’offerta formativa sulla carta variegata ed allettante, in grado, magari, di stimolare la generosità di sponsors privati; intanto si bruciavano le ultime risorse nei famigerati progetti, i cui esiti nessuno ha mai controllato, e nei viaggi d’istruzione organizzati con motivazioni culturali ridicole e spesso demenziali.

Pubblicità ingannevole, niente di più, uno squallido espediente per tagliare i fondi alla scuola pubblica e continuare a sovvenzionare quella privata. Poteva l’Università starsene con le mani in mano? Iniziò, allora, la proliferazione delle lauree honoris causa conferite ai personaggi più disparati, ma in grado, comunque, di influenzare l’immaginario collettivo … e le iscrizioni.

A Michele Mirabella il 9 ottobre 2001 l’Università di Ferrara conferiva la laurea honoris causa in Farmacia. Le motivazioni sottolineano la capacità di Mirabella di trasmettere aspetti scientifici complessi in ambito farmaceutico utilizzando un linguaggio esemplificativo ed essenziale sempre commisurato alle necessità del grande pubblico senza mai incidere sul rigore scientifico e contribuendo alla diffusione della cultura della scienza del farmaco.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in fondo, questa  è da considerarsi un’attribuzione interna, poiché Mirabella è un accademico, in quanto  “ha insegnato Sociologia della comunicazione: teoria e tecniche nella Facoltà di Beni Culturali dell’Università di Lecce, attualmente insegna Sociologia della comunicazione: teoria e tecniche dei mezzi di comunicazione di massa presso l’Università di Bari e ha insegnato presso la Libera Università IULM di Milano”1.

Comunque, se ha giocato un ruolo prevalente non il suo status di accademico ma, come credo, il suo ruolo di personaggio televisivo, allora a Luciano Onder andrebbe conferita la laurea in Medicina …

Ma andiamo avanti.

A Vasco Rossi il 12 maggio 2005 la Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano conferiva la laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione con la seguente motivazione: In quanto musicista e poeta, Vasco Rossi è stato protagonista di una vera rivoluzione musicale che ha anche significativi connotati sociali e relazionali. Egli ha infatti stravolto il panorama musicale italiano degli anni ottanta, introducendo uno stile espressivo, unico e insuperato, con temi del privato che fanno parte del tessuto sociale e arrivano direttamente a colpire la sensibilità dei giovani. I suoi concerti sono eventi di eccezionale portata emotiva e aggregativa. Essi rappresentano per il “suo” popolo un’occasione per incontrarsi, riconoscersi e provare emozioni. Personaggio discusso ma sempre libero da ogni inquadramento politico e ideologico, Vasco Rossi ha mostrato una eccezionale capacità di gestire la sua immagine come la sua vita con discrezione, intensa umanità ed efficacia. Sempre vicino ai più giovani – soprattutto nelle idee – Vasco Rossi rappresenta un modello di professionalità per chi sogna il successo e di discrezione e riservatezza per chi lo ha raggiunto. Per queste motivazioni di impegno, originalità e coerenza nella costruzione di una storia artistica di grande successo e serietà, viene conferita a Vasco Rossi la Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione.

A Valentino Rossi il 31 maggio 2005 l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” (chissà quante volte quel giorno il critico si sarà rivoltato nella tomba …) conferiva la laurea honoris causa in Comunicazione e Pubblicità per le Organizzazioni con la seguente motivazione: Per le straordinarie capacità comunicative di Rossi che, oltre al fenomenale talento sportivo esprime simpatia, creatività e una capacità innata di imporre la sua personalità e la sua immagine; la peculiarità di Valentino Rossi consiste nel creare eventi spettacolari nell’evento sportivo, costruendo spazi di teatralizzazione capaci di muovere un’ondata comunicativa che valica la frontiera dei media nazionali.

Al famosissimo Signor Rossi in data … scusate, ho fatto un controllo e  lui non risulta inserito nell’elenco degli insigniti …

A Ivana Spagna il 5 dicembre 2008 viene conferita dall’Università di Malta (ci facciamo fare pure concorrenza …) la laurea honoris causa in Scienza della comunicazione per le canzoni d’amore e la sua vita d’artista.

C’è, però, chi ancora ha il senso del ridicolo e, non a caso, si tratta di un comico, anche se definirlo così è riduttivo: il 2 marzo 2006 Fiorello, nel corso di una trasmissione radiofonica, appresa la notizia che l’Università d’Imperia aveva deciso di conferirgli una laurea honoris causa, opponeva un gentile rifiuto così motivato: Sì, ringrazio per il pensiero. Ma non posso accettarlo, per rispetto di tutti quelli che ogni giorno si fanno un mazzo così, sognando di arrivare alla laurea vera.

immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Fiorello
immagine tratta da http://it.wikipedia.org/wiki/Fiorello

 

Non a caso compaiono in foto solo due dei personaggi che ho ricordato e l’ho fatto perché, secondo me, mai come in questo caso gli opposti si toccano: il Rohlfs non respinse l’onorificenza solo per non offendere a sua volta chi lo stava offendendo; Fiorello, invece, l’ha urbanamente respinta per non offendere le persone da lui stesso ricordate ma, forse, anche se stesso.

Comunque, il fondo doveva ancora essere toccato: infatti sarebbero arrivate dopo pochi anni le lauree comprate (il fenomeno non era nuovo, ma avrebbe assunto livelli intollerabili) e quelle millantate; ma la fantasia perversa di chi si inventa di averle conseguite viene definita dagli interessati, quando si scopre l’inganno, “umana debolezza”, come se tutti fossimo così imbecilli da cedere alle lusinghe di un malinteso senso puramente formale del prestigio di quella cultura che in concreto mostriamo di disprezzare. Altro che deboli o poveri disgraziati! Si tratta di miserabili truffatori che dovrebbero essere banditi da quella parte della convivenza civile fatta da ribalte politico-televisive condannate allo squallore dai soggetti autoreferenziali che vi sguazzano e che bucano lo schermo con dizioni, acconciature  o abbigliamenti insoliti che avrebbero la pretesa di apparire originali ma sono solo squallidamente artificiosi.

Poi, appena un anno fa, lauree honoris causa conferite da una finta Università retta da un altrettanto sedicente rettore; vittime illustri inutilmente commosse e orgogliose, tra gli altri: il cantante Lando Fiorini, l’attore Lino Banfi e pure un filosofo: Rocco Buttiglione2.

Anche io ho una grande fantasia, almeno così dicono e spero non perversa, tuttavia non tanto grande da consentirmi di immaginare quale potrebbe essere la prossima tappa …

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1 http://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Mirabella

2 http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-casta-beffata-dal-falso-rettore/2176884

Libri/ I dialetti del Capo di Leuca

I DIALETTI DEL CAPO DI LEUCA: ALLA SCOPERTA DEL NOSTRO PASSATO

 

di Paolo Vincenti

 

I dialetti del Capo di Leuca (Panico editore), è un fortunato vocabolario dei dialetti del Basso Salento, giunto alla terza edizione. L’autore, il salvese Gino Meuli, insegnante in pensione, da molti anni si dedica alla  ricerca di termini dialettali, in uso od anche usciti dall’uso comune, che annota puntualmente sul suo prezioso taccuino, fedele compagno di viaggio dei suoi spostamenti , nella indefessa ricerca sul campo che, con tenacia e amor patrio, svolge nei paesi del Capo di Leuca.  Chè , in effetti,  grande amore ci vuole  per la propria storia, per le proprie origini e per la terra che ci ha visto nascere e crescere, per svolgere  l’attività del ricercatore: una attività che non dà  soddisfazioni immediate (a  volte nemmeno per tutta la vita) , non solo nell’ambito del proprio campo di ricerca, ma anche dal punto di vista economico ; infatti, non a caso, essa è appannaggio (se non si ha la fortuna di intraprendere la carriera accademica)  di chi ha molto tempo  a disposizione: giovani laureandi o  laureati in cerca di prima occupazione, disoccupati,  archivisti o bibliotecari i quali, grazie al loro impiego, possono unire “l’utile al dilettevole”, oppure professionisti in pensione, come Meuli,  che si è ritirato dal mondo della scuola, dopo averla servita per oltre quarant’anni di onorato insegnamento.

Il libro, con un disegno di Vito Russo in copertina, reca una Prefazione di Donato Valli e una Introduzione dell’autore, in cui egli spiega le motivazioni

Rischio di scrufulàre? Meglio stare fermi!

di Armando Polito

Il lettore più affezionato dei miei post che nutra una certa passione per quell’archeologia della parola che è l’indagine etimologica probabilmente già sapeva o lo ha appreso attraverso gli esempi concreti che un etimo perché sia quanto meno convincente deve soddisfare condizioni di carattere semantico e fonetico. Se per la semantica la fantasia può architettare i più improbabili collegamenti (tutti validi come ipotesi di lavoro, ma destinati a diventare proposta plausibile dopo l’esibizione di uno straccio di prova), la fonetica ha regole ben precise alle quali non si può derogare. È, comunque, responsabilità di chi indaga o presume di indagare, direi dovere deontologico per lo specialista o per chi presume di esserlo nel momento in cui rende pubblico il frutto della sua ricerca, essere onesto e chiaro.

Sarebbe più corretto in alcuni casi dichiarare la resa piuttosto che spacciare come risolutoria una proposta che fa ricorso a quegli appigli che in filologia rappresentano l’ultima spiaggia: le forme (per lo più latine) ricostruite (contraddistinte dall’asterisco) e l’incrocio con un altro lemma, pena il rischio irrimediabile di scivolare, scrufulàre nel dialetto neretino. Quando poi si mette in campo l’inesistente la misura è colma…

Il lettore, sempre quello di prima, ha già da tempo capito che lo strumento primario per chi abbia curiosità del genere è l’opera del Rohlfs. Tuttavia in essa al lemma corrispondente, dopo i sinonimi italiani scivolare e sdrucciolare, non compare etimologia. La questione si ingarbuglia prima ancora di essere affrontata e non rimane che ricorrere al Dizionario del Garrisi ove testualmente leggo: “dal latino roteolare incrociato col latino volgare *sufolare”.

Il problema è che roteolare non esiste (meglio, finora non risulta attestato1) né nel latino arcaico, né in quello classico, nemmeno nel tardo e tanto meno nel medioevale, in cui, invece, è attestato rotulàre col significato di circuire (Du Cange, pag. 223). Non so proprio da quale raccolta lessicale il Garrisi abbia tratto roteolàre, mentre per *sufolare (meno male che l’asterisco c’è) debbo pensare che lo abbia fatto derivare dal latino medioevale sùfula (Du Cange, pag. 651)=stivaletto.

Insomma, si tratta di una proposta etimologica basata sull’incrocio tra un termine inesistente ed un altro ricostruito, quasi un record…

Allora, ci dobbiamo arrendere onorando l’impegno deontologico iniziale? Ci saranno senz’altro altre occasioni per farlo. In diverse circostanze lo studio delle varianti è stato prezioso se non determinante. Lo sarà nel nostro caso quella leccese: scufulàre; è evidente che essa è deformazione dell’italiano scivolare (ironia della sorte, di etimologia incerta, forse onomatopeica) con regolarissime alternanze fonetiche che sono, nell’ordine: i>u, v>f e o>u,  e che la voce neretina ha solo praticato l’epentesi espressiva della r dopo il gruppo sc.

E come mai il Rohlfs sull’etimo di questo lemma, che ora ci appare addirittura banale, tace? Perché nell’introduzione alla sua opera (pag. 9) leggo: “Per tutte le parole che i nostri dialetti hanno in comune con la lingua nazionale italiana, il lettore potrà trovar utili schiarimenti nei vocabolari etimologici della lingua italiana”. Non a caso aveva posto come primo significato proprio scivolare.

Tre giorni dopo…

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1 Potrebbe giacere sepolto in qualche codice, iscrizione o graffito non ancora rinvenuti.

Quando il Rohlfs sbagliò nel voltare e volò fuori pista… forse

di Armando Polito

Sono strasicuro che se il Maestro fosse vivo sarebbe il primo a non considerare irriverente il titolo di questo post, perché è una caratteristica di chi è veramente grande (e lui lo è) quella di apprezzare con spirito sportivo qualsiasi critica fondata… ammesso che la mia lo sia e che non sia io, invece, a scambiare lucciole per lanterne dopo averlo accusato di aver scambiato la svolta con il volo.

Il pomo (mi auguro che non mi vada di traverso…) della discordia è la voce neretina utulisciàre usata nel senso di rotolare; al lemma corrispondente lo studioso tedesco rinvia a ulutàre dove, dopo aver registrato per Ruffano la variante utulàre (di cui utulisciàre è forma frequentativa), mette in campo, per quanto riguarda l’etimo, il latino volitàre. Questa voce è attestata, addirittura, nel latino classico col significato di svolazzare qua e là; infatti essa è forma iterativa di volàre. Ora è abbastanza evidente come tra il concetto di rotolare e quello di svolazzare qua e là i punti di contatto siano abbastanza labili, per non dire inesistenti. Il verbo da mettere in campo non è volitàre ma volutàre, anche questo intensivo, ma di vòlvere=far girare; sicché ulutàre è figlio della trafila: volutàre>olutàre (aferesi di v-)>ulutàre; di quest’ultima voce , poi, è sviluppo, per metatesi –lut->-tul– la variante di Ruffano utulàre.

Non è da escludersi, fra l’altro, che quel volitàre invece di volutàre sia frutto di una citazione a memoria o, addirittura, di un errore di stampa.

A completare il quadro: per il neretino c’è il quasi omofono ulitàre usato nel senso di sporcarsi fisicamente ma anche moralmente a causa di cattive frequentazioni (statte attentu cu ci ti ulùti!=sta’ attento a chi frequenti!). È voce non presente nel vocabolario del Rohlfs. Per quanto riguarda la sua etimologia la prima tentazione è quella di  farlo derivare dal precedente volutàre1, ma ad un più attento esame, anche per la conservazione dell’originario vocalismo, mi appare più attendibile come padre il latino oletàre=sporcare, forma fattitiva di olère=aver odore, per cui si passa dal concetto di emettere odore, anzi puzza, a quello di far puzzare, cioè sporcare in senso letterale e metaforico).

Spero solo di non aver detto troppe zozzerie… e di non aver rimediato la figura del personaggio in vignetta.

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1 Anche perché certe frequentazioni hanno il loro momento saliente in volteggi di natura non propriamente ginnica…

Una voce sfuggita al Rohlfs

Quella t in più.

di Armando Polito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spratticàre nel dialetto neretino significa impratichire, rendere esperto. La voce stranamente non compare nel dizionario del Rohlfs ma pure ad uno scalcagnato come il sottoscritto è facile individuarne l’etimologia: la voce risulta composta da s– intensiva (dal latino ex) e da pratticàre (il neretino usa praticare, tal quale la forma italiana) che dal XIII secolo fino alla prima metà dell’800 si alternò nell’uso, insieme con prattica, rispettivamente a praticare e a pratica.

In alto prattica in tre frontespizi rispettivamente del XVI°,  XVII° e XVIII° secolo.

Sicuramente, però, prattica è la giovane madre di pratica come dimostra la più diretta filiera etimologica: dal latino tardo pràctica(m), femminile sostantivato (per eliminazione del sostantivo artem che l’accompagnava) dell’aggettivo pràcticus/pràctica/pràcticum, dal greco praktikós, da praksis=azione, a sua volta dal verbo prasso=fare; da pràctica(m), poi, per assimilazione –ct->-tt-, nacque pràttica e da lei la forma (con lo scempiamento di –tt-), intesa probabilmente come più elegante, pràtica destinata (definitivamente?) ad imporsi.

E spratticàre continua a conservare in sé il ricordo del passato. Ma per quanto ancora se le giovani generazioni hanno già sostituito pratica con l’anglofilo (in realtà, senza che nessuno glielo dica, neolatinissimo1) experience?

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1 Dal francese experience, che è dal latino exeperièntia, a sua volta dal verbo experìri (per il quale vedi la nota 2 del post La marcia in più del dialetto del 26 ottobre u. s.).

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