L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

Dal Carnevale alla Pasqua. I riti della Settimana Santa a Gallipoli

di Paolo Vincenti

 

Il lungo periodo che va dal Carnevale alla Pasqua nella città di Gallipoli è caratterizzato da una ininterrotta serie di riti in cui più che altrove il sacro si mischia col profano, in una straordinaria sintesi che dimostra quanto sia stato operante nel passato il fenomeno che gli studiosi chiamano sincretismo.

Non si può parlare delle manifestazioni di culto a Gallipoli senza fare un raffronto fra il passato ed il presente perché la modernità ha trasformato molto, in certi casi tutto, di quel complesso di rituali e tradizioni che costituiscono il patrimonio demo etno antropologico della terra salentina.  Una volta, il tempo di Carnevale a Gallipoli iniziava esattamente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, detto “Sant’Antoni de lu focu”, quando si accendevano tantissime “focareddhe” e si bruciavano per la città enormi cataste di gramaglie d’ulivo, dando così l’avvio alla festa con canti e balli per le strade ed i vicoli[1]. Era il suono della pizzica pizzica ad allietare i festivi ritrovi mentre il fuoco scoppiettava alzando nel cielo le sue scintille. Una tradizione, questa, che affonda le radici in un passato pagano quando la funzione apotropaica del fuoco veniva esaltata dai riti di purificazione.  Il periodo di festa dunque iniziava significativamente con un battesimo di fuoco, nell’evento di Sant’Antonio Abate – al quale il rito, una volta cristianizzato, fu dedicato -, e terminava con un funerale, quello di Teodoro, la maschera popolare del carnevale gallipolino, la cui morte segnava l’avvio del periodo di mestizia consona alla Quaresima.

Teodoro, il protagonista del carnevale gallipolino d’antan, viene chiamato confidenzialmente “lu Titoru”. Come riferisce lo studioso Elio Pindinelli, la leggenda vuole che il giovane soldato, trattenuto lontano dalla sua terra, desiderasse ardentemente tornare in patria almeno per il Carnevale, nel periodo, cioè, in cui tutti potevano godere dell’abbondanza del cibo e divertirsi, prima dell’avvento della Quaresima. Anche la madre di Teodoro, la “Caremma”, in pena per il figlio, pregava perché Dio potesse concedere qualche giorno di proroga del Carnevale, e le sue suppliche furono ascoltate. Si allungò così la festa di due giorni (detti “li giurni de la vecchia”) e Teodoro poté arrivare a Gallipoli in tempo per i festeggiamenti. Era un martedì e Teodoro, per recuperare il tempo perduto, si diede a gozzovigliare partecipando della crapula insieme ai suoi compaesani e mangiando quintali di salsicce e polpette di maiale, tanto da rimanerne strozzato. Così, la festa si trasformava in funerale perché con Teodoro moriva anche il Carnevale, nella disperazione della madre e fra le urla di dolore delle vicine e comari[2].

La bara di Teodoro veniva portata in processione per le strade della città: un carro, allestito coi paramenti funebri, trasportava un pupo di paglia che raffigurava lu Titoru, fra i pianti delle prefiche (le “chiangimorti”) e i frizzi e lazzi del popolo; infatti, essendo il cadavere di Teodoro abbigliato elegantemente, con frac e cilindro, questo suscitava l’ironia dei suoi amici e compagni di bevute, straniti nel vedere un pezzente acconciato in siffatto modo. Così le imprecazioni e le battute di spirito dei partecipanti al funerale andavano avanti fino a mezzanotte quando il suono delle campane segnava la fine della crapula, cioè del divertimento matto e volgare. La rappresentazione teatralizzata della morte del Carnevale ha origini antichissime, che risalgono almeno al Medioevo, come dimostrano gli studiosi di tradizioni popolari. Nel Medioevo venivano allestite delle sceneggiate in cui era fatto morire il Re Carnevale, il quale rappresentava il sovrano di un immaginario Paese della Cuccagna, dove tutti potevano bere e mangiare a sazietà. “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.” Chi non conosce questi versi della ballata di Lorenzo De’ Medici, Il trionfo di Bacco a Arianna? È uno di quei canti carnascialeschi che, nel Quattrocento, a Firenze, durante il Carnevale venivano cantati dalle allegre maschere in coro su dei carri sontuosamente addobbati.  È il canto della gioventù lieta e fuggitiva, un invito alla gioia e alla festa, portata dal Carnevale. Molti studiosi hanno visto una continuità fra questa festa e gli antichi “Saturnali”, che si celebravano a Roma in dicembre.  I Saturnali (descritti da Macrobio nella sua opera Saturnalia) erano dei giorni, nel cuore dell’inverno, dedicati al dio Saturno e si tenevano grandi festeggiamenti, durante i quali i romani si travestivano ed accadeva che i nobili indossassero le misere vesti degli schiavi ed i poveri indossassero gli abiti dei nobili con una confusione di ruoli che è tipica della festa, ossia del tempo straordinario. Ma avventurarci nelle svariate ipotesi sull’origine del Carnevale e sulla stessa etimologia del nome ci porterebbe lontano dal tema del presente contributo. In Puglia, il Carnevale più antico è quello di Putignano, ed anche il più lungo perché i festeggiamenti cominciano il 26 dicembre, con la cosiddetta “Festa delle Propaggini”, in concomitanza con la ricorrenza di Santo Stefano, patrono della cittadina. Nel Salento, quello di Gallipoli, oltre ad essere uno dei più antichi, è certamente il più spettacolare. In passato, per le strade del borgo antico, le maschere, a gruppi, scorrazzavano per le strade invase dalla gente, fra gli applausi, i coriandoli, i confetti e l’euforia generale. Con l’inizio del Novecento, il Carnevale gallipolino si spostò nella città nuova, ma sempre “lu carru te lu Titoru” rimaneva protagonista assoluto delle sfilate. Cominciava, in quel periodo, la tradizione dei carri allegorici, sull’esempio degli altri e più rinomati Carnevali nazionali. Fu dopo la seconda guerra mondiale che questa tradizione prese piede a Gallipoli, ed ogni anno di più si allestivano enormi carri colorati, realizzati dalle sapienti mani degli artigiani locali[3].

Finiva di impazzare il carnevale nella città vecchia per spostarsi su Corso Roma, nelle nuove forme codificate dagli operatori culturali e la modernità prendeva il sopravvento sulla tradizione. Gli imprenditori gallipolini capirono di potere sfruttare meglio dal punto di vista turistico l’attrazione del Carnevale e da allora questo ha avuto un tale successo da non temere rivali nella provincia di Lecce, con una massiccia affluenza di visitatori da ogni dove. Certo, lamenta lo storico Cosimo Perrone, si è perso lo spirito originario della festa, quello che animava, almeno fino agli anni Settanta, il popolo gallipolino nel periodo carnascialesco. Purtroppo la tradizione si perde anche perché scompaiono coloro che ne erano i depositari, i vecchi maestri cartapestai gallipolini, che ormai non sono più. Quando rintoccava il campanone di San Francesco d’Assisi, spiega Perrone, tutti si mettevano in ginocchio e manifestavano la propria compunzione; cominciava così, dal Mercoledì delle Ceneri, la penitenza, che si protraeva per quaranta lunghi giorni, ovvero i giorni della Quaresima.

Dopo il Mercoledì delle Ceneri, il giovedì della settimana successiva, si festeggia la Pentolaccia, che dà la possibilità di consumare gli ultimi strascichi del Carnevale ormai concluso. Si tratta di una grossa pentola, una pignatta, nella quale sono contenuti confetti e dolciumi di ogni tipo che i bambini devono rompere, per potere venire in possesso del prezioso contenuto. Ma questa tradizione un tempo era molto più sentita: gli ultimi momenti di divertimento, prima della penitenza quaresimale di preparazione alla Santa Pasqua[4]. La Quaresima, dal latino quadragesima dies, è il lungo periodo di preparazione all’Avvento del Signore e dura appunto quaranta giorni, dal Mercoledi delle ceneri al Sabato Santo, e ricorda il periodo trascorso da Gesù Cristo nel deserto ad imitazione del quale i fedeli in passato facevano penitenza attraverso il digiuno rituale e la mortificazione della carne.

In queste settimane faceva e fa tuttora la sua comparsa sui balconi delle case non solo gallipoline la maschera della “Caremma”. Questa usanza, molto diffusa in passato, si era quasi del tutto persa ma negli ultimi anni, grazie alle associazioni culturali di molti centri salentini, è stata ripresa ed oggi nei nostri paesi tanti vicoli e cortili, balconi e palazzi espongono la simpatica vecchina di pezza[5]. La Caremma o Quaremma (secondo altre versioni Coremma) è la madre del Carnevale e, con la sua bruttezza, rappresenta simbolicamente la Quaresima, il periodo dell’astinenza e del digiuno canonico. È raffigurata da un fantoccio a forma di donna, vestita di nero e in posizione seduta: in una mano ha un fuso con un filo di lana e nell’altra una arancia trafitta da sette penne di gallina. Questo strumento rappresentava, nella società contadina di un tempo, un improvvisato calendario quaresimale che, settimana dopo settimana, veniva aggiornato, strappandole una penna per volta, fino all’ultima domenica di Pasqua quando, al suono delle campane, le si dava fuoco nelle pubbliche piazze. Il colore nero dei suoi vestiti esprime il lutto per la perdita del figlio, Teodoro. La canocchia e il filo rimandano ad una tradizione antichissima. Infatti, già nella religione dei romani, una delle mitiche Parche, Cloto, filava la trama e nelle sue mani scorreva il filo della vita degli uomini. L’arancia rappresenta il frutto selvatico originario da cui si erano riprodotti i vari innesti e il suo succo amaro è segno di sofferenza. Nei tempi passati, a mezzogiorno di Sabato Santo, si sospendevano tutte le attività e si cominciava a fare un rumore enorme; in campagna, i contadini alzavano le zappe in aria e le battevano fra di loro, le campane suonavano a festa, i ragazzini ruotavano le loro “trozzule” e le madri davano due scappellotti ai propri figli. In quel momento la Caremma (detta Saracosteddha o Saracostì nella Grecìa Salentina) esauriva il proprio compito ed allora veniva tolta dal terrazzo, appesa ad un palo e, a mezzanotte, incendiata con scoppi di mortaretti. Finiva così il periodo di Quaresima ed iniziava, con la Resurrezione del Signore, il tempo della purificazione e della salvezza. Questo antichissimo rito pagano, che coincide con l’inizio della primavera, venne assimilato dal Cristianesimo nella propria cultura. L’usanza di rappresentare con fantocci vari il periodo fra Carnevale e la Pasqua è comune a tutta Europa, sia pure con modalità diverse. Aldo D’Antico fornisce una delle spiegazioni del termine “Caremma”: questo deriverebbe dal francese “Careme”, che significa Quaresima, e si deve all’invasione delle truppe francesi nel Meridione nel XVI secolo. I soldati francesi presenti nel Salento, infatti, incuriositi da quel fantoccio simile ad una strega messo sulle terrazze delle abitazioni, gli attribuirono il significato che loro davano a “persona vestita stranamente”, altra variante del termine francese careme, anche associandola al periodo pasquale. Il dialetto salentino, poi, così pieno di francesismi, ha fatto proprio questo termine, che è diventato Caremma[6].

Ma facciamo un passo indietro. I riti della Settimana Santa a Gallipoli iniziano il venerdi precedente la Domenica delle Palme, quando si festeggia la Madonna Addolorata.

A celebrare l’Addolorata è la Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, ma non c’è chiesa o confraternita a Gallipoli che non esponga una effige della Vergine. Questa festa ricorda i sette dolori di Maria. A mezzogiorno in punto, la statua della Vergine, pregevole opera lignea del XVIII secolo, esce dalla sua chiesa per recarsi in Cattedrale e durante il rito religioso viene suonato l’Oratorio Sacro. Fra questi, lo Stabat Mater, la cui musica fu composta dal gallipolino Giovanni Monticchio, verso la fine dell’Ottocento: sette terzine, come i sette dolori di Maria, estrapolate dalla celebre opera di Jacopone da Todi. Alternativamente vengono suonate le Frottole.

Secondo Cosimo Perrone, l’introduzione dell’Oratorio Sacro a Gallipoli risale al 1697 e fu introdotta dal maestro Fortunato Bonaventura ed eseguita per la prima volta tra il 1733 e il 1740, nella Chiesa delle Anime. “Svariati sono stati i maestri che nell’ultimo secolo l’hanno diretta. Da Angelo Schirinzi, Gino Metti, al maestro Giorgio Zullino, il quale insieme a Metti, ha composto un preludio dedicato alla Madonna, al maestro Gino Ettorre, francescano, professore nel Conservatorio di Lecce”. Negli ultimi anni “è toccato anche alla maestra Gabriella Stea e al maestro Enrico Zullino”[7]. Come Oratorio sacro sono conosciuti anche il Mater Dolorosa, opera del maestro Francesco Luigi Bianco del 1886, e Una turba di gente, dello stesso maestro Bianco su testo di Giovanni Santoro.

La Frottola è una composizione musicale di origine popolare che risale al Settecento ed è caratterizzata da un alternarsi di toni lenti e veloci e, applicata ai sacri riti, con l’accompagnamento del canto, conferisce alla celebrazione un forte pathos[8]. È tradizione, in questo giorno, che le donne recitino mille Ave Maria. La statua lignea della Madonna è vestita di nero, con veste trapuntata di ricami dorati e una corona d’argento le sormonta il capo, ricoperto da un lungo velo fino alle spalle. Sino a qualche anno fa, la statua veniva vestita dalla nobile famiglia dei Ravenna, nella cappella privata del proprio palazzo, per un antico privilegio di cui godeva la famiglia[9]. I confratelli in abito nero e con la candela a quattro luci accompagnano la processione, insieme al Vescovo, ai sacerdoti e alle autorità civili e militari. Essi inoltre, in coppie di due, portano la Croce dei Misteri, una croce molto particolare che reca in sé tutti i simboli della Passione e Morte di Cristo, come la lancia che ferì il costato, la tenaglia, il boccale pieno di fiele, l’amaro calice bevuto nell’Orto degli Ulivi, il sudario, la corona di spine, la mano che simboleggia gli schiaffi dati a Cristo dal centurione romano, la scritta INRI apposta sulla Croce, il gallo, che rimanda al tradimento di Pietro, il martello, i chiodi, la colonna della flagellazione, la scala, la canna con la spugna imbevuta di aceto, i dadi, la tunica rossa tirata a sorte dai soldati, la sacca con i trenta denari del tradimento di Giuda e la lanterna, che simboleggia il lume portato dai soldati del Sinedrio quando andarono ad arrestare Gesù nell’Orto degli Ulivi. Colpisce, nella processione, l’immagine piangente e contristata della Madonna Addolorata e spiccano la sua veste riccamente decorata, il fazzoletto e il cuore trafitto.

Durante la cerimonia, si tiene anche la Benedizione del mare in cui la Madonna, dal bastione della Bombarda, comunemente detto di San Giuseppe, di fronte al porto mercantile, benedice l’elemento più importante per una città rivierasca, il mare, preziosa fonte di reddito per moltissimi gallipolini dediti alla pesca. L’incontro fra le due Confraternite viene detto “Ssuppiju”, termine dialettale con cui si indica propriamente l’andare incontro di una Confraternita all’altra. Ciò avviene quando nella processione la Confraternita della Misericordia si incontra con quella di Santa Maria delle Neve o del Cassopo e in segno di ospitalità sosta per alcuni minuti di fronte alla Chiesa di San Francesco di Paola, sede di detta confraternita. Come si diceva, sono numerosissime le statue dell’Addolorata presenti a Gallipoli; fra le più importanti: quella dell’Oratorio di San Luigi, quella dell’Oratorio di San Giuseppe, quella dell’Oratorio del Rosario, l’Addolorata dell’Oratorio dell’Immacolata, quella dell’Oratorio di Santa Maria degli Angeli, la Vergine del Suffragio dell’Oratorio delle Anime, l’Addolorata della Cattedrale, quella dell’Oratorio di Santa Maria del Cassopo, dell’Oratorio del Ss. Crocifisso, la Desolata dell’Oratorio di Santa Maria della Purità, l’Addolorata dell’Oratorio del Carmine e un’altra lignea sempre dell’Oratorio del Carmine[10].

Il primo venerdì di Quaresima poi a Gallipoli inizia l’ostensione nella Cattedrale di Sant’Agata della Sacra Sindone, che finisce il Venerdì prima della Domenica delle Palme. Essa è una riproduzione della Sindone del Duomo di Torino, una delle poche copie esistenti al mondo, portata a Gallipoli nel Cinquecento dal Vescovo Quintero Ortis[11]. “Nell’Oratorio dell’Immacolata, tutti i venerdì di Quaresima si è soliti fare la pia pratica delle cinque piaghe del Signore. I confratelli, partendo dalla porta d’ingresso, caricati della croce o delle grosse pietre appese al collo, salmodiando e recitando le preghiere, raggiungono in ginocchio l’altare”[12].

Luigi Tricarico riporta il modo di dire, diffuso a Gallipoli, “le uci, le cruci, le parme e a Pasca pane e carne”, con cui si fa riferimento alle domeniche di Quaresima precedenti la Pasqua e caratterizzate ciascuna da una espressione di religiosità popolare, ovvero: le voci delle Anime del Purgatorio (uci) a cui è dedicata la quarta domenica di Quaresima; le croci che vengono coperte con del panno viola (cruci) la quinta domenica di Quaresima (il velo viene tolto alle croci durante la Messa sciarrata del Venerdi Santo ed esse sono restituite all’adorazione dei fedeli); la Domenica delle Palme (parme); e quindi la fine delle restrizioni e del digiuno penitenziale (pane e carne) nella Domenica di Pasqua[13].

La Domenica delle Palme si ricorda l’ingresso festante di Gesù a Nazareth, accolto da moltitudine di rametti di ulivo sventolanti al cielo. Oggi non si tiene più la sacra rievocazione storica della Passione e Morte di Gesù curata per molti anni dalla Comunità del Canneto.

I riti pasquali hanno inizio il Mercoledi delle Ceneri, che era detto in latino caput quadragesimae, ossia inizio della Quaresima, o caputi ieiunii, inizio del digiuno. Le ceneri sono quelle dell’ulivo benedetto nella Domenica delle Palme e la loro riduzione in polvere simboleggia la più estrema mortificazione dell’uomo, secondo il detto evangelico: “ricordati che sei polvere e polvere ritornerai” (dal Libro della Genesi). Il Giovedì Santo è il giorno dedicato ai Sepolcri. In realtà, in questo giorno si ricorda l’istituzione del Sacro Mistero dell’Eucarestia e durante la Messa, in Coena Domini, che si tiene la sera, viene rievocata l’Ultima Cena di Cristo con gli Apostoli. Al termine della messa, le sacre ostie sono esposte su un altare addobbato per l’occasione, in modo da poter essere adorate dai fedeli fino all’indomani pomeriggio. E’ tradizione portare sull’altare fiori e piatti di grano germogliato al buio. Questo grano, che adorna l’altare della Reposizione, è stato fatto germogliare dalla quarta o quinta domenica di Quaresima fino al Mercoledì Santo, in una stanza completamente buia ed è offerto simbolicamente a Cristo, che, chiuso nell’Urna, risorgerà come il grano alla luce. Questi piatti di grano sono ornati con nastrini colorati e immaginette sacre[14].

Come informa Luigi Tricarico, in passato, a partire da questo momento, le campane venivano legate in segno di lutto ed era vietato persino ridere, scherzare o cantare per strada come forma di rispetto per Cristo morto e di partecipazione al dolore[15]. La sera viene fatta visita ai Sepolcri, sia dai fedeli che dalle varie Confraternite cittadine. Queste sono annunciate da tromba, tamburo rullante e “trozzula” e procedono alla visita a passo lento e in orari distinti. La trozzula è un curioso arnese di legno costituito da un manico che termina con una ruota dentata e una linguetta che, sbattendo con un movimento rotatorio sui denti della ruota, fa un grosso baccano: uno strumento antichissimo, di cui si servivano già primi cristiani per chiamarsi a raccolta nei luoghi di preghiera (la “troccola” è detta a Taranto e apre la processione del Venerdi). I confratelli indossano il saio, la mozzetta e il cappuccio completamente calato sulla faccia per mantenere l’anonimato e sono chiamati per questo, Mai, una parola che probabilmente deriva dal termine mago, forse scaturita dalla paura che un tempo il loro aspetto sinistro incuteva nei bambini.

La ritualistica dei Sepolcri, i “Sabburghi” in dialetto, commemora l’inizio della Passione di Cristo nell’orto di Getsemani.  Come riferisce Cosimo Perrone, questo rito ebbe inizio a Gallipoli nella prima metà del Settecento, ad opera, probabilmente, della Confraternita di San Giovanni Battista, ora scomparsa, nella chiesetta dove oggi si venerano i Santi Cosma e Damiano.

 

A Gallipoli più che altrove infatti si è diffusa la devozione confraternale ed ogni sodalizio – sono dieci in tutto – è contraddistinto da propri colori e particolari privilegi ottenuti. Sfilano, sotto gli occhi dei fedeli e dei curiosi turisti, le Confraternite della Misericordia, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria della Neve, di San Giuseppe, del Ss. Sacramento e del Canneto, dell’Immacolata Concezione, della Ss. Trinità e delle Anime del Purgatorio.

Esse discendono dalle medievali corporazioni delle arti e mestieri e la loro composizione interna va dai muratori ai sarti, dai pescatori agli scaricatori di porto, o bastagi, dai fabbri ai falegnami, e via dicendo. Ognuna ha una chiesa propria e una propria divisa ma solo tre confraternite possono aggiungere al saio, alla mozzetta e al cappuccio, il cappello a larghe tese e il bordone da pellegrino: quella di Santa Maria della Neve e San Francesco da Paola, quella della Misericordia e quella della Santissima Trinità. Un tempo, era tradizione che nella giornata del Giovedi Santo si tenessero delle vere e proprie processioni ai Sepolcri da parte di alcune confraternite che portavano la statua di Cristo morto e dell’Addolorata[16].

Lasciamo la parola allo storico: «Anticamente, prima della riforma liturgica, quando cioè Cristo risorgeva il mezzogiorno di sabato, la funzione del Giovedì Santo cominciava fin dalla mattina presto. A mezzogiorno in punto, “per privilegio secolare” usciva la processione della Confraternita della SS. Trinità e Purgatorio (dei nobili) poi di Sant’Angelo (dei nobili patrizi), indi seguivano quelle del Rosario, Santa Maria del Cassopo, Sacro Cuore, San Giuseppe, San Luigi, Santi Medici. Alle 17,30, usciva la processione della Confraternita degli Angeli “lunghissima e ricca di simbolismo col gruppo statuario di Cristo morto fra gli Angeli, impugnanti gli arnesi del martirio”»[17]. Prima della riforma liturgica del 1957, “alle primissime ore del Venerdi Santo, ancora prima dell’alba, la Confraternita di S.Maria della Purità (la Confraternita te li Vastasi, cioè degli scaricatori di porto o bastagi) attraversava con la statua di Cristo morto […] e con quella della Vergine Desolata […] le strade di tutta la città…”[18]. Oggi si tiene invece la semplice visita.

Nel pomeriggio, in tutte le chiese e chiesette viene allestita la Deposizione. Il Mistero è aperto all’adorazione del pubblico a partire dalle ore 15 fino a mezzanotte, quando la Chiesa si chiude per consentire la preparazione della Processione del Venerdi Santo. Se, nella visita ai Sepolcri, succede che due coppie di confratelli diversi si incontrino, nel già citato “Ssuppiju”, il diritto di passare spetta alla Confraternita più antica.

Un tempo, quando i sensi della religiosità popolare si esprimevano in maniera più vibrante, nella società contadina del passato, così lontana dagli stimoli e dalla moderna tecnologia, la contrizione da parte del popolo si allungava in tutto il tempo della Quaresima. Davvero uomini e donne mortificavano la propria carne con digiuni e astinenza sessuale. Oggi, per i fedeli, il periodo del rigore abbraccia la sola settimana santa, con il cosiddetto “precetto pasquale”.

 

Il Venerdi Santo si celebra la “Messa sciarrata”, cioè errata, sbagliata, perché esce fuori dai canoni liturgici, quasi che il sacerdote, colpito e frastornato dal lutto, non si ricordasse più come celebrarla.  La Processione del Venerdi Santo è anche detta “Te l’Urnia” (ossia della Tomba) e viene organizzata dalla Confraternita del Crocefisso, a cui una volta appartenevano i bottai, che hanno l’abito rosso, la mozzetta celeste e una corona di spine sulla testa e che portano i Misteri della Passione di Cristo, e da quella degli Angeli, i cui appartenenti, ovvero i pescatori, indossano l’abito bianco e la mozzetta celeste e portano la statua della Madonna Addolorata. Questa processione si ferma davanti al parapetto che si affaccia sul mare, presso il Bastione di San Francesco di Paola e da qui la Vergine dà la sua benedizione ai pescatori, che ringraziano suonando le sirene delle loro imbarcazioni; poi si prosegue fino all’arrivo in Chiesa, intorno alle 24[19]. Questa processione, una delle più suggestive di Puglia insieme a quella di Taranto (coi famosi Perdùne), rappresenta il culmine delle celebrazioni pasquali gallipoline ed è largamente conosciuta in tutta Italia. Del resto, il movimento dei “flagellanti” ha origini antichissime: questo moto di devozione penitenziale iniziò a propagarsi in Italia fin dal Duecento. Oltre al Cristo morto, opera lignea del XIX secolo, sfilano molte statue in cartapesta realizzate su commissione del sodalizio organizzatore. La sacra manifestazione è ricca di fascino, grazie ai Penitenti, cioè confratelli che, per espiazione dei peccati, si autoflagellano ad imitazione di Cristo.

Essi sono anonimi e utilizzano per questo rito alcuni speciali strumenti, come la “tisciplina”, che consiste in lamine di ferro di varia grandezza con cui il penitente incappucciato e a piedi scalzi si percuote con la mano sinistra, mentre tiene nella mano destra un crocefisso; alcuni utilizzano un più semplice cilicio; un altro strumento di tortura è la “mazzara”, o zavorra, cioè due grosse pietre legate ad una corda che il penitente si appende al collo sempre come punizione corporale, e poi la “Croce”, i cui portatori sono detti Crociferi. Inoltre sul cappuccio, i penitenti portano la corona di spine. Questa è fatta con una pianta selvatica di asparago, raccolta in campagna le ultime settimane di Quaresima e viene chiamata “sparacine” o “spine te Cristu”.

Molto lunga e laboriosa è la preparazione dell’Urnia, cioè della Tomba di Cristo, che è portata in processione: poche ore prima di uscire dalla Chiesa, vengono cosparse sulla Tomba delle gocce di una essenza profumata che richiama gli odori tipici della vegetazione medio-orientale, e alcuni confratelli particolarmente devoti fanno arrivare questo profumo addirittura dalla Terra Santa[20].

Molte sono le statue del Cristo Morto e tutte bellissime: il Cristo Morto della Confraternita del Crocefisso, quello della Confraternita di Santa Maria degli Angeli, quello ligneo della Chiesa di San Francesco D’Assisi, opera dell’artista spagnolo Diego Villeros, del 1600; quello della Confraternita di Santa Maria del Monte Carmelo e della Misericordia, quello della Confraternita di Maria Ss. Della Purità, che è racchiuso in un’urna dorata; inoltre, il Cristo Morto con l’Addolorata della Confraternita di Santa Maria della Neve o del Cassopo[21]. Alcune Confraternite, come quelle del Carmine, della Purità, di San Giuseppe, e dell’Immacolata allestiscono anche il Mistero della Deposizione, comunemente chiamato Calvario, esponendo le statue dell’Addolorata e del Cristo Morto all’adorazione dei fedeli. Il più bello, che si poteva ammirare fino agli inizi degli anni Novanta del Novecento, era quello della Confraternita dell’Immacolata, opera dei fratelli pittori Nocera. Ma Calvari e Ultime Cene vengono allestiti anche nelle case dei privati per essere esposti, soprattutto a Gallipoli vecchia, durante il pellegrinaggio dei Sepolcri o durante la Processione del Venerdi Santo. Molte famiglie, infatti, posseggono proprie statue inerenti la Passione, anche a grandezza naturale, che abbelliscono con fiori, ceri e grano germogliato al buio. Alcune sono davvero spettacolari e scenografiche ed attirano l’attenzione degli incuriositi turisti. Durante la Processione della Tomba, aperta dal suono della “trozzula”, i confratelli si dispongono in tre coppie per ogni statua più un Correttore, senza cappuccio, che disciplina l’andamento della processione e tiene in mano un bastone di legno, il “bordone”, che reca scolpito in cima il simbolo della statua che accompagna. Tra i confratelli, uno ha in mano il bastoncino, un bastone più piccolo degli altri, ed è colui che riveste la più alta carica della Confraternita, dopo il Priore. Ogni confraternita espone i “Lampioni”, portati da quattro confratelli, e che sono un elemento caratteristico della Settimana Santa gallipolina: essi sostituiscono, nella processione del Venerdi Santo, il cosiddetto “Pannone”, cioè la lunga asta drappeggiata con i colori della Confraternita che apre le processioni ordinarie. La Tomba di Cristo viene portata a spalla dai “fratelli della bara”, che sono confratelli in borghese o semplici devoti. Un lungo serpentone di gente si snoda per le principali strade del paese, nel segno della tradizione, fra la commozione dei tantissimi devoti che affollano la città, in ispecie emigranti tornati a casa per le festività. “È come una ferita sempre aperta, per un po’ sembra rimarginarsi ma torna, sempre, profonda e lancinante. In questa città si compie il dolore, l’agonia, la morte del figlio di Dio che fu poi la salvezza dell’uomo… Gallipoli in questi giorni è Passione e Mistero, Gesù muore e la città si ferma”[22]. A processione terminata, ai confratelli vengono distribuite le tradizionali “pagnotte”, panini conditi con tonno e capperi[23].

Nella notte, invece, si tiene la processione della Desolata, organizzata dalla Confraternita di Santa Maria della Purità. Questa suggestiva cerimonia del Sabato Santo prende l’avvio intorno alle tre antelucane, quando la città è ancora avvolta nel buio. I confratelli della Purità o dei “Vastasi”, cioè gli scaricatori di porto, che indossano l’abito e il cappuccio bianco e la mozzetta color giallo paglierino, conducono la statua di Cristo Morto adagiato in un’urna dorata e la statua di Maria Desolata, che risale al Settecento, la quale, coperta da un manto nero, siede ai piedi della Croce. Il sacerdote, con il priviale rosso, che dirige la processione, reca in mano la reliquia della Croce. Dietro, vanno tutti i civili e i bambini e le bambine vestiti in abiti della Prima Comunione. Il procedere lento e cadenzato degli incappucciati, il loro salmodiare e il religioso silenzio che avvolge la cerimonia procurano negli astanti un senso di sospensione del tempo e dello spazio e non pochi sono coloro che rompono in pianto per la forte emozione di una simile esperienza. “Un’intera città avvolta da un silenzio così intenso e profondo da poterlo vedere. È il silenzio che ha il volto coperto da un cappuccio, come i confratelli che nella settimana santa rendono onore al Signore”[24].  In passato, le statue in questa processione erano portate in spalla da un gruppo di Ebrei stanziati a Gallipoli fin dal Cinquecento, detti in dialetto “Sciutei” (come i pesci). Essi abitavano nel quartiere Purità che perciò era detto Giudecca e con questo loro sacrificio volevano simbolicamente riparare al peccato di aver condannato a morte Gesù[25].

Quando i confratelli della Misericordia si incontrano con quelli della Purità, avviene “lu Ssuppiju” e vi è il saluto dei due correttori delle Confraternite.  “Queste due processioni” scriveva Giuseppe Albahari qualche anno fa, “che gli ospiti stanno scoprendo sempre più numerosi, hanno […] un posto speciale nel cuore dei gallipolini, soprattutto in relazione ad alcuni momenti: il passaggio nei vicoletti del centro storico che fa quasi toccare con mano ogni statua, la lunga teoria di figure che si staglia contro il cielo chiaro del primo mattino sul ponte secentesco, la benedizione che, sul bastione della Purità, conclude il rito. E per la gente, prima mesta, è già tempo di scambiarsi gli auguri per l’incombente Resurrezione”[26]. Negli ultimi anni sulla spettacolare processione dei Misteri si accendono anche le luci dei riflettori, venendo trasmessa in diretta sui network locali, come Studio 100 e Telerama, e sul web, con la diretta streaming per i salentini nel mondo. Il suono degli strumenti di rito e l’atmosfera generale di lutto in passato si stemperavano poi a mezzogiorno quando si dicevascapulane le campane”: allora le campane tornavano a suonare, si scoppiavano mortaretti e fuochi d’artificio e si dava fuoco alle caremme; nelle case si battevano le mani sui muri, sui mobili, sui tavoli e tutti potevano finalmente festeggiare la fine della penitenza e delle privazioni, ripetendo il detto “Essi tristu e fanne trasire Cristu” (“ esci anima cattiva e fai entrare Gesù Cristo”), a significare il rinnovamento che il giorno di Pasqua porta con sè[27]. Oggi questo succede a Mezzanotte quando, durante la solenne Veglia Pasquale, si toglie il lenzuolo che copriva il Cristo Risorto sugli altari, e si dà l’avvio alla Pasqua. Una trattazione a parte meritano le preghiere gallipoline del periodo quaresimale, i modi di dire del linguaggio popolare e i canti, di cui in questa sede non ci possiamo occupare[28].

Finalmente la Domenica di festa si possono gustare i tipici dolci pasquali, come “la pupa”, “lu caddhuzzu” e “lu panaru” che sono fatti di pane. Sulla tavola pasquale dei gallipolini di un tempo non potevano mancare “lu benadittu”, un piatto contenente un uovo sodo, un finocchio, un’arancia e un pane che era stato benedetto durante la Messa, e l’agnello, preparato come spezzatino (“lu spazzatu”).  Un pezzettino di pane benedetto veniva conservato in casa per scongiurare le tempeste, quando lo si buttava nel mare dall’alto delle mura invocando la fine dei marosi e la salvezza dei naviganti[29].

A queste specialità tipicamente gallipoline si aggiungono l’agnello di pasta di mandorla, detto “pecureddhu”, farcito con la crema faldacchiera o con la marmellata, che allude all’Agnus Dei, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Spesso, è impreziosito da cioccolatini che sono posti sopra l’impasto e da bandierine, simbolo della Resurrezione e del trionfo di Cristo sulla morte. Nel periodo di Quaresima, protagonista è anche la “cuddhura”, di cui la pupa e lu caddhuzzu sono delle varianti. Dal greco kollura, ha forma circolare, come la sfera dell’ostensorio, e simboleggia, come il serpente che si morde la coda, il cerchio del tempo che si rinnova; ma il pane è anche un elemento fondamentale della Comunione cristiana e rappresenta, come sappiamo, il corpo di Cristo che si è immolato sulla Croce, come il vino ne rappresenta il sangue. Essa può essere dolce o salata e al centro di questa specie di ciambella si mette un’arancia o un finocchio. Una volta, il pane utilizzato era rigorosamente azzimo. Fra “cuddhure” e “puddhiche” non c’è molta differenza, ma mentre le cuddhure, sia dolci che salate, si realizzano solo a casa, oggi le puddhiche si possono trovare anche nei bar e spesso, invece che con pane artigianale, sono fatte con pan brioche[30]. Ancora, le uova, simbolo di fecondità, e a Gallipoli, poi, un “must” sulla tavola pasquale sono la “scapece” (la “salsa di Apicio”), cioè pesce in aceto avvolto con pane grattugiato imbevuto di zafferano, e i “mustazzoli”, così chiamati perché un tempo erano preparati con il mosto cotto, oggi realizzati con farina, mandorle tostate e sbriciolate, zucchero, olio d’oliva, cannella, bucce d’arancia, chiodi di garofano e “gileppu”, ovvero una glassa al cacao prodotta amalgamando sul fuoco zucchero acqua e cacao[31].

Il giorno di Lunedi dell’Angelo, Pasquetta, a Gallipoli detto “Pascone”, i fedeli non rinunciano alla tradizionale scampagnata con colazione al sacco, come succede in tutto il resto del Salento. Le vivande che caratterizzano la scampagnata sono la parmigiana di melanzane, le polpette, la carne fritta e panata, e spesso anche la pasta al forno avanzata dal pranzo pasquale oppure preparata apposta, le frittelle con i carciofi e le immancabili uova sode[32].

Il ciclo di morte e rinascita, la resurrezione a nuova vita, il rigoglio della natura a primavera dopo i rigori dell’inverno, rappresentano i cosiddetti riti di passaggio delle antiche civiltà contadine e pagane, collegati cristianamente al ciclo pasquale, e su di essi si sono intrattenuti gli antropologi con una ricca messe di studi ai quali in questa sede si può solo rimandare.

Le sacre celebrazioni descritte sono oggigiorno meno radicate di una volta nella devozione popolare ma rappresentano un momento fortemente simbolico nella vita di una comunità locale. “Nei nostri Misteri”, scrive Cosimo Damiano Fonseca, “c’è una dialettica profonda tra antico e moderno”[33]. I cerimoniali della Settimana Santa che raggiungono il culmine nella Processione dei Misteri rinnovano a Gallipoli e in tutto il Meridione d’Italia un atto di fede che resiste ancora negli anni Duemila venti, in tempi di relativismo e massificante potere delle comunicazioni di massa. Certo, prevale l’elemento folclorico, perché si è capito che questi cortei sono veicoli straordinari di attrazione turistica, come lamenta Raffaele Nigro, il quale tuttavia, ammette che “riemerge comunque una palpabile voglia di contrizione e, allo stesso tempo, di purificazione. È qualcosa che persiste, a dispetto di ogni fragile certezza di questo nostro Medioevo contemporaneo”[34]. La danza dei penitenti che percorrono autoflagellandosi le storte e le stradine del borgo “umilia la velocità”, come scriveva Carlo Belli nel 1959, assistendo alla processione dei Perduni di Taranto, guardando quegli uomini incappucciati simili a fantasmi dondolanti nell’oscurità: “in un muto cammino fantasmi immobili espiano i loro peccati”[35].

Questo fascino antico è forse uno di quei portati del patrimonio immateriale di un popolo bello da tramandare alle giovani generazioni.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Ettore Vernole, Folclore salentino. Dalla Quaremma al Venerdì dei dolori, in «Il Popolo di Roma», 18.3.1932.

Idem, La Pasqua di resurrezione, in «Il Popolo di Roma», 29.3.1932.

Idem, Folclore gallipolino. Settimana di Passione, in «Il Popolo di Roma», 25.3.1932

Idem, La morte nelle tradizioni popolari salentine, in «Rinascenza salentina», a. V, n.1, 1937.

Idem, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a.XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.

Leonardo Antonio Micetti, Memorie storiche della città di Gallipoli, MS, sec. XVIII, presso Biblioteca Provinciale di Lecce.

Oliviero Cataldini, Carnevale d’altri tempi, in “Rassegna salentina”, a. II, n. 6, 1977, pp. 39-45.

Idem, Favole e leggende del popolo gallipolino, Gallipoli, Tip. Stefanelli, 1980.

Elio Pindinelli, Le focareddhe, Lu Titoru, La Caremma, L’Addolorata, La Sacra Sindone, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, pp. 6-10-14-16.

Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, pp. 17-18;

Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.

Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002.

F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003.

Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, pp. 33-40 e 53-91.

Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.

Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004.

Riti e feste, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2004, pp. 58-66.

Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.

Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.

Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, pp. 62-65.

Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006.

Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.

Speciale Settimana Santa, in «Il Corriere del Mezzogiorno», 14 aprile 2006.

Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, pp. 60-61.

Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.

Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.

Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.

Paolo Vincenti, Arriva la Pasqua, La Caremma, La Santa Pasqua tra storia e tradizione, in «Info-Salento. Gazzettino di informazione per gli italiani all’estero», Casarano, primavera 2007, pp. 28-31.

Antonio Sanfrancesco, Penitenti, confratelli scalzi e incappucciati. Misteri e Passione in riva allo Jonio, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2007, pp. 63-65.

Paolo Vincenti, Speciale Pasqua, in «Info-Salento. Gazzettino di informazione per gli italiani all’estero», Casarano, primavera 2008, pp. 20-27.

Antonio Sanfrancesco, Nel tempo lento delle processioni. Misteri e Passione in riva allo Jonio, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, marzo 2008, pp. 74-75.

Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

Marina Greco, Tunica, cappuccio e mozzetta: i Misteri del Venerdi Santo, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2009, pp. 62-63.

Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

 

Note

     [1] Elio Pindinelli, Le focareddhe, in «Almanacco gallipolino 1995», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1995, p. 6.

     [2] Idem, Lu Titoru – La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 10 e p. 14.

     [3] Idem, A Gallipoli un Carnevale d’altri tempi, in «Almanacco gallipolino 1996», Gallipoli, Grafiche Sud Pacella, 1996, p. 17.

     [4] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, Alezio, Tip. Corsano, 2003, p. 40.

     [5] Loredana Viola, Prima di Pasqua si darà fuoco alla “Curemma”, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2006; Misteri e Caremme, così si celebrano i riti della Passione, in «Quotidiano di Puglia», 7 aprile 2006.

     [6] Centro Solidarietà Madonna della Coltura Parabita, La Caremma, a cura di Aldo D’Antico, Parabita, Il Laboratorio, 2002. Elio Pindinelli, La Caremma, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 14. La vecchietta brucia nel rogo e le feste possono cominciare, Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Maria Claudia Minerva, Con l’arrivo di Pasqua finisce l’astinenza: fuoco alle Caremme, in «Quotidiano di Puglia», 12 marzo 2007.

     [7] Regione Puglia, Crsec Le/48- Gallipoli, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli Tra storia mito e leggenda, a cura di Cosimo Perrone, cit., pp. 51-91.

     [8] Ibidem.

     [9] Ibidem. Si veda inoltre Luigi Tricarico, Te le “Cennereddhe”…a Pasca (riti, tradizioni e suggestioni della Quaresima gallipolina) Con la collaborazione di Cosimo Spinola, Santuario Santa Maria del Canneto, Alezio, Tip. Corsano, 2004.

     [10]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [11] Ibidem.

     [12] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [13] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [14] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Si veda inoltre: Associazione Gallipoli Nostra, La Settimana di Passione a Gallipoli, a cura di Cosimo Perrone, quinta ristampa, Alezio, Tip. Corsano, 2011.

      [15] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [16] Ibidem.

     [17] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [18] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si può anche utilmente consultare: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, Alezio, Tip. Corsano, 2002, pp. 97-114.

   [19] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [20]Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [21] Ibidem.

     [22] Cinzia Di Lauro, Gallipoli Passione e mistero nel borgo del mare e del vento, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2005, p. 62.

     [23] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim. Si veda anche G. F. Mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Ed. Ass. L’Uomo e il mare, Tuglie, Tip. 5emme, 2003, passim.

     [24] Serena Mauro, Il silenzio della Passione tra incappucciati e penitenti, in «Qui Salento», Lecce, Guitar Edizioni, aprile 2006, p. 60.

     [25] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim.

     [26] Giuseppe Albahari, Sfilano i Misteri e il mare fa da sfondo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 10 aprile 2009.

     [27] Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.  Si veda inoltre Mistici silenzi nella processione dei Misteri, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 6 aprile 2007.

     [28] Ibidem. Inoltre: Un anno a Gallipoli (tra sacro e profano), in Comunità del Canneto, Perle di ieri, a cura di Luigi Tricarico, cit.; Ettore Vernole, La passione di Gesù nelle tradizioni popolari salentine, in «Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane», a. XIV, fasc. III-IV, Catania, 1939, pp. 143-155.

     [29] Elio Pindinelli, Il pranzo pasquale, in «Almanacco gallipolino 1995», cit., p. 16. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 7 aprile 2004. Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 23 marzo 2005.

     [30] Si veda: Speciale Pasqua, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5 aprile 2007.

     [31] Elio Pindinelli, La salsa di Apicio, ovvero la scapece, in «Almanacco gallipolino 1996», cit., p. 18.

     [32] Cosimo Perrone, Riti e manifestazioni di culto a Gallipoli, cit., passim. Luigi Tricarico, Te le “Cenneredddhe”, cit., passim.

     [33] Antonio Di Giacomo, I giorni della Passione. Cortei e penitenti incappucciati “Una gran voglia di Medioevo”, in «La Repubblica-Bari», 8 aprile 2004.

     [34] Ibidem

     [35] Carlo Belli, La notte dei Perdoni, ovvero la velocità umiliata, Roma, Tip. Pedanesi, 1974, p.42.

 

La chiesa della Purità in Gallipoli

 

di Giovanni Maria Scupoli

Tra le sei chiese esistenti in Gallipoli, dedicate al culto mariano, quella della Purità o di Santa Cristina è decisamente il più bell’inno all’arte figurativa.
La chiesa venne costruita intorno alla metà del 1600 ed eretta a Confraternita dei Bastasi, ovvero degli scaricatori del porto, dal vescovo spagnolo Giovanni Montova de Cardona, che governò la Diocesi gallipolina dal 1659 al 1666.

La chiesa si specchia nelle acque del mare Jonio, sulla spiaggia detta della Purità. Ha una facciata semplice con un trittico raffigurante la Vergine col Bambino, San Giuseppe e San Francesco d’Assisi.
Si accede all’interno per due modeste porte e ci accoglie una navata lunga circa 20 metri.

L’attenzione è subito richiamata dalla decorazione pittorica che ricopre tutte le pareti e l’intera volta; non si scorge un palmo di vuoto: il tutto è ricoperto di tela e dove questa non giunge sono intagli lignei che la sostituiscono.
Nel XVIII secolo la Confraternita, come tutte le altre, sottopose il suo statuto all’approvazione reale che le venne concessa il 31 dicembre 1768, dal Re Ferdinando IV di Borbone.

L’interno, ad unica navata rettangolare decorata con sfarzosi stucchi, ospita un marmoreo altare maggiore sul quale è collocata la tela di Luca Giordano raffigurante la Madonna della Purità tra San Giuseppe e San Francesco d’Assisi.
La navata è completamente ricoperta da settecenteschi dipinti su tela attribuiti al pittore alessanese Oronzo Letizia e per la maggior parte al murese Liborio Riccio.

Del Riccio sono anche la Moltiplicazione dei pani e dei pesci sulla controfacciata e le quattro scene bibliche (Caino e Abele, Adamo ed Eva, Mosé, Davide e Golia) sulle pareti laterali.
Sulla volta, completamente affrescata, sono presenti tele raffiguranti scene tratte dall’Apocalisse; mentre tra gli spigoli, resi più cupi dai colori invernali, si avvolge, nelle ampie spirali, il demone del male.

Non si possono individuare gli artisti; ma non sono certamente estranei i maestri gallipolini: Catalano, Coppola e Lenti ed i napoletani Carlo e Niccolò Malinconico, che tanta traccia hanno lasciato nel patrimonio artistico gallipolino.

 

Gallipoli 1856. Disposizioni sanitarie per contagi

Antoine Roux, Brick Schooner (1829)

 

GALLIPOLI. DISPOSIZIONI SANITARIE PER IL CONTENIMENTO DEI CONTAGI IN UN EPISODIO DI COMMERCIO MARITTIMO DEL 1856

 

di Ennio Ciriolo

Anno 1856, marzo[1]

Testimoniale del capitano e verbale di addebiti dei Deputati della salute della Città di Gallipoli Brick-Schooner “Antonino”[2], Capitano: Angelo Caporale di Torre del Greco. Rotta: Palermo-Gallipoli.

Carico: zolfo, caffè e zucchero

 

«Giorno 18 marzo corrente anno 1856 siamo partiti da Palermo, io e la mia ciurma di dodici uomini, con un carico di sacchetti di zolfo in una stiva e altri di caffè e zucchero nella seconda, da consegnare in questa Città di Gallipoli al mercadante Salvatore Filieri, che aveva noleggiato il nostro Scuner denominato Antonino.

Spirando venti di Ovest contrarissimi alla nostra rotta e per cagione dei tempestosi flutti che facevano beccheggiare pericolosamente la nave, fummo costretti a poggiare nel porto di Reggio Calabria.

La mattina del giorno 28, il vento cambia e così, senz’altra novità, fatta vela da Reggio Calabria siamo giunti in questo porto. Faccio perciò richiesta di poter procedere al disbarco della merce».

Questo laconico costituto[3] di approdo apparve sospetto agli ufficiali del porto, ai funzionari della dogana e al Supremo magistrato di sanità marittima della Città di Gallipoli, i quali decisero di indagare sulla condotta del capitano e dell’equipaggio durante il viaggio, ai sensi del nuovo Regolamento di servizio sanitario marittimo nel Regno delle Due Sicilie emanato nel 1853 dal Re Ferdinando II di Borbone.

La lunga permanenza dello Scuner Antonino a Reggio Calabria fu il primo motivo che insospettì le autorità del porto. La sosta imprevista di circa dieci giorni durante un percorso abbastanza breve era difficile da giustificare.

Controllata la patente di sanità[4]dell’equipaggio esibita dal capitano, i magistrati della pubblica salute, attenti ad evitare ogni possibile causa di diffusione di malattie contagiose, trovarono che

«non era a tenore dell’ordinativo delle reali disposizioni, mancandovi in detta patente l’annotazione delle mercanzie a bordo, il luogo di nascita e l’età dei marinai, la bandiera e il tonnellaggio del naviglio, le generalità di un passeggero clandestino presente sul veliero, la provvista di viveri e di acqua necessari all’equipaggio.

Oltre di ciò, ispezionate le stive, scoprirono che nel fondo di detto vascello vi erano armi molto soprannumerarie rispetto a quelle annotate sulle polizze di carico, prive di attestazioni di controlli doganali pregressi e quindi di illecita provenienza».

La nave venne sottoposta a sequestro cautelare per le irregolarità della documentazione, per la presenza di uno sconosciuto a bordo, per le armi non dichiarate, per il sospetto che la loro incerta provenienza potesse essere causa di diffusione di malattie contagiose: peste, febbre gialla, colera, tifo petecchiale o esantematico.

Quelle armi potevano infatti provenire da luoghi infetti o da equipaggi suscettibili di infezioni che, a causa dei commerci illeciti in mare, lontano dai porti, avrebbero trafficato con gente equivoca, capace di sottrarsi al rigido controllo sanitario previsto dai Regolamenti di sanità marittima.

Il capitano dello Scuner Antonino venne richiesto di fornire le sue controdeduzioni riguardo a quanto gli veniva addebitato e di rispondere in maniera chiara e puntuale all’interrogatorio cui era sottoposto.

A discolpa sua e dell’equipaggio, egli addusse le seguenti motivazioni.

«Avendo esso capitano paventato che durante il di lui viaggio il suo Scuner potuto avrebbe incontrarsi con vele nemiche e venire alla pugna, come che a bordo la propria artiglieria di difesa era scarsa assai e debole, saggiamente pensò premunirlo con altre armi con cui potuto avesse far fronte all’inimico.

E data essendosi l’occasione nel porto di Reggio Calabria, allor che si partiva, di far compra di schioppi numero 200, cioè 170 posti già in armeggio e atti all’intutto per dar fuogo all’inimico, e gli altri trenta forniti dei propri ordegni pronti all’impiego per difesa nostra o per respingere i Legni barbareschi che interamente il vasto mare dappertutto infestano».

Ma ormai, alle autorità preposte, non interessavano tanto gli attacchi di pirateria che in effetti erano di molto scemati durante il 1800, quanto le condizioni di salute dell’equipaggio e il controllo della regolarità del carico della nave per evitare ogni eventuale possibilità di contagio che poteva provenire dai traffici marinareschi. Era convinzione comune che i viaggi per mare potessero compromettere la pubblica salute attraverso gli approdi dei bastimenti, i naufragi sulle coste, la tipologia delle merci trasportate, il transito nelle città di mare di gente forestiera sbarcata nel porto, specialmente se provenente dalle coste dell’Africa, dal Levante ottomano, da altri luoghi soggetti al dominio turco, da Tripoli, Tunisi, Marocco.

Possibili portatori di infezioni contagiose erano considerati in primo luogo «l’uomo e tutti gli altri animali pelosi, pennuti e lanuti». Erano poi ritenuti suscettibili di contagio diversi generi di commercio tra cui: lana, cotone, canapa, lino, stoppa, stoffa, tappeti, tabacchi, spugne, carta, libri, qualsiasi tipo di pelli e di cuoi. Anche i metalli, «semplici o manifatturati», potevano risultare contagiosi «per ragion della ruggine e dell’untume che naturalmente concepiscono nell’essere maneggiati»[5].

Nel caso dell’Antonino si giunse facilmente alla conclusione, anche per le reticenti spiegazioni del capitano e dell’equipaggio, che il carico di fucili era stato acquistato illegalmente e che allo stesso modo poteva essere venduto. Per cui, non potendone appurare né la provenienza né le condizioni igieniche, a causa del passaggio nelle mani di organizzazioni clandestine di numerosi trafficanti che inducono condizioni propizie alla ruggine, alla polvere, a germi altamente morbiferi, i Deputati della salute confermarono il sequestro della nave e dell’intero carico.

Al Pretore del Mandamento di Gallipoli venne demandata, per competenza, la valutazione dei risvolti penali dell’intera vicenda e delle sanzioni che andavano applicate.

Il capitano, l’equipaggio e il passeggero rimasto ignoto vennero posti, come richiedevano la prevenzione quarantenaria, la pratica di isolamento e le altre strategie di contenimento dei contagi, entro il recinto del lazzaretto, o ospedale del porto, delimitato da un sicuro cordone di custodia sanitaria, da un alto muro e un fossato.

Certo le malattie contagiose non risparmiavano Gallipoli né le altre città di mare. Basti qui ricordare le infezioni di tifo petecchiale con emorragia cutanea del 1804 e del 1848, che indussero vuoti paurosi nella densità della popolazione, causate, secondo le cronache storiche della città, da partite di grano infestato da petecchia e da altri virus patogeni sbarcate nel porto e panificate per il pubblico consumo. Anche allora, come oggi per il Corona virus, alcuni solerti medici perdettero la vita a causa del morbo che cercavano di debellare. Tra questi, Salvatore Marzo e Salvatore Demitri. Illustre vittima del contagio fu il vescovo Giuseppe Maria Giove, che molto si era prodigato «a pro dei veri poveri minacciati dalla malattia e di una morte quasi inevitabile per difetto di efficaci soccorsi»[6].

In assenza di qualsiasi intervento dello Stato, le imprese commerciali, spinte dalla necessità di sostenere l’economia, mettevano a disposizione della ricerca sanitaria gli indispensabili mezzi finanziari. A Gallipoli, le ditte francesi Auverny & Co. e la Emile Vienot, la Henry Stevens, inglese, la Mac Donald, olandese, sostennero la ricerca medica con propri finanziamenti allo scopo di conoscere meglio il virus del tifo petecchiale e combatterlo in maniera mirata.

L’odierna pandemia del Corona virus fa ripensare, mutatis mutandis, alle strategie sanitarie adottate in altre simili situazioni per arginare le conseguenze devastanti di malattie che, nella storia di lungo periodo, hanno aggredito e falcidiato la vita di intere generazioni. Per cui, senza esprimere giudizi di merito e traendo spunto dalle vicende sopra riportate, ritengo cosa utile riproporre alcune norme sulle urgenze sanitarie imposte dal Regio Decreto del 1853 per il Regno di Napoli. Ognuno può fare confronti e riflettere sugli accorgimenti anticontagiosi posti in essere nel passato e su quelli che vengono proposti oggi.

I reclusi del lazzaretto, sospetti di contagio, venivano sottoposti a diverse visite mediche, comunque non meno di due, una all’inizio e l’altra al termine della quarantena.

I medici, gli assistenti e i custodi del lazzaretto dovevano «essere coperti di una sopraveste di taffettà incerata, con cappuccio e maschera, calzati di zoccoli di legno e non si permetteranno mai di toccare gli infermi, né le loro robe, né i loro letti.

A tal fine porteranno sempre in mano un bastone con punta di ferro uncinato nel fine di scoprire gli ammalati quando occorra osservarli e far sì che nessuno si avvicini a essi.

L’infermiere e le guardie di servizio avranno, invece del bastone, lunghe mollette di ferro onde somministrare agli infermi i cibi ed i medicamenti prescritti, o per raccogliere da terra gli stracci, i fili, le carte e immediatamente bruciarli.

Tutto il personale sanitario, prima e dopo le visite, deve lavarsi le mani e il viso con acqua mista ad aceto antisettico e replicare queste lozioni frequentemente […] anche con soluzioni cloriche e saponate calde.

[…] Se un infermo viene a guarigione se gli debbono far recidere da lui medesimo i capelli ed i peli di tutte le parti del corpo. Indi si deve far passare in una sala di convalescenza ed ivi lavarsi diligentemente con un bagno tiepido e dargli dell’olio tiepido, acciò se ne unga per tutta la superficie del corpo, compresa la faccia e la testa». Doveva inoltre restare in osservazione per 40 giorni.

Le camere dei lazzaretti, a mano a mano che si rendevano libere o per causa di morte o, eccezionalmente, per guarigione dei reclusi, venivano imbiancate e disinfettate con calce. Il pavimento, sottoposto a ripetuti strofinamenti con la sabbia, era poi lavato con acqua di mare, con aceto antisettico e con “fumigazioni” nitriche o cloriche.

Le “robe” dei deceduti, non escluso il letto che avevano occupato, subito venivano date alle fiamme.

Se la morte fosse intervenuta per causa di peste, febbre gialla, colera o tifo petecchiale, il cadavere doveva essere preso con uncini di ferro, riposto nudo in una fossa cosparsa di calce viva, ricoperto ancora con calce e con acqua sufficiente per portarla allo stato di sobbollimento e, quindi, la fossa veniva colmata con almeno otto “palmi” di terra[7].

Poiché siamo in tema di contagi non è superfluo ricordare che la pandemia di Covid 19, che è la prima del XXI secolo, è comparsa puntualmente a distanza di cento anni, un secolo esatto, dall’ultima pandemia dell’età moderna: la Spagnola degli anni 1918-1920, quando le attuali irrinunciabili (o irresponsabili?) movide erano ancora di là da venire.

E diciamo ancora che la Spagnola trovò terreno fertile alla fine del primo conflitto mondiale, che aveva devastato l’intera Europa, mentre il Corona virus è stato preceduto da decenni di violenza sistematica e persistente perpetrata dall’uomo ai danni del pianeta Terra.

Che il Covid 19, come tante altre pandemie, abbia messo in ginocchio l’economia mondiale è fuor di dubbio. Ma è fuor di dubbio anche la nostra colpevole noncuranza riguardo ai livelli di qualità della vita che lasceremo a chi verrà dopo di noi.

 

Note

[1] AS LE, Verbali di avaria in mare, anno 1856.

[2] Scuner in italiano.

[3] «Il costituto è un atto legale, con cui il Capitano di un bastimento è obbligato a deporre innanzi alle Autorità sanitarie su tutte le circostanze della navigazione eseguita dal momento della sua partenza da un luogo fino a quello dell’approdo nel luogo ove se gli domanda il costituto». Dal Regolamento di Servizio sanitario esterno per il Regno delle Due Sicilie, 1853, Titolo II, Capo II, art. 27.

[4] «La patente è una carta autentica che le autorità sanitarie rilasciano ai Capitani o Padroni di bastimenti allorché essi sono per partire da un luogo. La patente deve indicare: il nome e l’età del Capitano del bastimento a cui si rilascia; la denominazione del bastimento e la bandiera di cui è coperto; i nomi e l’età di tutti gli altri individui che vi sono imbarcati, sia come formanti l’equipaggio sia come passeggeri; la specificazione del luogo per cui è diretto; la natura delle merci di cui il carico si compone», cit., Titolo II, Capo I, articoli 17 e 20.

[5] Ibid, Titolo I, Capo II, articoli 9-13.

[6] Cfr., F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli, Tomo II, Mario Congedo Editore, Galatina 2007, p. 761.

[7] Regolamento generale di servizio sanitario esterno pel Regno delle Due Sicilie, 1853,Titolo III, Capo I, articoli 76-78.

Avventure di mare: alcune vicende accadute nelle acque di Gallipoli durante il ‘700

di Antonio Faita

Storie di mare, dei suoi uomini e di viaggi, è il risultato di una piccola indagine condotta sugli atti notarili riguardanti specialmente il traffico marittimo nella città di Gallipoli e alcuni fenomeni legati alla navigazione. Ho appurato anche che durante il Settecento si nota un cospicuo aumento delle imbarcazioni ‘patronizzate’ da patroni napoletani ed equipaggi provenienti dall’area napoletana (Napoli, Procida, Piano di Sorrento, Vico Equense, Positano, ecc..), mentre nello stesso periodo si assiste ad un vistoso calo della presenza genovese. Tale calo risultava soprattutto dopo l’ascesa al trono di Napoli dei Borboni. In questo periodo rimaneva pressochè invariata la presenza francese mentre, accanto ai tradizionali siciliani e maltesi, comparivano sempre più di frequente i velieri inglesi. Le navi commerciali, che trasportavano grano, olio, vino, legname e altre mercanzie erano il tipo di imbarcazione che predominavano maggiormente e che, dalla Puglia e dalla Calabria, trasportavano merci verso l’area napoletana e non solo. Tra le navi di trasporto le più numerose erano le tartane, grosse barche da carico, con scafo in legno di forma piena ad un solo albero con vela latina e uno o più fiocchi, con un equipaggio composto da una decina di marinai. Le tartane vennero, dalla metà del Settecento, sostituite dalle marticane, piccoli velieri di maggiore portata con tre alberi e con un equipaggio composto dal ‘patrone’, due timonieri, uno scrivano, un nostromo, un pilota e alcuni marinai. Tra le navi mercantili frequenti sono anche da ricordare le polacche e i pinchi, questi ultimi presenti dalla fine del Seicento in poi.

Proseguendo la ricerca si è constatato che le cause che determinarono la perdita delle navi furono quasi sempre la forte presenza dei turcheschi e dei corsari in agguato e i numerosi naufragi, provocati dalle tempeste o dalle improvvise burrasche, rappresentando un rischio costante per la navigazione autunnale e invernale.

Dall’analisi della documentazione riporto qui di seguito alcuni stralci delle testimonianze di chi con il mare ha avuto un rapporto intenso e appassionato, proponendo al lettore racconti di mare e di navigazione. Raccolte dai notai Carlo Mega e Carlo Antonio Alemanno, in questo caso le testimonianze avvenivano, oltre alla presenza del Notaio e dei testimoni, alla presenza del Sindaco e dei “Deputati della salute”, una sorta di commissione medica. Il loro modo di vivere e raccontare il mare consegna storie emozionanti, ricche di ricordi, aneddoti e descrizioni indimenticabili.

Gallipoli

La morte di un marinaio

Gallipoli, 6 agosto 1710

Stando lontani e sopravento nel lido di mare del porto di Gallipoli, il signor Sindaco Francesco Roccio, il Dottor Matteo Sansonetto, D. Giovanni Ximenes e D. Giuseppe d’Acugna, Deputati della Salute, assieme con i Dottori Fisici Oronzo Lovero, Salvatore Creddo, Giuseppe Vito Orlandino, Angelo Liviero e con i soliti soldati di guardia, si erano recati per conferire con il signor Gioacchino Zavarese di Sorrento, padrone della tartana nominata ‘Madonna delle Grazie’, per interrogarlo e far calare a terra e accertarsi della morte di un marinaio avvenuta sulla sua tartana. Ancor prima che il signor Zavarese raggiungesse il lido con il suo schifo[1], il dottor Giuseppe Vito Orlandino espose ai colleghi e alla presenza del notaio Carlo Mega e dei testimoni Utriusque Juris Doctor Matteo Cariddi e Nicola Vamelst, quanto era accaduto nei giorni precedenti. Approdata a Gallipoli, il 28 luglio, la tartana del padron Zavarese, proveniente da Corfù, come da prassi, prima di essere autorizzarti a scendere a terra, i marinai dovevano essere interrogati e visitati dal medico per escludere l’esistenza di qualche morbo, come la peste. Appena giunti, su uno schifo, il padron Zavarese e i suoi marinai furono visitati dal medico, il quale li trovò tutti in buona salute ma, per sicurezza, furono posti in quarantena. Venerdì primo agosto, il dottore Orlandino fu fatto chiamare dal signor Zavarese, in quanto un marinaio, di nome Orazio de Trapane di Vico Equense, manifestò dei problemi di salute per cui fu chiesto l’intervento del medico. Intervento che non fu imminente, solo il giorno dopo si presentò il dottor Orlandino con le guardie e i Deputati della Salute. Sceso a terra e, alla presenza del medico, il padron Zavarese disse di ‘tenere sopra la sua Tartana un Marinaro infetto di voce, di nome Oratio Trapane per la quale causa lo richedeva di rimedii alla di quello infermità’. L’Orlandino diede l’ordine ‘chera necessario farlo calare in terra’. Il marinaio fu calato e messo sullo schifo e, a ‘distanza competente et interrogatolo dell’origine della sua infermità’, disse che: ‘come nell’antecedente notte di venerdì (1 agosto) sendosi lo medesimo coricato sopra la campagna[2] della sua Tartana vi dormì tutta la notte in tempo che tirava un impetuoso vento di girocco et alzatosi poi la matina s’intese un grandissimo dolor di torace che li cagionò gran tosse con sputo di robbe catarrali con portione di sangue’. Questi furono gli effetti che tennero dietro a questa imprudenza. Il medico prescrisse all’infermo un “evacuante” ma, malgrado la cura non si verificò, nei giorni successivi, nessun miglioramento. Anzi, lo sfortunato Orazio de Trapane, il giorno 6 agosto, ‘sene passo da questa a meglior vita’. A questo punto intervennero, alla giusta distanza, i Dottori Fisici, ordinando di denudare il cadavere per accertarsi se sul corpo avesse segni evidenti di qualche malattia contagiosa. Non avendone visti fu disposto dai detti medici, dal Sindaco e dai Deputati della Salute, che: ‘fusse portato sopra la detta Tartana e posto entro un tauto ed impececato acciò così poi se li desse sepoltura[3]. La sepoltura avvenne il giorno successivo, sabato 7 agosto, così come risulta dall’atto di morte che riporto qui di seguito: “Nell’Anno del Signore mille settecento e diece à di sette Agosto: Oratio de Trapane da Vico d’anni trenta cinque in circa nella Comunione della S. madre Chiesa rendè l’anima a Dio, il corpo del quale fù sepellito nella chiesa di S. Nicolò fuora della Città, essendo morto ab Intestato[4] per ordine della Curia Vescovale, il quale sopradetto Oratio era marinaro della Tartana del Padrone Gioacchino Zavarese, nominata La Madonna della Gratia, S. Martino, e L’Anime del Purgatorio[5].

Risarcimento danni

Gallipoli, 10 agosto 1716

La storiografia ha sempre privilegiato associare l’immagine dei commerci veneziani con l’aspetto più fascinoso dei traffici con l’oriente, dei prodotti più esotici, dei beni di lusso redistribuiti poi in tutta Europa. Solamente in anni più recenti si è prestata maggior attenzione ad altri generi di commerci, tra i quali quello derivante dallo sfruttamento dei boschi. Non a caso per indicare l’epoca che precede la rivoluzione industriale si parla di “ civiltà del legno”, e Venezia di quella civiltà fu protagonista, inviando tavole non solo verso il sud Italia, ma fino ad Alessandria d’Egitto[6]. Secondo le esigenze specifiche delle varie città, il legname veniva utilizzato per approntare le fortificazioni, per la produzione di mobili e specchi, per l’allestimento dei cantieri all’interno degli edifici e soprattutto come risorsa strategica per eccellenza per qualsiasi flotta navale. Durante il tragitto per via mare non era raro che il prezioso carico andasse perso, o per naufragio o per scelta del comandante del naviglio che se ne disfaceva per scongiurare rischi di affondamento durante violente burrasche. Nell’ufficio del ‘Magnifico Regio Locotenente del Regio Portolano di detta città’ di Gallipoli, i signori Prospero Castagnola e Giacomo Cappello di Lavagna (presso Genova), presenti nel porto gallipolino con le loro tartane, furono richiesti, come ‘prattici nell’arte Nautica’, dal signor Giuseppe Pietra Santa e dal signor Andrea Avallone di Napoli, ‘Padrone della Tartana nominata San Felice, Santa Barbara e l’Anime del Purgatorio’, di fare ‘la determinatione e tassa delli danni patiti da detto Padrone Andrea nella borrasca’ che li investì nel loro viaggio di ritorno da Venezia ‘col carrico di Tavole per questa città di Gallipoli[7]’. Per le difficoltà dovute all’infuriare della burrasca il padron Avallone fu costretto a gettare in mare il suo carico di tavole ‘a sollievo di detta tartana per non sommergersi’. Nonostante però fosse stata alleggerita del carico ‘in numero di duecento ventisette’ tavole veneziane, la tartana subì dei danni ‘coll’haversi rotta una torticcia[8] in tre parti, e l’Antenna del trinchetto anche in tre parti, lo sporone[9] di quella, e perdita di tre petrere[10] tirate in mare dalla banda[11] dalla detta borrasca’. Il tutto fu riportato nel testimoniale redatto dal detto padrone Avallone.  Ascoltato quanto era accaduto, ‘essi Padrone Prospero Castagnola, Padrone Giacomo Cappello’ con giuramento e alla presenza del signor Giuseppe Petra Santa e del padron Andrea Vallone, ‘dichiarorno et attestarno che d’essi visto e considerato li detti danni determinorno in tutto quelli ascendere in ducati Novanta cioè ducati sessanta n’aspettano alla Mercantia e ducati trenta alla barca[12]. Inoltre, dopo il pagamento del nolo[13] di ‘ducati settant’uno e grana settanta al detto padrone Andrea’, i due esperti aggiunsero che il padron Avallone doveva ricevere ‘per danno dell’avaria ducati dodici e grana novanta’. A questo punto il signor Giuseppe Petra Santa[14], ‘in presenza nostra pagò a detto Padrone Andrea Avellone li detti ducati dodeci e grana novanta, che in moneta d’argento usuale di questo Regno manualmente et in contanti ricevè ed hebbe’. L’Avallone quindi ‘se ne chiamò quieto e contento et intieramente sodisfatto e così ancora del detto nolo facendone la dovuta quietanza’[15].

 

Una comoda prigionia

Gallipoli, 24 febbraio 1719

La testimonianza del sergente spagnolo D. Gabriele Rodriquez, prigioniero, assieme ad altri sessantadue tra soldati e marinai, in un palazzo di Gallipoli, non identificato, rilasciata alla presenza del Notaio Carlo Mega e dal testimone D. Benedetto Pizzarro, spagnolo ma abitante a Gallipoli:

Io sottoscritto D. Gabriele Rodriquez Sargente Spagnolo della Nave di Guerra Spagnola naufragata nella Marina della Terra d’Alliste di questa Provincia di Terra d’Otranto, e al presente priggioniero In questa Città di Gallipoli con altri numero Sessanta due Soldati, e Marinari della suddetta Nave, con li quali sono Io stato, è al presente mi ritrovo dentro un Palazzo destinatoci per nostra habitatione dal Signor D. Giovan Battista Pievesauli Sindico di questa Città, Certifico con la presente, dichiaro, e cunfesso d’haver ricevuto dal detto Signor Sindico e dal signor Casciero dell’Università di detta Città dal dì quattro del passato prossimo mese di Gennaro del corrente anno del qual giorno fussimo portati prigionieri in questa Città con ordine dell’Illustrissimo Signor Preside di questa Provincia. In sino hoggi le venti quattro del corrente mese di febbraro, ogni giorno sessanta tre rationi di pane per noi tutti priggionieri, quali rationi sono state di peso once venti quattro, hotto per ogni ratione hiasche di uno [16]di noi priggionieri.

E dichiaro haver riceuto ancora da detti signori Sindico e Casciero Sessanta tre sarcene di paglia per potere noi dormire sopra d’essa et In fede della verità per cautela delli detti signori Sindico e Casciero e di chi aspetta richiesta ho fatto la presente, sotto dalle mie proprie mani[17].

 

La fuga

Gallipoli, 23 agosto 1719

Fuori le mura della città, precisamente vicino la chiesa di Santa Maria del Canneto, si recarono il Notaio Carlo Mega, i testimoni il Dottor Fisicus Giuseppe Vito Orlandino, il Dottor Fisicus Tommaso Senape e il signor D. Giovan Battista Pievesauli, General Sindaco della Fedelissima Città di Gallipoli, i quali, su richiesta di quest’ultimo, conferirono, stando sopravento, con le solite guardie. Queste ebbero l’ordine di chiamare e mantenendosi alle giuste distanze, in quanto in quarantena, i signori Tommaso Cavilline napoletano, di anni ventisei, Antonio Rubini di Ancona di anni ventisei, Lorenzo Selvini di Macerata di anni venti e Nicolò de Napoli, ‘decrepolo’ (deficiente) di Romania. ‘Fatta una croce di legno espostasi a distanza di noi a quelli se li diè il giuramento che dovessero dire la verità’. Disciolta la croce e buttati i legni a mare, iniziò l’interrogatorio. Fu chiesto come mai si trovavano nel porto di Gallipoli e per quale luogo erano diretti e con che tipo di imbarcazione. Disse uno di loro, ‘essendo noi in Malta da passegeri cui andavamo trovando imbarcatione per Genova’, trovarono una tartana gaetana (di Gaeta) vuota senza mercanzia, da ‘passageri s’imbarcorno’  e, navigando un giorno e mezzo nel canale di Malta, incrociarono un vascello spagnolo il quale assalì e predò la detta tartana, facendo prigionieri tutti i marinai e i passeggeri. Per ben venticinque giorni dimorarono sul vascello dopo li quali ‘essi quattro fuggirno da detta nave con una barca piccola’  e, nel mentre si trovavano nel mare di Calabria, navigando per otto giorni, furono avvistati da due tartane francesi che provenivano da Genova e dalle quali ‘li fù dato charitative un poco di pane, acqua e vino’ senza aver dato loro in cambio nulla. Navigando con quella piccola barca, giunsero la sera di venerdì 17 agosto nel porto di Gallipoli dove, su ordine del Sindaco e dai Deputati della Saluti, furono posti in quarantena. Visitati dal medico, risultarono tutti in buona salute e la piccola imbarcazione fu affondata[18].

 

Il legname di Rossano Calabro

Gallipoli, 30 luglio 1745

Nell’affascinante storia della Rossano commerciale una delle merci più preziose era il legname da costruzione per doghe di botti, il cui massimo acquirente era la Puglia. Un andirivieni di navi mercantili che attraccavano alla banchina per poco, giusto il tempo che serviva per scaricare e caricare le merci. Il 19 luglio 1745, si trovava nel porto di Gallipoli e in partenza per la marina di Rossano, la tartana del padron Giacinto Attanasio di Positano, sulla quale imbarcarono: Pietro Condoleo di Tropea, marinaio della tonnara di Gallipoli, il quale fu inviato dal padrone della tonnara per ‘pigliar robba di detta Tonnara’; Francesco Staiano di Positano, mastro bottaro in questa città presso la bottega del signor Francesco Romito, incaricato dal signor Romito per incontrare i mercanti e “per ivi attendere al scarto della legname di far botti”. Salpate le ancore, si fece vela per la marina di Rossano dove giunsero il martedì 20 luglio alle ore sedici[19]. Appena giunti alla marina[20], il ‘Padrone all’istesso tempo andò sopra Rossano per trovare li mercadanti’. Una volta trovati i signori D. Lelio Abenante[21] e Luca Maria Perrone[22], presentò ‘alli medesimi l’ordine del signor Francesco Romito’. Essi gli ordinarono di tornare giù per la marina e che la mattina del giorno seguente ‘si dava senz’altro, principio al carico di detta legname’, in quanto tutto era pronto. Purtroppo l’attesa fu invana, per tutta la giornata del 21 e sino al giorno 23 ‘non comparse persona veruna, ed esso padrone mandò un marinaio sopra Rossano per protestare contro detti mercadanti’ e, per mancanza del notaio, non fece nessun atto di protesta. Sul tardi, della stessa giornata, si recò alla marina ‘detto signor Luca Maria dicendo, che non trovava né carri, né persone per poter portare la detta legname alla marina’, inoltre, che il bosco[23] distava due miglia, caricando e assicurando un viaggio al giorno pur ‘con quattro cavalcature’. Il giorno 24, fino a tarda notte, si abbattè sulla marina una forte tempesta che durò 24 ore e fu necessario mettere in sicurezza la tartana dando fondo[24] con tutte le ancore e ‘capi’, in un fondale profondo ‘braccia quaranta’. Il giorno seguente, pur aver subito dei danni alli ‘capi e grippie[25]’, si ‘caricò sopra detta Tartana tutta quella legname che vi era alla marina’. Legname che non fu in quantità sufficiente per garantire un buon carico.

Verosimilmente ci fu un cambio di programma, quello di far recare la tartana presso la marina della Torre dell’Arso per un ulteriore carico. La sera, infatti, verso le ore 24[26] si fece vela (fig.9) per tale marina, lasciando a terra il mastro Staiano, per avvisare il signor D. Lelio Abenante e di far trovare presto ‘la robba la matina seguente’. Infatti, la mattina del giorno 26 luglio, ‘di nuovo si diede fondo in detta marina dell’Arso[27] in attesa che arrivassero gli ufficiali per dare inizio alle operazioni di carico del restante legname[28]. L’attesa si prolungò sino alle ore 20[29] e, giunti gli ufficiali ‘si pose la gente tutta a far detto carico, che sino ad ore 24[30] si caricarono da una migliara cinque e otto cento detta legname’. Nella notte però, ‘si pose un’altra tempesta à segno di Greco, e Tramontana, che fù necessario di sarpare et andare alla volta del Capo di Santa Maria, e tanto s’ingrossò il tempo che si perse il schifo della Tartana sudetta’. Il giorno successivo, 27 luglio, si fece rotta dal Capo di Santa Maria di Leuca per Gallipoli, e ad ‘ore 20[31] si giunse in questo Porto di Gallipoli[32].(fig.10)

 

Note

[1] piccola imbarcazione a vela o a remi;

[2] Luogo aperto, che si presta al rapido movimento di truppe e di mezzi;

[3] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1719, coll. 40/13, cc. 229r-230r;

[4] senza testamento;

[5] apsagallipoli, Registro degli atti dei Defunti dal 1702 al 1719, c.82r;

[6] Vieceli m., “L’immagine per i mercanti di legname veneziani tra il XVI e XVII secolo: fluitazione di materiali e di idee”, tesi di laurea, anno accademico 2001/2012, p.7;

[7] Il fenomeno dell’architettura civile e religiosa di Gallipoli, specialmente quello di committenza confraternale, tra il XVII e XVIII secolo conoscerà la più radicale e duratura trasformazione d’immagine della sua lunghissima storia. (vedi: cazzato m. – pindinelli e., “Dal particolare alla città. Edilizia Architettura e Urbanistica nell’area Gallipolina in età Barocca”, Tip. Corsano, Alezio 2000); E’ il caso dell’Oratorio confraternale di Santa Maria della Purità che, fino alla seconda metà del XVIII secolo, fu un cantiere di lavoro per la sua realizzazione. Furono acquistate diverse tavole veneziane per vari usi, come si può notare dal libro dei conti della confraternita presso l’Archivio Storico Diocesano di Gallipoli: Esito 1709, “Per tavole numero quindici a ragione di grana 35 l’una, per la pittura de quattro fatti miracolosi alle mura della chiesa d. 5.1.5”; “Detto prezzo di 4 tavole veneziane che stanno nella Congregazione d.1.2”; Esito 1714-15, “Prezzo per 44 tavole veneziane, d. 22”; “Per 6 tavole veneziane di bulli 6, d. 3.75”; Esito 1737-38, “Pagati a Giacomo Spinola per tavole veneziane, chianette, centre e fatica per mezza d.6.80” (vedi: antonazzo l. –faita a., “Il pittore Aniello Letizia e le sue prime opere di committenza confraternale nella Gallipoli del ‘700” in anxa, n. 5-6 magg.-giu. 2016, pp. 12-13; pindinelli e., “L’Oratorio e la Confraternita di Santa Maria della Purità. I fratelli ‘bastasi’ e l’esito decorativo in età barocca a Gallipoli”, Grafiche CMYK, Alezio 2017;

[8] www.treccani.it: fune costituita da più funi a trefoli, usata per apparecchi di sollevamento;

 

[9] www.treccani.it: Nelle costruzioni navali, speciale forma del dritto di prua di navi militari di ogni tempo (dai più antichi esempi minoici, ai rostri romani, a quelli dell’Ottocento) foggiato in modo da sfondare, con l’urto, la parte subacquea dello scafo attaccato. Uno s. si trova, per scopi completamente diversi, sotto forma di bulbo rigonfio in alcune carene moderne, quale forma adatta a ridurne la resistenza al moto e soprattutto a frenare i movimenti di beccheggio in mare mosso;

[10] A Marine Vocabulary in three languages, (1814): E’ un piccolo cannone di palla di una libra di peso;

[11] www.treccani.it: Ciascuno dei due lati della nave, dritta e sinistra. Essere sbandata;

[12]Sono a carico dell’assicuratore i danni e le perdite che colpiscono le cose assicurate per cagione di tempesta, naufragio, investimento, urto, getto, esplosione, incendio, pirateria, saccheggio ed in genere per tutti gli accidenti della navigazione.

[13] prezzo convenuto per il trasporto di merci;

[14] verosimilmente, agente e garante della mercanzia;

[15] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1716, coll. 40/13, cc. 364r-365r

[16] ciascheduno;

[17] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1719, coll. 40/13, cc. 74v-76v;

[18] Aslecce, Not. MEGA Carlo, protocollo Anno 1719, coll. 40/13, cc. 334v-335v;

[19] paltrinieri g., “Fine Settecento: ora Italiana ora Francese”, in ‘Quaderni di gnomonica’ n. 5, Bologna 2002. Dallo studio svolto dal Paltrinieri si può risalire, consultando un grafico, da lui elaborato, a tradurre le ore italiche citate da autori del passto con le ore francesi, cioè in pratica quelle attuali. Le ore 16:00 riportate sul documento, corrisponderebbero, pressappoco, alle ore 8:00;

[20] Storicamente, la spiaggia di Rossano viene identificata con la località di Sant’Angelo, un insediamento che include la Torre Stellata, il fondaco, alcuni magazzini e case di pescatori; Cfr. Francesco Joele Pace, Grano, mulini e pane nella Sibaritide del ‘700, in: Il Serratore. Bimestrale di vita, storia, cultura e tradizioni di Corigliano e della Sibaritide,

n.1(1988), pp. 37–39; Francesco Joele Pace, Rossano:ipotesi di topografia e toponomastica medievale, Corigliano Calabro, Il serratore, 1992; Vito Calabretta e Francesco Joele Pace, I secoli XV-XVIII autonomie e infeudazioni, in: Rossano: storia cultura economia, 1996, pp. 87–134; Francesco Joele Pace, Società ed economia nella Rossano feudale, in: Il Serratore. Bimestrale di vita, storia, cultura e tradizioni di Corigliano e della Sibaritide, n.15(1991), pp. 48–49;

[21] piccioni l. “Una famiglia di ‘Monopolisti’ del Regno di Napoli: sulle attività economiche degli Abenante di Rossano nel settecento, dall’archivio Martucci di Rossano”, 2006: Dalle carte Martucci gli Abenante emergono come protesi, una generazione dopo l’altra, al consolidamento e all’ampliamento del patrimonio e delle attività imprenditoriali, con modalità che appaiono coerenti e consapevoli. Gli Abenante una tra le più vivaci case mercantili operanti nel Mezzogiorno. Quel che sappiamo con certezza è che Lelio nasce nel 1702, fissa la sua dimora principale in Rossano e muore nel 1765 dopo essersi saldamente insediato a Napoli in veste di commerciante. Nonostante non sia nobile e sia insediata a Rossano soltanto da pochi decenni la famiglia Abenante compare in seconda posizione nel catasto per rendita agraria. pp. 104, 108;

[22]I Perrone furono un’antichissima e nobile famiglia del Cosentino sin dal XIV secolo e, in particolare, Giovanni Perrone, segretario dell’Imperatore Carlo V, nel 1521 fu nominato nobile e gli fu concesso di potersi fregiare dell’aquila imperiale. Il ramo di Rossano fiorente in Catanzaro ha goduto nobiltà in Calabria e Sicilia e risulta iscritto nei sedili nobiliari come nobile di Rossano. Luca Perrone, agente negli affari commerciali, nelle negoziazioni e contrattazioni della famiglia Sambiasi. Principi di Campana e duchi di Crosia. La famiglia Sambiase è un ramo della Casa Sanseverino e trae origine da Ruggero Sanseverino il quale, nel XIV secolo si rifugiò in Calabria. Il materiale documentario, posseduto dal prof. Ioele Pace, è costituito da 26 pezzi archivistici compresi tra il 1658 e il 1862 e comprende bandi, pandette del Principe, significatorie erariali, libri contabili, produzioni di causa. Ringrazio il prof. Pace per la sua collaborazione;

[23]Il bosco di Orgia, situato nella zona tra le province di Cosenza (Sila Greca e Sila Grande). Qui avveniva lo scarto di prima o seconda scelta deli alberi di castagno o quesrcia, tagliati in pezzi e utilizzati per la produzione di doghe, remi, pali, per costruire e costituire flotte navali;

[24] calare l’ancora;

[25] Cavo di canapa legato all’ancora, per recuperarla o per indicare il punto in cui è sommersa;

[26] pressappoco alle ore 16:00;

[27] A quanto mi riferisce lo studioso prof. Francesco Joele Pace, la marina della Torre dell’Arso detta Calopizzati, era la marina del feudo di Mandatoriccio dove si praticava il carico e lo scarico di vari prodotti come anche del legname proveniente dal bosco dell’Orgia. Essa era sotto la gestione del regio Portolano del Fondaco di Sant’Angelo che controllava il commercio di tutto ciò che transitava a largo della costa ionica cosentina da Rocca Imperiale a Neto;

[28] calderazzi A. – carafa R. (a cura di), La Calabria fortificata. Ricognizione e schedatura del territorio, Vibo Valentia, 1999, Il “Fondaco”, sede degli uffici della dogana con deposito e magazzino di merci, testimonia come Rossano abbia avuto per secoli, un ruolo economico rilevante per all’importanza di questa struttura daziaria. Il fondaco fu un centro fortificato, posto in riva al mare, atto a difendere e diffondere le ricchezze del territorio. Ad attestarne l’esistenza resta l’attuale Torre Sant’Angelo o stellata, per via della sua forma, costruita per volontà del principe Bona Sforza, tra il 1543 ed il 1564, proprio per salvaguardare l’allora struttura doganale dalle incursioni Arabo‐Turchesche. Gli uffici mercantili erano diversi. Nel fondaco operavano il credenziero addetto alla stima delle merci d’imbarco e responsabile dell’intera struttura;

[29] pressappoco alle ore 12:00;

[30] pressappoco alle ore 16:00;

[31] pressappoco alle ore 12:00;

[32] Aslecce, Not. ALEMANNO Carlo, protocollo Anno 1745, coll. 40/19, cc. 191V-193V.

Questo studio, corredato di note, è la rivisitazione di quanto già pubblicato con il medesimo titolo in Rassegna Storica del Mezzogiorno, organo della “Società Storica di Terra d’Otranto”, n°3, Anno 2019, pp.153-161.

Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli

di Antonio Faita

 

Nell’ambito delle arti figurative e, in particolare, di quelle che si svilupparono meravigliosamente fra il XVII ed il XVIII secolo nel Regno di Napoli, la scultura lignea è sempre stata considerata a torto come arte minore[1]. A lungo trascurata rispetto alla pittura e alla scultura su marmo, in questi ultimi anni è divenuta oggetto di maggiore attenzione da parte degli studiosi, sviluppando, in maniera esponenziale, un nuovo filone di ricerca rivolto allo studio della scultura lignea napoletana[2] nell’acquisita consapevolezza che si tratti di uno dei principali fenomeni storico-artistici dell’intero Meridione in Età Moderna.

A seguito della mia pubblicazione dedicata agli scultori Francesco e Giuseppe Verzella e alla loro bottega[3], è mio intento fornire un piccolo contributo in argomento, segnalando nelle pagine che seguono, un’opera inedita di un poco noto scultore napoletano, Giuseppe Sarno.

Meno nota, o quantomeno poco conosciuta dagli storici d’arte, è la statua di san Giuseppe con Gesù Bambino ubicata nella sacrestia della chiesa di santa Teresa in Gallipoli e per questo, poco visibile dalla gente. Sul lato corto della base pentagonale, cui poggia il simulacro, vi è apposta la firma e la data «Giuseppe Sarno Scultore Napoli 1797».

L’accento plastico delle figure è caratterizzato dall’incedere del santo e dalla distribuzione dei drappi, ricordando soluzioni adottate nel linguaggio pittorico di Francesco De Mura, tra dolcezza rococò e splendore neoclassico[4].

Proprio in questo linguaggio sono ispirate le sculture di Giuseppe Sarno, realizzandone diverse per le chiese di Napoli e nel Regno di Napoli, e qui egli fu attivo dal 1764 ai primi dell’Ottocento (1820, santa Sofia, Santuario omonimo ubicato in Poderia, frazione di Celle di Bulgheria, SA).

Le fonti ottocentesche, dal Filangieri al Perrone, lo menzionano come modellatore di animali e pastori in terracotta, di cui alcuni firmati[5], per la produzione presepiale che con l’avvento di Carlo di Borbone, a Napoli trovò terreno fertile, vedendo impegnati una numerosa schiera di artisti[6] delle varie arti. L’esiguo numero di opere datate non consente di stabilire con molta precisione quando iniziò a plasmare figure in terracotta, ma è certo che tale interesse ebbe a seguire quello per le sculture lignee[7].

E proprio in una fonte ottocentesca il Sarno viene citato per la prima volta a Gallipoli. Pietro Muisen (1811-1880), valtellinese di origine, e trasferitosi a Gallipoli, per motivi di lavoro, fu autore del libro “Gallipoli e i suoi dintorni”, pubblicato nel 1870. Il Muisen, nel descrivere la ‘Congregazione del SS. Crocifisso’, così scrive: «In questa chiesa si ammirano pure due eccellenti scolture in legno, nelle statue di S. Michele Arcangelo e della Vergine Addolorata, lavoro dello scultore mastro Sarno Napoletano»[8]. Il Muisen non riporta il nome, come neanche l’anno della loro realizzazione.

Consultando l’archivio storico della confraternita del SS. Crocifisso, e precisamente il ‘Domenicale 1794-1826’, si evince che nel 1796, in occasione della festività di san Michele Arcangelo, loro protettore, viene portata in processione per le vie della città la statua di san Michele[9]; il Venerdì Santo, del successivo anno, si fece la processione penitenziale per i Sepolcri, portando ‘La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli[10]. Come si può notare il nome del Sarno non compare sulle pagine del ‘Domenicale’. Si può ipotizzare che sia stata una dimenticanza del segretario verbalizzante oppure il passare del tempo abbia fatto affievolire la firma sulle basi dei rispettivi simulacri, fino a scomparire del tutto o, ancora, il nome dell’artista sia stato riferito da qualche anziano confratello al Muisen, durante la sua visita all’oratorio confraternale.

Fatto sta, che dagli interventi di restauro, eseguiti in questi ultimi anni, non è emersa nessuna scritta dai vari strati pittorici rimossi. Se così fosse, perché il Muisen si limita a riportare solo il cognome? In ambito storiografico, emergono alcuni nomi, come: Ignazio Sarno, allievo dello scultore Pietro Patalano, che a dire, da Borrelli, forse padre del nostro Giuseppe[11]; Luigi Sarno, il cui nome si evince, attraverso la firma segnata a tergo della pettiglia di un ritratto di uomo[12]; Giovanni Sarno, citato dal Mancini[13]. Tornando al simulacro di san Giuseppe e alla sua venerazione presso la chiesa delle suore teresiane, è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo[14].

Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe. Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva. È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe”.

Quarto, in Puglia, dopo quello di Lecce (1620), Bari (1630) e Brindisi (1672)[15], il monastero di Gallipoli, sotto il titolo dei SS. Nomi di Gesù, Maria e Giuseppe, fu terminato il 23 aprile 1690, contestualmente alla chiesa intitolata alla santa di Avila, per devozione e volontà di mons. Antonio Perez de la Lastra,[16] vescovo di Gallipoli. Secondo quanto si può presumere, il culto di san Giuseppe fu introdotto nel monastero gallipolino, seguendo l’esempio e la dottrina della santa Madre Teresa, che lo venerava con affetto speciale. Alcune sorelle scelsero, da religiose professe, il nome del santo[17] e tutte si affidarono, con la preghiera, alla sua intercessione invocandolo quale provvido protettore della chiesa e dell’Ordine. Introdussero la celebrazione del «Patrocinio di san Giuseppe», una particolare festa concessa ai Carmelitani da Papa Innocenzo XI, il 6 aprile 1680.

Presso l’Archivio Storico della Curia Vescovile di Gallipoli, in alcuni registri degli introiti ed esiti a partire dal 1798, vi è traccia delle spese sostenute dalle sorelle per la festività del «Patrocinio di san Giuseppe»[18]. In particolar modo, nella minuta degli esiti del 1799 si rileva una cospicua spesa di ducati 29 e 55 carlini per la buona riuscita della festa[19]. Nell’anno successivo si aggiunse alla spesa del Patrocinio anche quella per l’acquisto di «Due aste nuove alla Bara di S. Giuseppe», corrispondente alla cifra di carlini 30[20]. Questo dato importante ci fa dedurre che la statua di san Giuseppe, dopo qualche anno del suo arrivo da Napoli, veniva portata in processione.

Tale festività è attestata in tutte le annate dei libri dei conti fino al biennio 1811/12, a parte un vuoto dal 1808/09 al 1810/11, in quanto mancanti[21].

Nel 1836 ne fa cenno anche Bartolomeo Ravenna: «Vi si celebrano annualmente le festività di Santa Teresa, del Carmine, e del Patrocinio di San Giuseppe»[22].

Custodito in una teca di legno e vetro, il simulacro è intagliato a tutto tondo con grande perizia e tecnica. Il Sarno, nel rispetto della tradizione iconografica, lo rappresenta in una postura classica, di mezza età, con un folto casco di capelli, la barba ricciuta e la fronte corrugata. Il santo indossa una tunica con bavero di colore marrone; è avvolto in un manto ocra e denso di pieghe che avvolge il corpo per poi girare dietro, cadendo sulla base, come sostegno del simulacro stesso. Giuseppe tiene fortemente tra le braccia il bambino Gesù, parzialmente coperto da un panno decorato a racemi vegetali su una pellicola pittorica di colore verde chiaro. Il Bambinello protende il braccio destro con la manina aperta delicatamente verso il mento del santo, invece il sinistro, sospeso, crea una perfetta simmetria con gli arti inferiori.

La tensione naturalistica del Sarno si è concentrata sui gesti e sull’espressione, in particolare nello sguardo intenso del Santo che non osserva il Bambinello ma, perso nel vuoto e con la bocca semiaperta, è in procinto di parlare. Nel complesso la scultura è caratterizzata da un vigoroso plasticismo ed evidente gusto per le ricche forme corpose. L’inedito san Giuseppe (firmato e datato), fino a pochi anni fa completamente ignorato dalla storiografia, dipende da uno schema d’imitazione intimamente assimilato dalle opere di Giuseppe Picano, al quale il Sarno si ispirava, attingendo dal repertorio tradizionale innervando quelle che erano le antiche forme.

Le conformità stilistiche di san Giuseppe con le altre opere note dell’artista in vari centri della Campania, Puglia, Calabria e oltre, fino alla Spagna (soltanto recentemente si è venuti a conoscenza dell’esistenza di un bellissimo san Michele Arcangelo firmato e datato 1775, presso il monastero di santa Clara di Hellín (Murcia), la cui scoperta si deve alla studiosa Isabella Di Liddo [23]), appaiono evidenti, specie nella resa del panneggio, nello studio dell’anatomia e nel movimento delle figure.

Il poco conosciuto Giuseppe Sarno doveva risultare, nel suo tempo, un maestro molto celebre, come risulta dalle numerose commissioni documentate e dalle tante opere a lui attribuite[24]. Ancora scarne sono le notizie e le citazioni biografiche per delineare un profilo e inquadrare la sua formazione e lo sviluppo della sua bottega[25]. Sulla scorta, di queste osservazioni e del san Giuseppe, opera ‘certa’, di Giuseppe Sarno, credo si debba ora procedere a un esame delle due statue del san Michele Arcangelo e della Madonna Addolorata, argomento di discussione per gli studiosi di storia locale, riguardo la loro autenticità: il raffinato intaglio del san Michele e la dolcezza della Vergine; lo studio meticoloso delle forme; l’attenzione scrupolosa alle giuste proporzioni fra le diverse parti del corpo; il vario atteggiarsi degli aspetti esteriori che assecondano l’espressione dei sentimenti rappresentati; la posizione delle mani; lo studio delle dita affusolate e bene intonate alla figura nell’insieme, per la similitudine con le altre opere, datate e documentate, si può determinare l’autenticità prima e la paternità poi, al ‘nostro’ Giuseppe Sarno.

La presenza di queste opere dell’artista a Gallipoli, considerato uno dei più sensibili interpreti delle moderne istanze rococò alla fine del XVIII secolo, stanno a testimoniare rapporti intensi tra lo scultore e la committenza gallipolina. A rendere ancora più significativa la circostanza è la restituzione al pubblico del san Giuseppe, opera importante, riemersa dall’oblio, che va ad arricchire quell’immenso patrimonio artistico di Gallipoli e ad aggiungersi, insieme al san Michele Arcangelo e alla Madonna Addolorata, a quelle opere del Sarno finora sconosciute dalla bibliografia.

 

Note

[1] U. Di Furia, Il “San Francesco Saverio” di Bernardo Valentinoa Calvello: Opera ineditadi un poco noto scultore napoletano, in Basilicata Regione Notizie, n. 119-120, Anno 2008, p. 217.

[2] G. Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli, Ed. Paparo, 2005; Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra, a cura di R. Casciaro e A. Cassiano, Roma, Ed. De Luca, 2007; I. Di Liddo, La circolazione della scultura lignea barocca nel Mediterraneo. Napoli, la Puglia e la Spagna. Una indagine comparata sul ruolo delle botteghe: Nicola Salzillo, Roma, Ed. De Luca, 2008; Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra, a cura di P. Leone de Castris, Napoli, Ed. Paparo, 2009.

[3] A. Faita, Gli scultori Verzella tra Puglia e Campania. Committenza e devozione, Galatina. Ed. Congedo, 2015.

[4] Cfr. G. Filangieri, Indice degli artefici delle arti maggiori e minori, la più parte ignoti o poco noti, sì napoletani e siciliani, sì delle altre regioni d’Italia o starnieri, che operano tra noi, con notizia delle loro opere e del tempo del loro esercizio da studi e nuovi documenti, vol.II, Napoli, p.426.

[5] G Borrelli, Il presepe napoletano, Napoli, Ed. De Luca-D’Agostino, 1970, p. 236.

[6] F. Mancini, Il Presepe napoletano nella collezione Eugenio Catello, Napoli, Ed. Sadea/Sansoni, 1967, s.n.

[7] G. Borrelli, op. cit., p. 107.

[8] bcg, p.muisen, Gallipoli e i suoi dintorni, Gallipoli, Tipografia municipale, 1870, p. 108; il nome del Sarno è citato da mons. Gaetano Muller nella visita pastorale effettuata all’oratorio confraternale il 7 luglio 1905, in adg, Visita pastorale di Mons. . Muller, Gen. 1903 – Lugl. 1907, p.319.

[9] acssg, Domenicale 1794-1826, Anno 1796 «8 detto [Maggio] giorno di Domenica dedicato alla festività del Glorioso S. Michele Arcangelo nostro Protettore si celebrò in detta nostra Congregazione la sua festa con pompa si celebrarono varie messe, e col Padre si cantò la messa con assistenza de ministri, e dopo si portò processionalmente alla Città la Statua di S. Michele. La tassa là fatta il Primo assistente Nicola Fontana ed il 2° assistente Domenico Pisanello», s.n.

[10] Ibdem, Anno 1797 «14 detto [Aprile] Venerdì Santo Radunati la matina li fratelli si fece la processione di penitenza per li Sepolcri, a Cappuccini portando La nuova Statua Maria Addolorata venuta da Napoli e dopo sene andarono in santa Pace», s.n.; g. f. mosco, Gallipoli – Venerdì Santo. Moviola per una processione, Tuglie, Tip. 5EMME, 2003, p. 14.

[11] G Borrelli, op. cit., p. 56.

[12] Ibidem, p.100; a. di lustro, Gli scultori Gaetano e Pietro Patalano, in La Rassegna d’Ischia, n. 9/1987, s.n.

[13] F. Mancini, op. cit., s.n.; m. liaci, Simulacri sacri. Statue in legno e cartapestadel territorio C.R.S.E.C. di Ugento, a cura di Regina Poso, Taviano, GRAFEMA, 2000, pp.198-201.

[14] l. di San Gioacchino, Il culto di San Giuseppe e l’Ordine del Carmelo, Barcellona, 1905, c. 2, p. 48.

[15] C. Casole, Il Monastero delle Carmelitane scalze di Gallipoli, Manduria (TA), Tip. Tiemme, 1992, p. 63.

[16] Ibidem, p. 66.

[17] La prima fu proprio la cofondatrice e prima Maestra delle novizie, suor Maria di san Giuseppe, al secolo, Anna Maria Chirlingort, professata nel 1693.

[18] Acvg, Documentazione recuperata dal Nucleo Polizia Tributaria di Lecce, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1798-1799. Purtroppo non si dispone di altri documenti di introito ed esito antecedenti al 1798. Come ne anche presso l’archivio del monastero delle carmelitane.

[19] Ibidem, Patrocinio di S. Giuseppe: «Al Sigr. Chiriatti per la musica d.6; Panegirico d.2:50; Al Capitolo per l’assistenza d.7:50; Ai chierici, e Ministro della messa cantata c.80; facchino per i mantici, e sedie c.35; Al Fochista per mortaretti e Batterie d.9:50; Trombetta e due tamburri d. 1:90; Apparatura di chiesa d.1» tot. d.29:55

[20] Adg, Carpetta n.1: Libro di introito ed esito del monastero di Santa Teresa per l’annata 1799-1800. Minuta di spese.

[21] Ibidem, 1800/01, 1801/02, 1802/03, 1803/04, 1804/05, 1805/06, 1806/07, 1807/08, 1811/12.

[22] Cfr., B. Ravenna, Memorie istoriche della fedelissima città di Gallipoli, presso Raffaele Miranda, Napoli 1836, p. 385.

[23] I. Di Liddo, op. cit., p. 240.

[24] Cfr., E. Valcaccia, i Tesori Sacri di Castellammare di Stabia. La scultura del Settecento e dell’Ottocento, Castellammare di Stabia (NA), Ed. Longobardi, 2016, p. 48.

[25] Ibidem, p. 49.

 

L’articolo è stato pubblicato in Rassegna Storica del Mezzogiorno, n.2 – 2017/2018, pp.155-162

La Terra d’Otranto in immagini ultracentenarie (5/7): Maglie, Gallipoli, Galatina, Soleto, Copertino e Leverano

di Armando Polito

Maglie, il Municipio

 

Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Maglie, la piazza
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Gallipoli. il borgo
Gallipoli, il ponte
Gallipoli, Il porto
Galatina, chiesa di S. Caterina
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Soleto, il campanile
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Copertino, Il castello
Immagine tratta ed adattata da Google Maps
Leverano, la torre di Federico
Immagine tratta ed adattata da Google Maps

 

 

Per la prima parte (Ostuni e Carovigno): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/19/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-1-7-ostuni-e-carovigno/

Per la seconda parte (Brindisi): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/11/29/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-2-7-brindisi/?                                                                                                                                                  fbclid=IwAR0OADPSzNE2COdAuvd_k6liuSvLMxLbU7zjSXNyYaMay5s1-D7EXH-bMF8

Per la terza parte (Lecce): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-3-7-lecce/

Per la quarta parte (S. Maria di Leuca e Otranto): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/09/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-4-7-s-maria-di-leuca-e-otranto/

Per la sesta parte (Oria e Francavilla Fontana): https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/26/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-6-7-oria-e-francavilla-fontana/

Per la settima parte (Taranto e Catellaneta): https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/03/la-terra-dotranto-in-immagini-ultracentenarie-7-7-taranto-e-castellaneta/

Gallipoli e Taranto in due mappe del XVII secolo

di Armando Polito

Sono le sole due tavole relative alla Terra d’Otranto a corredo di Teatro delle città d’Italia, Nella stamperia di Dominico Amadio, Vicenza, ad istanza di Pietro Bertelli libraro in Padova, 1616, a riprova dell’importanza strategica e commerciale dei due porti rispetto a quello di Brindisi.

p. 216

ll  volume ebbe una successiva edizione per i tipi del figlio di Pietro: Theatro delle città d’Italia, Francesco Bertelli, Padova, 1629.

Per altre mappe antiche di Gallipoli vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/14/gallipoli-in-nove-mappe-antiche/

 

p. 222

Per altre mappe antiche di Taranto vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/04/26/taranto-comera-circa-500-anni/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/01/taranto-tavola-del-1545/

L’enigma del simulacro di san Pasquale Baylon in san Francesco d’Assisi

di Antonio FAITA

 

Con la venuta in Gallipoli (1597) della Serafica Riforma, il tempio francescano, come anche il monastero, ebbero ulteriori trasformazioni architettoniche e si avviarono la realizzazione di nuove opere.

Durante i scoli XVII e XVIII i frati riformati, nella chiesa di san Francesco, allestirono una vera panoramica di opere d’arte, che commissionarono a maestri delle varie arti sia locali, sia a maestranze napoletane che a maestri della Serafica Riforma[1]. Delle dieci cappelle con i rispettivi altari, presenti nella chiesa, l’ultima cappella scendendo dall’altare maggiore in Cornu-Evangeli, è dedicata a san Pasquale Baylon con il suo splendido retablo dorato e intagliato da Fra Francesco Maria da Gallipoli, con al centro la statua di san Pasquale della quale, alla luce di nuovi documenti, cercherò di fare chiarezza.

All’atto della visita pastorale eseguita il 18 dicembre 1904 dal vescovo mons. Gaetano Muller, questa cappella veniva così descritta: «…essa è chiusa da una balaustra di pietra tufigna, costituita attualmente, ha un altare con due gradini di legno indorato e con la mensa e custodia di pietra. Detto altare ha un frontone di legno indorato con bei lavori, nel mezzo del quale vi è la nicchia con la statua del Santo, a cui esso altare è dedicato»[2].

Nel 1946, per consolidare la facciata della chiesa, la nicchia fu murata e la statua trasferita in una delle nicchie del cappellone del Santo Sepolcro[3].

Oggi, dopo un lungo e laborioso restauro della chiesa, concluso nel 2005 e sua riapertura al culto, la si può ammirare nella sua collocazione originaria.

Già dal 1999 la statua fu sottoposta ad un intervento di restauro a cura del restauratore Valerio Giorgino, il quale durante la fase di pulitura della base, rilevò tracce della firma dello scultore, un tal “Costant(…) (…)ola F(…)”.

La prima parte della firma è facilmente intuibile che si tratti del nome [Costantino], mentre più problematica sarebbe la seconda parte, decifrabile come “ola” oppure “da”, infine la lettera “F” leggibile come [Fecit]. A questo punto rimaneva l’interrogativo nell’interpretare l’eventuale cognome o la provenienza.

Nel 2005 il prof. Gian Giotto Borrelli pubblicò il suo libro “Sculture in legno di età barocca in Basilicata” e, in appendice documentaria, riportò un pagamento datato 21 luglio 1730, da parte di un tal Nicolò de Leo a «…mastro Costantino Iacola scoldore…»[4], per una statua di san Leonardo, ignorandone la sua ubicazione. A questo punto la domanda viene spontanea: si tratta del nostro Costantino?

Direi proprio di si! Infatti la seconda parte della firma, riportata sulla base, sta per Iacola, il cognome dello scultore.

Mettendomi in contatto con l’amico Borrelli gli esposi il problema, il quale, dopo qualche giorno mi scrisse di aver trovato, girando tra le sue carte, un documento riguardante un altro pagamento allo scultore Iacola per una statua di san Pasquale Baylon, inviandomene una copia[5].

Leggendo attentamente il documento si nota che la polizza era stata girata e rigirata a vari nominativi, ma solo gli ultimi nomi sono da prendere in considerazione. Infatti come succedeva ai moderni assegni, fino a qualche anno fa, quasi sempre non c’era alcun nesso tra chi lo emetteva e chi riscuoteva. Qui di seguito riporto integralmente il documento inedito:

Cassa dei POVERI, anno 1731, matr. 1124, vol III, 1° semestre. Giornale di cassa / copia polizza n. 2494 del 10 gennaio 1731,

«Al canonico Don Giovanni Battista Odierna ducati 12 e grana 2.10 e per esso alla Venerabile Casa e Chiesa della Ss Concezione dei padri Ministri degli Infermi[6] al Chiatamone[7]; dovute per il semestre maturato al 7 settembre 1730 per causa dei ducati 25 che ogni anno gli corrisponde per il capitale di ducati 900 in virtù di strumento stipulato per mano del notaio Nicola Rocco di Napoli nel mese di marzo del 1723 tra detti Reverendi Padri e il Rev. Padre Ottaviano Odierna suo fratello e Procuratore, che poi in detto mese di marzo fu quello da esso ratificato in quanto la sua serie e continenza e tenore, e con tale pagamento resta per intero soddisfatto, così il presente semestre come anche per tutto il passato, e per girata del P. Giuseppe Morciano Procuratore della suddetta Casa e Chiesa, come ne fa fede il notaio Nicola Rocco di Napoli a Pasquale d’Amato per altrettanti, e per esso a Giovanni Ventapane per altrettanti e per esso a Biagio Margiotta per altrettanti e per essa ad Antonio de Maselli per altrettanti e per esso ad Alessandro de Martino per altrettanti e per esso a Costantino Jacola mastro statuario dovuti per l’intero prezzo di una statua di S. Pasquale Baylon di palmi tre che deve consegnare al Padre Pietro di Gallipoli, e detta statua si è obbligato a consegnarla per il mese di dicembre 1730 così d’accordo fra di essi per detto con sua firma (…)».

Analizzando la polizza si evince che, in data 10 gennaio 1731, viene effettuato il pagamento di ducati 12 e tari 2.10 a un tal Alessandro de Martino, ultimo di una serie di girate e infine quest’ultimo paga per intero prezzo il “mastro statuario Costantino Iacola” per la statua di san Pasquale Baylon da consegnare, completata, a padre Pietro da Gallipoli nel mese di dicembre 1730 come da accordi presi.

A questo punto bisognava individuare il conto di Alessandro de Martino, come probabile procuratore e intermediario tra il committente, in questo caso i frati francescani, e l’artista Costantino Iacola.

Avviando una nuova ricerca, con l’aiuto del dott. Ugo Di Furia, abbiamo consultato le pandette dei sette banchi pubblici, per l’anno 1730 del secondo semestre. Il nome di Alessandro de Martino compariva solo nei banchi di S. Giacomo, Salvatore, Pietà e Poveri. Dai numeri di affogliamento delle pandette si è cercato sui rispettivi libri maggiori, purtroppo con esito negativo, in quanto non vi erano movimenti contabili. L’alternativa era di retrodatare la ricerca di qualche anno ma ciò comportava ulteriori richieste e permanenza prolungata a Napoli. Ricerca che cercherò di svolgere in un secondo momento.

Tornando al nostro documento, veniamo a conoscenza di altri due passaggi importanti. Il primo riguarda il nome del frate francescano, padre Pietro da Gallipoli, al quale si doveva consegnare la statua e che in un secondo momento doveva organizzare tutte le pratiche per l’imbarco della stessa e per il trasferimento da Napoli a Gallipoli.

Il secondo passaggio sembrerebbe un vero e proprio enigma, riguardo l’altezza della statua. Essa risulta alta palmi 3 corrispondenti all’incirca cm 80, secondo le antiche unità di misura, un palmo napoletano equivaleva cm 26, sin dal 1480 al 1840. Stando a questa misurazione, doveva trattarsi di una statuina oppure di una statua a mezza figura (busto), ciò non corrispondente con l’attuale presente nella chiesa di san Francesco, che misura cm 135 senza la base. Considerando anche la base, misurerebbe cm 155. Presumibilmente si può ipotizzare che, nonostante gli accordi intercorsi, la statua fu eseguita a figura intera, facendo anche lievitare il prezzo[8] e che il de Martino abbia pagato la differenza a Costantino Iacola, in contanti.

Se così non fosse, che fine ha fatto la statua descritta nella polizza? La sua destinazione era per la chiesa di Gallipoli? oppure per qualche altra chiesa francescana dislocata nel Salento?

 

[1] Cfr. b.f.perrone, I conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), vol. II, ed. Congedo, Galatina 1981, p.28;

[2] acvg, mons. g. muller, Visita Pastorale 1904, p.229; Cfr. e. pindinelli, Francescani a Gallipoli. Dal Restauro alla Memoria, Tip. Corsano, Alezio 2005, p.75;

[3] ibidem;

[4] g.g.borrelli, Scultura in legno di età barocca in Basilicata, Ed. Paparo, Napoli 2005, Appendice documentaria, asbn, San Giacomo, giornale di cassa matr. 772, p.279: “ 21 luglio 1730. A Nicola de Leo duc. Diece, e per esso a mastro Costantino Iacola scoldore, e se li pagano per caparro di una statoga di legname di San Leonardo, e d.ta statoga deve essere di altezza palmi sei meno un quarto con la sua pedagna, e la d.ta pedagna deve essere con li cartocci indorati, e cornice similmente, e di larghezza deve essere palmi 3, e 1 quarto tutta profilata d’oro intorno intorno, e si è convenuto con d.to mastro Costantino per duc. 25, quale s’obliga di consignare li restanti duc. 15 subito, che li consignarà d.ta statoga, che d.to mastro Costantino si è obligato di consegnarcela per la fine d’agosto prossimo venturo 1730 (…)”, p. 112;

[5] Ringrazi l’amico prof. Gian Giotto Borrelli, per la sua collaborazione e gentile concessione del documento, autorizzandomi a pubblicarlo;

[6] La chiesa di Santa Maria della Concezione (1622) o meglio conosciuta delle Crocelle, è stata per lungo tempo cappella privata dell’Infermeria Generale a Napoli dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi, detti popolarmente Camilliani o Crociferi. L’ordine, fondato da san Camillo de Lellis, è dedito alle opere di misericordia corporali e spirituali degli infermi;

[7] Il Chiatamone è una strada di Napoli, situata nel Borgo Santa Lucia, tra il mare e la parete rocciosa del monte Echia;

[8] Nonostante gli accordi presi tra le due parti, poteva capitare una modifica dei lavori anche dopo aver completato l’opera con la conseguenza dell’aumento del prezzo pattuito precedentemente. Un esempio l’ho riportato nel mio libro: a. faita, Gli scultori Verzella tra Puglia e Campania. Committenza e devozione, Ed. Congedo, Galatina 2015, p.37.

Libri| Le elezioni del 1913 nel Collegio di Gallipoli

invito elezioni modificato

Riprendendo il filo del discorso introdotto nel lontano 1974 dal prof. Fabio Grassi e in più occasioni ripreso e in parte mitigato tra gli altri da Donno, Mennonna e Palumbo, l’autore affronta con un eccezionale apparato documentale gli esiti delle elezioni politiche del 1913, che con la sconfitta elettorale di Antonio De Viti De Marco innescò una lunga e feroce polemica politica e giornalistica contro l’utilizzo da parte del socialista Stanislao Senape De Pace del simbolo della croce sulla scheda elettorale.

La puntigliosa ricostruzione dei fatti relativi alle lotte politiche nel collegio di Gallipoli e del ruolo della sinistra gallipolina nel processo di emancipazione delle masse contadine, porta l’autore a ripercorrere, su base documentale, la vicenda relativa alla sospensione del non expedit a favore di Antonio De Viti De Marco, tracciandone le interferenze e le complicità tra il Sottoprefetto di Gallipoli ed i Vescovi di Gallipoli e di Nardò, impegnati come in nessuna altra occasione ad impedire l’accesso alla Camera al candidato socialista.

Ne scaturisce una partecipata difesa delle ragioni del gruppo socialista gallipolino, guidato da Stanislao Senape De Pace, contro le numerose complicità delle istituzioni, della stampa nazionale e dei gruppi di potere locale, tesi ad inficiare i risultati elettorali, a supporto del reclamo avanzato presso la Giunta delle elezioni della Camera da Antonio De Viti De Marco. Ricca l’appendice documentaria in gran parte inedita.

 

E. Pindinelli, Le elezioni del 1913 nel Collegio di Gallipoli. La croce di Stanislao Senape De Pace e la sospensione del non expedit a favore di Antonio De Viti De Marco, Tip. CMYK, Alezio 2017-12-12.

Volume di pp. 95, con la trascrizione in appendice di 16 documenti originali e 28 illustrazioni

invito elezioni

Gallipoli antica: dettagli da due pergamene

di Armando Polito

Ancora oggi negli atti notarili riguardanti un bene immobile vengono indicati i confinanti, nonostante i dati catastali, che oggi possono essere aggiornati in tempo reale, con riferimento a fogli e particelle, li rendano quasi superflui, anche ai fini di una ricostruzione delle vicende patrimoniali di un dato bene. Non così per il passato, poiché i soli dati dei confinanti presenti negli atti rendono laboriosa ogni ricostruzione, essendo stata la memoria dei punti di riferimento cancellata, con gli stessi, dal trascorrere inesorabile del tempo.

Così è per alcuni dettagli topografici, toponomastici ed onomastici della Gallipoli medioevale, il cui ricordo emerge, purtroppo indirettamente per quel che subito dopo dirò, da due pergamene greche facenti parte del gruppo delle 18 custodite nell’archivio della curia vescovile di Nardò e che, prelevate dalla biblioteca del seminario nel 1864, risultano irreperibili.

Fortunatamente ne rimane la trascrizione che aveva fatto in tempo ad operare Francesco Trinchera nel Syllabus Graecarum membranarum, Cataneo, Napoli, 1865. Di entrambe ne riporto il testo trascritto, con la mia traduzione a fronte e qualche nota di commento.

La prima pergamena (pp. 520-521), contiene un atto del 1195 con il quale Pellegrina, vedova di Leone Perdicano, e suo figlio Pietro vendono a Barnaba, preposto del monastero di S. Stefano della fonte, una casa posta nella piazza di Cutzubello.

La seconda pergamena (pp. 526-527) contiene un atto del 1203 con cui Donata figlia del defunto Nicola Cateco dona la parte superiore ed inferiore della sua casa a Iacopo priore del monastero di S. Mauro.

Aggiungo ora qualcosa a quanto già rilevato nelle note.

A proposito della torre (ὀ πῦργος τῆς χώρας), nella prima pergamena, quella più antica, la presenza dell’articolo () e il genitivo (τῆς χώρας) fanno pensare che si tratti della torre unica in zona o dell’unica all’epoca esistente. Nella seconda pergamena in πὔργος τῆς πόλεως l’assenza dell’articolo indurrebbe a pensare che si tratti di una delle torri non più, genericamente, del luogo (τῆς χώρας), ma della città (τῆς πόλεως ).

A proposito dei monasteri di S. Stefano della fonte e di S. Mauro  molto probabilmente la prima pergamena per il primo e la seconda per il secondo costituiscono la testimonianza archivistica più antica. Nelle immagini che seguono (la prima tratta da https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/, la seconda da https://www.tripadvisor.it/Attraction_Review-g652005-d10541851-Reviews-L_Abbazia_di_San_Mauro-Sannicola_Province_of_Lecce_Puglia.html#photos;geo=652005&detail=10541851&ff=210368578&albumViewMode=hero&aggregationId=101&albumid=101&baseMediaId=210368578&thumbnailMinWidth=50&cnt=30&offset=-1&filter=7&autoplay=) S. Mauro in una mappa del XVI secolo e com’è oggi.

Per chiudere in bruttezza peggio di quanto mi sia riuscito nell’iniziare e nel proseguire, l’ultima nota ha una valenza un po’ autoreferenziale in quanto coinvolge il mio cognome. Nella prima pergamena si legge che la stessa fu scritta  χειρὶ περεγρίνου πολίτου (per mano di Pellegrino Polite). Se avessi tradotto πολίτου (leggi politu) con Polito e non con Polite non avrei fatto un’operazione corretta; e, contro i miei interessi …,  spiego perché: πολίτου è genitivo;  il nominativo  è πολίτης, che come nome comune significa cittadino. La trascrizione in latino del nominativo avrebbe potuto dare polites o polite, quella dell’accusativo politen e in italiano la traduzione sarebbe stata in entrambi i casi, appunto, Polite. Peccato, perché a quei tempi uno scrivano valeva m0lto più di quanto non valga oggi un insegnante, sia pure in pensione …  

_____________

1 Due  sono state già oggetto d’indagine per il toponimo Nardò in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/11/24/ostuni-due-suoi-figli-immeritatamente-dimenticati-pietro-vincenti-francesco-trinchera-22/.

Gallipoli: ma quante sono?

di Armando Polito

L’omonimia è un fenomeno non raro tra gli uomini (pensiamo alla diffusione del cognome Rossi che, credo non  a caso, ispirò l’immaginario personaggio di Bruno Bozzetto, il signor Rossi, appunto, simbolo dell’italiano medio) ed abbastanza frequente nei toponimi, specialmente quando sono accomunati da un etimo non legato ad un nome proprio. Emblematico, è, a tal proposito, il caso di Gallipoli, che à dal greco Καλλίπολις (leggi Callìpolis), composto da καλλίων (leggi callìon), comparativo di καλός/καλή/καλόν (leggi calòs/calè/calòn). Il toponimo, perciò, va tradotto con città abbastanza, troppo bella) essendo καλλίων un comparativo assoluto (cioè senza secondo termine di paragone), purtroppo riduttivo rispetto al superlativo relativo (la città più bella) o all’assoluto (città bellissima) ma che, comunque, rende giustizia rispetto all’infame traduzione corrente (la città bella), di una gravità sconcertante, mi si conceda un po’ di campanilismo, per la Gallipoli salentina.

Oltretutto la nostra è quella più presente nelle fonti classiche, che di seguito riporto.

Dionigi di Alicarnasso (I secolo a. c.): Allo spartano Leucippo che aveva chiesto dove fosse destino che lui e i compagni si insediassero [l’oracolo di Apollo] dette come responso di navigare verso l’italia e di abitare la terra nella quale, una volta sbarcati, fossero restati un giorno e una notte. Approdata la spedizione nei pressi di Gallipoli, un porto dei Tarantini …1 (per chi fosse interessato al seguito: https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/05/come-gli-spartani-presero-in-giro-in-un-colpo-solo-gallipolini-e-tarantini/.

Pomponio Mela (I secolo d. C.): … poi vi sono Bari, Egnazia, Rudie nobile per il cittadino Ennio, e, ormai in Calabria2, Brindisi, Valesio, Lecce, il monte Idro, le campagne salentine, le coste salentine e la città greca di Gallipoli.3

Plinio il vecchio (I secolo d. C.): Le città interne a partire da Taranto sono Oria, soprannominata della Messapia per distinguerla da quella apula, Alezio¸sulla costa invece vi sono Seno4, Gallipoli, che ora è Anxa, distante 75 migllia da Taranto.5

Guidone (XII secolo d. C.): … Vereto, che ora si chiama Leuca, Yentos, che ora si chiama Ugento, Alezio, Lubia, dove oggi è Gallipoli …6

Dopo la Gallipoli salentina  è la volta della siciliana, della quale, purtroppo, nulla resta se non la memoria storica, in attesa che le ricerche archeologiche consentano di individuarne una dislocazione più precisa nell’ambito della Sicilia orientale. L’unica fonte è Erodoto (V secolo a. C.): [Gelone] non molto tempo dopo fu riconosciuto essere il comandante supremo di tutta la cavalleria: infatti mentre Ippocrate assediava gli abitanti di Gallipoli, di Nasso e Zancle, nonché quelli di Leontini e oltre a quelli di Siracusa parecchi dei barbari, Gelone smostrò di essere uomo fortissimo; nessuna, io dico, di queste città, eccetto Siracusa, evitò di essere assoggettata ad Ippocrate.7

Ma potevano i Greci, fondatori della Gallipoli salentina e di quella siciliana non avere una città con lo stesso nome nella madre patria? Καλλίττολις o Κάλλιον era infatti una città dell’Etolia, regione montana sulla costa settentrionale del golfo di Corinto.

Tucidide (V secolo a. C.): Egli dunque con l’esercito pernottò nel recinto sacro a Giove Nemeo (ove si dice che dalla gente del paese fu ucciso il poeta Esiodo, secondo l’oracolo che gli aveva predetto che avrebbe sofferto ciò in Nemea; e sul far dell’aurora mosse il campo alla volta dell’Etolia. Nel primo dì prese Potidania, nel secondo Crocilio, nel terzo Tichio, ove si fermò e mandò il bottino ad Eupolio della Locride, avendo egli intenzione di conquistar prima gli altri luoghi, e ritornare a Naupatto, per quindi combattere gli Ofionesi qualora essi non volessero arrendersi. Questi piani però non erano ignoti agli Etoli neanche quando egli cominciava a macchinarli; e appena si presentò con l’esercito accorsero tutti contro lui con numerose soldatesche; e perfino i Bomiesi e i Calliesi, che sono gli ultimi tra gli Ofionesi e si stendono fino al golfo Meliaco, non stettero a guardare.8

Tito Livio (I secolo a. C.): … come si giunse al Corace – è un monte altissimo tra Gallipoli e Naupatto, ivi …9

Pausania (II secolo d. C.): A Brenno venne l’idea che, se avesse costretto gli Etoli a tornarsene a casa, avrebbe avuto in Etolia un modo più agevoledi combattere con esito flice contro i Greci. Avendo scelto dall’armata quarantamila fanti ed ottocento cavalieri pose alla loro testa Orestorio e Combuti, i quali, ritornando indietro per i ponti sul fiume Sperchio e attraversando la Tessaglia, entrarono in Etolia; e del trattamento riservato ai Calliei furono autori  Combuti ed Orestorio …10

Stefano di Bisanzio (VI secolo) ci ha tramandato una notizia tratta dal XX libro delle storie di Polibio (II secolo a. C.), opera della quale solo i primi cinque ci sono pervenuti integri, degli altri rimangono frammenti od epitomi: Corace, monte tra Gallipoli e Naupatto: Còrace, monte tra Gallipoli e Naupatto. Polibio nel  20° libro.11

Oltre all’Etolia, anche la Misia aveva una città con lo stesso nome.

Periplo di Scilace (IV secolo a. C.), che può essere considerato come il primo portolano del Mediterraneo: Misia. Dopo la Tracia il popolo dei Misi. Si trova a sinistra del golfo di Olbia per chi naviga verso il golfo di Cio fino a Cio. La Misia è una penisola. Le città greche in essa sono: Olbia e il suo porto, Gallipoli e il suo porto, il promontorio del golfo di Cio e a sinistra la città di Cio e il fiume Cio. Il periplo della Misia fino a Cio ha la durata di un giorno.12  

Non era da meno la Tracia con la sua Gallipoli sullo stretto dei Dardanelli, come mostra l’attuale nome turco Gelibolu, che ne è la fedele trascrizione. Non conosco fonti classiche su questa città, ma non è da escludersi, data la vicinanza, che la testimonianza precedente si riferisca proprio ad essa.

Il destino ha voluto che sopravvivessero solo la Gallipoli turca e quella salentina (nelle due immagini che seguono), ma non è per noi un motivo di vanto che l’osceno grattacielo campeggiante sulla città rappresenti un oltraggio alla città ideale immaginata da Platone 2400 anni fa: … come forse soltanto, io  dicevo, bisogna soprattutto disporre in modo che coloro che vivono nella città abbastanza bella anon si tengano lontani in alcun modo dalla geometria. E infatti tutte le cose accessorie a questo non sono di poco conto.13

Però, visto che l’obbrobrio, forse, piace ai più e, considerato che la Gallipoli salentina è una delle mete privilegiate del turismo internazionale, aveva torto il buon Platone e, molto più modestamente, ho torto anch’io …

____________

1 Antiquitates Romanae, XIX, 3: Λευκίππῳ τῷ Λακεδαιμονίῳ πυνθανομένῳ ὅπου πεπρωμένον αὐτῷ εἴη κατοικεῖν καὶ τοῖς περὶ αὐτόν, ἔχρησεν ὁ θεὸς πλεῖν μὲν εἰς Ἰταλίαν, γῆν δὲ οἰκίζειν, εἰς ἣν ἂν καταχθέντες ἡμέραν καὶ νύκτα μείνωσι. Καταχθέντος δὲ τοῦ στόλου περὶ Καλλίπολιν ἐπίνειόν τι τῶν Ταραντίνων …

2 All’epoca Calabria designava solo la penisola salentina.

3 Corographia, II, 66: … post Barium et Gnatia et Ennio cive nobiles Rudiae, et iam in Calabria Brundisium, Valetium, Lpiae, Hydrus mons, tum Sallentini campi et Sallentina litora et urbs Graia Callipolis.

4 Traduco così il Senum, città non identificata; da aggiungere che  e le varianti, che qui non riporto, complicano la questione.

5 Naturalis historia, III, 16: Oppida per continentem a Tarenti Uria, cui cognomen ob Aoulan Messapiae, Aletium, in ora vero Senum, Callipolis, quae nunc est Anxa, LXXV a Tarento.

6 Geographia, 29: … Beretos quae nunc Leuca, Yentos quae nunc Augentum, Valentium, Lubias ubi nunc est Callipolis …

7 Ἱστορίαι, VII, 154: Μετὰ δὲ οὐ πολλὸν χρόνον δι᾽ ἀρετὴν ἀπεδέχθη πάσης τῆς ἵππου εἶναι ἵππαρχος˙ πολιορκέοντος γὰρ Ἱπποκράτεος Καλλιπολίτας τε καὶ Ναξίους καὶ Ζαγκλαίους τε καὶ Λεοντίνους καὶ πρὸς Συρηκοσίους τε καὶ τῶν βαρβάρων συχνούς, ἀνὴρ ἐφαίνετο ἐν τούτοισι τοῖσι πολέμοισι ἐὼν ὁ Γέλων λαμπρότατος. Τῶν δὲ εἶπον πολίων τουτέων πλὴν Συρηκουσέων οὐδεμία διέφυγε δουλοσύνην πρὸς Ἱπποκράτεος.

8 Αὐλισάμενος δὲ τῷ στρατῷ ἐν τοῦ Διὸς τοῦ Νεμείου τῷ ἱερῷ, ἐν ᾧ Ἡσίοδος ὁ ποιητὴς λέγεται ὑπὸ τῶν ταύτῃ ἀποθανεῖν, χρησθὲν αὐτῷ ἐν Νεμέᾳ τοῦτο παθεῖν, ἅμα τῇ ἕῳ ἄρας ἐπορεύετο ἐς τὴν Αἰτωλίαν. Καὶ αἱρεῖ τῇ πρώτῃ ἡμέρᾳ Ποτιδανίαν καὶ τῇ δευτέρᾳ Κροκύλειον καὶ τῇ τρίτῃ Τείχιον, ἔμενέ τε αὐτοῦ καὶ τὴν λείαν ἐς Εὐπάλιον τῆς Λοκρίδος ἀπέπεμψεν τὴν γὰρ γνώμην εἶχε τὰ ἄλλα καταστρεψάμενος οὕτως ἐπὶ Ὀφιονέας, εἰ μὴ βούλοιντο ξυγχωρεῖν, ἐς Ναύπακτον ἐπαναχωρήσας στρατεῦσαι ὕστερον. Τοὺς δὲ Αἰτωλοὺς οὐκ ἐλάνθανεν αὕτη ἡ παρασκευὴ οὔτε ὅτε τὸ πρῶτον ἐπεβουλεύετο, ἐπειδή τε ὁ στρατὸς ἐσεβεβλήκει, πολλῇ χειρὶ ἐπεβοήθουν πάντες, ὥστε καὶ οἱ ἔσχατοι Ὀφιονέων οἱ πρὸς τὸν Μηλιακὸν κόλπον καθήκοντες Βωμιῆς καὶ Καλλιῆς ἐβοήθησαν.

9 Storie, XXXVI, 30, 34: … ut ad Coracem ventum est, mons est altissimus inter Callipolim et Naupactum , ibi …

10 Descrizione della Grecia, X, 22, 2: Τῷ δΒρέννῳ λογισμὸς παρίστατο ὡς εἰ ἀναγκάσει τος Αἰτωλοὺς οἴκαδε ἐς τὴν Αἰτωλίαν ἀναχωρῆσαι, ῥᾴων ἤδη γενήσοιτο ὁ πόλεμος αὐτῷ πρὸς τὸ Ἑλληνικόν. Ἀπολέξας οὖν τῆς στρατιᾶς μυριάδας τοὺς πεζοὺς τέσσαρας καὶ ὅσον ὀκτακοσίους ἱππέας, Ὀρεστόριόν τε αὐτοῖς καὶ Κόμβουτιν ἐφίστησιν ἄρχοντας, οἳ ὀπίσω κατὰ τοῦ Σπερχειοῦ τὰς γεφύρας καὶ αὖθις διὰ Θεσσαλίας ὁδεύσαντες ἐμβάλλουσιν ἐς τὴν Αἰτωλίαν΄ καὶ τὰ ἐς Καλλιέας Κόμβουτις οἱ ἐργασάμενοι καὶ Ὀρεστόριος ἦσαν …

11 Storie, XX, 10-11: Κόραξ, ὄρος μεταξὺ Καλλιπόλεως καὶ Ναυπάκτου. Πολύβιος εἰκοστῷ.

12 Scyllaci periplus, 93; in Geographi Graeci minores, a cura di Karl Müller, Didot, Parigi, 1855, v. I, p. 68: Μυσία. Μετὰ δὲ Θρᾶικην Μυσία ἔθνος. Ἔστι δὲ τὸ ἐπ᾽ ἀριστερᾶι τοῦ Ὀλβιανοῦ κόλπου ἐκπλέοντι εἰς τὸν Κιανὸν κόλπου μέχρι Κίου. Ἡ δὲ Μυσία ἀκτή ἐστι. Πόλεις δ᾽ ἐν αὐτῆι Ἑλληνίδες εἰσὶν αἵδε· Ὀλβία καὶ λιμήν, Καλλίπολις καὶ λιμήν, ἀκρωτήριον τοῦ Κιανοῦ κόλπου, καὶ ἐν ἀριστερᾶι Κίος πόλις καὶ Κίος ποταμός. Παράπλους δὲ τῆς Μυσίας εἰς Κίον ἡμέρας μιᾶς. Misia. Presso la Tracia il popolo dei Misi. Si trova a sinistra del golfo di Olbia per chi naviga verso il golfo di Cio fino a Cio. La Misia è una penisola. Le città greche in essa sono: Olbia e il suo porto, Gallipoli e il suo porto, il promontorio del golfo di Cio e a sinistra la città di Cio e il fiume Cio. Il periplo della Misia fino a Cio ha la durata di un giorno.  

13 Repubblica, III, 527c   … ὡς οἷόν τ᾽ ἄρα, ἦν δ᾽ ἐγώ, μάλιστα προστακτέον ὅπως οἱ ἐν τῇ καλλιπόλει σοι μηδενὶ τρόπῳ γεωμετρίας ἀφέξονται. Καὶ γὰρ τὰ πάρεργα αὐτοῦ οὐ σμικρά.

Giovan Battista Crispo di Gallipoli e due plagiari

di Armando Polito

Nel diritto romano si definiva plagiarius colui che si rendeva colpevole di plagium, cioè del furto dello schiavo altrui. Che la cosa fosse disdicevole lo dichiara la stessa etimologia, essendo derivato plagium dal greco πλάγιον (leggi plàghion) che come aggettivo neitro sostantivato significa cosa obliqua, inclinata e, in senso figurato, cosa non retta, equivoca, insidiosa. Fu Marziale (Epigrammata, I, 52) ad aggiungere al significato giuridico di plagiarius quello che oggi diremmo di ladro di proprietà intellettuale. Data la sua brevità riporto il testo integrale, con la mia traduzione,  del componimento in cui il personaggio fu immortalato:

Commendo tibi, Quintiane, nostros,/nostros dicere si tamen libellos/possum, quos recitat tuus poeta):/si de servitio gravi queruntur,/adsertor venias satisque praestes,/et, cum se dominum vocabit ille,/dicas esse meos manuque missos./Hoc si terque quaterque clamitaris,/impones plagiario pudorem.

(Ti raccomando, o Quintiliano, i miei opuscoletti, se tuttavia posso dire miei quelli che recita il tuo poeta); se essi si lamentano di una pesante schiavitù, venga tu come difensore e a sufficienza garantisca e quando quello se ne dichiarerà il padrone dica che sono miei e non asserviti. Se dirai queso a voce alta, costringerai il plagiario a vergognarsi).

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti ed ha finito per annacquare, con gli altri, anche questo reato, tant’è che nel 1981 esso, riferito alla riduzione in stato di totale soggezione psicologica di una persona da parte di un’altra, fu cancellato dal codice penale con la sentenza n. 96 della Corte costituzionale. Rimane reato, invece, il plagio inteso come violazione dei diritti d’autore, con sanzioni civili e penali. La tecnologia digitale ha reso più facile e meno costoso che in passato soddisfare la tentazione di spacciare come frutto del proprio ingegno quello che, invece, è dell’altrui. E il fenomeno si presenta in forma estremamente variegata: si va dalla riproduzione brutalmente fedele di brani più o meno lunghi, viziata dal difetto capitale del mancato uso delle virgolette o di altro espediente grafico atto ad evitare l’inganno, a quella che prevede il camuffamento con una spruzzatina di sinonimi a sostituire in ordine sparso qualche parola, alla più sofisticata che prevede l’utilizzo della parafrasi. Si comprende bene come quest’ultima sia la più faticosa ma anche l’unica in grado d’ingannare anche i più sofisticati motori di ricerca. Insomma, paradossalmente, il modernissimo copia-incolla sta all’antichissima parafrasi come, in alcuni interventi,  il bisturi al laser …

C’è da sperare, comunque, che la facilità con cui la moderna tecnologia consente già oggi di individuare rapidamente scopiazzamenti di ogni tipo scoraggi i plagiari che si erano illusi di aver trovato la pacchia proprio nell’agevolante tentazione che quella stessa tecnologia offriva loro nel commettere il peccato.

Nei secoli passati i colpevoli potevano contare sulla limitatissima diffusione delle opere a stampa e della cultura in genere, il che rendeva meno diffuso il riscontro o volontario o casuale del lettore e il conseguente mascheramento di plagi parziali o totali. In riferimento al Salento, per quanto riguarda il plagio parziale, ho già fornito un esempio in https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/05/14/se-non-e-plagio-ditemi-voi-cose/. Oggi, più che di un plagio totale, parlerò di quello che può essere definito un plagio editoriale.

Nel 1593 il gallipolino Giovan Battista Crispo (1550 circa-1598 circa), del quale mi sono già occupato  in più di un’occasione (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/13/giovan-battista-crispo-lillustre-gallipolino-che-secondo-wikipedia-avrebbe-trovato-e-salvato-a-napoli-larcadia-del-sannazzaro-12/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/09/gallipoli-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/), pubblicava il canzoniere del napoletano Ascanio Pignatelli (1550-1601) per i tipi dell’editore Giovanni Tommaso Todino1 a Napoli.

L’opera si apre con la dedica, già annunziata nel frontespizio e nello stesso evocata dallo stemma Sangro, All’illustrissimo et eccellentissimo Signor Paolo di Sangro Prencipe di Sansevero. In essa, forte del giudizio espresso da intenditori di poesia del valore delle rime del Pignatelli, ritiene giusto fargliene omaggio. Segue l’avvertimento al lettore, in cui il Crispo, dopo aver ricordato la modestia dell’autore che fino a quel momento ne aveva impedito la pubblicazione, così continua: perché non si veggano le sue compositionui, si come di mano in mano, trasportate, oltre dalla prima sua penna, anco di senso, & di parole: & sonovi hoggimai tanti sonetti dispersi, che quasi pochi ne restano nel proprio originale: di che essendone io stato buona parte cagione, per haverglimi di continuo l’istesso Signor Ascanio confidati nelle mani, nè havendo io potuto usar discortesia alla richieſta di molti, i quali & di presenza, & per lettere potevano comandarlomi, perciò pareva che foſſe à me richiesto di provedere al danno, che tuttavia l’isteſſe compositioni dal cortese mio errore hanno ricevuto, & di anteporre alla volontà dell’Autore, la stima di lui medesimo. Laonde fattone una raccolta quanto ho potuto interamente corretta, deliberai col mandarle fuori, prevenire l’ultimo assalto della sua ricusa.

Dopo la dedica, della quale ho riportato la parte che ci interessava, si leggono i soliti componimenti elogiativi. Sono 2 sonetti, il primo a firma di  Fra’ Giulio Caraffa, il secondo di Pier Antonio Caracciolo. Le pp. 1-10 contengono i sonetti I-XX, le pp. 11-15 la canzone I, le pp. 16-25 i sonetti XXI-XL, le pp. 26-29 la canzone II, le pp. 29-42 i sonetti XLI-LXVII, le pp. 43-45 la canzone III,  le pp. 46-52  i sonetti LXVIII-LXXX, le pp. 52-59 la canzone IV, le pp. 59-81 i sonetti LXXXI-CXXV. Le pp. 82-86 contengono altri dieci sonetti elogiativi a firma di Ascanio Piccolomini (due), Scipion Bargagli, Verginio Turamini, Giovanni Battista D’Alessandro, Paolo Pacelli, Ascanio Ramirez, Pietro Antonio Corfuto, Giovanni Battista Marino e Fabritio Marotta.

Le pp. 87-94 ospitano l’indice e la 94 in calce gli errata corrige. L’ultima pagina, non numerata, contiene l’imprimatur e il colophon, che riproduco di seguito.

Il lettore comprenderà dopo la descrizione quasi maniacale della struttura della pubblicazione, che potrà leggere, esercitando, quindi, il suo personale controllo, all’indirizzo https://books.google.it/books?id=3e74ZdQ0U30C&pg=PA31&dq=rime+di+ascanio+pignatelli&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjXqsr2g5LUAhUBIsAKHaFaAC8Q6AEIRzAI#v=onepage&q=rime%20di%20ascanio%20pignatelli&f=false.

Esattamente dieci anni dopo (il Pignatelli era morto da due anni) usciva un’altra edizione.

Il filologo questa volta è Cesare Campana2, come si evince dalla dedica Al molto illustre Signore, il Sig. Conte Sforza Bissaro. Vi si legge fra l’altro: Le Rime del Sig. Ascanio Pignatelli, Cavaliere Napolitano di candidi, & incorrotti costumi, non meno che di acuto ingegno, di gran sapere, mentr’egli visse poterono a pena gustarsi dal mondo, molto più vago essend’egli di avanzarsi continuamente nell’opere pregiate, che di aprirsi quell’ampia porta, ch’era in suo potere alla gloria del mondo. Aspettossi alcuni anni, sperandosi che sì giudizioso padre, con maggior carità si portasse verso le sue nobili creature, di quali poche, quasi per altrui pietù, si eran vedute comparer’alla luce. Ma mentre s’attendeva di loro pomposa mostra, e che l’autore volesse guardar al beneficio universale, egli, già di grand’età, se ne volò a miglior vita, lasciando il mondo nel medesimo desiderio di gustare à sazietà l’abbondanza de suoi pretiosi frutti; de’ quali anche si mostrava maggior carestia in questi paesi, da che in Napoli pur n’era pubblicata una parte. Trovandomeneio dunque alcuni, non anchor veduti, ho voluto aggiungerli agli altri e farli ristamparein quella forma, che possa ciascuno sempre haverne appresso …   

Sintetizzo anche qui la struttura del libro, cui il lettore potrà accedere in https://books.google.it/books?id=g-QGougSvbcC&pg=PA50&dq=Cesare+campana+rime+di+ascanio+pignatelli&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjokICIiJLUAhULIcAKHS8yDsEQ6AEIKjAB#v=onepage&q=Cesare%20campana%20rime%20di%20ascanio%20pignatelli&f=false.

Alle pp. 1-10 i sonetti I-XX, alle pp. 11-14 la canzone I, alle pp. 15-26 i sonetti XXI-XLIV, alle pp. 27-29 la canzone II, alle pp. 30- 43 i sonetti XLV-LXXI, alle pp. 44-45 canzone III, alle pp. 46-52 i sonetti LXXII-LXXXIV, alle pp. 52-58 la canzone IV, alle pp. 58-80 i sonetti LXXXV-CXXIX, alle pp. 81-87 i dieci sonetti elogiativi dell’edizione Crispo, riportati nello stesso ordine. Alle p. 88-97 gli indici.

Se Antonio Bulifon avesse atteso ancora un anno, la sua edizione del canzoniere del Pignatelli sarebbe uscita esattamente un secolo dopo quella del Crispo. Chissà, però, se avrebbe sfruttato la ricorrenza per ricordare il pioniere gallipolino, visto che nella dedica né altrove viene mai citato, nonostante anche lui mostri di tenerne presente la pubblicazione. Il lettore potrà effettuare anche qui il controllo in https://books.google.it/books?id=hR9DjeMQYykC&pg=PP19&dq=bulifon+rime+pignatelli&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjDgbn9lJLUAhXMJcAKHecsDGgQ6AEILzAD#v=onepage&q=bulifon%20rime%20pignatelli&f=false.

Dal frontespizio il lettore noterà che il Bulifon compare prima nelle vesti di filologo (di nuovo date in luce da Antonio Bulifon) e,nella consueta posizione in calce, come editore vero e proprio (in Napoli presso Antonio Bulifon). Di origini francesi, attivo a Napoli, il Bulifon (1649-1707) fu senz’altro uno dei più famosi e prolifici editori del suo tempo. Il suo legame con Napoli è evidente nella sirena campeggiante nella sua marca editoriale col motto NON SEMPRE NUOCE. E poi, per non farsi mancare nulla …, , in basso al centro (li ho evidenziati con la circonferenza bianca) la doppia croce con il suo monogramma.

Questa, delineata sinteticamente, la struttura della pubblicazione: alle pp. 1- 11 sonetti I-XX, alle pp. 12-15 la canzone I, alle pp. 16-25 i sonetti XXI-XL, alle pp. 26-28 la canzone II, alle pp. 29-42 i sonetti XLI-LXVII, alle pp. 43-45 la canzone III, alle pp. 46- 52 i sonetti LXVIII-LXXX, alle pp. 53-58 la canzone IV, alle pp. 59-81 i sonetti LXXX-CXXV, alle pp. 82-96 i dieci sonetti elogiativi nella sequenza già vista nel Crispo e nel Campana; segue l’indice in nove pagine non numerate. L’ultima pagina, anch’essa non numerata, reca l’imprimatur, anzi il reimprimatur cioè si ristampi,

 

In un secolo la tecnica di stampa si era senz’altro affinata e i mezzi economici del Bulifon erano certamente notevoli; tuttavia l’edizione ricalca pedissequamente quella del Campana e l’unica differenza rispetto a questa ed a quella del Crispo, che ormai possiamo definire come l’editio princeps, è rappresentata dalla tavola dell’antiporta (di seguito riprodotta) e, subito dopo la dedica a Domenico Giudice, da un avviso che nella parte finale incorpora la notizie biografiche sul Pignatelli tratte da Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli di Carlo De Lellis uscito per i tipi degli Eredi di Roncagliolo a Napoli nel 1671.

Provo a leggerla dall’alto in basso.  Nel cartiglio il titolo dell’opera. Poi la Fama con fattezze che ricordano più modelli tardo-rinascimentali che barocchi (non è certamente il mostro alato descritto da Virgilio nei versi 173-188 del libro IV dell’Eneide).Alla sua destra (evidenziato in bianco) un putto alato regge sulle spalle lo stemma della famiglia Pignatelli ed un altro alla  sinistra (evidenziato in rosso) quello della famiglia Giudice. La dea sembra quasi delicatamente aiutare a reggere la sua tromba un giovane nudo dal viso femmineo, alla cui sinistra si nota la rappresentazione divinizzata del fiume Sebeto (evidenziato in giallo) e a destra una figura bambinesca dallo strano copricapo che suona un violino (evidenziato in verde)3.

In conclusione: oggi Cesare Campana (fra l’altro nato dieci anni prima del Crispo, dunque perfettamente in grado, se avesse voluto e potuto. di bruciarlo sul tempo) sicuramente sarebbe stato accusato di plagio, anche se probabilmente all’epoca nemmeno il dedicatario si accorse che gli era stato fatto una sorta di regalo riciclato o, tanto la sostanza non cambia, contraffatto. Se la sarebbe cavata forse il Bulifon per trascorsi limiti temporali dalla prima edizione. Rimane, comunque, consegnata alla storia la disonestà quantomeno intellettuale di entrambi per non aver fatto il minimo cenno al nome del gallipolino ed al suo lavoro che pure, come ho ampiamente provato, mostrano di conoscere. E il testo di Ascanio Pignatelli non poteva essere considerato come quello di un autore classico latino o greco, cioé quasi terra di nessuno e, perciò, di tutti, soggetto a multiple rivendicazioni di paternità editoriale.

___________

1 Si servì della stamperia dello Stigliola, come si legge in questo frontespizio e in quelli, anch’essi del 1593, di Discorso di Guglielmo Guilleo Alemanno sopra i fatti di Annibale, nel quale dimostrandosi lui essere stato nel valor delle arme superiore a tutti gli altri capitani, si discriue generalmente l’vfficio di perfetto capitano. Tradotto nella volgar lingua dal Signor Giacomo Mauro, 1593 e di Discorso del signor Giacomo Mauro, nel quale oltre la notitia che s’ha di molte belle cose mai piu udite, si proua con l’autorità delle sacre lettere, e di molti santi dotti huomini, e giureconsulti, quanto sia piu degna la donna dell’huomo, e di quanta piu illustre nobiltà et eccellenza dalla natura dotata. La stamperia Stigliola fu condotta da Nicola Antonio sostituito dal figlio (secondo alcuni fratello) Felice nei due anni (1505-1597) che trascorse in carcere. Prima della pubblicazione del Crispo era apparso isolato solo qualche sonetto del Pignatelli: per esempio il n. CXXII (in risposta ad un sonetto di Benedetto Dell’Uva) nella raccolta curata dal mesagnese Scipione Ammirato  Scipione Ammirato Parte delle rime di Benedetto Dell’Uva, Gioovanbattista Attendolo, et Cammillo Pellegrino, Sermartelli, Firenze, 1584, p. 48.

2 Cesare Campana (1540-1606), aquilano, detto il Vario Olimpico presso lo stesso editore aveva pubblicato nel 1595 Assedio e racquisto d’Anuersa, fatto dal sereniss. Alessandro Farnese prencipe di Parma, &c. Luogotenente, gouernatore, e capitan generale ne’ Paesi Bassi, del catholico, e potentissimo Filippo secondo re di Spagna. Historia di Cesare Campana, diuisa in due libri. Con una breue narratione delle cose avvenute in Fiandra, dall’anno 1566 fin al 1584, che cominciò detto assedio; e con l’arbore de’ conti di Fiandra. Innumerevoli le opere poetiche e, prevalentemente, storiche pubblicate presso altri editori.

3 Superfluo dire quanto sarebbe gradita l’integrazione delle identificazioni mancanti grazie alla competenza, che io non ho. di qualche lettore.

Gallipoli e dintorni in una carta del XVI secolo

di Armando Polito

Il lettore noterà che questa volta il numero dei toponimi per la cui identificazione chiedo il suo prezioso aiuto è notevolmente aumentato rispetto a quello delle sezioni della carta esaminate nelle precedenti puntate. A tal proposito prego chi vorrà intervenire di corredare il suo commento con la citazione di fonti attendibili e controllabili. Non saranno tenute in considerazione, fra l’altro, notizie tratte da wikipedia e simili quando esse siano orfane di qualsiasi riferimento bibliografico. Faccio presente, inoltre, che da elementi interni che stanno via via emergendo la datazione della carta è da collocare più plausibilmente nel XVI secolo e non nel XV, indicazione iniziale che, tuttavia, lascio per ora nel titolo.

Aequilina dir(uta): Equilina nelle carte del XVII secolo; attendo notizie.

Alicie vetere dir(uta): vedi S. M(aria) delle alice.

Are di Calo: credo che il luogo coincida in parte con l’attuale via Matteo Calò. In Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, p. 242, nota 1, si legge: Era pure delle primarie la famiglia Calò, e molti della medesima si trovano nell’elenco de’ passati Sindaci. La Casa di loro abitazione era quella vicina all’abolito Convento de’ Paolotti, che guarda il Porto, e che tuttavia si nomina dei Calò. Si possiede attualmente con altri beni dai Signori de Pandi di Nardò, forse per successione. Il Ravenna a p. 548 dichiara di dover molto nella stesura della sua opera alla storia manoscritta di Leonardo Antonio Micetti (nato nel 1641). E nel manoscritto del Micetti (custodito attualmente nella Biblioteca Provinciale di Lecce, ms 36) ecco cosa si legge a proposito di Matteo Calò: Fiorì in armi in questo secolo [XVI] nella Città di Gallipoli Matteo Calò, Gentil’huomo della medesima, mio consanguineo, il quale servì Sua Maestà Cattolica da Venturiero a proprie spese molt’anni. Egli servì nel 1571 nella …

Callipoli: oggi Gallipoli.

Balderano: attendo notizie.

Le Figgie (oggi Li Foggi); Ancora oggi esiste il Consorzio di bonifica  Ugento-Li Foggi … Visti i benefici dei consorziati rispetto alle cartelle esattoriali c’è da provare quasi nostalgia per il vecchio toponimo. Tuttavia il pantano (quello delle poltrone e dei posti clientelari) è rimasto …

Leonardo: in Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, p. 406, si legge: Trovo notato nella visita di Monsignor Montoya, che la Chiesa suddetta apparteneva un tempo all’Abazia di San Leonardo … Purtroppo non compare nessuna indicazione circa la dislocazione di tale chiesa. Nella carta in corrispondenza c’è un simbolo che potrebbe benissimo corrispondere ad una fabbrica di tal genere, ma il toponimo non è preceduto, come ci saremmo sspettato, da S.to. Appare chiaro, comunque, come la consultazione delle visite pastorali in un’indagine di tal fatta assume (essendo ormai chiaro, ho usato l’indicativo …) un ruolo irrinunciabile e come il contributo degli appassionati locali è determinante, comunque imprescindibile.

Pantano delle Figgie (vedi anche Le Figgie): nel volume prima citato del Ravenna a p. 178 si legge la notizia di  un articolo contenuto in un privilegio concesso nel 1197 da Federico II così riassunto: Che restasse abilitata la cura del lino nel ristagno detto li Foggi. E il Ravenna in nota osserva: In quei tempi la semina del lino era di maggiore importanza nel nostro territorio. Al presente se ne coltiva pochissimo. Dato per scontato che oggi non se ne coltiva nemmeno l’ombra, sarebbe interessante conoscere la situazione alla data presumibile della mappa. Saremo grati a chi, studioso di storia economica, ci segnalerà qualche dato.

Pirella: attendo notizie.

Rivobono: oggi Sannicola ?. La pur dubbia identificazione con Sannicola nasce dal fatto che le carte del XVII secolo (in sequenza i dettagli dalle carte di Janssonius, Bulifon, Hondius r Fabio Magini  ) in quella posizione recano il toponimo Rivo Callo/Rivocallo, che potrebbe essere deformazione di Rodogallo (in zona oggi, poco lontano da Sannicola, ci sono Villa Rodogallo e Via Rodogalli).  In Bullettino delle leggi del Regno di Napoli, Anno 1807, I semestre. Da gennajo a tutto giugno, Napoli, Fonderia Reale e Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato, 1813, p. 69, nell’elenco riportato dei centri rientranti a far parte del circondario di Parabita sono censiti anche Santa Maria dell’Alice (è tornato il pesce …) e Rivocallo, con accanto l’annotazione deserti. Non escluderei che Rivobono e Rivocallo siano entrambi deformazione di Rodogallo.

Sapea: oggi Torre Sabea.

Selva di Callipoli: una fotografia aerea basterebbe a documentare come si è ridotta la selva in quasi cinque secoli.

S. M(aria) delle alice: oggi Alezio. In Luigi Tasselli, Antichità di Leuca, II, 10, Micheli, Lecce, 1693, p. 138: … Santa Maria della Lizza, che prima era Città e si chiamava Aletio nel feudo si Gallipoli … Il toponimo registrato nella carta e che costituisce uno dei tanti esempi di storpiatura, nemmeno il più eclatante, spinge ad esclamare – Certi pesci! – …

S,to Andrea: oggi Isola di Sant’Andrea.

S.to Joanni Malancone (?): attendo notizie.

S.to Justo: in Bartolomeo Ravenna, op. cit. p. 371; Nella fabbrica  [il monastero Cappuccini, la cui costruzione era iniziata nel 1583] s’impiegaron più anni demolendosi l’antica Chiesa di San Giusto … Questo Monastero è circa un miglio distante dalla Città situato su di una collinetta verso levante ch’è molto deliziosa per la veduta del mare che bagna l’uno e l’altro littorale di rimpetto alla Città. Sembrerebbe che il monastero sorse quasi sullo stesso posto della chiesa demolita e il fatto che questa non si registrata come diruta nella carta è un elemento prezioso per affermare che la carta stessa non può essere successiva al 1583.

S.to Mauro: oggi S. Mauro; vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/18/san-mauro-con-il-tetto-rosa/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/17/labbazia-di-san-mauro-il-giorno-dopo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/17/san-mauro-il-gruppo-archeologico-di-terra-dotranto-si-costituisce-parte-civile/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/09/15/incredibile-scelleratezza-nei-confronti-dellabbazia-di-san-mauro/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/12/17/antico-esempio-di-aridocoltura-nei-pressi-della-chiesetta-bizantina-di-san-mauro/

S.to Nicola: in Bartolomeo Ravenna, op. cit., pp. 405-406: .. nella medesima [chiesa di S. Maria del Canneto] vi è l’antica statua di pietra rappresentante S. Nicola, che un tempo era collocata nell’altare di un’antica chiesa, dedicata a tal Santo, che esisteva nel littorale di Gallipoli. E in nota: La Chiesa dedicata a San Nicola era situata vicino al lido di tramontana, più verso al mare, ove sono le fabbriche di bottame. Questa chiesa era antichissima, ed è indicata nella pianta di Gallipoli, rapportata da Giorgio Braun. Fu distrutta questa Chiesa sul principio del secolo XVI con quella del Canneto, quando i Francesi tennero assediata Gallipoli.Venne poi riedificata coll’elemosine dei cittadini. Nel 1765 si demolì intieramente … Con un’approssimazione ancora più spinta della data del 1583 (vedi S.to Giusto) si può dire che la carta è contemporanea della prima ricostruzione (circa la metà del secolo XVI). Il Ravenna cita la mappa di George Braun, che è del 1591 (di seguito con il dettaglio che ci interessa: n. 20 nella didascalia).

 

Però, per dare a Cesare (per giunta, in questo caso, non romano ma gallipolino …)  quel ch’è di Cesare non posso fare a meno di riprodurre la carta di Giovan Battista Crispo, che è del 1591, e il dettaglio relativo:  n. 21 nella didascalia.

S.to Pietro di Samaria: oggi S. Pietro dei Samari; vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/19/gallipoli-san-pietro-dei-samari-xii-sec-appello-di-italia-nostra/

Tone di S.to Joanni: emendato Tone in Torre, la corrispondenza con l’attuale Torre San Giovanni la Pedata è perfetta.

 

 

Su altri dettagli della stessa carta vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/21/nardo-altri-centri-limitrofi-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/05/lecce-porto-s-cataldo-cosi-al-tempo-adriano/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/15/brindisi-suo-porto-carta-aragonese-del-xv-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/02/27/otranto-dintorni-carta-aragonese-del-xvi-secolo/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/04/castro-dintorni-carta-aragonese-del-xv-secolo/

 

Gallipoli e il suo gemellaggio secentesco con Anversa

di Armando Polito

La prima immagine è nota ai visitatori più affezionati di questo blog essendo stata oggetto di attenzione prima altrui (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/05/gallipoli-porto-europeo-dellolio/), poi mia (https://www.fondazioneterradotranto.it/2016/03/14/guardando-unantica-immagine-di-gallipoli/).

La seconda è una tavola della stessa opera (tomo VI uscito  nel 1626) cui appartiene la prima (tomo IX uscito nel 1629). Per i restanti dettagli bibliografici e per una comprensione migliore del post rinvio al secondo link segnalato. Qui mi limito solo a tradurre il titolo (che è una sentenza) e la didascalia (che lo spiega) della seconda tavola, entrambi in latino.

ABSIT SUPERBIA ET NON NOCEBIT DIVITIARUM AFFLUENTIA=Sia assente la superbia e l’affluenza della ricchezza non nuocerà.

Antorff è il nome tedesco di Anversa.

Divitiis multis plerumque superbia iuncta est. Si tollas fastum haud res opulenta nocet (A molte ricchezze per lo più è congiunta la superbia. Se elimini l’ostentazione nessuna abbondanza nuoce.

E chiudo con una domanda, dopo aver detto che nel testo compaiono altre tavole raffiguranti un porto ma  nessuna né nel titolo né nella didascalia reca accenno alla ricchezza. Se Gallipoli non fosse stata all’epoca la capitale europea dell’olio sarebbe stata scelta insieme con Anversa come esempio di produzione e circolazione di ricchezza e come pretesto per una riflessione di ordine morale?

Bernardino Amico di Gallipoli, disegnatore del XVI-XVII secolo

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Tavola tratta da Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, tomo VIII, 1822, s. p. (https://books.google.it/books?id=GCuUVvUDn_4C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ved=0CB8Q6AEwADgKahUKEwjz4Py0ttbHAhUGcRQKHfb7CDI#v=onepage&q&f=false).
Tavola tratta da Biografie degli uomini illustri del Regno di Napoli, a cura di Domenico Martuscelli, Gervasi, Napoli, tomo VIII, 1822, s. p.

 

Da notare nella tavola l’errore, sul quale torneremo in seguito, Minimi per Minori.

Se una canzone può avere spesso come autore della musica e delle parole e, giacché ci siamo (per la serie ce la scriviamo, musichiamo e cantiamo da soli), come interprete la stessa persona, la stessa cosa molto più difficilmente poteva valere, prima dell’avvento delle tecnologie digitali, per un libro con illustrazioni, il quale, pure, se aspira a raggiungere un certo livello, deve avvalersi del contributo di più competenze.

Questa premessa fa capire meglio il giudizio che  sull’unica opera  dello scrittore gallipolino espresse Eustachio D’Afflitto (1742-1787) nella scheda relativa che riproduciamo integralmente1.

Il giudizio del D’Afflitto appare negativo per quanto riguarda il testo vero e proprio, a causa di alcuni dettagli descrittivi ritenuti inventati o, comunque, non documentati; al contrario, l’apparato delle illustrazioni rappresenterebbe il segreto del successo della prima edizione e della sua rarità, mentre la seconda sarebbe di livello inferiore, nonostante le incisioni che il Nicodemi2 attribuisce a Jacques Callot (non Caillot), come si può controllare nella scheda che segue.

Ecco ora, uno di seguito all’altro, i frontespizi delle due edizioni, la prima del 1609 e la seconda del 16203.

.

bernardino amico

bernardino amico

Torniamo ora al giudizio sulla seconda edizione: il lettore avrà notato come quello del Nicodemi è esattamente l’opposto di quello del D’Afflitto; quest’ultimo è rimasto ubriacato, secondo noi,  da un uso troppo disinvolto e non controllato di questa, cede e alla prima.

Come poteva, d’altra parte, essere inferiore alla prima, soprattutto per quanto concerneva le illustrazioni, la seconda edizione le cui tavole erano state incise, compreso il frontespizio, (su disegno dell’Amico, come per la prima edizione) da un luminare nel suo campo, qual era Jacque Callot?

La comparazione tra lo stesso soggetto nella tavola a corredo della prima edizione (a sinistra) e in quella inserita nella seconda (a destra) lo mostra inequivocabilmente.

L’attribuzione al Callot delle tavole della seconda edizione avanzata dal Nicodemi [le incisioni della prima, come si legge nel frontespizio, erano state di Antonio Tempesti 1555-1630)], forse solo in base a motivazioni stilistiche peraltro non espresse, trova un indizio nella dedica dell’edizione al granduca di Toscana Cosimo II (la prima era stata dedicata al re Filippo III), ritratto nella stampa di seguito riprodotta (l’incisore è proprio il Callot)

Ma un indizio non è una prova e non lo sarebbe stato nemmeno se tale ritratto fosse stato inserito nel libro. Fortunatamente è successo il contrario, cioè sono state inserite come tavole proprio le stampe tratte dai rami del Callot.

Di seguito riproduco la stampa del Callot relativa al soggetto già presentato, per completarne l’esame comparativo.

bernardino amico

Estendendo la comparazione alle altre tavole (molte di loro ben più complesse di quella esaminata) è facile giungere alla conclusione, riprendendo la similitudine iniziale: come in una canzone forse (e ribadiamo forse) più importante è la musica rispetto alle parole, nella stampa del passato l’incisore era, anche qui forse, più importante rispetto al disegnatore, specialmente quando quest’ultimo era un fuoriclasse. Basta vedere come il Callot ha reso il disegno dell’Amico rispetto al Tempesti della prima edizione.

Il fatto che il Tempesti prima e il Callot poi ritennero i disegni dell’Amico degni di incisione significa, comunque, dal momento che i due non avevano certo bisogno di una commissione in più o in meno per sbarcare il lunario, che il gallipolino era un bravo disegnatore; e questo fa sorgere il presumibile rimpianto per qualche disegno relativo a Gallipoli o al Salento, che mai vide la luce o che, almeno fino ad ora, risulta perduto per sempre.

Un’ultima osservazione: il lettore avrà notato il Bernardino d’Amico dell’immagine di testa contro il Bernardino Amico dei due frontespizi. Diremmo che Bernardino Amico è più attendibile, non solo perché replicato nella formula finale della dedica pressoché identica per le due edizioni (Humilissimo, et devotiss. Servitore Fr. Bernardino Amico da Gallipoli per la prima e Humilissimo, e devotissimo servitore Fra Bernardino Amico da Gallipoli Min. Osservante per la seconda), ma soprattutto perché sicuramente anteriore di due secoli, nonostante nel testo curato dal Martuscelli la biografia di Bernardino rechi la firma di Gianbatista de Tomasi di Gallipoli4, dunque, un conterraneo per il quale, almeno teoricamente, sarebbe stato più facile fare indagini di ogni tipo, compreso l’anagrafico.

Una soluzione di compromesso tra le due grafie (il che non solo non risolve il problema ma, addirittura, lo complica) pare adottata nella dedica della stampa di seguito riprodotta.

Nel cortile del palazzo reale con un pubblico composto da signori e popolani, sfila a sinistra la processione del SS. Sacramento, accompagnata dalla regina Anna d’ Austria e dal giovane re Luigi XIV suo figlio. Arazzi addobbano l’altare maggiore e il palazzo è sovrastato da un’enorme corona sorretta da angeli.

Ciò che a noi interessa, però, è la didascalia che è una dedica:  A MONSEIG.r TUBEUF CONS.ER DU ROY EN SES CONSEILS INTENDANT DE SES FINANCES PRESIDENT EN LA CHAMBRE DES COMPTES, SUVRINTENDANT DE LA MAISON DE LA REYNE, BARON DE VERT./Monsegneur: L’amour che vous ave pour le choses illustres féstant joint a la devotion  tres-particuliere que vous portez au S.t Sacrement pour luy faire  dresser des autels, dont la structure, et les enrichissemens soient/aussi extraordinaires comme ces deux qualites vous font particulieres; iay pris l’asseurance de vous presenter le desing du dernier, pour vous faire connoistre combien je tien a honneur quil vous ait pleu de men donner la conduite, en laquelle puis que iay/eu le bonheur de meriter vostre approbation, jespere aussi. Moinsegneur que vous me permettrés d’en donner ce temoignage au public, et de me dire a jamais. Moinseg. Vostre treshumble, et tres obeissant serviteur B. D. Amico. (AL SIGNOR TUBEUF CONSIGLIERE DEL RE NELLE SUE DECISIONI, INTENDENTE DELLE SUE FINANZE, PRESIDENTE NELLA CAMERA DEI CONTI, SOVRINTENDENTE DELLA CASA DELLA REGINA, BARONE DI VERT. Signore, l’amore che voi avete per le cose illustri unitamente alla devozione particolarissima che voi portate al Santissimo Sacramento per fargli ergere altari la cui struttura e le cui decorazioni sarebbero così straordinari come queste due qualità vi fanno particolare; io ho preso l’ardire di presentarvi confidenzialmente il disegno, per farvi conoscere come io tenga in onore il fatto che  vi è piaciuto di donarmi la condotta nella quale, dopo aver avuto la felicità  di meritare la vostra approvazione, spero anche, signore, che voi mi permettiate di donarvi questa testimonianza e di dichiararmi in eterno, signore, vostro umilissimo e devotissimo servitore. B. D. Amico).

Ecco il dettaglio del nome del dedicatario

 

e di quello che si legge nel margine in basso a sinistra.

S(tefano) Della Bella f(ecit). Il fecit (=fece) fa supporre che il Della Bella sia stato tanto il disegnatore (nelle stampe antiche  con d., abbreviazione di delineavit=disegnò) quanto l’incisore (nelle stampe antiche con  s., abbreviazione di sculpsit=incise) e che B. D. Amico sia stato un semplice committente.

Stefano Della Bella (1610-1664) fu un incisore fiorentino di grande prestigio, successivo di una generazione al francese Jacques  Callot (1592-1635). La cronologia non impedisce di ritenere che il B. D. Amico della stampa sia proprio il nostro,  tanto più che il Della Bella fu alla corte dei Medici; ci si chiede, però, che tipo di rapporti ci fossero tra il nostro (se si tratta del dedicante della stampa) e Jacques Tubeuf (1606-1660), un dignitario (e che dignitario!) della corte francese, tenendo soprattutto conto del fatto che le dediche, di un libro come di una stampa, avevano una funzione di ringraziamento per un beneficio ricevuto, come nel caso di questa stampa, oppure quella, condizionante, che equivaleva  ad una richiesta di sponsorizzazione; oggi, per lo più, invece …). Di seguito, giacché ci siamo, il ritratto del Tubeuf, incisione di Nicolas Poilly (1627-1696).

Il fatto che la parte finale della dedica dell’incisione donata al Tubeuf (Vostre treshumble, et tres obeissant serviteur B. D. Amico) sembra essere la letterale, anche se parziale, traduzione in francese delle due, più o meno identiche, che abbiamo già visto per le due edizioni del libro (Humilissimo, et devotiss. Servitore Fr. Bernardino Amico da Gallipoli e Humilissimo, e devotissimo servitore Fra Bernardino Amico da Gallipoli Min. Osservante) è dovuto unicamente alla stereotipicità della formula? Non poteva il nostro, se di lui si tratta, aggiungere anche alla dedica della stampa il “titolo” insieme col luogo d’origine, dati che, invece, compaiono in quelle del libro, nonostante mai ci è capitato finora d’incontrare tale dettaglio nella dedica delle stampe antiche? Del tutto casuale, poi, il nesso che pure esiste tra il tema della stampa (processione del SS. Sacramento) e il fatto che il gallipolino dal 1596 al 1601 a Gerusalemme espletò l’incarico come presidente in rappresentanza dell’ordine in quella terra? E, infine, le desing (il disegno) che si legge nella dedica vuole rivendicare e sottolineare una paternità ben distinta da quella dell’incisore? Lo scioglimento di questi dubbi non sarebbe cosa di poco conto, perché la stampa, qualora B. D. Amico corrispondesse a Bernardino Amico, ci consentirebbe di affermare che il nostro, del quale si ignorano le date di nascita e di morte, era vivo almeno al 1643, data in cui Luigi XIV salì al trono a meno di cinque anni d’età.

Estratto da: Marcello Gaballo e Armando Polito, Bernardino Amico da Gallipoli. Il trattato delle Piante & Immagini de Sacri Edifizi di Terra Santa (1629), Fondazione Terra d’Otranto, Nardò, aprile 2016 (il volume contiene anche la copia anastatica integrale di un esemplare dell’edizione del 1620, molto rara, custodita nella Biblioteca diocesana “Antonio Sanfelice” di Nardò).

  

____________

1 Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, Stamperia Simoniana, Napoli, 1782, tomo I, pp.  296-297

2 Leonardo Nicodemi (morto nel 1699), nelle Aggiunte alla Biblioteca napoletana di Nicolò Toppi, Bulifon, Napoli, 1678, p. 50.

3 Non conosciamo altre edizioni immediatamente successive. Segnaliamo, però,  un’ edizione in inglese dal titolo Plans of the Sacred Edifices of the Holy Land uscita nel 1953 per i tipi dello Studio Biblico Francescano e per gli stessi tipi, con integrazioni, nel 1997 e L’eglise de la Matarea en 1597, estratto dal libro dell’Amico (seconda edizione, pp. 18-20) ed inserito nella traduzione dall’italiano di Carla Burri e Nadine Sauneron con note di Serge Sauneron in Voyages en Egypte des années 1597-1601, Institut Français d’Archéologie Orientale du Caire, 1974.

4 È da considerare suo l’errore di Minimi per Minori già segnalato nella didascalia dell’immagine di testa, non solo perché compare anche nel testo della biografia ma anche nella citazione dell’opera di Lucas Wadding, il cui titolo da Scriptores Ordinis Minorum è diventato Scriptores Ordinis Minimorum.

 

 

 

Guardando un’antica immagine di Gallipoli …

di Armando Polito

Succede quasi a tutti di subire il fascino di un documento del passato, soprattutto quando le sue dimensioni consentono una fruizione integrale ed immediata, in pratica un solo colpo d’occhio, tutt’al più da ripetere se si vuole andare al di là delle sensazioni, tutto sommato epidermiche, che qualsiasi immagine offre al primo impatto ed avviare un approccio sentimentale illuminato da una rigorosa razionalità, l’unica magica mistura che può metterci in grado di conoscere ed amare la storia, come le persone.

Il documento che oggi tenterò di leggere è tratto dal Thesaurus philo-politicus1 di Daniel Meissner (1585-1625) uscito a Francoforte in più volumi per i tipi di Eberhard Kiersen a partire dal 1623. Di seguito il frontespizio del volume del 16292.

L’opera appartiene ad un genere all’epoca molto in voga, del quale ho avuto occasione di parlare in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/02/11/una-nota-su-alberico-longo-di-nardo/. Essa è particolarmente interessante perché le tavole, da cui è sostanzialmente costituita, in alcuni volumi contengono le vedute di alcune città europee e non sono delle semplici vignette esplicative del motto in latino, di natura moraleggiante, che le accompagna e, per questo, pur con le dovute cautele, sono una fonte non trascurabile per chi si interessa di geografia storica. Non mi pare trascurabile, poi, il fatto che anche alcune tavole, riprodotte in varie epoche nel formato originale, abbiano dato vita asd un fiorente mercato antiquario con quotazioni che al profano potranno anche sembrare esagerate3. Costituisce, poi, un motivo di orgoglio il fatto che tra le numerose vedute di città italiane quella di Gallipoli è l’unica non solo salentina ma pugliese. Di seguito la tavola 36 tratta dal volume prima citato.

Di alcune mappe antiche di Gallipoli mi ero già occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/14/gallipoli-in-nove-mappe-antiche/ e quella di oggi era già apparsa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2011/01/29/cinque-poesie-dedicate-a-gallipoli-dal-magliese-oronzo-pasquale-macri-unoccasione-per-rispolverare-distici-esametri-e-pentametri, dove, però, era stata inserita successivamente dalla redazione, a mia inconsapevolmente graditissima insaputa. Il caso ha voluto qualche giorno fa che mi imbattessi in quel post così aggiornato e ho subito sentito il bisogno di tentare di capire qualcosa in più dell’immagine.

Comincio da quello che può essere definito il motto: Opes si affluunt ne apponito cor (Se le ricchezze affluiscono, non metterci sopra il cuore). In questo tipo di produzione letteraria i motti di solito non sono citazioni fedeli, cioè letterali, di autori classici ma rielaborazioni e adattamenti del loro contenuto, pur conservando elementi più o meno isolati del loro lessico. Nel nostro caso è evidentissima l’eco del Salmo LXI, 11:

Nolite sperare in violentia et in rapina nolite decipi; divitiae si affluant, nolite cor apponere (Non sperate nella violenza e non lasciatevi sedurre dalla rapina; se le ricchezze affluiscono, non metteteci sopra il cuore).

Al di sotto del motto si legge GALLIPOLI in Fran.; problematico, almeno per me, è lo scioglimento dell’abbreviazione e l’unica cosa che mi viene in mente è che Fran. stia per Frankfurt (Francoforte) e questa sorta di unione tra il nome della città salentina e quello del luogo di edizione (dicitura che non compare in nessun’altra tavola) costituirebbe un secondo motivo di orgoglio.

Il tema della ricchezza e della necessità di non dedicarsi ad essa con il cuore, dopo, probabilmente, averlo fatto con il corpo …, viene ribadito nei due esametri in basso:

Sint tibi divitiae Midae, sit regia Croesi/cor salvum teneas, salvus sic tendis ad astra (Abbia tu le ricchezze di Mida4, abbia la reggia di Creso5, mantieni salvo il cuore: salvo così tendi alle stelle). I versi sono costruiti entrambi simmetricamente: il primo col gruppo verbo, nominativo e genitivo (sint divitiae Midae/sit regia Croesi), il secondo col gruppo aggettivo e verbo (salvum teneas/salvus tendis). In più la ripetizione, in ciascun verso, della stessa parola, sia pure in forme diverse di coniugazione (sint/sit) e declinazione (salvum/salvus).

Mida e Creso come esempi di uomini ricchi costituiscono quasi un luogo comune della letteratura di ogni tempo. Basti citare per tutti Plauto (III-II secolo a. C.), Aulularia, atto V, scena I: Nullae illi satis divitiae sunt; non Midae,/non Croesi … (Nessuna ricchezza per lui è sufficiente, non quella di Mida, non quella di Creso …).

Sul piano lessicale il sic tendis ad astra riecheggia Virgilio, Eneide, IX, 641: … sic itur ad astra … ( … così si va alle stelle …).

Sul piano iconografico la mappa presenta due stemmi, come quelle del Crispo del 1591, quella dell’Hogenberg del 1598, quella dell’Hondius del 1627 e quella del Bertelli del 1629; a tal proposito potrebbe non essere casuale che pure il volume che contiene la nostra tavola uscì nel 1629 e per lo sfondo quest’ultima potrebbe essersi ispirata proprio alla mappa del Bertelli. Chi ha interesse potrà farsi la sua idea osservando le mappe citate al link segnalato all’inizio.

Per quanto riguarda i due personaggi posti al centro: la donna con in mano una sorta di corto badile (rappresentazione allegramente metaforica della morte e, dunque, della nostra caducità materiale?) addita all’uomo (dall’abbigliamento si direbbe un nobile) l’arco d’ingresso di una fabbrica in cui spiccano a sinistra per chi guarda quello che sembra l’accesso ad un giardino (l’Eden?) ed un tavolo con vasi di pregio,   a destra  una figura maschile, che ricorda un crocifisso , a sua volta proteso col braccio destro verso  il cuore più elevato legato ad un filo, come gli altri due che si vedono a metà altezza. Ai piedi del presunto crocifisso due cani accovacciati (simbolo di fedeltà?).

Credo, per concludere, dato per scontato che il connubio tra il testo e l’immagine non è casuale, che la tavola contenga un riferimento al prestigio commerciale, soprattutto per l’olio, del quale in quel tempo (ma la situazione si sarebbe protratta fino al secolo XIX6) godeva Gallipoli. Se è così la città salentina assurge ad emblema della ricchezza materiale e pretesto per ricordare la sua caducità ed inferiorità rispetto a quella spirituale. E sarebbe un terzo motivo di orgoglio, anche se il nostro tempo appare poco incline al rispetto di tale principio e, forse, attrezzato solo a subire passivamente il fascino delle allegorie pubblicitarie che quotidianamente ci bombardano …

N. B. Non ho tradotto i quattro versi in tedesco perché non conosco questa lingua e, a differenza dell’inglese, un semplice vocabolario non mi basta. Oltretutto bisogna fare i conti con parole che nel XVI secolo avevano una forma diversa dall’attuale (per esempio, l’hertz del primo verso corrisponde al’attuale herz=cuore, anche perché Hertz, il fisico che ha dato il nome all’unità di misura della frequenza, non era ancora nato …). Io e, credo, pure gli altri lettori che sono nelle mie condizioni a questo punto chiedono l’aiuto di qualche conoscitore del tedesco, anche se la traduzione sarà sicuramente una parafrasi della contrapposizione già vista tra materia e spirito, E non è una scusa per stimolare ad una partecipazione maggiore di quella fin qui registrata, fosse solo attraverso un lapidario commento o, come in questo caso, con una semplice traduzione.

_______________

1 L’opera ebbe innumerevoli edizioni con varianti e nel 1637 venne stampata a Norimberga da Paul Fürst nel 1637 (di seguito il frontespizio) col titolo di Sciographia cosmica. Sciographia è trascrizione latina del greco σκιογραφία (leggi schiografìa), variante posteriore di σκιαγραφία (leggi schiagrafìa)=pittura in chiaroscuro con effetto di prospettiva, voce composta da σκιά (leggi schià=ombra)+γράφω (leggi grafo)=scrivere.

La variante σκιαγραφία spiega lo sciagraphia che si legge nell’edizione Fürst del 1678 (di seguito il frontespizio).

Va detto che in rete ed in alcune opere a stampa in cui si parla del Meissner e viene citata la sua opera circola il titolo Sciographia curiosa di edizioni del 1642 e del 1678. Si tratta di un madornale errore di lettura tramandatosi per citazione passiva, perché un controllo effettuato sulle edizioni degli anni in oggetto ha confermato il nome degli editori riportati correttamente ma non quello dell’opera, che rimane immutato: Sciografia cosmica, appunto.

2 https://books.google.it/books?id=SFJeAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:XgxPU2Sk6WgC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwja8enAw67LAhXGXQ8KHXPDDlMQ6AEIdjAJ#v=onepage&q&f=false

3 Per le tavole del Meissner in particolare segnalo http://www.vintage-maps.com/en/meissner-daniel-96.

4 Mitico re della Frigia che aveva avuto da Dioniso il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Accortosi che così sarebbe morto di fame chiese ed ottenne dal dio l’annullamento di tale potere. Io personalmente credo che le cose non andarono così, perché, con tanti schiavi al suo servizio, poteva farsi imboccare da loro. Probabilmente la prima volta che, subito dopo l’assunzione di questi poteri, andò al bagno ad espletare un elementare bisogno fisiologico, si ritrovò un membre (proprio quello per antonomasia…) inutilizzabile e probabilmente Dioniso dovette pure dare un effetto retroattivo all’annullamento del suo dono.

5 Re di Lidia del VI secolo a. C. che, grazie alla sua politica imperialista, accumulò ingenti ricchezze.

6 In particolare per il secolo XVIII vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

Gallipoli e la fontana turca

di Armando Polito

Sarebbe uno scoop formidabile se tutto non fosse basato sull’equivoco dell’omonimia, a prescindere dalle montagne dello sfondo e da più di un dettaglio troppo orientaleggiante, E così la nostra Gallipoli, dopo aver accettato a denti stretti la rinascimentalità della sua Fontana greca, dovrà addirittura rinunciare all’esistenza di quella turca.

Il lettore dai riflessi mentali più pronti o meno impegnati da pensieri contingenti avrà da tempo intuito di cosa si tratta, prima ancora di leggere il nesso equivoco dell’omonimia.

Va aggiunto subito (aver compagno al duol scema la pena, diceva Dante) che sotto questo punto di vista la cittadina salentina è in buona compagnia e non deve certo vergognarsi del suo Ionio rispetto all’Egeo ed allo stretto dei Dardanelli di cui si vanta l’omonima turca.

Cosa dovrebbe dire, allora, Napoli, anche se nel bene e nel male poche chances hanno di prendere il sopravvento sulla città del Vesuvio, forse nemmeno a livello locale, Napoli di Malvasia [sciagurata traduzione, inventata da un alcolizzato?, dell’originale Μονεμβασία (leggi Monembasìa) che alla lettera significa (città) con un solo accesso] e Napoli di Romània, entrambe in Grecia, e Napoli, città dello stato di New York?

Fugato l’equivoco che il titolo, più o meno artatamente, intendeva sfruttare, è tempo di passare alla fontana.

L’immagine di testa è tratta da https://commons.wikimedia.org/wiki/category:Antoine-Laurent_Castellan?uselang=it#/media/File:Antoine-laurent_Castellan_-_Fontaine_Turque_%C3%A0_Gallipoli_%281808%29.jpg

Il link appena riportato rinvia a http://www.sothebys.com/en/auctions/ecatalogue/2006/the-orientalist-sale-l06104/lot.214.html

Siamo nel sito della celebre casa d’aste inglese e, nel nostro caso, la schermata è questa.

Estrapolando i dati necessari apprendiamo che si tratta di un olio su tela (cm.75,5 x 60) datato 1808, stimato (alla data del 13 giugno 2006) tra 36,635 e 51,289 euro  e che il suo autore è il francese Antoine Laurent-Castellan (1772-1838).

Di lui ho già avuto occasione di occuparmi nel post C’è Brindisi e brindisi (https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/09/ce-brindisi-e-brindisi/), al quale rinvio il lettore desideroso di saperne di più.

Qui, però, sono obbligato ad aggiungere che il nostro fu l’autore pure delle tavole che corredano [il testo è di Louis Mathieu Langlès (1763-1824)] Illustrations de Histoire des Othomans. Moeurs, usages, costumes des Othomans, et abrégé de leur histoire, Nepveu, Parigi, 1812, in 6 tomi1.

Nel V tomo tra le pp. 154-155 è inserita la tavola

che di seguito ripropongo insieme col dipinto.

Qui un esperto del gioco enigmistico Scopri le differenze morirebbe di goduria ma anche il lettore volenteroso potrà, sfruttando le immagini in alta definizione ai links segnalati, esercitarsi in questa analisi.

Io dal canto mio chiudo con una raffica di domande: siccome il dipinto del 1808 sembra un taglio della tavola del 1812, quello deriverebbe da questa? Oppure, considerando che il 1812 è la data di pubblicazione del libro, che i sei tomi recano tutti la stessa data e che, dunque, buona parte del lavoro doveva essere pronta ben prima del 1812, l’esecuzione della tavola è coeva o, addirittura, anteriore a quella del dipinto? Tutto questo a prescindere dall’attribuzione di quest’ultimo, sulla cui bontà non posso esprimere alcun giudizio non sapendo se essa è stata formulata tenendo conto solo della segnatura o pure di altri motivi, di natura stilistica e non.

Non credo possa essere considerato firma dell’autore ma solo una formula, la cui regolarità grafica (comune a tutte le tavole) è al servizio della facile leggibilità e dell’immediata identificabilità, ciò che si legge in calce alle sue tavole [Castellan del(ineavit) et sculp(si)t=Castellan disegnò e incise], tra cui, guarda la coincidenza e quant’è piccolo il mondo!, quelle di Napoli di Malvasia (immagini tratte da Lettres sur la Morée et les îles de Cérigo, Hydra et Zante, H. Agasse, Parigi, 1808:  http://katalogia.me/2012/12/01/%CE%B5%CE%B9%CE%BA%CF%8C%CE%BD%CE%B5%CF%82-%CE%B1%CF%80%CF%8C-%CF%84%CE%BF%CE%BD-%CF%80%CE%B5%CF%81%CE%AF%CF%80%CE%BB%CE%BF%CF%85-%CF%84%CE%BF%CF%85-antoine-laurent-castellan-1797-2/antoine-laurent-castellan-neapolis-monemvasis-pyrgos-or-ochyromeni-agroikia-1787/).

_____________

1 Consultabili e scaricabili da:

https://books.google.it/books?id=JvJNAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIQzAF#v=onepage&q&f=false (tomo I)

https://books.google.it/books?id=AnAOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwipheGKxtPJAhWKPxoKHYEpClg4FBDoAQgbMAA#v=onepage&q&f=false (tomo II)

https://books.google.it/books?id=MvJNAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEITDAG#v=onepage&q&f=false (tomo III)

https://books.google.it/books?id=ZnAOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIOzAE#v=onepage&q&f=false (volume IV)

https://books.google.it/books?id=4KJMAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIMjAD#v=onepage&q&f=false (volume V)

https://books.google.it/books?id=5_JNAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=editions:EnaiWZHSvAAC&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj3qrKjw9PJAhXIfxoKHSM0DE8Q6AEIVTAH#v=onepage&q&f=false (tomo VI)

 

 

Gallipoli. San Pietro dei Samari (XII sec.). Appello di Italia Nostra

da piazzasalento.it
da piazzasalento.it

Preg.mo Dott. Guido Aprea, Commissario prefettizio del Comune di Gallipoli

– Preg.ma Arch. Maria Piccarreta, Soprintendente per le Belle Arti di Lecce

 Preg.mo Dott. Luigi La Rocca, Soprintendente per i Beni archeologici della Puglia

 Preg.mo Dott.Michele Emiliano, Presidente della Giunta Regionale Pugliese

  

Oggetto: Chiesa di San Pietro dei Samari in Gallipoli (sec. XII). Situazione e richieste.

 

A partire dal 2004 e per diversi anni la Sezione Sud Salento di Italia Nostra si è adoperata con numerose iniziative e nelle diverse sedi competenti, per denunciare le gravissima situazione di degrado, alterazione dei luoghi e pericolo di crollo (poi in parte verificatosi) della più importante testimonianza medioevale presente nel territorio di Gallipoli qual è la Chiesa di S. Pietro dei Samari (sec. XII). Le diverse amministrazioni comunali succedutesi nel corso di questo decennio si sono di fat-to disinteressate del problema e non hanno tentato minimamente di intraprendere qualsiasi iniziativa perchè i proprietari del bene predisponessero adeguati programmi di intervento per il recupero del-l’immobile e per la sua fruizione, anche in ragione del fatto che il bene ricade nel perimetro del Parco naturale regionale “Punta Pizzo-Isola di S. Andrea”.

Per le azioni intraprese dalla scrivente Sezione di Italia Nostra (anche in termini legali) i pro-prietari furono “costretti” dalla Soprintendenza ai monumenti ad effettuare nel 2009 degli interventi di messa in sicurezza del bene con la collocazione di punteggi e con una copertura in lamiere metal-liche. Oggi, dopo oltre sei anni, la struttura metallica che ingabbia il bene e quella in legno posta a ridosso della cortina muraria crollata (unitamente alla copertura in lamiere) si trovano in abbandono e in condizioni di precarietà. E’ doveroso evidenziare che, per tali condizioni e in situazioni di forte ventosità, potrebbero verificarsi cedimenti strutturali e conseguenti problemi di sicurezza per l’immobile e per la circolazione stradale data la contigua presenza della S.S. 274.

In considerazione del lungo periodo trascorso e in ragione che ad oggi nessun intervento è stato effettuato sul bene, la scrivente Sezione di Italia Nostra fa voti alle S.LL. in indirizzo (ognuna per le proprie competenze) perché siano individuati e adottati i necessari provvedimenti atti al recupero del bene e alla sua successiva fruizione. Il provvedimento che a nostro parere andrebbe utilizzato è quello dell’esproprio dell’immobile e dell’area in cui insiste (interessata dalla presenza beni archeo-logici e sottoposta a vincoli diversi) per ragioni di pubblica utilità: gli artt. 95/100 del Codice dei Beni Culturali rispondono adeguatamente alla “nostra” situazione.

Per ragioni di tempo, per l’inerzia dei proprietari e per l’atavica indolenza e disinteresse delle amministrazioni comunali di Gallipoli, non ci rimane che sperare nella Vs. sensibilità e nei conseguenti, tempestivi ed efficaci, provvedimenti; ciò potrà scongiurare che, tra qualche tempo, la Chiesa di S. Pietro dei Samari abbia la stessa sorte che ha avuto la Masseria fortificata dell’Itri di Gallipoli che, per incuria e abbandono, pochi anni fa è andata completamente distrutta.

Italia Nostra, nell’auspicare l’interessamento tempestivo delle SS.LL. si rende disponibile ad ogni forma di collaborazione perché una delle più importanti testimonianze del patrimonio storico, architettonico ed ambientale di Gallipoli e del Salento possa essere recuperata, perché diventi l’attrazione culturale del Parco regionale e resa fruibile agli studiosi, ai turisti e alla collettività.

Distinti saluti

Il Presidente Marcello Seclì

Gallipoli in nove mappe antiche

di Armando Polito

Questa volta di mio non c’è assolutamente niente, se non la decisione di trasmettere agli amici che ne abbiano interesse gli indirizzi in cui potranno visionare le mappe, certamente ben note a tutti coloro che si occupano di queste cose ma tutte riprodotte lì in alta definizione, il che consente, quindi, di vedere o rivedere distintamente i dettagli, cosa impossibile nelle riproduzioni che seguono in formato ridotto.

Giovan Battista Crispo, 1591
Giovan Battista Crispo, 1591

https://www.raremaps.com/gallery/enlarge/23679

Braun-Hogenberg, 1598
Braun-Hogenberg, 1598

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/braun_hogenberg_V_66_b.jpg

 

Jodocus Hondius, 1627
Jodocus Hondius, 1627

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=432

 

Francesco Bertelli, 1629
Francesco Bertelli, 1629

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=266

 

Mattheus Merian, 1688
Mattheus Merian, 1688

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=592

 

Giambattista Albrizzi, 1761
Giambattista Albrizzi, 1761

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/storia_XXIII_54_gallipoli_b.jpg

 

Joseph Roux, 1764
Joseph Roux, 1764

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/roux_1764_pl_58_b.jpg

 

John Luffman, 1802
John Luffman, 1802

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/luffman_1802_gallipoli_b.jpg

 

William Heather, 1810
William Heather, 1810

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/heather_1810_gallipoli_b.jpg

 

 

 

Il Salento in ventiquattro immagini di Abraham Louis Rodolphe Ducros (2/6): GALLIPOLI

di Armando Polito

G1

Gezicht op een rots bij de Golf van Tarente in de buurt van Gallipoli (Vista di una roccia del golfo di Taranto nel distretto di Gallipoli). Su questa immagine vedi: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/05/14/nardo-la-montagna-spaccata-comera-nel-1778-oggi/

Vergezicht met de stad Gallipoli (Vista sulla città di Gallipoli)

Gezicht op Gallipoli (Vista di Gallipoli)

Fontein in de haven van Gallipoli (Fontana nel porto di Gallipoli)

Exterieur van de antieke tempel ten oosten van Gallipoli (Esterno di un antico tempio ad est di Gallipoli)

Interieur van antieke tempel gelegen ten oosten van Gallipoli (Interno di un antico tempio situato ad est di Gallipoli)

 

Per la prima parte (BRINDISI): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/10/30/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-16-brindisi/

Per la terza parte (LECCE): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/11/23/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-36-lecce/

Per la quarta parte (MANDURIA): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/07/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-46-manduria/

Per la quinta parte (NARDÒ): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/11/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-56-nardo/

Per la sesta parte (TARANTO): https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/12/24/il-salento-in-ventiquattro-immagini-di-abraham-louis-rodolphe-ducros-66-taranto/

 

 

Il Premio “Luigi Coppola – Città di Gallipoli” torna a Gallipoli dopo 11 anni

gallipoli-rivellino

DIECI NOMI PER LA DECIMA EDIZIONE DEL

“PREMIO LUIGI COPPOLA CITTA’ DI GALLIPOLI”

Castello di Gallipoli 29/10/2015 h. 16

 

Il Premio “Luigi Coppola – Città di Gallipoli” torna a Gallipoli dopo 11 anni. Quest’anno la manifestazione si inserisce nell’ambito del 3° Congresso Nazionale dell’Associazione Andrologi Italiani, società scientifica che raccoglie i maggiori esperti nazionali di scienze andrologiche e medicina di coppia. Temi quali sessualità, riproduzione, salute dell’uomo e della donna, insieme ad obiettivi quali formazione, divulgazione e prevenzione, rappresentano i cardini fondamentali attorno cui ruotano gli interessi scientifici e culturali di questa rampante Associazione.

 

IL TEMA DEL CONGRESSO – Quest’anno a Gallipoli, si parlerà di coppia con difficoltà d’integrazione a causa di ostacoli, talora congeniti altre volte acquisiti, che si frappongono nella dinamica di relazione. Barriere che grazie all’impegno multidisciplinare di professionisti al servizio della coppia possono essere opportunamente smussate o superate.

L’evento presenta carattere e rilevanza nazionale, con la presenza anche di ospiti internazionali, e si svolgerà dal 29 al 31 ottobre 2015 presso il Castello della Città di Gallipoli.

 

LA CERIMONIA INAUGURALE – Il pomeriggio del 29 ottobre sarà dedicato alla cerimonia inaugurale del Congresso, nell’ambito della quale si svolgerà anche la X edizione del “Premio Luigi Coppola – Città di Gallipoli”,

 

I Riconoscimenti di questa edizione:

PREMI ALLA CARRIERA

  • Prof. Maurizio Bossi, andrologo e sessuologo di Milano,  giornalista, autore  e divulgatore televisivo sui temi di sessuologia.
  • Prof. Luigi Cataldi, neonatologo e pediatra di Roma, di origini Gallipoline, fino al 2014 Professore di Pediatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Direttore della Unità Operativa Complessa di Pediatria del Policlinico Gemelli di Roma.
  • Prof. Achille Ianniruberto, ginecologo, primario dell’Ospedale di Terlizzi fino al 1998,  cui è riconosciuto il merito di aver introdotto per primo in Italia l’ecografia in campo ostetrico ginecologico, rivoluzionando la diagnostica prenatale.
  • Prof. Halim Kosova, ginecologo albanese, Direttore del reparto di Ostetricia dell’Ospedale di Tirana, Deputato del Parlamento albanese dal 2013 al 2015; Ministro della Sanità nel 2013, per il suo impegno nel rilancio di una ginecologia ed ostetricia moderna in Albania.
  • Prof.ssa Anna Rita Ravenna, psicologa e psicoterapeuta di Roma, con origini gallipoline, fondatrice e Direttrice dell’Istituto Gestalt di Firenze, per la sua attività pionieristica nel campo della psicoterapia sui temi dell’infertilità di coppia, dei disturbi dell’identità di genere e problematiche sociali di emarginazione.

 

  • PREMI PER LA RICERCA
  • Prof. Michele De Luca, Ordinario di Biochimica alla Università di Modena-Reggio Emilia, per le sue ricerche che lo hanno reso leader internazionale nel campo delle cellule staminali e alla loro applicazione clinica in Medicina Rigenerativa.
  • Prof. Atsumi Yoshida,  ginecologo giapponese, Direttore del Reproduction Center Kiba Park Clinic di Tokyo, uno dei maggiori esperti mondiali di alterazioni biologiche da stress ossidativo sulle cellule riproduttive.

 

  • PREMI PER LA SOLIDARIETA
  • Cav. Francesco Diomede, Presidente della FINCOPP – Federazione Italiana Incontinenti e Disfunzioni del Pavimento Pelvico, Associazione nazionale di volontariato che si prefigge l’aggregazione ed il reinserimento sociale dei cinque milioni di cittadini incontinenti, di cui il 60% sono donne.
  • Avv. Vincenzo Falabella, Presidente della FISH – Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, organizzazione ombrello cui aderiscono alcune tra le più rappresentative associazioni impegnate, a livello nazionale e locale, in politiche mirate all’inclusione sociale delle persone con differenti disabilità.
  • Sig.ra Anna Biallo, Vice Presidente Nazionale de L’ALTRA CICOGNA ONLUS, libera associazione per una maternità e paternità possibili, opera dal 1997 nell’ambito della Procreazione Medicalmente Assistita e dell’adozione fornendo supporto informativo e psicologico alle coppie che desiderano un figlio.  

IL PREMIO “LUIGI COPPOLA”

 

coppola

  • La manifestazione è stata istituita nel 1997 dalla famiglia del Prof. Luigi Coppola, illustre ginecologo di Gallipoli, cui si deve nell’immediato dopoguerra (1946) la creazione della Divisione di Ostetricia e Ginecologia presso il vecchio Ospedale della città, la prima nella regione Puglia ed una delle prime realtà ostetrico-ginecologiche ospedaliere italiane. Tale opera contribuì a ridurre drasticamente l’altissimo tasso di mortalità e morbilità materna e fetale dovuta al parto domiciliare che, all’epoca, incideva negativamente sul buon esito delle nascite.
  • Si segnala l’edizione di Gallipoli del 2004, durante la quale venne premiato il Prof. Francesco Schittulli di Bari, chirurgo e politico italiano, Presidente Nazionale della Lega Italiana per la Lotta ai Tumori. Importante fu l’edizione di Lecce del 2007, inserita nell’ambito del Congresso Nazionale della Società Italiana della Riproduzione, dove venne premiato il Prof. Silvio Garattini di Milano, direttore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”. Indimenticabile l’edizione di Padova del 2008, svolta con con il Patrocinio della Regione Veneto e sotto l’egida congiunta delle Città di Padova e delle Città di Gallipoli. Per l’occasione il Magnifico Rettore dell’Università di Padova concesse l’Aula Magna “Galileo Galilei” che sorge nello storico Palazzo del Bo. In quell’occasione il premio fu assegnato al Nobel Rita Levi-Montalcini.
  • Il Premio “Luigi Coppola – Città di Gallipoli” oggi viene assegnato a Medici e Ricercatori italiani ed internazionali, nonché ad Associazioni, che si sono distinti nel campo della Medicina e della Biologia non solo dal punto di vista scientifico ma anche sociale ed antropologico. La manifestazione è stata sempre caratterizzata da un elevato contenuto scientifico e culturale. Le varie edizioni, negli anni, si sono svolte come iniziative singole o inserite nel contesto di importanti manifestazioni a livello locale o nazionale. Nel suo peregrinare lungo la penisola, da Gallipoli a Padova, il comitato scientifico ha conferito 26 Premi (tra Premi alla Carriera, per la Ricerca e per la Solidarietà).
  • Fu fondatore e presidente della Società Pugliese di Ostetricia e Ginecologiae fondatore della Società Italiana di Psicoprofilassi Ostetrica. Nel 1948, assieme ai professori Fortunato Montuoro ed Emilio Giudici, presso l’ordine dei Medici di Genova, partecipò alla costituzione dell’AssociazioneOstetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI).
  • Nel 1976, al termine del suo trentennale mandato, la statistica operatoria dell’Ospedale di Gallipoli aveva raggiunto cifre da record per quegli anni. Sono documentati infatti circa 45.000 interventi di alta chirurgia ginecologica e oltre 3.000 tagli cesari. Quale riconoscimento per l’impegno profuso per la collettività, nel 1996, quando era ancora in vita, la ASL di Lecce e l’Amministrazione ospedaliera vollero intestargli l’attuale reparto di Ostetricia e Ginecologia del nuovo Ospedale di Gallipoli, di cui egli stesso pose la prima pietra nel 1971 e del quale partecipò alla progettazione secondo gli standard moderni.
  • Laureatosi a Napoli nel 1932, si specializzò all’Università di Roma sotto la guida dei Proff. Pestalozza e Gaifami. Dal 1940 fu Aiuto Universitario di ruolo presso la Scuola Ostetrica de L’Aquila, dipendente dall’Università di Roma. Nel 1946, tornato a Gallipoli, venne incaricato di organizzare e dirigere una Divisione di Ostetricia e Ginecologia presso il locale Ospedale. Qui riuscì a dedicarsi in modo pionieristico alla chirurgia oncologica femminile, alla prevenzione dei tumori e all’ostetricia; fu tra i primi ginecologi pugliesi a praticare il taglio cesareo. 

Breve storia del presunto Tiziano di Gallipoli

di Armando Polito

Il dipinto, riprodotto nell’immagine, cui si riferisce il titolo è una pala d’altare custodita, insieme con altre opere di gran pregio, nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Gallipoli. Essa raffigura il santo poverello in piedi sullo sfondo di un paesaggio marino (già m’immagino la corsa per identificarvi qualche dettaglio raffigurativo o liberamente interpretativo di Gallipoli …). Il santo reca nella sinistra il crocifisso, mentre la destra è posata sul costato e sembra additare una piaga alludente a quella del Cristo trafitto da un colpo di lancia. In alto tre angeli sorreggono ciascuno una corona. Su ognuna di esse è incisa una parola; sempre per chi guarda: sulla corona di sinistra PAUPERTAS, su quella di destra CARITAS; su quella apicale OBEDIENTIA . La povertà, la castità e l’obbedienza sono i cardini della regola francescana, ma non credo sia casuale la posizione di quest’ultima che concettualmente, a parer mio, racchiude in sé l’idea della fedeltà assoluta alle prime due virtù. E non è strano che lo dica un ribelle come me né contraddittorio dal momento che i valori da rispettare qui sono indiscutibili …

In basso, in dimensione ridotta che è in linea con la rappresentazione consueta della miseria umana rispetto alla santità, sono raffigurati un francescano ed un laico sulla cui posizione sociale elevata l’abbigliamento non lascia adito ad alcun dubbio.

Per quanto riguarda, invece, il Tiziano del titolo lascio la parola alle fonti che, da dilettante quale sono in questo campo, son riuscito a reperire. Superfluo dire che le citerò in ordine cronologico perché esso è, direi obbligatoriamente, il più adatto a rendere ragione del presunto del titolo. Scontato, poi, è il fatto che esse sono ben note agli studiosi; ma questo mio scritto è solo divulgativo, senza nessuna pretesa di scoprire l’acqua calda.

Bonaventura da Lama, Cronica de’ Minori Osservanti Riformati della provincia di S. Nicolò, Chiriatti, Lecce, 1723, parte II, p. 143 (http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABA1E002385&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU):

Bartolomeo Ravenna, Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836, pp. 361-362 (https://books.google.it/books?hl=it&id=fM8sAAAAYAAJ&q=francesco#v=onepage&q=disma&f=false):

Pietro Miasen, Gallipoli e suoi dintorni, Tipografia municipale, Gallipoli, 1870, p.p. 91-92 (https://books.google.it/books?id=zxSqUuJubD0C&printsec=frontcover&dq=gallipoli+e+suoi+dintorni&hl=it&sa=X&ei=xjFkVaegKqv4ywPwpYFI&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=gallipoli%20e%20suoi%20dintorni&f=false):

 

Debbo ora segnalare un sito interessantissimo perché costituisce il primo tentativo da me conosciuto di catalogo on line del nostro patrimonio latente (questo è il nome, indovinatissimo, del sito stesso):  http://www.patrimoniolatente.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=139&Itemid=135.

Nella scheda relativa al nostro dipinto (che il lettore potrà visionare integralmente al link segnalato) leggo che esso è attribuito a Giovanni Antonio De Sacchis (il Pordenone), è datato alla seconda metà del quarto decennio del secolo XVI ed è definito olio su tela. A parte quest’ultimo dettaglio che contrasta col tavola delle testimonianze precedenti, la scheda riporta anche una bibliografia recente che, credo, sia stata utilizzata nella sua compilazione. Purtroppo, trattandosi di testi che vanno dal 1988 al 2004, non mi è stato possibile controllarli.

Altrettanto interessante, poi, la scheda relativa (http://www.patrimoniolatente.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=212&Itemid=1) a quella che viene definita una modesta copia di anonimo (già attrinuita a G. D. Catalano) risalente a fine del XVI-inizi deL XVII secolo (senza i due personaggi in basso), olio su tela, custodito nella chiesa del convento francescano a Taviano (a destra nell’immagine comparativa che segue).

Tornando alla tavola di Gallipoli: l’attribuzione al Pordenone, il maggiore pittore friulano del Rinascimento, potrebbe essere stata indotta, oltre che da considerazioni stilistiche, proprio dal racconto tradizionale del mercante sorpreso dalla tempesta. Se è così, è legittimo supporre che non solo gli angeli ma anche le figure del donatario (il frate) e del donante (si direbbe un gentiluomo veneziano, quasi trasfigurazione shakespeariana del mercante) siano state aggiunte dopo?

Quasi mi pento di aver formulato questo dubbio rischiando, così, di fare concorrenza a Wikipedia (ancora lei! …) dove alla voce Chiesa di san Francesco (Gallipoli) (http://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_San_Francesco_d%27Assisi_%28Gallipoli%29) leggo:  L’interno, a tre navate, ospita dieci altari barocchi disposti lungo le pareti laterali. Tra le opere di gran pregio sono conservate: la tavola raffigurante San Francesco d’Assisi  “San Francesco d’Assisi con angeli e due donatori”, attribuita dalla tradizione a Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone, allievo di Tiziano[1]

La nota 1 rinvia a http://www.news-art.it/news/tiziano–lotto-e-paris-bordon-in-puglia.htm dove si legge … Tra le presenze in mostra spiccano in particolare due importanti opere di destinazione pubblica come la pala del Pordenone raffigurante San Francesco d’Assisi con angeli e due donatori (cat. 13), proveniente dalla chiesa di San Francesco in Gallipoli …

Sarebbe stato opportuno quantomeno ascrivere il numero indicante la nota a donatori e non a Tiziano, perché il Pordenone allievo di Tiziano è un’invenzione del redattore wikipediano (quel pediano mi ricorda i piedi …) della scheda forse mosso da un malinteso senso di campanilismo, insomma un compromesso tra quello regionale emergente dall’attribuzione a Tiziano di Bonaventura da Lama (s’ignora l’anno della nascita ma a p. 277 della seconda parte della sua opera si legge … Padre Basilio d’Altamura passò dall’Osservanza alla Riforma, conosciuto da me, mentre ero Novizzo in Gravina, l’anno 1666, molto cpntemplativo …) ribadita dal campanilismo, questa volta cittadino, del Ravenna e messa in dubbio da Miasen che non a caso era valtellinese …

Per concludere: un altro esempio dell’antico vizietto, universalmente praticato, di dare lustro, in modo quantomeno discutibile, alle memorie patrie.

 

Repressione del contrabbando nella Gallipoli del ‘700

Repressione del contrabbando nella Gallipoli del ‘700:

il caso delle galere della Sacra Religione di San Giovanni Gerosolimitano

di Antonio Faita

 

faita

Gallipoli vantava una lunga tradizione nel commercio oleario in terra d’Otranto. Dal XVII secolo, come ci tramanda il Vernole «non più era Gallipoli l’Emporio principale del Salento,  ma ormai  ne era l’unico Emporio, ed era uno dei più pingui Empori di tutte le Puglie: il suo nome, che prima echeggiava qua e là nel Mediterraneo, nel Seicento varcò gli stretti e richiamò nel porto gallipolino vascelli dai cui pennoni sventolavano le Bandiere Nazionali di tutto il mondo»[1].

Lo sviluppo di attività artigianali e lapresenza di una popolazione di passaggio, che importava beni di vario tipo venuti da lontano, (i pesci in sale o disseccati di Terranova, della Norvegia o dell’Inghilterra; le manifatture di Francia e Germania; i legnami di Trieste, Fiume e Venezia; i coloniali di Malta; le pietre da molino delle Isole Greche; i giunchi secchi delle isole Ionie e i tanti articoli e manifatture delle principali città)[2], migliorarono il benessere economico e la qualità della vita.

Nel Settecento, nel Regno di Napoli, i movimenti mercantili erano selezionati e spesso impediti dalla situazione negativa di una viabilità frammentaria, trovando uno sfogo soltanto parziale nell’organizzazione portuale e nei traffici marittimi, in quei litorali che assunsero man mano una precisa fisionomia di centri di importazione e di esportazione di prodotti.

Anzitutto va rilevato come il genere predominante nei traffici via mare, all’interno del Regno e non solo, fosse senza dubbio il frumento oltre all’olio, al vino e altre mercanzie che, da mercanti speculatori e compagnie commerciali di diverse nazionalità, venivano imbarcati per i porti del proprio paese e per quelli di altre nazioni. Infatti la maggior parte dei carichi di frumento e, in genere, di “grani” provenivano da Taranto, Crotone, Barletta, Manfredonia e Trani, senza trascurare anche l’apporto della costa settentrionale.

Se si tiene presente che sulla costa jonica erano attivissimi i porti di Taranto, Gallipoli e Crotone, rimane confermata in pieno l’impressione di una struttura distributiva fortemente concentrata nei traffici marittimi [3]. Grandi quantitativi di grano continuavano ad essere esportati dalla Puglia, dalla Sicilia, dalla Calabria, verso Napoli, Malta e Genova [4].

Dal porto di Gallipoli, specie tra il 1707 ed il 1722, partiva, per raggiungere i porti del Regno e quelli esteri, un gran numero di convogli di grano che, assieme agli orzi ed ai legumi, rappresentavano il genere che dava luogo ad una cospicua corrente di traffico ed inoltre ad una fonte di entrate notevoli, sia pure incostante, per il fisco regio, attraverso il pagamento dei diritti di tratta [5].

Rivestendo un ruolo cruciale per l’alimentazione e per il settore primario, il grano era oggetto di costanti attenzioni da parte delle autorità. Gli uffici annonari si occupavano di assicurare il pane e i generi alimentari di sussistenza alla popolazione, specialmente a quella delle città, per evitare sommosse e tumulti. I prezzi del grano rimasero piuttosto alti fino al 1700.

Ma il fatto decisivo, di carattere meteorologico, si verificò nel gennaio 1709. Una gelata del tutto eccezionale, arrivata all’improvviso, distrusse ogni speranza di salvare il raccolto. Subito si diffuse il panico. Quasi dappertutto i prezzi del grano raggiunsero o superarono le cifre record della primavera del 1694, e al rincaro seguirono inesorabilmente gli stessi disastrosi effetti. Perfino a corte si mangiava pane cattivo. Fino all’inizio dell’estate 1710 si visse col cuore sospeso. Pochi raccolti nella storia d’ogni paese hanno avuto tale importanza come quello dell’anno 1710 [6].

In questo scenario, diffusissimo era il contrabbando, sostenuto dalla solidarietà o addirittura dalla connivenza della Popolazione. Forme di commercio illegale, atti di banditismo e vari fenomeni criminosi si intrecciavano sempre più organicamente da connotare in maniera negativa non solo l’ordine pubblico, ma anche l’equilibrio delle forze sociali egemoni. Soprattutto nel ‘600 e nel primo ‘700 pezzi della feudalità regnicola e salentina si davano al contrabbando dei generi di prima necessità, lucrando profitti enormi, per mano di un banditismo endemico al servizio ora dell’una, ora dell’altra casata aristocratica, generando una sorta di guerra per bande che spinge l’autorità centrale ad intervenire militarmente con maggiore determinazione[7]. Anche a Gallipoli si tentò di punire chi violava le rigide prammatiche [8] nel commercio interno ed esterno. Non sfuggirono al controllo neanche numerosi ecclesiastici e patrizi che esercitavano e favorivano il contrabbando.

Uno di questi episodi viene riportato dallo studioso Federico Natali nel suo lavoro Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, in cui  racconta come nel dicembre del 1709, in piena guerra di successione spagnola, il regio Governatore Don Saverio Rocca, intervenne contro alcuni patrizi locali, inquisendo Silvio Zacheo, Marcello D’Elia e Maurizio Stasi, per aver fornito grano di contrabbando, alle galee della Sacra Religione di San Giovanni Gerosolimitano o meglio conosciuto come Ordine di Malta [9], sottraendolo all’Annona della città. Secondo Natali, dunque, fu il Governatore a infierire con persecuzioni contro quei cittadini che aiutarono i cavalieri di Malta, a tal punto da provocare le rimostranze del Gran Maestro Raimondo Perellos y Roccafull, a scrivere al vicerè di Napoli, il cardinale Vincenzo Grimani.

Ben diverso è il parere dello storico Ettore Vernole [10], facendo ricadere le colpe sul Castellano Don Emanuel Alveres y Valdes [11] che «infierì con persecuzioni e perquisizioni contro gli ospitali cittadini e il Sindaco ne fece rapporto al Gran Maestro dell’Ordine» [12].

Grazie all’apporto di due atti notarili, rogati dal notaio Carlo Megha di Gallipoli, datati 6 agosto 1710 e con l’attenta lettura di una copia di provvisione, ma che in realtà trattasi di una citazione del 24 luglio 1710, ci aiutano a capire come realmente si svolsero i fatti.

Nel primo documento abbiamo la testimonianza spontanea dei signori: «Donato Ferandeles, Francesco del’Acqua, Orontio Pugliese, Tomaso Bellone ed Angelo de Marco Caporali della Compagnia del Battiglione a piede di questa città» [13] i quali con giuramento, attestavano, dichiaravano e facevano fede «come nel passato Anno 1709, Sindicato del Signor Francesco Roccio, a tempo furono Le Galere della Squadra della Sacra Religione di Malta, furono chiamati da detto Signor Sindico che zelassero a non farsi commettere estortione  de grani».

Da questa prima ricostruzione si evince che fu il Sindaco a impartire gli ordini ai Caporali suddetti che si adoperassero a non farsi estorcere il grano dai “militum christi”. Inoltre, ordinò di vigilare rigorosamente e a fare la guardia «così di giorno come di Notte, tanto per dentro La Città rondando le moraglie, quanto per fori d’essa nelle capistrade per la Comunicatione de lochi Convicini a questa città». I Caporali, con i loro soldati eseguirono gli ordini perlustrando e facendo la guardia giorno e notte per tutto il tempo che le galee rimasero ormeggiate nel porto. Si divisero, alcuni dentro la città, altri nella strada di «Santo Leonardo» e altri ancora nella zona conosciuta come «Conella delle Rene», facendo in modo che si impedisse di condurre il grano per caricarlo alle dette galee. Per tale compito, i militari «vennero pagati a spese della Magnifica Università di questa Città e n’appariscono le ricevute de loro giornate».

Nel secondo documento, a testimonianza dei fatti accaduti, sono «Domenico de Pandis, e Tomaso Ruberto, Guardiani del Porto di questa predetta Città di Gallipoli» [14]. Essi attestarono e confermarono della presenza nel porto di Gallipoli, nell’anno 1709 delle «Galere della Sacra Religione di Malta» e, il Signor Sindaco Francesco Roccio, fece mettere «di custodia alla Porta di detta Città Marco Rosano e Nicolao Rontio Soldati del Regio Governatore della Città, con ordine che quelli non permettessero far uscire grani ed imbarcassero sopra le dette Galere». Di fatto, i suddetti soldati «assistirono nella Porta di detta Città esequendo con puntualità l’ordine di detto Signor Sindico a non far uscire grani». Per lo svolgimento di tale compito, i due militari vennero pagati dal «Signor Sindico».

Sulla base e a conferma di quanto detto sopra, interessante è invece l’atto di citazione del Tribunale della Sommaria, dal quale si evince non solo che ad accusare i tre cittadini, il Dott. Silvio Zacheo, il Dott. Marcello D’Elia, rispettivamente, già Sindaci negli anni 1699-1700 e 1703-1704,  Maurizio Stasi appaltatore, fu il Sindaco Francesco Roccio, ma emergono anche tanti altri particolari utili alla vicenda.

Intanto c’è da precisare che i fatti si svolsero nel mese di settembre e che le galee maltesi (triremi) erano cinque «Cum in mense septembris anni elap[si] pervenerint ad portum dictæ Civitatis Gallipolis quinque triremes dictæ Religionis Hyerosolimitanæ» [15]. La squadra delle galee maltesi [16], che molto spesso scortava i mercantili cristiani, cacciava le flotte musulmane durante la stagione della navigazione, che durava da aprile a ottobre di ogni anno, poiché l’Ordine era de jure e de facto in costante guerra con il mondo musulmano[17]. La stessa squadra, comandata dal commendatore Fra Ludovico Fleurigny, era stata protagonista sia nell’inseguimento di quattro Sultane e un Brigantino che stentavano una discesa sulle coste della Calabria [18], sia nella clamorosa vittoria nelle acque dello jonio attaccando congiuntamente ai vascelli comandati dal Cav. Giuseppe de Langon, la Capitana di Tripoli, incendiandola [19].

A seguito di questi eventi, il servizio di pattugliamento nel Mediterraneo, per scongiurare l’invasione turca, portò più volte le galee maltesi nelle acque del Golfo di Taranto.

Molta cura era riservata dal Capitano delle galee ai rifornimenti e alla conservazione del cibo durante gli estenuanti mesi di navigazione.La possibilità di approdare in paesi amici e imbarcare anche cibo fresco come frutta e verdura aveva completamente scongiurato tra i cavalieri e la ciurma malattie quali lo scorbuto molto diffuso all’epoca negli equipaggi delle navi. Oltre a cibi freschi, carne, pesce, olio, aceto, vino, zucchero, caciocavallo e frutta secca a bordo delle galee non poteva mancare il biscotto, sorta di galletta di grano consumata in notevole quantità per sfamare e dare energia all’equipaggio di ogni unità, in genere costituito da un numero di persone che oscillava dalle 360 alle 550 [20].

Per questo motivo, la squadra giunse a Gallipoli per rifornirsi di grano. Il Sacro Ordine, legava, con Gallipoli, un rapporto molto stretto sin dal 1523, quando i nostri antenati dimostrarono un atto di cordiale e fraterna ospitalità nei confronti dell’Ordine in un momento doloroso della loro storia, guadagnandosi la gratitudine del Gran Maestro Villiers [21].

A seguito di questo episodio si intrapresero scambi commerciali con Malta. Infatti, nella vicenda del 1709, i gallipolini «furon solleciti di assistenze e di onori di casa agli equipaggi» [22], i cui uomini, aggirandosi abitualmente tra i cittadini gallipolini si procuravano frumento acquistato di contrabbando, caricato e ammassato sopra le dette galee «homines quarum familiariter convers[os] Inter cives Gallipolitanos procurabant emptiones frumentorum (…) controbandi et incontrobannum super dictis triremibus»[23]. Qui l’intervento del Sindaco Roccio, il quale fece promulgare un “banno” giuntogli dal Vicerè, in cui si vietava la vendita di frumento da caricare sulle galee «nullus ex Civibus aut Advenis in dicta Civitate (…) frumentum vendidisset ad onerandum illud in dictis triremibus» [24]. Fu assegnato ai soldati «vulgaliter de Battiglione» la custodia della porta della Città per impedire il contrabbando di cereali in modo da evitare un rialzo dei prezzi, carestie e tumulti popolari. In quell’anno all’annona, il grano era venduto per dieci carlini e, nonostante ciò, gli uomini di dette galee lo pagarono al prezzo di tredici carlini per ogni tomolo «non obstante quia homines dictorum triremium solvebant frumentum predictum pretio terdecim carolenorum pro quolibet tumulo» [25].

Da molte persone furono venduti centinaia di tomoli e caricati sulle suddette galee e nello specifico «vendidit Marcellus d’Elia tumola centum quinquaginta, Silvius Zacheo tumola quinquaginta circiter et Mauritius Stasi centum vicinti circiter frumenti ad dicta rattionem Carolenorum terdecim proquolibet tumulo»[26] con le seguenti modalità: il grano, venduto da Marcello D’Elia nella sua casa, veniva messo in dei sacchi e con l’aiuto dei servi, caricato su una mula e trasportato presso la spiaggia del porto con ripetuti viaggi. Qui veniva consegnato agli uomini delle galee che, a loro volta lo travasavano in dei catini di creta, caricato su piccole imbarcazioni e trasbordato sulle suddette galee «Dictus Marcellus d’Elia asportando ea ad litus portus Civitatis repetitis vicibus super [quadam] eius mula quam sic oneratam a mancipiis ex gentibus dictorum  triremium conducere fuit cum dicto frumento vendito in sacchis (…) a sua domu venduto pro illo exstruendo estra Regnum in dictis triremibus et traiecto intus parvula liimbam vulgaliter schifo quæ manebat in litore predicta» [27].

Allo stesso modo fece anche Silvio Zacheo, il quale vendette una quantità di frumento, all’incirca tomola cinquanta, e con il suo servo, seguiva tutte le fasi di trasporto per tutto il tempo occorso «et eadem modo similiter estraere fecit dictus Silvius Zacheo quantitutem frumenti ab ipso praedictos homines empti et tempore trasportationis dicti frumenti ibat et redibat eam associando quidam eius famolus» [28].

gallipoli-fontana-alta-definizione

Quanto al frumento, venduto da Maurizio Stasi, uno degli appaltatori delle decime della città, veniva sottratto impropriamente e stipato nella sua casa, affittatagli da Tommaso Antonio Raimundo. In catini di creta veniva trasportato a bordo delle galee «et respectu frumenti venditi a Mauritis Stasi ut supra, prefatus Mauritius erat unus ex appaltatoribus decimarum dictæ Civitatis et idem collectum erat a supradictis decimis quod frumentum repositum reperiebatur in domo Tomæ Antonii Rahimundo locata dicto Mauriti Stasi illud cum limbis dictarum triremium venditum et asportatum fuit in eisdem etiam incontrobannum» [29].

Considerando la gravità dei fatti, i sopraddetti Marcello D’Elia, Silvio Zacheo e Maurizio Stasi, quali principali inquisiti di traffico di contrabbando di frumento ritennero opportuno rivolgersi al Gran Maestro dell’Ordine, Raimondo Perellos, scrivendo una lettera in data 29 ottobre 1709, sollecitandolo di intervenire in loro aiuto. Il Gran Maestro si attivò scrivendo al Vicerè, cardinale Vincenzo Grimani, informandolo dei fatti successi nei confronti delle sue galee e invitandolo a prendere qualsiasi provvedimento a far cessare  ogni procedimento nei confronti di quei cittadini e di far riconoscere la loro innocenza. Successivamente, in data 31 dicembre 1709, da Malta inviò una lettera indirizzata al Sindaco e agli eletti scrivendo quanto segue:

Spettabili Signori,

            Ha tardato à giungermi la lettera di Loro Signori delli 29 ottobre, dalla quale ho sentito con dispiacere che il Governo praticasse perquisitioni contro alcuni loro cittadini per l’assistenza d’alcune provisioni date alle mie Galere, mentre si sono trattenute scorrendo codesta costa. Per secondare le loro richieste hò scritto subito all’Emimo Signor Cardinale Vice Rè et ho data Commissione al Ricev.te della mia Religione, perché passi colla viva voce tutti l’Offici necessarj, ad effetto di far cessare ogni procedimento e spero, che si conseguirà dalla Giustizia di S. Em.za, quando non s’havessero ottenuto anche prima, perché fusse stata conosciuta la loro innocenza. Conchè stimando al maggior segno le riprove della loro amorevolezza, gl’auguro dal Cielo ogni bene.

            Malta, 31 Xbre 1709 Al piacere delle SS. VV, il Gran Maestro: Perellos»[30].

Nel frattempo, gli inquisiti furono portati davanti alla Regia Corte del Governatore e condannati in primo grado di giudizio. Ciò avveniva nonostante l’assenza del Governatore Don Saverio Rocca, che si era recato a Barcellona dal Re Carlo III per il nuovo incarico di Preside di Lecce [31] ed era ignaro dei fatti accaduti. La questione andò avanti per mesi senza mai attenuarsi, fino ad arrivare a essere sottoposta alla Regia Camera Abreviata di Napoli.

In data 24 luglio 1710, alla presenza di Don Cesare Michele Angelo D’Aquino D’Aragona Preside della Regia Camera Abreviata, , dei mastrodatti  Don Michele Vargas Macuccha e Eufebio Girardo e dell’attuario Gaetano Foglia, vista l’accusa nei confronti dei signori Marcello D’Elia, Silvio Zacheo e Maurizio Stasi e le pene in cui incorrevano, si decise di far recapitare nel termine di dieci giorni, la citazione con le pene stabilite dal diritto per tali casi «personaliter si ipsos personam reperiri contigerit sin autem domi eorum solitæ hoc citationis ad penam in talibus a iure statutam quatenus infra die  decem post presentium intimationem»[32]: di presentarsi entro un mese di tempo presso la Regia Camera Abreviata di Napoli e qui ricevere ciascuno di essi la copia dei capitoli della speciale inquisizione formata contro di loro stessi e, per mancata presenza, la Regia Camera Abreviata si riservava di far decidere al Re, circa ogni delitto e pena. Purtroppo, in assenza di  documentazione, non sappiamo in pratica fino a che punto si estese il processo e quali risvoltipratici ebbe successivamente. Una cosa è certa che il dottor Marcello D’Elia e il dottor Silvio Zacheo continuarono a comparire tra  i “Magnifici” dell’Università di Gallipoli fino al 1721.

gallipoli_2

 

[1] Cfr. E. Vernole,   Il Castello di Gallipoli, Tip. La Modernissima, Lecce 1933, p.236

[2] Cfr. P.  Maisen,  Gallipoli e suoi d’intorni, Tip. Municipale, Gallipoli, 1870, p.58

[3] Cfr. A. Faita,  Grano e corsari, in IL BARDO, Anno XVI, n.1, novembre 2006, p.2

[4] Cfr. G. Cirillo,  Alle origini di Minerva trionfante. Protoindustrie mediterranee: città e verlagssystem nel Regno di Napoli nell’età moderna, Pubblicazioni degli Archivi di Stato, Tip. Gutenberg, Fisciano (SA)2012, p.44

[5] Cfr. F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, Tomo I, Galatina, Ed Congedo 2007, p.321

[6] Cfr. J. Meuvret, La Francia dal 1688 al 1715,  trad. di Carlo Capra, capitolo X, in CAMBRIDGE UNIVERSITY PRESS, Storia del mondo moderno. L’ascesa della Gran Bretagna e della Russia 1688-1713, vol. VI, Ed. Garzanti, Milano 1972, p.384

[7]  Cfr. S. Muci, Note sul contrabbando sulle coste ioniche-salentine in età moderna (secc. XVII-XIX),in L’Idomeneo, Rivista della sezione di Lecce, Società di storia patria per la Puglia, Galatina, Ed. Panico 2004, p.180

[8] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi: Atti diversi, Fasc. 36 (6), c.183/v : «Regia Prammatica n.20 edita e pubblicata per ordine dell’Eccellentissimo Conte De Olivares già Vicerè sotto la data del 27 novembre 1597 nella quale fu ordinato che simili delinquenti, oltre che nelle pene corporali incorrono anche nell’altra pena dell’ammissione (sequestro) dei beni subito commesso il contrabbando, nonché nell’altra Regia Prammatica n. 50 edita e pubblicata per ordine dell’eccellentissimo signor Marchese De Los Vales già Vicerè sotto la data del 27 settembre 1679 che non solo conferma la sopradetta Regia Prammatica, ma ordina anche che tali conclusioni ricadono nella pena di morte naturale e contro simili delinquenti sia possibile procedere alla sentenza di fuorgiudica dal giorno della contrazione dell’ultima contumacia nel corso dell’anno»

[9] Cfr. F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, pp.325-326

[10] E. Vernole,  Il Castello di Gallipoli, p.258

[11] Ivi, il 24 novembre 1706, giunse in città Don Emanuel Alveres y Valdes, prendendo il comando del castello e rimpiazzando il vecchio Capitano di Artiglieria Don Domenico Perez che vi risiedeva sin dal 1691, p. 257; Ciò non trova riscontro nelle cronache manoscritte di Antonello Roccio, “Notizie memorabili dell’antichità della fedelissima città di Gallipoli. Con molte altre memorabili curiosità così antiche che come moderne” (1640) in BCG, dal quale si evince che nel 1660 venne come Castellano, all’età di 25 anni Don Giuseppe della Cueva. Dopo la sua morte,avvenuta nel 1705 (APSAG, Registro dei defunti 1702 – 1719: «Nell’Anno del Signore mille settecento e cinque à di venti due di Novembre Don Giuseppe della Cueva da Santa Maria del Porto in Spagna d’anni settanta sei in circa, e Castellano di questo Reggio Castello di Gallipoli nella Comunione della Santa Madre Chiesa rend’è l’anima à Dio, il corpo à di detto fù sepelito nella Chiesa di Sto Francesco d’Assisi, fù confessato da Fra Tommaso da Casalnuovo Riformato, fù comunicato da me D. Nicolò Lopez Parroco sostituto à dì deci otto di detto», c. 36), arrivò come Castellano Don Emanuel Alveres y Valdes, il quale nel 1709 fu deposto dal castello per via dei suoi rivali e sostituito da Don Francesco Duvalles arrivato a Gallipoli nel 1710. Nel frattempo (1709), Don Emanuel Alveres y Valdes si recò a Barcellona da sua Maestà Carlo III per reclamare e ottenne il Governo come Castellano di Gallipoli, mentre Don Francesco Duvalles, divenne Castellano in Brindisi, c.335;

[12] E. Vernole,  Il Castello di Gallipoli, p.258

[13] Cfr. ASLecce, Not. Carlo Megha, coll. 40/13, Protocollo, anno 1710, cc. 230/v-231/r

[14] Ivi, cc. 231/-231/v

[15] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi: Atti diversi, Fasc. 36 (6), c.183/r; e. pindinelli, L’Archivio delle scritture antiche dell’Università di Gallipoli, Alezio, Tip. Corsano 2003, pp. 222-223

[16]Cfr. F. Frasca  “Il potere marittimo in età moderna. Da Lepanto a Trafalgar”, Cromografica Roma per Gruppo editoriale l’Espresso, Roma 2009 : L’equipaggiamento delle galere maltesi era eccellente. L’Ordine iniziò le sue attività marittime con una squadra di tre galere, divenute otto nel 1685 per far fronte all’aumento delle necessità belliche contro i pirati barbaresci.  Alla fine del XVIII secolo, con l’inizio del declino dell’Impero ottomano, la squadra fu ridotta a cinque galere.  Il numero delle galere venne ridotto a quattro nel 1725, numero che rimase immutato fino al 1798. pp. 31-32

[17] Ivi, p.32

[18] Cfr. “Storia Universale dal principio del mondo sino al presente, scritta da una compagnia di letterati inglesi, Vol. XXXIII, Amsterdam 1789, p. 123

[19] Cfr. S. Bono, I corsari barbareschi, Ed. Eri, Torino 1964, p.123; e. rossi, Il sovrano militare dell’Ordine di Malta, Roma Libr. Romana 199?, p.40

[20] Cfr. O. V. Sapio, Presenza delle galere giovannite nel porto di Taranto in etá moderna, conferenza tenuta il 25 giugno 2007 presso il Castello Aragonese di Taranto promossa dal Gran Priorato di Napoli e Sicilia, p. 5

[21] Cfr. A. Roccio, Memorie di Gallipoli, (trascritto e annotato dal parroco D. Carlo Occhilupo), 1752, MS in BPLecce, c. 55/r: «Nel 1523 verso l’ultimi di Marzo fù nella Città di Gallipoli il Gran Maestro Frà Filippo di Vigliers Sedisladamo co tutti quei Cavalieri ch’avanzarono dal crudelissimo assedio di Rodi, dove essendo arrivato co dieci Vascelli da remo, fra quelli vi erano tre Galere fù co so modo honore ricevuto e di ogni cosa necessaria abbondantemente provisto, e perchè dimorò in Città da un mese in circa per ristorare quelli ch’erono sani, e per medicare gli infermi, che per la lunghezza del viaggio e per li molti patimenti sofferti nella sua armata, si trovavano curandone lasciati parte di quelli nella Città, partì poi per Messina, dove arrivò nell’ultimo d’Aprile»; b.ravenna, Memorie istoriche della Città di Gallipoli, Tip. Miranda, Napoli 1836, pp.279-280; E. Vernole,   Il Castello di Gallipoli, pp. 137-138

[22] E. Vernole,   Il Castello di Gallipoli, p.258

[23] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi, cc.183/r – 183/v

[24] ivi

[25] ivi

[26] ivi

[27] Ivi

[28] ivi

[29] ivi

[30] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi, c. 182/r; E. Vernole, Il Castello di Gallipoli, p. 258; e. Pindinelli, L’Archivio delle scritture antiche dell’Università di Gallipoli, p. 222;  F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli. Dai Normanni all’Unità d’Italia, p. 326

[31] Cfr. A. Roccio, Notizie memorabili dell’antichità della Fedelissima Città di Gallipoli, 1640, MS in BCGallipoli, c.365/v «D. Xaverio Rocca il quale non finì il Governo per andare a Barcellona alli piedi di Carlo 3 il venne per preside in Lecce» (D. Saverio Rocca prese possesso in Lecce il 21 marzo 1709, mentre la carica di Governatore di Gallipoli passò al fratello Francesco Rocca nel 1710)

[32] Cfr. aslecce, Scritture delle Università e Feudi, c.184/r

 

Un ringraziamento doveroso all’amico Daniele Librato, per la sua speciale e cordiale collaborazione.

 

 

Giovan Battista Crispo, l’illustre gallipolino che, secondo Wikipedia, avrebbe trovato e salvato a Napoli l’Arcadia del Sannazzaro (2/2)

di Armando Polito

Per evitare di essere accusato, questa volta totalmente a ragione, di voler guadagnare tempo passo subito al dunque e lo faccio nel modo più stringato possibile. Chissà se l’impaziente lettore-personaggio della puntata precedente sarà da tempo salpato verso altri lidi perdendosi lo spettacolo (!) della tempesta che sta per scatenarsi …

In http://it.wikipedia.org/wiki/Giovan_Battista_Crispo si legge, come ho ricordato nella prima puntata,  che il Crispo  è da ricordare anche in quanto trovò e salvò a Napoli l’Arcadia di Jacopo Sannazzaro.

Se l’italiano è un senso e se io non sono ancora rincoglionito totalmente, con queste parole s’intende affermare (e far capire) che, se noi oggi leggiamo l’Arcadia del Sannazzaro, lo dobbiamo a Giovan Battista Crispo.

Ma si è chiesto l’autore della scheda come poteva essere trovato e salvato un testo che era stato già pubblicato con l’approvazione dell’autore1  nel 1504 a Napoli per i tipi di Sigismondo Mayr, cioè quasi cinquanta anni prima che il Crispo nascesse? Che senso ha improvvisarsi compilatori di schede con in calce corposissime bibliografie (quando ho notato questo, e non solo in Wikipedia, il più delle volte son rimasto colpito in negativo dalla scarsa o, addirittura, assente originalità del lavoro; evidentemente parecchi cosiddetti autori intendono l’apparato bibliografico come un espediente per allungare la brodaglia e scommetto che di tutti i libri citati non ne hanno letto o, quantomeno, consultato col cervello acceso nemmeno mezzo), quando poi si incorre in bestialità del genere?

– Ammesso che le cose stiano come dici, mi pare, comunque che la tua vocazione sia quella di criticare e demolire. Non puoi, una volta tanto, fare una proposta costruttiva? -.

Sentivo già la nostalgia di questa voce e temevo di aver perso quello che forse era stato l’unico lettore della prima parte. Continuo, perciò, con rinnovato vigore e rispondo con quello che, spero, si continuerà a leggere .

Premetto che quando critico qualcosa non lo faccio a priori o, come più efficacemente diceva il grande Totò, a  prescindere. D’altra parte, la prova addotta, essendo di natura cronologica, non ammette repliche. Non sarebbe necessario aggiungere altro ma, per essere, come mi è stato chiesto, costruttivo, tenterò di capire (se fossi stato presuntuoso avrei detto di perdere il mio tempo …) da dove potrebbe esser nato il clamoroso errore. Lo farò con una sorta di albero genealogico, partendo dalla fonte più attendibile, cioè il Crispo stesso.

GIOVAN BATTISTA CRISPO

Vita di Giacopo Sannazzaro, op. cit. edizione 1593, s. p.

L’Arcadia di M. Jacobo Sanazzaro cavaliere napoletano colle antiche annotazioni di Tommaso Porcacchi, Francesco Sansovino e Giambatista Massarengo insieme colle Rime dell’Autore ed una farsa del medesimo non istampata altre volte. Aggiuntovi anche la vita dell’istesso scritta già da Giambatista Crispo, ed in questa edizione meglio supplita, corretta ed illustrata, s. n., Venezia, 1725, pp. XXIX-XXX (https://archive.org/stream/bub_gb_1Et7Un0VFGQC#page/n0/mode/2up)

Lascio giudicare a chi legge gli effetti di quel supplita, corretta ed illustrata (ma soprattutto supplita …) che ho sottolineato nel titolo. Il si conservano hoggi tutte sue composizioni latine, e scritte di sua propria mano … è diventato i libri del parto della Vergine e dell’Arcadia (per quanto si crede) scritti di proprio pugno dal Sannazzaro, con molti suoi acconciamenti, e varietà dagli stampari …

Per chi non lo sapesse l’Arcadia, a differenza de Il parto della Vergine (titolo originale De partu Virginis),  non è scritta in latino e, ad ogni modo, il secondo brano, quello che fa parte dell’edizione supplita …) allude ad una copia manoscritta contenente le varianti degli stampatori, il che significa che essa è quanto meno successiva alla prima edizione, clandestina, del 1502.

LUIGI BIANCHI, Un gallipolino biografo di Jacopo Sannazzaro, in Rinascenza Salentina, anno X, n. 1, s. n., 1942, p. 262 (http://www.culturaservizi.it/vrd/files/RS42_gallipolino_biografo.pdf)

 

WIKIPEDIA

… il Crispo  è da ricordare anche in quanto trovò e salvò a Napoli l’Arcadia di Jacopo Sannazzaro.

Caro ipotetico lettore curioso e bravo nell’esercitare il tuo spirito critico solo contro i rimbrotti altrui, non ti sento più;  sarai, però, proprio tu (ma forse eri il mio alter ego …) a dare nuovi sviluppi a quell’inquitante (al peggio non c’è mai fine) punto interrogativo?

_____________

1 Nel 1502 era uscita a Venezia un’edizione clandestina per i tipi di Bernardino da Vercelli, ma sentite come l’autore lo strapazzò giustamente in una lettera inviata a Marc’Antonio Michele (in Opere volgari dei M. Jacopo Sannazaro, Bortoli, Venezia, 1741, tomo I, p. 202; https://books.google.it/books?id=jFM0AAAAMAAJ&printsec=frontcover&dq=SANNAZARO+OPERE+VOLGARI&hl=it&sa=X&ei=eqpPVaXLFov4UpPegIgL&ved=0CCgQ6AEwAQ#v=onepage&q=MICHELE&f=false): Se [lo stampatore] lo ha fatto per farmi onore, io non ne lo ho pregato, né devea esso (poiché mi era tanto famigliare) farlo senza farmelo prima sapere; se per farmi dispetto lo ha fatto, potrebbe ben essere che qualche dì cadesse sopra la testa sua; se si scusa farlo per vivere, vada a zappare, o a guardar porci, come forse è più sua arte, che impacciarsi in cosa che non intende: se si è guidato con quella grossera astuzia mandar fuori li falsi, perché io faccia seguire gli altri, resta ingannato. Le cose mie non meritano uscire fuori, e questo non bisogna che altri mel dica, che Dio grazia il conosco io stesso.

Il periodo finale, oltre che attestazione di modestia, è di un’attualità estrema: quanti, me compreso, farebbero bene a pensarci almeno due volte prima di rendere pubbliche, con la stampa o con la rete, le loro scemenze!  

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/13/giovan-battista-crispo-lillustre-gallipolino-che-secondo-wikipedia-avrebbe-trovato-e-salvato-a-napoli-larcadia-del-sannazzaro-12/  

Giovan Battista Crispo, l’illustre gallipolino che, secondo Wikipedia, avrebbe trovato e salvato a Napoli l’Arcadia del Sannazzaro (1/2)

di Armando Polito

La biografia di Giovan Battista Crispo occupa il primo posto in Le vite de’ letterati salentini di Domenico De Angelis, Raillard, Napoli, 1713, seconda parte, pp. 43-56. Il lettore curioso troverà l’opera al link https://books.google.it/books?id=SHEOAAAAQAAJ&printsec=frontcover&dq=le+vite+de%27+letterati+salentini&hl=it&sa=X&ei=4U5OVY3VHMH2UPukgcAN&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=le%20vite%20de’%20letterati%20salentini&f=false

Le pagine indicate sono precedute dal ritratto, che di seguito riproduco,  del letterato gallipolino in un’incisione di anonimo.

A distanza di più di un secolo da quella del leccese un’altra biografia del Crispo, che nulla aggiunge alla precedente, fu scritta dal gallipolino Giovan Battista De Tomasi. Essa fu inserita nel tomo IV della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, Gervasi, Napoli, 1817 (lo stesso lettore di prima troverà il tomo in http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017073&teca=MagTeca+-+ICCU). Le pagine non sono numerate ma le biografie sono in ordine alfabetico; ad ogni buon conto riproduco la parte testuale che ci interessa insieme con l’immagine che, anche qui, la precede.

Il lettore noterà come questa incisione rechi la firma del Morghen. Quasi sicuramente si tratta di Raffaello (1758-1833), figlio di Filippo, incisore pure lui e discendente di una famiglia di incisori. Non mi pare il caso di soffermarsi sulla derivazione (e poteva essere altrimenti?) di questo ritratto dal precedente anonimo.

Volutamente, perché non contiene nulla di utile per il tema trattato, tralascio la biografia più antica, quella scritta dal gallipolino Stefano Catalano (1553-1620), pubblicata da Michele Tafuri in J. Baptistae Pollidori Frentani et Stephani Catalani Callipolitani opuscola nonnulla, Vesino, Napoli, 1793, pp. 79-100 (https://books.google.it/books?id=8f63xFDdBo0C&pg=PA86&lpg=PA86&dq=baptista+pollidori+frentani&source=bl&ots=k4VQyHeZKG&sig=pkz7CToI69Jln1cQ5SYEq6WCrRU&hl=it&sa=X&ei=HGZQVbraG8jjU4zBgcgI&ved=0CCEQ6AEwAA#v=onepage&q=baptista%20pollidori%20frentani&f=false).

 

Perseverando nel taglio, almeno fino ad ora, iconografico di queste note riproduco i frontespizi delle opere che del Crispo furono pubblicate, con in calce il solito link per il solito lettore portatore sano di voyeurismo, anzi, portatore di sano voyeurismo …

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE041864 (è stata digitalizzata, come si evince dal bollo sovrimpresso, la copia presente nella  biblioteca Pietro Siciliani di Galatina).

https://books.google.it/books?id=yRyQGqLaCs4C&printsec=frontcover&dq=de+ethnicis+philosophis&hl=it&sa=X&ei=lNdNVeeMIcHuUImegMgE&ved=0CC0Q6AEwAg#v=onepage&q=de%20ethnicis%20philosophis&f=false

https://books.google.it/books?id=yF4BwV_aJZUC&printsec=frontcover&dq=giovan+battista+crispo&hl=it&sa=X&ei=_NhNVYCTNofTU_LcgIAM&ved=0CCYQ6AEwAQ#v=onepage&q=giovan%20battista%20crispo&f=false (ristampata nel 1593 a Roma per i tipi di Zannetti e a Napoli per quelli di Scorigio; per Scorigio ancora nel 1633).

https://books.google.it/books?id=LRo8AAAAcAAJ&pg=PT8&dq=giovan+battista+crispo+due+orationi&hl=it&sa=X&ei=6NtNVbfeEoHfU7GVgbgC&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=giovan%20battista%20crispo%20due%20orationi&f=false

A questo punto qualche lettore non solo curioso ma anche impaziente sbotterà, forse a ragione: – Che il Crispo fosse famoso lo sapevo e mi pare che quanto fin qui hai riportato (leggi copia-incollato) lo confermi più che a sufficienza. Ma che fine ha fatto il riferimento iniziale a Wikipedia? –

Avrà pure ragione, ma, se vuole, deve seguire i miei tempi, altrimenti interrompa la lettura. Sembra un espediente per suscitare ulteriore curiosità. Sarà, ma non posso non ricordare che il poliedrico gallipolino1 fu anche cartografo. Ecco la sua mappa di Gallipoli, dal titolo La fedelissima città di Gallipoli, pubblicata nel 1591 da Nicola van Aelst.  Qui l’ho dovuta riprodurre per ovvi motivi in formato ridotto ma al link segnalato in calce può essere fruita in alta definizione.

https://www.raremaps.com/gallery/enlarge/23679

Comunque, siccome tra le tante gradazioni di curiosità esiste anche quella pigra, per il lettore pigramente curioso (direi proprio che è un ossimoro …) riproduco, leggibili, la didascalia e la dedica a Flaminio Caracciolo, che appaiono agli estremi in basso; volutamente trascuro (sennò addio Wikipedia …)  l’immagine del gallo ripresa, con la parafrasi del titolo della mappa, nello stemma cittadino ove, com’è noto, il motto è Fideliter excubat (Veglia con fedeltà), mentre qui è Nec animus fato minor (E il coraggio non è inferiore al destino).

– È tempo di passare a Wikipedia? -.

Non ancora. Approfitto della soddisfazione che certamente questa mappa avrà procurato per far notare come quella di Braun-Hogenberg pubblicata nel 1598 (già presentata in https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/03/gallipoli-in-otto-mappe-antiche/) ricalca sfacciatamente, pure nella didascalia, quella del Crispo.

– Va bene, è successa esattamente la stessa cosa già vista per i due ritratti; puoi passare, per favore, a Wikipedia? -.

D’accordo, ma prima debbo fare una comunicazione di servizio: tra le mappe di Gallipoli visibili in alta definizione partendo dall’ultimo link segnalato mancava proprio la più datata, cioè quella del Crispo, che all’epoca non ero riuscito a trovare nella definizione adeguata; ho già colmato la lacuna.

– Hai fatto pure la comunicazione di servizio; ora passa a Wikipedia! -.

Debbo prima far notare come il legame del Crispo con Gallipoli non traspare solo dalla mappa ma anche dal fatto che nei frontespizi che delle opere ho riprodotto c’è il riferimento alla città d’origine, fatta eccezione per le Due orationi, dove esso, forse per non dare impressione di parzialità, è sostituito dal titolo professore di filosofia.

E Gallipoli? Ha fatto il minimo, gli ha, cioè, intitolato una via che non so se per caso o consapevole volontà s’incrocia con un’altra intitolata a Giovan Battista De Tomasi, cioè al suo secondo biografo.

Per chiudere questa parte: incrociati non dalla vita ma dalla via.

– Ora che col tuo solito idiota gioco di parole hai esibito tutto il miserabile repertorio a tua disposizione, confrontati con Wikipedia! -.

Sì, ma dopo la pubblicità … scusate la perversione di ascendenza televisiva, volevo dire nella prossima puntata. Così lascio ammutolito l’impaziente lettore di prima, mentre in lui si è già fatto strada il sospetto che io voglia solo guadagnare tempo più che suscitare o, meno ancora, soddisfare curiosità …

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/05/15/giovan-battista-crispo-lillustre-gallipolino-che-secondo-wikipedia-avrebbe-trovato-e-salvato-a-napoli-larcadia-del-sannazzaro-22/

_______

1 Della sua produzione in versi restano solo componimenti pubblicati in questa o quella raccolta: una corona (cioè un insieme di componimenti, nel nostro caso sono otto, dello stesso tipo metrico e sullo stesso argomento) di sonetti è in In funere Sigismundi Augusti regis Poloniae, Napoli, Cacchio, 1576, cc. 89r-91v (http://babel.hathitrust.org/cgi/pt?id=ucm.5320231068;view=1up;seq=193). Un sonetto è in Rime et versi in lode della Illustrissima et Eccellentissima S. D. Giovanna Castriota Carrafa, Cacchi, Vico Equense, 1585, p.83 (https://books.google.it/books?id=abQXHUOkMowC&pg=PA141&dq=scipione+de+monti+rime+e+versi+in+lode&hl=it&sa=X&ei=uOJMVfCzL4P8UoDGgKAK&ved=0CCEQ6AEwAA#v=onepage&q=scipione%20de%20monti%20rime%20e%20versi%20in%20lode&f=false).

I tre Briganti di Gallipoli, ovvero buon sangue non mente (3/3)

di Armando Polito

La triade di cui mi sono occupato in questa serie si chiude con Domenico ed è come se tutta la trattazione avesse avuto un andamento circolare, con Tommaso prevalentemente giureconsulto, Filippo prevalentemente economista e Domenico, come il padre, prevalentemente giureconsulto. Seguirò lo stesso procedimento adottato per i suoi familiari. Inizio, perciò, dal ritratto (un’incisione di Carlo Biondi), cui seguirà la biografia a firma del gallipolino Giovanni Battista De Tommasi, tratti l’uno e l’altra dal tomo V della Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, i cui estremi bibliografici chi ne ha interesse troverà all’inizio della prima parte a suo tempo dedicata a Tommaso.

 

Preciso che la memoria in difesa del Ballarin fu pubblicata nel 1794 con il titolo Memoria da presentarsi alla Serenissima Repubblica Veneta, per lo naufragio de’ 27 novembre 1793. della nave di alto bordo detta la Sirena. Ne esistono solo due esemplari, custoditi uno nella Biblioteca pubblica arcivescovile Annibale De Leo di Brindisi e l’altro nella Biblioteca provinciale Nicola Bernardini di Lecce. Bartolomeo Ravenna in Memorie istoriche della città di Gallipoli, Miranda, Napoli, 1836 a p. 572 in nota scrive: … il vice ammiraglio Veneto, che dimorava nelle acque di Brindisi, scrisse una lettera lusinghiera a D. Domenico Briganti, per aver saputo così bene difendere un suddito della sua Repubblica. Questa lettera si conserva originalmente in famiglia.

A sigillo di questo ricordo non posso esimermi dal fare alcune riflessioni.  Furono senz’altro Filippo e Domenico due figli d’arte, ma, al di là di ogni probabile componente genetica (che raramente riesce ad esprimersi a livelli così alti …) credo che un ruolo determinante abbia avuto l’ambiente in cui vissero e l’educazione che ebbero, basata non solo sulla teoria ma anche sulla pratica, non solo sulle parole ma anche sui fatti, non tanto sulle prediche quanto sull’esempio. E mi piace in tal senso chiudere con le parole che di Tommaso si leggono nella prefazione della sua Pratica criminaleSi dovrebbero le cose ridurre alla sua prima istituzione, ed aversi cura, che nelle pubbliche accademie vi fossero professori dottissimi, e ben pagati, da’ quali per lo corso prescritto da’ sovrani, venisse la gioventù educata, ed ammaestrata nel modo conveniente, e giusto, per giungere alla vera scienza delle leggi, e dell’onesto; e che niuno potesse all’ufficio di giudice, o di avvocato pervenire, se non colui, che da un esame rigorosissimo sia riconosciuto veramente atto ad intendere le leggi romane, e del regno; ed insieme avere i principi propri della sola e vera giurisprudenza. Così forniti il giudice, e l’avvocato di dottrina, e probità di costumi, non farà quello decreti, e sentenze a capriccio, né questo volentieri imprenderà a difendere una causa ingiusta, un affare manifestamente doloso; sdegnerà di produrre vane e cavillose eccezioni, fatti mal digeriti, o non veri; refuterà di usare alcune maniere di trattare gli affari, perché meno proprie, e meno convenienti; e quanto maggiore sarà il numero degli uomini savi, ed onesti, più mancheranno quasi da se stesse le sconcezze, e gl’inconvenienti nel foro; perché infinite contese, o subito resteranno estinte, o si potranno con più facilità ridurre a concordia fra coloro, che intendono le leggi, ed il giusto, ed a questo sono inclinati, che fra coloro, che niente sapendo, ed avvezzi ad operare sconvenevolmente, o non s’intendono, o sono d’intoppo agli altri di mente chiara e ragionevole. 

Parole che calzano perfettamente, a distanza di più di ducentocinquanta anni, alla realtà odierna, con l’aggravante che i guasti del sistema, la cui stigmatizzazione in Tommaso si limita al potere giudiziario, hanno coinvolto, e da tempo, anche il potere legislativo e quello esecutivo, corrompendo e violentando i valori dell’autentica democrazia.

Per la prima parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/16/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-13/

Per la seconda parte: https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/19/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-23/

Gallipoli. Il santo, il tempio, il cavaliere

Ugo Lusignano

La storia di Ugo VII Lusignano

di Nicola Morrone

 

Tra i più significativi monumenti del territorio di Gallipoli vi è senza dubbio la chiesa di San Pietro dei Samari, ubicata nell’omonima contrada, poco distante dalla costa. Si tratta di un edificio risalente al sec. XII, attualmente di proprietà privata, e abbisognevole, invero, di un pronto intervento di restauro.

Lo abbiamo visitato nella Pasquetta scorsa, realizzando un vecchio sogno: la sua storia, documentata, è infatti di grandissimo fascino. Del monumento si è occupata di recente, con la consueta perizia, M. Stella Calò Mariani, la quale ne ha redatto una scheda pressochè esaustiva [Cfr. Gallipoli, San Pietro dei Samari. Il voto di un crociato, in “La Terrasanta e il crepuscolo della crociata” (Bari 2001), pp.44-54].

Al lettore, comunque, rammentiamo i più significativi dati relativi alla chiesa: si tratta di un edificio a navata unica absidata, coperta da due cupole in asse. Esso è stato realizzato nel 1148 dal cavaliere francese Ugo Lusignano, che ne ha finanziato la costruzione una volta sbarcato sulle coste di Gallipoli al rientro dalla (sfortunata) spedizione della seconda crociata in Terrasanta, da lui compiuta al seguito del re di Francia Luigi VII.

San Pietro dei Samari

La chiesa è ben nota ai gallipolini, ed è stata aperta al culto almeno fino al sec. XIX: per molto tempo, infatti, vi si è regolarmente celebrata la ricorrenza dei SS. Pietro e Paolo (29 giugno), in occasione della quale, nel largo antistante la cappella, si svolgeva anche una piccola fiera.

Approfondiremo, in questa sede, la figura di Ugo Lusignano, nobile francese a cui si deve la costruzione della chiesa, che con la edificazione della stessa ha voluto lasciare perenne testimonianza della sua devozione per l’Apostolo Pietro, anch’egli sbarcato, molto tempo prima, sulle coste di Gallipoli, come ricorda la tradizione.

Di Ugo VII Lusignano (1065 ca.-1151 ca.) restano scarne notizie biografiche e pochi, ma significativi documenti. Un sintetico ragguaglio biografico è contenuto nell’opera “Notices Historiques sur la Maison de Lusignan (Paris 1853), pp.14-15. Dalla lettura apprendiamo che Hugo VII, signore di Lusignan e conte della Marche, passò buona parte della sua vita a guerreggiare contro i signori vicini. Egli, citato sempre nelle carte come “il bruno”(per via del colore dei capelli) fu un individuo decisamente particolare: uomo turbolento, come altri nobili del suo tempo ebbe non di rado un atteggiamento vessatorio nei confronti dei coloni delle sue terre. Ma fu soprattutto infido nei confronti dell’autorità ecclesistica. Rispetto ad essa, egli fu benefattore, poichè fondò con il suo patrimonio l’abbazia cistercense di Bonnevaux, ma anche malfattore, poichè non esitò ad impadronirsi con la forza dei beni del priorato di San Pietro la Celle, ragion per cui fu scomunicato (1142) ,anche se poi fece ammenda (1144), finchè non decise di partire per la seconda crociata (1146). Elenchiamo di seguito, in ordine cronologico,le notizie riguardanti il nobile francese,da noi rintracciate attraverso una breve ricerca.

 

1110:

Alla morte del padre, Ugo VII diviene signore di Lusignano [Cfr.Chronique de Saint-Maixent, p.424]

 

1115 ca:

Con l’assenso di sua moglie Sarrazine, Ugo VII rinuncia a tutti i cattivi comportamenti di cui lui e suo padre si sono resi responsabili a Frontenay, nei confronti degli abitanti di Nouaille’ [Cfr.Chartes de l’Abbaye de Nouaille’(Poitiers 1936), pp.306-307]

 

1120:Ugo VII e sua moglie Sarrazine fondano il monastero benedettino cistercense di Bonnevaux, in Diocesi di Poitiers [Cfr. Gallia Christiana, tomo II (Paris 1820), Instrumenta, LIX]

 

1142:Ugo VII viene scomunicato per aver usurpato i beni della chiesa di San Pietro la Celle, presso Poitiers

 

1144:Ugo VII, “confidando nella misericordia divina”, chiede scusa per cio’ che ha sottratto ingiustamente alla chiesa di San Pietro la Celle . [Cfr. Documents Historiques Inedits tires de la Biblioteque Royale, tome II (Paris 1843), p.27, doc. XII].

 

1146:Ugo VII parte per la Seconda Crociata

 

1148:Ugo VII fa edificare, di ritorno dalla crociata, la cappella di San Pietro dai Samari presso Gallipoli.

 

A quest’appendice salentina della storia del nobile francese dedicheremo le nostre riflessioni conclusive. Siamo informati sulla costruzione della chiesa di Samari attraverso un’iscrizione, collocata sul fronte , il cui testo latino così traduciamo: ”Ugo Lusignano, condottiero dei crociati, reduce dalla Palestina, nell’anno del Signore 1148, promosse ed eresse dalle fondamenta questo tempio consacrato al Principe degli Apostoli, nel luogo in cui San Pietro, spinto dalla Samaria verso questi lidi, lasciò le sue impronte”.

Dalla lettura dell’iscrizione, dunque, si apprende che Ugo Lusignano volle edificare una chiesa dedicata a San Pietro nel luogo stesso in cui verosimilmente, molti secoli prima , era sbarcato l’Apostolo, lasciandovi le sue impronte (“vestigia”).

In altri termini, sbarcato in localita’ “Samari”, Ugo ebbe modo di osservare un’antica “memoria” del passaggio di San Pietro sul posto e decise di sostituirla con una costruzione monumentale, cioè la bella chiesa tuttora esistente. Di tutto ciò, volle poi tramandare il ricordo nell’iscrizione che corre sulla parte alta dell’avancorpo della chiesa, di epoca ottocentesca, ma che riprende alla lettera il testo dell’iscrizione originale, un tempo certamente conservata nella chiesa. Alla base della scelta del cavaliere crociato di costruire una chiesa dedicata a San Pietro, oltre alla tradizione gallipolina del passaggio dell’Apostolo, ci furono probabilmente altre due motivazioni.

In generale, Ugo proveniva da una terra in cui il culto per San Pietro era antichissimo: egli era signore di Lusignan, nei pressi di Poitiers, città in cui, oltre alla stessa Cattedrale, esistevano nel sec. XII varie chiese dedicate all’Apostolo. Esistevano inoltre, nei pressi di Poitiers, un monastero femminile dedicato al santo, e persino una contrada, denominata “San Pietro le chiese”.

Il culto dell’Apostolo nel Poitou era dunque particolarmente radicato. Inoltre, Ugo doveva sentirsi personalmente motivato alla costruzione della chiesa, poichè, con un gesto di prepotenza, egli aveva depredato la chiesa di San Pietro la Celle ed era perciò stato scomunicato. Pur essendo stato perdonato dal vescovo di Poitiers, il nobile doveva ancora sentirsi in obbligo verso il Santo, cui appunto era intitolata la chiesa francese da lui spogliata, e appena quattro anni dopo, sbarcato a Gallipoli, ebbe occasione di estinguere il debito, facendo erigere a proprie spese la cappella di San Pietro dei Samari. In seguito, fece rientro in Francia e, con ogni probabilità, non tornò più in Palestina, ne’ nel Salento, dove è ancora possibile contemplare la traccia imperitura del suo passaggio.

 

I tre Briganti di Gallipoli, ovvero buon sangue non mente (2/3)

di Armando Polito

Dopo Tommaso Briganti del quale ho parlato nella precedente puntata, è la volta di suo figlio Filippo. Come già fatto per il padre riproduco da Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli (questa volta, però, dal tomo II), il ritratto (incisione di Morghen)  e la biografia (a firma di Giuseppe Boccanera da Macerata).

Se Tommaso si era distinto come giurista, Filippo aveva fatto dell’economia l’oggetto privilegiato dei suoi studi, senza elucubrazioni teoriche ma con osservazioni oggettive e proposte pratiche. Lo spazio e il tempo tiranni mi costringono a riportare solo pochi e brevi brani della sua opera maggiore, Esame economico del sistema civile uscito a Napoli nel 1780 per i tipi della Stamperia Simoniana, un testo attualissimo e che, secondo me, sarebbe opportuno leggesse più d’uno degli strambi economisti dei nostri giorni1, e non solo lui …

I bisogni eccitati dalla fame, dalla sete, dal freddo, dal caldo, si riparano con facilità dalla beneficenza della natura e dalla vigilanza dell’uomo; ma i bisogni eccitati dalla vanità, dal fasto, dall’orgoglio, dall’ambizione, dalle passioni imperiose e dai vizj ragionati son voragini immense, capaci di assorbire tutti i beni della terra.

Se non è questa un’analisi lucida, spietata, definitiva dei guasti che il profitto ad ogni costo e il consumismo avrebbero di lì a poco provocato, dite voi cos’è.

L’antichità ebbe in pregio l’olio della Magna Grecia e commendò il prodotto di Turio (Ateneo, I deipnosofisti, libro II) come eccellente; ma soprattutto la penisola Salentina, per l’abbondanza e la squisitezza di questo genere, diede il nome (Plinio, Naturalis Historia, Libro V, capitolo V) ad una specie di ulivi non ignorata da’ Romani. Infatti par che la natura abbia destinato alla riproduzione degli ulivi le fertili colline della Japiggia, ove tutto ciò che rimane abbandonato alla spontanea vegetazione della terra, si vede ricoperto di olivastri, che innalzano le fruttifere chiome al par degli alberi più spaziosi: segno evidente che la forza produttrice del suolo non adotta, ma genera queste piante.  

Anche queste parole, purtroppo, appaiono profetiche e l’amare revisione del periodo finale, alla luce della calamità in corso e tenendo nel dovuto conto l’incertezza della sua eziologia, potrebbe suonare così:  … ove tutto ciò che rimane desolato dall’avvelenamento chimico della terra fa morire olivi, olivastri e non solo: segno evidente che la vilentata fertilità del suolo non solo non accetta altre forme di vita ma genera la morte di quelle che ci sono.

Quanta rabbia, poi, nel pensare ad un primato, si può dire, mondiale che proprio Gallipoli deteneva: La zappa ed il concime son le cause determinanti di quella perfezione, per cui l’olio della Japiggia ha il merito dell’incorruttibilità che mai non ebbe l’olio de’ Romani, qual non fu possibile conservar oltre lo spazio di un anno (Plinio, Naturalis historia, libro XV, capitolo III). E questo merito lo fa divenire prezioso e desiderato dalle nazioni Settentrionali, che giustamente attribuendo più valore alle derrate men domabili dalla corruzione, concorrono a gara a farne l’acquisto nell’emporio più ricco che abbia in tal genere la penisola Salentina.

Poteva immaginare Filippo che le nostre (vale come italiane, non esclusivamente salentine) derrate sarebbero diventate più domabili dalla corruzione proprio in virtù di una legislazione europea penalizzante con le sue disposizioni burocratiche a tratti ridicole, se non demenziali, contro cui ben poco hanno fatto e continuano a fare i nostri rappresentanti?

E che le sue non fossero solo teorie lo dimostra il fatto che quando nel 1763 era stato eletto sindaco in un periodo caratterizzato dalle lotte cittadine dei contrapposti interessi e, per giunta, dalla carestia, egli provvide, con la collaborazione del fratello Domenico che era stato eletto giudice, ad operare, in concorrenza con gli incettatori napoletani, tempestivi acquisti di grano e riduzione delle gabelle sulla farina a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti. E tre anni dopo l’amministrazione dell’ospedale cittadino, a lui assegnata, fu improntata alla repressione degli abusi delle gestioni precedenti e, soprattutto, alla cura degli infermi.

E ancora: nel 1771 indirizzò una Memoria  a Ferdinando IV per esporre al sovrano la necessità della collaborazione del governo centrale nella costruzione a Gallipoli di un porto adeguato dopo gli innumerevoli naufragi subiti dai mercantili e a tal fine proponeva di porre fine ai privilegi fiscali degli ecclesiastici e dei nobili proprietari di oliveti, di sottoporre ad  un’equa tassa i mercanti e di mettere a disposizione le somme inutilizzate dei luoghi pii.

A difesa, poi, della tonnara di Gallipoli, della quale si era già occupato quando era sindaco, tornò nel 1785 quando il conte di Conversano, duca di Nardò, ne aveva installata una propria su un tratto di costa attiguo a Gallipoli. Insomma, un assolutista illuminato, altro che il principe azzurro (residui del patto del Nazareno …?; ho scritto  Patto e non patto per paradossale rispetto al Nazareno, quello autentico) che annunzia a Washington di voler svegliare la bella addormentata nel bosco …! (http://www.corriere.it/esteri/15_aprile_16/renzi-genocidio-armeni-la-turchia-deve-rispettare-valori-comunita-ue-f10c7e02-e47f-11e4-868a-ccb3b14253dc.shtml). Ma non doveva prima portarci fuori dalla palude che, nel frattempo, ha assunto le sembianze e, purtroppo, gli effetti delle sabbie mobili?

http://www.rockol.it/testi/50753259/romina-falconi-un-attimo?refresh_ce (l’immagine di base è una tavola di Gustave Doré del 1867)

Poteva un uomo simile, mi riferisco a Filippo Briganti …, trascurare le lettere? E infatti, come ricordato dal suo biografo, non le trascurò; aggiungo e preciso che soprattutto negli ultimi decenni della sua vita coltivò intensamente a poesia e fu socio dell’accademia dell’Arcadia col nome arcadico di  Rosmenio Tiriense. Dalle pagine 56-95 (parte intitolata Frammenti poetici) di Miscellanea di Filippo Briganti Patrizio Gallipolitano preceduti dall’elogio storico del medesimo scritto da Giovanni Battista De Tommasi de’ conti Paladini di Gallipoli, Porcelli, Napoli, 1818 riproduco tre suoi sonetti in stretta attinenza con Gallipoli. Il primo è di carattere religioso (come molti altri della raccolta), gli altri due sono elogi funebri. Ad ogni testo in formato immagine dalla pubblicazione originale ho aggiunto in calce qualche link o a fronte qualche mia nota per il lettore, anche salentino, desideroso di approfondimenti.

Su Sant’Agata e Gallipoli:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/08/08/8-agosto-santagata-la-buona-e-gallipoli/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/02/05/5-febbraio-santagata-gallipoli-e-una-reliquia-della-martire-catanese/

g

CARLO MUZIO: giureconsulto gallipolino appartenente a nobile famiglia (di seguito il portale di Palazzo Muzio in cui nacque e visse per qualche tempo Carlo, a Gallipoli), fu presidente togato della Regia Camera della Sommaria, cioè di quel supremo tribunale  competente ad esaminare e a decidere nella cause feudali in cui  fossero coinvolti gli interessi del regio fisco.

Sebeto: nome del fiume che bagnava l’antica Napoli.

al ferètro:  (diastole per esigenza metrica)=nella bara.

Temide: o Temi, dea delle acque e della giustizia.

Timiami: incensi; la voce è dal latino tardo thymiama, che è trascrizione del greco ϑυμίαμα (leggi thiumìama), a sua volta da ϑυμιάω (leggi thiumiào)=profumare.

Partenope: nome della sirena sul cui luogo di sepoltura, secondo la leggenda, sorse Napoli.

la Patria: Gallipoli.

involarmi=sottrarmi.

alma=anima.

onta=dispetto (alla lettera: vergogna, offesa).

Gallipoli, portale di Palazzo Muzio. Da notare lo stemma: braccio con nella mano un pugnale e steso su un braciere ardente, allusione alla leggenda di Gaio Muzio Scevola). Di seguito lo stemma visibile nella parte denominata Palazzo piccolo.

GIOVANNI PRESTA (1720-1797): https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/26/un-grande-medico-al-servizio-degli-ulivi-secolari/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/09/27/giovanni-presta-ovvero-quando-eravamo-noi-a-chiedere-alleuropa/

Pallade: Pallade Atena (Minerva per i Romani) nell’assegnazione dell’Attica si aggiudicò la vittoria donando ai suoi abitanti l’olivo e battendo Poseidone che con un colpo di tridente aveva fatto venir fuori il cavallo.

dei Re le ricompense: allude al medaglione d’oro donatogli da  Caterina II di Russia, cui il Presta aveva dedicato la sua opera.

Il lettore avrà notato come nel primo sonetto sono totalmente assenti i riferimenti mitologici (o delle religioni pagane) presenti, invece, progressivamente, negli altri. Spiego il progressivamente: nel secondo sonetto dopo Sebeto (che in alcune monete del V secolo a. C. è rappresentato come una divinità fluviale), Temide e Partenope, Dio chiude il componimento; nel terzo unica protagonista mitologica è Pallade. Insomma un uso modulare di uno degli elementi caratterizzanti la poesia arcadica con la sua assenza nell’agiografia e la sua graduale, come s’è visto, ricomparsa nei due elogi funebri che valgono come sintetiche biografie.

Non posso in chiusura non ricordare cosa scrisse Henry Winsburne nella prefazione del suo Travels  in two Siciles, Esmsly, Londra, 1783:  I am particularly indebted to Monsignor Capecelatro, Archbishop of Taranto; Counsellor Monsignor Galiani; D. Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli; D. Pasquale Bassi; D. Domenico Cirillo; George Hart, Esquire; Padre Antonio Minasi of the order of St. Dominick; D. Domenico Minasi, Arciprète of Molocchio; and D. Giovanni Presta of Gallipoli (Io sono particolarmente grato a Monsignor Capecelatro, Arcivescovo di Taranto; Guida Monsignor Galiani; Don Filippo Briganti Patrizio di Gallipoli; D. Pasquale Bassi; D. Domenico Cirillo; George Hart,  accompagnatore; Padre Antonio Minasi dell’ordine di S. Domenico; D. Domenico Minasi, Arciprete di Molocchio; e D. Giovanni Presta di Gallipoli).

(CONTINUA)

Per la prima partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/16/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-13/

Per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/26/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-33/

____________

1 Per chiunque ne abbia interesse: http://books.google.it/books?id=2rMvAAAAYAAJ&printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q&f=false

I tre Briganti di Gallipoli, ovvero buon sangue non mente (1/3)

di Armando Polito

Prima di entrare in argomento la deformazione un tempo qualificabile come professionale, ora ex pure lei, mi induce, comunque, a fare una premessa a favore dei lettori più giovani, ai quali per fretta o superficialità può sfuggire  un’iniziale maiuscola o, peggio, a causa dell’ignoranza, è sconosciuta la sua differenza funzionale rispetto ad una minuscola. Non perdo tempo con questi ultimi che, pur non avendo capito il rimprovero potranno sempre invocare nel frattempo, in caso di loro errore nella scrittura, l’attenuante del tasto delle maiuscole bloccato … ma faranno bene a chiedere nel più breve tempo possibile lumi ai loro insegnanti nella speranza che questi non abbiano le batterie esaurite, anzi guaste …; dico ai primi che l’iniziale maiuscola di Briganti non è dovuta a nostalgia del vezzo spagnoleggiante in voga qualche secolo fa e che induceva a scrivere pure Cesso per cesso, né a particolare stima per una categoria del passato che certa storiografia non proprio imparziale ha liquidato troppo frettolosamente come delinquenziale. Briganti è il cognome di una famiglia di Gallipoli alla quale va a pennello il detto buon sangue non mente.

È, infatti, a tre suoi illustri rappresentanti che è dedicato questo lavoro, più esattamente compilazione di compilazione, in tre puntate, in cui è privilegiato l’aspetto iconografico. Insomma una raccolta di materiale che può tornare utile a chi volesse approfondire. Le immagini sono tratte tutte dalla Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, una raccolta di scritti di vari autori fatta da Domenico Martuscelli in 15 tomi pubblicati per i tipi di Nicola Gervasi a Napoli dal 1814 al 1830.  La biblioteca comunale Achille Vergari di Nardò li possiede tutti, meno il IX e il X. In rete sono tutti consultabili e scaricabili1 e ho notato con una punta di orgoglio la presenza proprio dei tredici esemplari neretini, come mostrano le immagini relative al tomo I.

1

 

Questa prima puntata prevede un incontro con Tommaso, le cui sembianze (incisione di Carlo Biondi) e biografia (a firma di Giovanni Battista De Tomasi di Gallipoli) sono riprodotte di seguito dal tomo IV della compilazione citata.

Traduco l’epigrafe funeraria: A Dio Ottimo Massimo/Oh come cadono le cose umane!/A Tommaso Fausto Briganti,/uomo esimio e patrizio,/figlio di Giulio Carlo Domenico e di Agnese Capano,/nel supremo senato napoletano/oratore facondissimo/esempio tra i maggiori nell’amore per la città,/uomo illustrissimo inflessibile per rettitudine,/acerrimo difensore dell’incolumità della patria,/della repubblica delle lettere/per l’arte della giurisprudenza e per varie riflessioni/benemerito,/per rispetto della religione, per delicatezza nei confronti dei poveri/insigne,/nel 74° anno di sua vita,/1762° dell’era volgare/preso da morte,/al padre dolcissimo/testimonianza di tristezza e di animo grato/presso le spoglie mortali/i figli posero.   

Nell’immagine che segue, tratta ed adattata da Google Maps, il palazzo Briganti nell’omonima via e il dettaglio della targa commemorativa.

IN QUESTA CASA

NACQUERO MORIRONO

TOMMASO E FILIPPO BRIGANTI

_______

IL MUNICIPIO RIVERENTE POSE

1878

SINDACO MICHELE PERRIN

 

Il Filippo dell’iscrizione è il primogenito dei sei figli che Tommaso ebbe (quattro maschi e due femmine). Tra loro si distinse particolarmente, oltre Filippo al quale sarà dedicata la seconda parte, Domenico, che sarà ricordato nella terza. Ernesto fu prima dignità del Capitolo di Gallipoli e poi vescovo di Ugento; Attanasio fu predicatore missionario. In ombra la vita delle due figlie, storia vecchia e nuova, nonostante il femminismo,  le leggi sulle quote rosa, sulle pari opportunità di genere e sul femminicidio, che io trovo, per certi aspetti che qui sarebbe fuori luogo e troppo lungo esporre, ridicole ed offensive per la stessa femminilità.

Chiudo questa prima parte col frontespizio della Pratica criminale nell’edizione del 1770.2

(Continua)

Per la seconda partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/19/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-23/

Per la terza partehttps://www.fondazioneterradotranto.it/2015/04/26/i-tre-briganti-di-gallipoli-ovvero-buon-sangue-non-mente-33/

_________

1

(tomo I) http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017072&teca=MagTeca+-+ICCU

(tomo II)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE005839&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo III)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE005840&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo IV)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017073&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo V)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017074&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo VI)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013126&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo VII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013127&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo VIII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013128&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo IX)

https://books.google.it/books?id=VpqRqzZ4v88C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ei=sZnoVNmWMcS6Ub2ygbAK&ved=0CEkQ6AEwBg#v=onepage&q&f=false 

(tomo X)

https://books.google.it/books?id=5uYiXBvMel0C&printsec=frontcover&dq=editions:nyGnSFQfGQMC&hl=it&sa=X&ei=sZnoVNmWMcS6Ub2ygbAK&ved=0CC4Q6AEwAg#v=onepage&q&f=false

(tomo XI)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ANAPE013215&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ASBLE017075&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XIII)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIEIE007434&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XIV)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIEIE007435&teca=MagTeca+-+ICCU 

(tomo XV)

http://iccu01e.caspur.it/ms/internetCulturale.php?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3AIEIE007436&teca=MagTeca+-+ICCU

 

2 Posseduto per il Salento dalla  Biblioteca Comunale Granafei a Mesagne e dalla Biblioteca Casa di Dante a Galatina, l’opera è integralmente consultabile e scaricabile da https://books.google.it/books?id=qkJgAAAAcAAJ&pg=PA1&dq=pratica+delle+corti+regie&hl=it&sa=X&ei=jbblVMKwOIv7UuWEgNgJ&ved=0CCAQ6AEwAA#v=onepage&q=pratica%20delle%20corti%20regie&f=false

Altro che agenda digitale!

di Armando Polito

Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,/chi ha dato, ha dato, ha dato…/scurdámmoce ‘o ppassato,/simmo ‘e Napule paisá! recita il ritornello della celebre tarantella di Fiorelli-Valente. Sono passati esattamente 70 anni da quando la canzone venne composta,  ben 167 dalla composizione dell’Inno di Mameli, inno che potrebbe essere più realisticamente surrogato dalla canzonetta napoletana dopo aver sostituto il Napule dell’ultimo verso (che poi corrisponde al titolo) con Italia. La sostituzione, però, non è agevole né corretta metricamente parlando ed è come se perfino la tanto malandata Napoli si rifiutasse di indossare le vesti di questa sgangherata penisola.

Così l’invito di lasciare da parte il passato e pensare al futuro suona beffardo e quasi una celebrazione musicale del noto principio gattopardesco, soprattutto alla luce di quel chi ha avuto, ha avuto, ha avuto,/chi ha dato, ha dato, ha dato, che per una sorta di maledizione sembra voler continuare ad estendere il passato prossimo nel presente e nel futuro.

E il futuro evoca ciò che già in altre nazioni, che abbiamo ancora l’incosciente spudoratezza di definire meno evolute di noi, è stato realizzato da tempo: la famigerata agenda digitale, nesso con cui la politica si sciacqua giornalmente la bocca sputando ovvie banalità che la maggior parte di noi, purtroppo, si precipita a bere, deprivata com’è pure della capacità di provare quel sentimento nobilissimo che si chiama schifo.

Si prospetta ancora una volta una valanga di parole, una montagna di progetti, uno sperpero di pubblico denaro (per la stesura di quei progetti e poi per la loro, si fa per dire, realizzazione) nella ripetizione di un copione giudicato fallimentare dagli stessi interessati, come chiunque può rendersi conto leggendo (arrivare fino in fondo e non spaccare il monitor costituisce un bonus pari alla metà di punti necessari per andare dritti dritti in Paradiso …) quanto è riportato al link http://documenti.camera.it/leg17/dossier/Testi/TR0146.htm.

Non mi meraviglierei, perciò, se si ripetesse quanto successo in passato, quando parecchi settori della pubblica amministrazione erano stati informatizzati con attrezzature avveniristiche costate almeno il doppio rispetto al prezzo di mercato ma col risultato brillante di non servire praticamente a nulla perché non in grado di dialogare tra loro per motivi legati all’hardware o al software (esilarante per quest’ultimo l’adozione di sistemi operativi diversi e incompatibili tra loro).

Più di una volta ho stigmatizzato in questo stesso sito  la nostra scandalosa arretratezza relativamente alla digitalizzazione e all’immissione in rete, per una fruizione totalmente gratuita, del nostro sterminato patrimonio culturale. Nel frattempo, mentre gli altri sono felicemente in azione già da decenni, non è successo nulla e debbo riconoscere di essere un povero ingenuo quando, pur avendo insegnato latino e greco, dimentico che agenda (gerundivo neutro plurale diventato, poi in italiano femminile singolare) in latino significa cose da fare e che acta, invece, significa cose fatte. Allora, fino a quando si parlerà di agenda e non di acta (o, con assimilazione, atta, neologismo che non brevetterò …) digitale, che cosa pretendo? Non conta niente, poi, che in JobsAct il secondo componente deriva dal latino actum, singolare del precedente acta? Siamo, perciò, sulla buona strada e la smettano pure i gufi e disfattisti di parlare, con riferimento a quello attuale, di governo degli annunci; cosa dire, allora, del precedente governo del fare (non del da fare …) per il quale l’agenda digitale era una delle priorità? Almeno questo è sincero, come sincero, rispetto all’esito finale, è stato chi ha progettato il MOSE in cui, come ho avuto occasione di dire (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/11/il-ponte-tra-otranto-e-apollonia-con-uno-sguardo-al-presente-e-purtroppo-anche-al-futuro/), S sta per sperimentale; con questi precedenti, per lui devastanti, solo un pessimista incorreggibile può sospettare che, in ossequio a questa nefasta (sempre secondo lui) sincerità, pure la banda larga diventerà un allargamento della banda dei soliti disonesti e, più o meno, noti.

Ora dovrei dire – Passiamo a cose più serie! -, come se queste non lo fossero …

Dopo aver ringraziato per analoghi lavori precedenti il sito della Biblioteca Nazionale di Francia, oggi intendo farlo con quello della Biblioteca Nazionale di Spagna e rendere partecipe il lettore che ne ha interesse di una vera e propria chicca, il Theatrum civitatum nec non admirandorum Neapolis et Siciliae regnorum pubblicato ad Amsterdam da Jean Blaeu, famoso cartografo olandese, nel 1663. L’opera è visibile e scaricabile in alta definizione al link http://bdh-rd.bne.es/viewer.vm?id=0000001517. Il file integrale in pdf è molto pesante (ben 518 MB) e per avviare l’operazione basta cliccare sul simbolo del dischetto in alto a sinistra e poi farsi con gli amici un giretto per tutti i bar della città o del paese.

Chi non ha amici o del bar odia pure la parola ma  dispone di un secondo pc può visionare, cliccando sulla relativa miniatura, la pagina (sempre in pdf) che desidera e poi salvarla. Quando la riaprirà con Acrobat reader potrà continuare ad avvalersi dello zoom e studiarne così agevolmente ogni dettaglio.

Riporto di seguito il frontespizio e le pagine relative alle mappe (tralascio per motivi di spazio il testo in latino che le accompagna; se a qualcuno interessa me lo faccia sapere e provvederò subito all’integrazione)  di Brindisi, Gallipoli e Nardò, gli unici centri di Terra d’Otranto che hanno avuto l’onore di trovare ospitalità nell’opera, a testimonianza dell’importanza che essi avevano all’epoca.  Cliccando sul link che compare in calce ad ogni mappa (qui per ovvi motivi in bassa definizione) il lettore accederà direttamente alla pagina nella definizione originale.

 

                                                                                     Brindisi

(il TARENTO della carta è un errore, per cui vedi https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/09/brindisi-e-il-suo-porto-cornuto/)

Gallipoli

Nardò

 

Gallipoli, 18 aprile 1948: una scrutatrice d’eccezione!

manifesto di propaganda elettorale tratto dal sito www.cronologia.leonardo.it

di Piero Barrecchia

1948– Da circa cento anni, un simulacro aveva preso possesso della devozione dei gallipolini. Da circa cento anni, confidenzialmente, quel popolo invocava, nel mese di maggio, “l’augustissima Regina dè Fiori” e si deliziava nell’elencare le più disparate specie florensi, in una nenia incessante, cingendo idealmente il capo, il seno, la chioma, le mani, i piedi e le vesti, della “bella Figlia di Gioacchino” e puntualmente, dopo aver posato quel fiore, sul posto recitato, non contento, quello stesso popolo diceva :“…ma il fiore a Te più grato è l’Ave Maria!”.

Così, all’infinito, dall’inizio!

Da quando il presule dell’epoca, Mons. La Scala, volle quel simulacro, di fattura romana, ispirato alla Madonna di Francia. Ma, se già i danteschi versi : “… qual vuol grazia ed a Te non ricorre sua disianza vuol volar senz’ali” anticiparono la potenza di Maria, non si conosceva, fino al 1948 la sua influenza politica. Quella statua, tra le navate della Cattedrale gallipolina, assisteva ogni giorno al via vai dei fedeli ed ascoltava dal popolo, oltre alle preghiere rivoltele, le considerazioni sulle imminenti elezioni, tra un’Ave Maria ed un’altra!

Quella statua fu anche testimone della preoccupazione di un Pastore, che non riusciva proprio a concepire la sostituzione del simbolo sturziano, con una falce ed un martello. Ci sarebbe stato questo rischio, da scongiurare a botta di preci, intronizzando anticipatamente quel magnifico simulacro, al quale il popolo si rivolgeva, concludendo le sue preghiere con la provvidenziale frase “… i fiori della campagna Ti salutano…”.

Ed a chi ci si poteva rivolgere, allora, se non a chi di campagna si intendeva? Certamente, la prece non precisava di qual tipo di campagna si trattasse e proprio l’imprecisione delle iniziali ispirazioni, non poteva escludere la Campagna elettorale!

il simuacro della Madonna dei Fiori nel Duomo di Gallipoli
il simuacro della Madonna dei Fiori nel Duomo di Gallipoli

Fu allora che la Regina della campagna (elettorale) non disdegnò di farsi presente, di confortare il preoccupato presule (all’epoca del fatto Mons. Nicola Margiotta) e di guardare, con pietà, quei poveri figli, combattuti tra il simbolo dello spirito e quello riportante arnesi di lavoro, contrastati sul come portare a casa quel necessario pane quotidiano.  E miracolo fu!

Gli occhi del simulacro si mossero, più volte, alla vigilia del 18 aprile 1948 e ne fu testimone tanta gente, mentre Togliatti, da Milano, si scagliava contro il vescovo di Gallipoli, che a suo dire, tra le litanie, inseriva gli elogi sull’onorevole Codacci-Pisanelli. Inutile soffermarmi sull’esito (scontato) tra divino ed umano.

Né entrerò nel merito del soprannaturale. Anzi, 66 anni dopo il primo sacro intervento, alla vigilia di nuove elezioni, in presenza di tanti fiori di Campo, apparendo la scelta più difficoltosa, sarebbe auspicabile un vero miracolo!!!

La Terra d’Otranto vista da un viaggiatore inglese del XVIII secolo forse troppo schizzinoso ma certamente un po’ ignorante (senti chi parla! …)

di Armando Polito

È noto che il fenomeno del Grand tour (viaggio culturale nell’Europa continentale fatto da chi poteva permetterselo), che iniziò dal XVII secolo per raggiungere il suo acme nel successivo e scemare progressivamente nel XIX,  aveva come tappa canonica, per lo più conclusiva, l’Italia. Di parecchi di questi viaggi abbiamo il resoconto in forma più o meno diaristica. Qui leggeremo di quello di Henry Swinburne alcuni stralci riguardanti la nostra terra, tratti da Travels in the Two Sicilies by Henry Swinburne in the Years 1777, 1778, and 1779, P. Esmsly, London, 1783, t. 1, passim, con la mia traduzione a fronte1.

Dal giudizio impietoso dell’inglese si salvano Gallipoli e Taranto (parzialmente, come vedremo, Brindisi), ma  solo per la loro importanza economica (tanto per cambiare …). In particolare: per  Gallipoli (pagg. 368-375) tutta l’attenzione viene dedicata alla produzione ed al commercio dell’olio e alla figura di Giovanni Presta e, delle quattro tavole relative alla Terra d’Otranto, due sono dedicate a Taranto (tra le pagine 226-227 e 334-335) e due a  Brindisi (tra le pagine 384-385 e 396-397).

 

E ora becchiamoci quanto segue!

OTRANTO,  pagg. 376-377

 

 

 

 

 

 

 

 

BRINDISI, pagg. 383-384

4

 

Meno male che il nostro viaggiatore si associa poi (non riporto il brano per brevità) al giudizio unanimemente più che positivo sul porto di questa città.

LECCE, pag. 380

 

 

 

 

 

 

 

 

 

pagg. 381-382

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Purtroppo non so leggere la musica e, a beneficio del volenteroso lettore che volesse aiutarci a conoscere sonoramente il motivo (basta che sia in grado di farlo; ce lo dica e io gli fornirò le istruzioni per rendere tutti partecipi del suo prezioso contributo), di seguito riproduco ingrandito lo spartito.

7

 

Come se non bastasse, bisogna dire che il giudizio poco lusinghiero di questo viaggiatore sull’architettura leccese, e non solo, non fu isolato. Esso sembra quasi la fotocopia leggermente edulcorata di uno precedente espresso qualche anno prima, questa volta da un tedesco, da Johann Hermann von Riedesel in Reise durch Sicilien und Grossgriechenland, Drell, Gesner, Füesslin und Comp., Zurigo, 1771, pagg. 226-230.

…….

Concludo sconsolatamente chiedendomi cosa scriverebbe oggi (forse l’ha già scritto e io non l’ho letto …) ancor più sfortunatamente per noi e di noi il turista straniero medio, fortunatamente più acculturato di quello appartenente al turismo pur elitario di cui abbiamo visto una testimonianza e giustamente scandalizzato dal livello di degrado, abbandono e ridicolo rispetto in cui versa il nostro patrimonio culturale.

In attesa che qualcosa succeda riconosco, con lo spartito ancora sotto gli occhi, di essere anch’io un po’ (?) ignorante, proprio  come il nostro viaggiatore inglese di oggi che avevo accusato della stessa colpa …

_______

1 Il volume originale e quello del tedesco di cui dirò dopo (dai due ho tratto tutte le immagini) sono leggibili e scaricabili, rispettivamente, da

https://archive.org/details/travelsintwosici01swin

http://www.e-rara.ch/doi/10.3931/e-rara-17761

 

Gallipoli, le cavallette e i gabbiani

di Armando Polito

immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208
immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208

Ciò che sto per documentare è un esempio ante litteram di lotta biologica e risale al XVI secolo. Antonio de Ferrariis alias Galateo (1444-1517) nel De situ Japygiae scritto tra il 1506 e il 1511 ma pubblicato postumo a Basilea per i tipi di Pietro Perna nel 1558 così ricorda una delle calamità che affliggevano la Terra d’Otranto ai suoi tempi: Gignit etiam regio bruchos; ii parum peninsulae fines trasgrediuntur. Peculiare huic regioni malum, animalia sunt, quae omnia solo tactu foedant, omnia devorant, omnia more hostium vastant: nihil qua transeunt virens, nihil intactum relinquunt. Videre saepe rustici suas messes, suos annuos labores pene maturos, ac falcibus vicinos, una qua ibi bruchi nocte castrametati sunt, atra ingluvie, et acutis dentibus corrosisse, et quandoque ab arboribus non abstinent. Vacavit Provincia hac peste multis annis, ope marinarum avium, quas Gainas appellant, quarum ova, aut pullos ne quis violaret, lege cautum est. Hae bruchorum foetus tamquam a Deo missae, rostris e terra excavant; deinde post aequinoctium vernum, quum e terra prodire incipiunt, devorant implumes, ut sic dicam, seu non dum alatos, deinde volantes depascuntur. Hoc contigisse Plinius ait incolis Casii montis, quibus praesidio erant Seleucides aves, locustis eorum fruges vastantibus. Nunc autem avium, quas diximus defectu (eorum enim foetus post bruchorum interitum vastare coeperunt) aut deorum ira aut aliqua ignota nobis iniuria bruchi rediere, et iterum felices Salentinos campus populari coeperunt.

Traduzione: La regione pure genera cavallette; esse quasi oltrepassano I confini della penisola. Flagello peculiare per questa regione, sono animali che recano rovinano tutto col solo contatto, divorano ogni cosa, ogni cosa distruggono secondo il costume dei nemici: per dove passano nulla nessun vegetale lasciano intatto. Spesso i contadini hanno constatato che i bruchi, laddove una sola notte avevano messo gli accampamenti, avevano divorato con l’atra bocca e con gli acuti denti le loro messi, le fatiche di un anno quasi mature e vicine alla falciatura; e talora non si tengono lontani neppure dagli alberi. Fu al riparo la provincia da questa peste per molti anni grazie agli uccelli marini che chiamano gabbiani, le cui uova o i piccoli perché nessuno toccasse ci si cautelò con una legge. Questi, quasi mandati da Dio, col becco estraggono dalla terra i feti delle cavallette; poi, dopo l’equinozio di primavera, quando cominciano ad uscire dalla terra, li divorano implumi, per così dire, o non ancora alati, poi li divorano pure quando sono in grado di volare. Plinio dice che ciò capitò agli abitanti del monte Casio ai quali erano di aiuto gli uccelli seleucidi [Seleucia era il nome di varie città dell’Asia] quando le locuste devastavano le loro messi. Ora invece per difetto degli uccelli di cui abbiamo parlato (infatti cominciarono a sterminare i loro piccoli dopo la morte delle cavallette) o per ira degli dei o per qualche offesa a noi sconosciuta le cavallette son tornate e hanno cominciato di nuovo a devastare i felici campi salentini.

Ho tradotto con cavalletta il bruchus dell’originale. Tale voce evoca subito l’italiano bruco, al quale ha dato origine. Ora qualcuno dirà che tra il bruco e una cavalletta c’è una bella differenza. Certo, ma il problema è che bruchus nel latino classico indica costantemente la cavalletta, in quello medioevale (anche nella variante brucus) sia il bruco che la cavalletta. Io ho privilegiato in traduzione la cavalletta sulla scorta di una delle testimonianze che seguono e, quando arriveremo, riprenderò il discorso.

E poco dopo, siamo sempre al Galateo, con riferimento particolare a Gallipoli: Longe ab urbe mille passibus insula est pari ambitu. Hic Gainarum avium, quas diximus, magnus proventus, et toti provinciae salutaris.

Traduzione: Lontano dalla città un miglio c’è un’isola di pari circonferenza. Qui grande è l’abbondanza di uccelli gabbiani, dei quali ho detto, e salutere per tutta la provincia.

Che il flagello fosse antico lo confermano alcune memorie anteriori rispetto al Galateo. La prima fa parte del Chronicon neritinum di un certo abate Stefano e risalente al XIV secolo, testo che, però, la critica quasi concordemente considera un falso settecentesco, uno dei numerosi attribuiti al Tafuri:

1220 Fora li grillli per omne loco di terra d’Otranto e fecero de lo grande danno, che se mangiariono li seminati.

1230 Foro tanti grilli, che se mangiaro omne cosa, che foe na compassione, et dicti grilli foro per tutto lo Reame, che lo imperadore mandao ordine, che omneuno dovisse andare pe ammazzareli. Ma non si fece nulla; et lo abbati de placare la ira de Dio ordenao se dovessi fare processioni di penitenzia, e s’incomenzao de la prima giovedì de pascha, et duraro fin’a la festa de la Pentecoste: et così se fece pure in omne anno pe liberare la cettate da sì brutti animali, che fanno mulcto danno e rovina.  

E, dopo questa testimonianza quanto meno dubbia, passo  ad altre più sicure. Nelle cronache di Antonello Coniger (seconda metà del XV secolo):

1468 Lo Imperatore Federico III venne da la Manghain Roma ad accomandato da Papa Paulu II. Foro in questo Rengho, et sinnanter in Terra d’Otranto tanti li Bruculi, che tutti li Grani, Legumi mangiavanu, et durò pe paricchi anni, et po pe voluntà de Dio sparera suli.

1478 … Foro tante de Campie grandi ad modo di Lucerte, che se mangiavano tutte le Vigne, che fo de besogno mittere gran quantità d’huomini cum forfici a farele talliare, altramente ghastavano tutto.

1506 … in questo anno vennero li Bruchi in Terra d’Otranto, et in Lecce li fero una scomunica, che poco danno fera. 

Nei Diarii di Lucio Cardami (XV secolo):

1458 Indictione sexta. A dì 20 Aprile vennero in omne terra d’Otranto tanti de brucoli, che fo no stopore, et se mangiaro omne seminato, vigneto, albori, et omne cosa, et pe tutto l’anno ci fo na penuria grande.

Nelle cronache appena citate i nefasti protagonisti hanno il nome di grilli, brùculi, campie, bruchi, brùcoli. Soffermo la mia attenzione su brùculi (di cui brùcoli è variante) e càmpie, tenendo conto, per comodità, del singolare. Brùculo suppone un *brùchulu(m) diminutivo di bruchus. Càmpia, che nel dialetto salentino indica sempre quello che in italiano intendiamo come bruco, coincide col neogreco κάμπια (leggi càmpia) che è dal greco classico κάμπη (leggi campe), entrambi col significato di bruco. Nel dialetto salentino la cavalletta è chiamata crucùddhu che è da un  precedente *brucullu(m) anch’esso diminutivo. come *brùchulu(m), di bruchus, attraverso il passaggio b->c– per influsso della seconda sillaba di *brucullu(m). Tenendo proprio conto della distinzione semantica tra càmpia e crucuddhu io propenderei ad attribuire, perciò a tutti i bruchus/bruco incontrati, compreso quello del Galateo che avevo lasciato sospeso, il significato di cavalletta, anche perché l’attributo di volante più volte ricorrente mal si adatterebbe al bruco propriamente detto.

Bruchi o cavallette che siano, che il problema fosse particolarmente grave anche in tempi successivi a quello del Galateo lo dimostra la Prammatica prima De Bruchis emanata l’8 ottobre 1562 dal Vicerè Duca d’Alcalà D. Perafante de Ribera, il cui testo riporto di seguito (in parentesi quadre le mie note esplicative) da Blasio Altimaro, Pragmaticae, edicta, decreta, regiaeque sanctiones Regni Neapolitani, Raillard, Napoli, 1682, v. I, pagg. 217-218: DE BRUCHIS  Titulus XXIII Pragmatica prima. Havendo Noi havuta relatione, che i Bruchi, che l’anno passato furono in Puglia, e nell’altre Provincie fecero gran danno a’ seminati, e che se non vi si rimedia per tempo ad estirparli, nell’anno prossimo da venire, saranno per multiplicare in un numero infinito, e fare un danno eccessivo, e tale, che non sia inteso mai il simile, e sarà per consumare, e rovinare tutti i seminati, che si faranno, e causare una gran penuria, e fame; al che volendo Noi per tutti i modi, e vie possibili rimediare, per loro estirpatione, per evitare sì intollerabile danno, ci è parso con deliberatione, voto e parere del Regio Collateral Conseglio, appresso di noi assistente, far l’infrascritte provisioni, et ordini videlicet.

1 In primis, atteso, che sogliono questi animali a tempo, ch’hanno da morire, che comunemente è nella stagione di Giugno, cercano un luogo duro e arido, dove ponendosi, et essendo loro nato un vermicciuolo nelle parti posteriori, cavano con quello, e tanto battono, che bucano quel terreno, e dentro quelli buchi fanno le lor’ova, e dalla natura si formano certe vainelle [diminutivo di guaina, che è dal fr. ant. guaine, a sua volta dal latino vagina] o cannoli, grossi poco più d’un deto picciolo, e longhi più d’un mezzo palmo, dentro le quali vainelle si conservano quell’ova poste dalla natura strettissimamente, et in tanta quantità, che con gran difficoltà si potrebbero numerare. Per questo noi ordiniamo, e così espressamente comandiamo, che l’Università delle Città, Terre, e luoghi mandino esploratori et huomini pratici per gli loro Territorii, i quali truoveranno i luoghi, dove sono andati a fare le ova, il che è facile a truovare, essendo solito di Massari conservare diligentemente i luoghi, dove sogliono sementare; e trovati detti luoghi, ordinare, che al tempo, che sarà nei mesi di Settembre, et Ottobre, poi d’haver piovuto alquanto s’arino con diligenza quei luoghi, dove stanno; poiche con l’aratro si facciano quelle vainelle, donde stanno, et escono sopra la terra, e che dopo l’acqua le venga ad infracidare, di tal maniera, che non habbiano più effetto, né possano nascere.

2 Praeterea, vogliamo, e così ordiniamo, che l’Università delle Città.Terre e luoghi debbano far raccorre nel loro territorio, dove si truoveranno questi animali, videlicet: Per ciascuno fuoco un quarto di tumolo, e quelli ciascuna sera presentare a Capitani, et Eletti delle Terre, i quali debbano farli mettere dentro de i fossi, et ivi consumargli, e triturarli, con bruciargli, e dove vi fosse acqua corrente, o mare, buttarli nell’acqua, dove putrefatti non daranno più noia; e questo debba durare per alcuni dì, e tanti, quanti parerà a detti Ufficiali, accioche totalmente s’estirpino

3 Di più vogliamo, e così espressamente comandiamo, che al tempo, che cominciano a nascere, e saltare questi velenosi animali, i padroni de’ seminati da quella parte delle terre salde, dove si sogliono porre al mangiare herba, facciano un fosso, convenientemente grande; et essendo la natura loro di andare sempre al fresco, come sentiranno un poco di caldo, s’andranno a porre dentro di quel fosso, dove essendovi entrati, si debbano ricoprire della terra cavata dal fosso, la qual terra, , quando si caverà, s’ha da porre su la sponda, et orlo de’ seminati, e lasciare piana e libera la parte dove quelli stanno, e da dove hanno da entrare nel fosso, perche truovandosi alcuno impedimento di terra, o d’altra cosa, non correrieno al fosso: atteso, che non possono volare tanto in quel tempo; per questo s’ha d’avvertire, che la parte, d’onde hanno da entrare nel fosso, resti piana, e libera. Et ancora vogliamo, e così espressamente ordiniamo, e comandiamo, che al tempo, che saranno nati questi animali, che è verso l’Aprile, poco più, o meno, tutti coloro, che tengono porci, debbano fargli andare a mangiare i Bruchi, atteso, che detti porci gli appetiscono, e tanto, che li cercano, e cavano fin da sotto terra; e li truovano dovunque stanno. Et oltre ciò ordiniamo, e così expresse comandiamo, che tutti i Massari a’ tempi congrui, e debbiti, debbano spandere un lenzuolo, o ragana (che dicono) in terra, e là gittar’alcuno di questi Bruchi, dove vedendoli gli altri, si vengono a porre dentro al lenzuolo, o ragana, e così li debbano pigliare, poi piegare detto lenzuolo, et adunarvi dentro tutti quelli, che vi sono, e di tal sorte, stirpargli. Et acciòche le sopradette provisioni s’habbiano da osservare, et eseguire, per convenire, così al servitio di S. M., e beneficio universale de’ suoi sudditi, ci è parso darne carico a Voi, per esser dell’importanza, che sono; e perciò vi diciamo, et ordiniamo, che dobbiate al presente farla pubblicare per tutte le Città, Terre, e luoghi di coteste a voi decrete Provincie, con dar ordine a’ Sindaci, Eletti, Università, Huomini, e Massari di quelle, che debbano con ogni esattissima diligenza, e sollecitudine attendere ad eseguire quanto di sopra si contiene, con imponer pena di ducati mille, et altra maggiore, a nostro arbitrio riservata, a quelli, che contravverranno, e voi tenerete particolar pensiero, che ne i tempi congrui, e debbiti s’osservino, et eseguiscano i detti nostri Ordini, e Provisioni, e contro de’ trasgressori eseguirete, e farete eseguire per le sudette pene irremissibilmente; tenendoci avvisati di passo in passo di quanto occorrerà, non fando il contrario per quanto s’ha cara la gratia, e servitio della Prefata Maestà. Datum Neap. Die 8 Octob. 1562. D. Perafan. Vidit Albertinus Reg. Vidit Villanus Reg. Vidit Reverterius Reg. Vidit Patign. Reg. Soto Secret. Dirigitur Gubernatori Principatus Citra.      

Il fenomeno, comunque, era così eclatante e l’opera dei gabbiani così preziosi da restare immortalati nella mappa Apulia, quae olim Iapygia, nova corographia di Giacomo Gastaldi uscita nel 1595, che in basso riproduco dal sito della Biblioteca Nazionale di Francia.

 

In dettaglio:

Gallipoli. Tra i deserti del carparo, la “Mater Gratiae” di Daliano

                             L'affresco di Mater Gratiae                                                                                                                                           di di Piero Barrecchia

 

Esiste un luogo sacro, tra Gallipoli ed Alezio, da tempo immemorabile. Fino a qualche decennio addietro l’edificio era preannunciato da un maestoso Osanna, sormontato da una croce, al quale, defilato sulla destra, faceva compagnia un pozzo con paraste semplici, doppia coppia di colonne quadrate ed un arco a tutto sesto. L’invito all’edificio sacro, nelle sue semplici modanature, è interrotto da quell’unica nicchia che incorona l’ingresso principale, contenente una Madonna in pietra, monocromatica, di quel colore dell’alba che connota la pietra leccese, assisa su un tronetto biondo di carparo, di quel carparo estratto dalle vicine cave. Chiaro omaggio del luogo alla Vergine da cui prende il nome  “matercrazia”.

E’ un luogo di equilibrio tra la vita cittadina ed il riposo dello spirito. Lo fa intendere anche la sua posizione. In mediazione, tra i baratri delle “Tajate” e la rassicurante pianura su cui sorge da secoli. Luogo sacro,  prima inviolato, poi dimenticato e defraudato, infine recuperato.

In equilibrio, tra un passato troppo remoto, evanescente ed incerto ed un presente costellato da atti di donazione di opere, culto, fede e fatica. Equilibrio tra cripte oscure portate nell’intimo e santuari innalzati, spontanei, ispirati dall’affresco, bizantino, sulla parete di fondo, la “Mater Gratiae”.

Alla visione si può accedere dalle tre porte, segno evidente di una struttura importante. E’ facile intravedere tra le crepe della galatea calce un avanzo d’affresco, cosa che fa presuppore ad un intero ciclo pittorico che svela il suo apice nell’affresco centrale della Vergine con Bambino, fino ad innalzarsi oltre il mediano cornicione, sulla parete di fondo, che imprigiona un paradiso di Santi ossidati, ove solo la Trinità resiste nelle sue cromie.

Il tutto risulta equilibrato da scansione di archi ciechi, a tutto sesto, che convogliano le loro forze ritmate verso l’arco centrale sovrastante il presbiterio. Tutto è armonico, tra l’alternanza dei chiaro-scuro delle finestre, delle quali una funge da ingresso centrale alla luce ed irrompe sul prospetto principale. Tutto è unanime, persino gli ornamenti scolpiti del soffitto ed i cornicioni perimetrali, nel condurti a quello sguardo materno, con, sulle ginocchia, un Figlio benedicente, colorato da tempere tenui e da ricordi svaniti di pennellate staccate, non più recuperabili. Tutto risulta sobrio, ma non povero, armonico eppur barocco. Persino le memorie conducono a quell’unico affresco che ha attraversato i secoli e le strutture, rimanendo sempre e comunque, l’unico superstite.

Da ”Assunta dei Basiliani” a “Sancta Maria de Balneo”, da “Madonna Adigria o Odigria” a “S.Maria di Costantinopoli”, fino a “Santa Maria delle Grazie o di Daliano” all’attuale “Mater Gratiae”, dal periodo bizantino fino all’era contemporanea.

L’interno era ornato da due statue lignee di S.Lazzaro e S.Domenico, riposte nelle due nicchie laterali del presbiterio. Vi erano due dipinti rappresentanti S.Francesco e S.Andrea, che affiancavano l’affresco principale della Vergine, racchiuso in una lignea cornice, attualmente in restauro. Inoltre, impreziosivano l’interno, due tele, di notevole dimensione, sfondo alle due arcate adiacenti la zona presbiterale e rappresentanti l’una la “Presentazione della Vergine al Tempio” e l’altra la “Nascita del Redentore”. Memoria antica e storia gloriosa, si confondono con i vaghi ricordi.

Il tempo che ha consunto le opere e mani sacrileghe che hanno trafugato sculture e dipinti, non hanno potuto nulla per asportare una devozione mai interrotta e sempre viva. Nulla rimane degli antichi e preziosi omaggi a quella Madre che, per fortuna, da secoli, è riuscita a trattenere sulle sue ginocchia quel Figlio benedicente. L’amore spontaneo verso tale luogo ha, comunque sia, contribuito a restituire alla memoria collettiva l’importanza e la sacralità del sito.

Da ormai un decennio il culto è stato ripristinato ed anche l’aspetto del sito si è arricchito di recenti donazioni spontanee, tutte di fattura locale. All’esterno, nella nicchia sovrastante l’ingresso principale, è stata ricollocata una recente statua della Vergine.

Restituita l’Osanna, ai cui piedi campeggia una croce ferrea con i simboli della passione. Arricchito lo spazio esterno con un altare in carparo sovrastato da un crocifisso in pietra. Circondano l’opera le panche in cemento ed una via crucis in terracotta e carparo. Completano il decoro esterno un recinto ligneo che custodisce il simulacro di S.Pio da Pietralcina ed un basamento, in carparo, sovrastato dalla statua del Beato Giovanni Paolo II, figure moderne di spiritualità, festeggiate nelle loro rispettive memorie liturgiche.

La chiesa è aperta ogni sabato per le funzioni religiose e l’inglobato edificio monastico è  annualmente scenario di un suggestivo presepe vivente, oltre che della spettacolare accensione della “focaredda” in onore di S.Antonio Abate.

Prospetto principale della Chiesa
particolare del prospetto principale della chiesa

L’ingresso.  

L’ingresso al luogo di culto è stato arricchito da una bussola lignea. All’interno dell’aula liturgica sono stati collocati due confessionali ed una nicchia, lignea, finemente lavorata, proveniente dalla gallipolina chiesa di S.Francesco d’Assisi, che custodisce la statua, in cartapesta, della Madonna delle Grazie, dono della famiglia dei Cavamonti ed oggetto di venerazione nel terzo lunedì di Ottobre. Rifatte, in pietra locale, le acquasantiere che adornano i pilastri d’ingresso. Restaurato e riportato all’antico fascino l’affresco bizantino di “Mater Gratiae”, che negli ultimi anni del 1900 era stato picchettato e ridipinto. Le panche lignee sono un dono aletino. In restauro la fastosa cornice che circondava l’affresco. Una novella nicchia ospitante un bel simulacro di S.Antonio da Padova. All’interno dell’unica navata è appesa, sulla destra del centrale ingresso, una stampa oleografica del secolo scorso, rappresentante la Deposizione. Una nicchia lignea racchiude una statua del Cristo Risorto.

particolare dell'affresco absidale
particolare dell’affresco absidale

I pilastri sono scanditi da una moderna via crucis in gesso alabastrino, montata su supporti lignei. Le due porte laterali sono sovrastate da due dipinti, eseguiti e donati nel 2012, che hanno voluto restituire la memoria storica di quelli preesistenti, certo nel titolo, non nelle dimensioni, né nell’impostazione pittorica di quelli, di cui non rimane testimonianza, neppure fotografica.

A proposito delle attuali rappresentazioni, è necessario soffermarsi per spiegarne il contenuto, attinto dalla storia di questa chiesa-santuario. Quello sulla parete sinistra raffigura la “Presentazione della Vergine al Tempio”. Maria bambina è accolta dal sommo sacerdote, sul pronao di un ipotetico tempio, al vertice di una scalinata. Alle spalle delle scena principale, si apre un prospetto che coglie, in prima linea, i visi degli anziani genitori, i Santi Anna e Gioacchino, preludio all’orizzonte retrostante, composto dall’antica collina verde che discende dal sito di Daliano fino al centro storico di Gallipoli, assiso sul ceruleo mare. I riferimenti topografici fanno intravedere il percorso che va dalla Chiesa dei Cappuccini, detta “S.Anna”, sul colle S.Giusto, fino al Santuario di “Santa Maria del Canneto”. Il tutto è sovrastato da una scena cherubica.

L’altra tela rappresenta la “Nascita del Redentore” Le figure classiche del presepio sono  amalgamate con la tradizione locale. Il tutto si svolge in agro di Alezio, sublimato, sullo sfondo, dalla sagoma del Santuario di “Santa Maria dell’Alizza”, ospitante, nel suo pronao i quattro magi, come da tradizione locale. Mentre il riposo del dormiente trova collocazione ai piedi dell’osanna. La campagna distende i suoi sentieri ai locali pastori fino al luogo dell’evento, che per l’occasione si svolge in una cava. La Vergine è distesa, per ricordare un aneddoto aletino, secondo il quale, dopo aver salvato Alezio da un terremoto, la Madonna, stanca, si riposò in questa contrada. Ma, anche, per rendere omaggio al culto bizantino, che rappresenta usualmente, al momento del parto, Maria distesa nella mangiatoia, mentre il S.Giuseppe custodisce la divina maternità, ospitata in una cava di carparo ed annunziata dalla colomba dello Spirito Santo e dalla scena cherubica. Una popolana in primo piano, in offerente atto, porge un cesto ricolmo di olive. Chiara allusione alle passate fortune economiche della Città di Gallipoli, quando era dedita al commercio dell’olio lampante. Nella mano sinistra è visibile una corda, sulla quale è dipinta in vermiglio, la data “1544”. Tale data riporta ad un fatto storico avvenuto in quell’anno del quale, l’esito positivo venne attribuito all’intercessione della Vergine. In particolare, si tramanda che sull’acquasantiera alloggiata sul pilastro destro della chiesa, si conservava un pezzo di fune proveniente da una nave turca che fece naufragio, sulle coste gallipoline, determinando la salvezza di tutti gli ostaggi cristiani prelevati dalle scorrerie turche in terra salentina e calabrese.

Le due tele costituiscono, nel loro intento, un dittico che riproduce le due città limitrofe e che riporta, idealmente, gli eventi rappresentati, come se si svolgessero nel luogo di “Mater Gratiae”. I dipinti sono racchiusi da due artistiche cornici lignee, indorate. La premura della devozione antica, si fonde con il rinnovo contemporaneo e moderno, con l’estetica, l’architettura, la pittura, tra iniziative personali e corali, a volte riparatrici di gesti e di ingiurie, a volte, solo, piene di gratitudine. Sempre volontarie.

Non è opportuno tralasciare i luoghi intorno alla chiesa, pregni da alto valore artistico e naturalistico che si coordinano tra loro, lasciando un senso di equilibrio e di armonia nel visitatore. Per un invito alla conoscenza del luogo descritto, si rimanda ai paragrafi contenuti in recenti pubblicazioni, quali “Sulle orme di Maria” di Giuseppe Marino e “Gallipoli Sacra” di uno scrittore locale.

E’ indubbio il valore del lavoro monografico più rilevante, stilato da S. Bolognese, nel suo “La chiesa di S.Maria delle Grazie o di <<Taliano>> nel territorio di Gallipoli”,  pubblicato in “Contributi”, Rivista della Società di Storia Patria per la Puglia, Anno V, n.1 marzo 1988, Ed. Congedo. Il testo ora citato, oltre ad offrire un contributo eccezionale e puntuale dal punto di vista storico ed artistico del sito, ci regala una foto d’altri tempi, che esprime tra le righe, una descrizione sulla vita quotidiana di allora in queste contrade, quando i “cavamonti”, invocavano la loro Vergine ed a lei si affidavano: (…)””a questa categoria si deve ancora oggi quella minima cura e la conservazione del rito con una festa che si tiene il giorno successivo alla seconda domenica di ottobre di ogni anno. (…) Il loro lavoro si svolgeva dall’alba al tramonto sotto le viscere della terra in enormi ed esotiche gallerie o vani a campana. Questo lavoro veniva sospeso soltanto per la consumazione di un frugale pasto composto da un pezzo di pane bagnato, cosparso, qualche volta, d’olio d’oliva con qualche pomodoro o peperoncino e per bevanda l’acqua che si raccoglieva in <<ombili>> o <<quartare>> (recipienti di terra cotta tipici del posto) lì dove la roccia lambiccava gocce d’acqua freatica che, attraverso il materasso freatico, filtrava e filtra ancora oggi. Alla Vergine  questa gente si è rivolta e continua a rivolgersi invocandone la protezione e rifugio (…)””. Questa piccola, grande oasi di “Mater Gratiae”, grazie ai custodi scrupolosi, che amorevolmente la curano, ha ricominciato a rifiorire, tra i deserti del carparo di Daliano.

Come gli Spartani presero in giro in un colpo solo Gallipolini e Tarantini

di Armando Polito

Dionigi di Alicarnasso, storico greco del I secolo a. C., ci ha tramandato questa notizia: Allo spartano Leucippo, che aveva chiesto dove fosse destinato a lui e ai suoi compagni aver la sede, il dio rispose di navigare verso l’Italia, di abitare una terra in cui una volta sbarcati fossero rimasti per un giorno e una notte. Sbarcata la spedizione nei pressi di Gallipoli, uno scalo dei Tarantini, Leucippo, estasiato dalla natura del posto, convinse i Tarantini a consentire loro di accamparsi lì per un giorno e una notte. Dopo che passarono parecchi giorni e i Tarantini gli chiesero di andar via Leucippo non diede loro retta, dicendo di aver ricevuto  da loro la terra secondo l’accordo per giorno e notte: finché ci fosse stato uno di questi, non avrebbe restituito la terra. I Tarantini, avendo capito di essere stati imbrogliati, permisero loro di restare.1 

Faccio un rapido bilancio: Leucippo, semplicemente sfruttando a seconda della convenienza del momento l’ambiguità grammaticale di una (al momento della richiesta fatto valere come aggettivo numerale, poi, ad ospitalità ottenuta, come un generico articolo indeterminativo, tanto generico che può essere sottinteso pure, come ho fatto, nella traduzione, ma che nell’originale greco manca totalmente in entrambi i casi), ha beffato i Tarantini ma, se si vuole, il danno lo hanno subito i Gallipolini perché si son dovuti stringere per fare a tavola un posto in più; va bene che l’ospite (a me in questo caso sembra, se non un invasore, certamente un imbroglione) è sacro, ma  metti che in quel tempo ci fosse in atto una carestia …

A distanza di secoli si direbbe che questa storica sudditanza di Gallipoli a Taranto abbia lasciato traccia anche nelle rappresentazioni geografiche. Me lo fanno pensare le due mappe che seguono, non inserite nel recente post2 dedicato a Gallipoli sull’argomento perché, a differenza delle altre, non sono in alta definizione e non consentono uno studio dettagliato.

http://www.antiquarius-sb.com/Catalogue_c.asp?page=4&area=115&subarea=41

(immagine tratta da http://www.antiquarius-sb.com/Catalogue_c.asp?page=4&area=115&subarea=41)

È la pag. 80 dell’Isolario dell’Atlante Veneto di Vincenzo Maria Coronelli uscito a spese dell’autore a Venezia nel 1696. Da notare che la mappa annessa non reca il titolo Gallipoli, ma un anonimo Isola del golfo di Taranto.

Se la dicitura qui è in parte giustificata dal titolo generale dell’opera (da ricordare che fino alla fine del XVII secolo l’Adriatico fino ad Otranto si chiamò Golfo di Venezia) nella mappa che segue, sempre dello stesso autore, tratta da Teatro della Guerra diviso in XXXXVIII e risalente al 1707 circa, l’Isola ha lasciato il posto a Taranto: Fortezza.

(immagine tratta da http://www.antiquarius-sb.com/Catalogue_c.asp?page=4&area=115&subarea=41)

È come se si perpetuasse la presenza dominante di Taranto che aveva avuto la sua rappresentazione eloquente quasi 2500 anni prima nella Mappa di Soleto, in cui i caratteri di  ΤΑΡΑΣ (leggi TARAS), più grandi rispetto a tutti gli altri, la dicono lunga, già graficamente.

(foto dell’autore)

____________

1 Antiquitates Romanae, XIX, 3: Λευκίππῳ τῷ Λακεδαιμονίῳ πυνθανομένῳ ὅπου πεπρωμένον αὐτῷ εἴη κατοικεῖν καὶ τοῖς περὶ αὐτόν, ἔχρησεν ὁ θεὸς πλεῖν μὲν εἰς Ἰταλίαν, γῆν δὲ οἰκίζειν, εἰς ἣν ἂν καταχθέντες ἡμέραν καὶ νύκτα μείνωσι. Καταχθέντος δὲ τοῦ στόλου περὶ Καλλίπολιν ἐπίνειόν τι τῶν Ταραντίνων ἀγασθεὶς τοῦ χωρίου τὴν φύσιν ὁ Λεύκιππος πείθει Ταραντίνους συγχωρῆσαί σφισιν ἡμέραν αὐτόθι καὶ νύκτα ἐναυλίσασθαι.  Ὡς δὲ πλείους ἡμέραι διῆλθον, ἀξιούντων αὐτοὺς ἀπιέναι τῶν Ταραντίνων οὐ προσεῖχεν αὐτοῖς τὸν νοῦν ὁ Λεύκιππος, παρ᾽ ἐκείνων εἰληφέναι λέγων τὴν γῆν καθ᾽ ὁμολογίας εἰς ἡμέραν καὶ νύκτα· ἕως δ᾽ ἂν ᾖ τούτων θάτερον, οὐ μεθήσεσθαι τῆς γῆς. Μαθόντες δὴ παρακεκρουσμένους ἑαυτοὺς οἱ Ταραντῖνοι συγχωροῦσιν αὐτοῖς μένειν.

2 https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/09/03/gallipoli-in-otto-mappe-antiche/

Gallipoli in nove mappe antiche

di Armando Polito

Questa volta di mio non c’è assolutamente niente, se non la decisione di trasmettere agli amici che ne abbiano interesse gli indirizzi in cui potranno visionare le mappe, certamente ben note a tutti coloro che si occupano di queste cose ma tutte riprodotte lì in alta definizione, il che consente, quindi, di vedere o rivedere distintamente i dettagli, cosa impossibile nelle riproduzioni che seguono in formato ridotto.

Giovan Battista Crispo, 1591
Giovan Battista Crispo, 1591

https://www.raremaps.com/gallery/enlarge/23679

Braun-Hogenberg, 1598
Braun-Hogenberg, 1598

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/braun_hogenberg_V_66_b.jpg

 

Jodocus Hondius, 1627
Jodocus Hondius, 1627

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=432

 

Francesco Bertelli, 1629
Francesco Bertelli, 1629

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=266

 

Mattheus Merian, 1688
Mattheus Merian, 1688

http://www.ideararemaps.com/article.aspx?articleID=592

 

Giambattista Albrizzi, 1761
Giambattista Albrizzi, 1761

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/storia_XXIII_54_gallipoli_b.jpg

 

Joseph Roux, 1764
Joseph Roux, 1764

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/roux_1764_pl_58_b.jpg

 

John Luffman, 1802
John Luffman, 1802

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/luffman_1802_gallipoli_b.jpg

 

William Heather, 1810
William Heather, 1810

http://historic-cities.huji.ac.il/italy/gallipoli/maps/heather_1810_gallipoli_b.jpg

 

 

 

8 agosto. Sant’Agata la buona e Gallipoli

GALLIPOLI, 8 AGOSTO 1126: “D.O.M TEMPLUM HOC QUOD PRIUS BEATO JOHANNI CHRISOSTOMO NUNC DIVAE AGATHAE MIRACULOSA  MAMMILLA INVENTIONE CALLIPOLIS GRATAE SERVITUTIS OSSEQUIUM D.D.D.”

Catania - i devoti

di Pietro Barrecchia

Era l’8 agosto 1126. Sì, ricordo bene, non perché c’ero! Ricordo bene come ricorda l’animo di Gallipoli, perché l’uno sussurra all’altro l’avvenuto. Ricordo anzitutto il  biennio del Ginnasio, frequentato in Nardò, quando,  un professore propinava le così dette lingue morte, che poi tanto morte non erano, visto che il chiarissimo docente, inculcava il gusto della ricerca dell’etimo e dimostrava, ostinatamente, che morto era colui che ignorava di parlare, in era contemporanea, il latino e il greco, con qualche trasformazione, ovvio!  Fu allora che iniziai a comprendere di aver sbagliato, fino ad allora, a deridere i miei anziani, che raccontavano di una leggenda e di una invenzione. Non era dunque un’ammissione di colpa,  ma  un’esattezza di idioma, se  solo avessi inteso l’invenzione narrata quale diretta discendente della latina “inventio”, rinvenimento, cioè.

E dovevo arrivare in quel di Nardò ed apprendere da un suo figlio, che i figli di Gallipoli avevano ragione da vendere,  affermando, in vero, che sulle spiagge del Cotriero, nel dì dell’8 agosto, del 1126, era avvenuto il passaggio di consegne della Città di Gallipoli, tra san Giovanni Crisostomo, antico patrono e la novella amazzone celeste, Agata, la buona.

Catania-Duomo-il-sarcofago-che-custodisce-le-sacre-reliquie-della-Martire-e-sullo-sfondo-le-sculture-che-narrano-del-suo-ritorno-a-Catania
Catania-Duomo-il-sarcofago-che-custodisce-le-sacre-reliquie-della-Martire-e-sullo-sfondo-le-sculture-che-narrano-del-suo-ritorno-a-Catania

Non solo gli anziani narrano, anche le tele seicentesche illustrano che quell’8 agosto un vascello dal nome familiare, “Gallipoli”, come nel migliore degli stili dell’epoca,  avrebbe sottratto, per legge di contrappasso, un corpo santo, dal costantinopolitano templio di S.Sofia, per riportarlo nella patria d’origine, Catania.

Sezionato e deposto in faretre, coperto da petali di fiori , quel corpo riprese il viaggio di ritorno per il riabbraccio con la sua Città, con i suoi cittadini, con quei luoghi che lo videro giovinetto, versare il sangue eroicamente ed affermare la sua fede.

Nocchiero di bordo e padrone del vascello è tal Goselmo, di Gallipoli e suo prode compagno, tale Gilberto, gallo, francese, ai quali sarebbero stati rimessi i peccati per il furto compiuto, dal presule catanese, che commissionò il reato, nell’agosto del 1126. Tanto più che la giovinetta martire era apparsa allo stesso Goselmo, presentandosi e richiedendogli un passaggio fino alla sua Città.

Non fu distante dalle coste di Costantinopoli quel corpo santo sottratto, quando i suoi abitanti percepirono la sua mancanza ed invano si precipitarono in mare per riprenderlo.

E quel mare fu provvidenziale, quando la sua brezza sospinse il vascello sulle coste di cui portava il nome, governato da quel Goselmo che lì aveva annunziato la sua nascita e conosceva quella costa come sua madre. Era il meriggio dell’8 agosto 1126.

Gallipoli, Duomo - tela di G.A. Coppola, rappresentante il martirio della santa
Gallipoli, Duomo – tela di G.A. Coppola, rappresentante il martirio della santa

Non poteva andare altrimenti, quando per patrio amore Goselmo stesso, a mio parere con precisa intenzione, lasciò cadere sull’arenaria costa, la reliquia più insigne, la parte sanata dal Principe degli Apostoli, che secoli prima, come altra leggenda narra, aveva calpestato proprio quel luogo, inaugurandovi la stagione cristiana, lì a pochi passi dal Cotriero, ai Samari, che avrebbe visto sorgere, per crociata mano, un luogo di culto dedicato a Pietro dei Samari.

Era l’8 agosto 1126, quando una donna, come la martirizzata, adempiva al suo dovere di madre, lavando i panni e forse, in un frangente, sfamando il suo infante, dal quale non si separava mai, se non fosse stato per quell’improvviso torpore che la assediò e, stanca, chiuse gli occhi al reale, per riposarsi un po’, come le madri meritano, sognando del futuro del suo bimbo. Una donna, giovinetta, gentile nell’aspetto, le apparve in sogno e conoscendo la sensibilità femminile, la avvisò di quel che le sarebbe avvenuto realmente. Non ancora era giunta su queste coste la fama di Agata e la donna non conosceva quel nome. La figura femminile si presentò e le prefigurò ciò che avrebbe visto al suo risveglio. Ma era un sogno, un brutto sogno da cancellare una volta sveglia, perché quel che le era stato prospettato non era certo bello. Al risveglio, avrebbe trovato il suo amato figlio disteso sull’arena, vicino ad un pozzo, nell’atto di succhiar latte da una mammella che non era quella materna e che era stata recisa. Quale madre avrebbe retto a tale scena? Cosa avrebbero fatto le nostre madri? Esattamente quel che fece la madre di quel figlio che allattava ad una mammella che non gli apparteneva. Terribile scena. La donna tentò e ritentò di strappare quella mammella dalla bocca del figlio, ma non ci fu verso. Quella rimase ancorata tra le purpuree  labbra dell’amato infante.

la mammella di S.Agata custodita in Galatina, appoggiata all'originario fusto argenteo custodito in Gallipoli
la mammella di S.Agata custodita in Galatina, appoggiata all’originario fusto argenteo custodito in Gallipoli

Male pensò, quella madre, che per la paura aveva già rimosso la prefigurante visione. Sortilegio. Opera terribile. E se l’umano non riesce ad intervenire, si corre dal divino, a chi ne fa le sue veci, per richiedere intercessione.

Corse dal Vescovo la madre, corse senza sosta, con affanno, verso quella Cattedra così lontana e chiese grazia al presule, il quale si recò sul posto, circondato dal clero ed attonito cedette all’orrendo spettacolo. Qui nulla potè l’umano e se l’opera non fu divina allora appartenne alla concorrenza ed allora, bisognava invocare con forza, bisognava esorcizzare, bisognava richiedere liberazione. Primo passo, richiedere l’intercessione ai Cortigiani dell’Empireo, a quelli reputati più potenti ed a quelli più conosciuti. Si iniziò, rigorosamente in latino, rigorosamente cantando. E sfilarono i nomi santi, per tre volte e seguirono gli “ora pro nobis”. Ma nulla. Incessante preghiera, ma ancora nulla. Da poco inserita nell’elenco degli invocati, il nome santo della catanese vergine e soprattutto martire, la giovinetta Agata, che a dispetto dell’età aveva saputo rispondere al tiranno che aveva ordinato di offenderla nella sua femminilità, recidendo le sue mammelle. Atroce pegno per aver confessato una religione nuova e pacifica. Agata rispose a chi sentenziò quell’ingiusto tormento “Non ti vergogni”, gli disse “ di stroncare in una donna le sorgenti della vita dalle quali tu stesso traesti alimento, succhiando al seno di tua madre? ”.  A chi pensare dopo quelle parole proferite secoli prima, assistendo alla scena di un bimbo che succhia da una mammella recisa, affiorante dalla sabbia? Certo!  Ad Agata!  Allora: “Sancta Aghata  – ora pro nobis!”, cantando per altre due volte, cantando e sperando “Sancta Aghata – ora pro nobis!” ed ancora “Sancta Aghata – ora pro nobis!” Si staccò quella mammella dalle purpuree labbra  del bimbo, accorse la madre che abbracciò suo figlio e raccolse con pietà e devozione la sacra mammella e rivolse un pensiero e la prece salì ad Agata, la Santa buona. Chi pensò al maleficio, dovette far varcare con i sommi onori quella mammella dalla patria porta, in processione, ringraziando Iddio che, con segni e portenti aveva stabilito le modalità dell’evento. E la padrona di quell’insigne reliquia subordinò il culto del Giovanni bocca d’oro, che, da gran cavaliere cedette il posto ad una vergine e martire. Peraltro i due e gli altri, come loro, non sono stati, non sono e non saranno mai in competizione, ma come gli è stato insegnato saranno strumenti verso l’Unico Fine, il Sommo Bene.

Quella mammella divenne il tesoro di Gallipoli, ingraziandosi la novella Patrona, alla quale si consacrò, successivamente la nuova Cattedrale. Tale reliquia divenne simbolo e stemma tra palme e tenaglia dello stesso clero ed il popolo, che aveva rimosso la mammella di Agata dalla bocca del piccolo miracolato, continuò e continua a succhiare la linfa vitale da quella martire insigne, alla quale si rivolge solennemente nel giorno del suo martirio, il 5 di febbraio con il canto del greco e del latino, lingue vive e ripete il rito nel giorno della tutela, l’8 di agosto. Anche se…… anche se, per volere non divino, con abuso di potere, Raimondello del Balzo Orsini, nel 1380, ordinò che la mammella fosse custodita in Galatina, presso la Basilica di S.Caterina Novella, asportandola dal seno di Gallipoli, dove superstite, rimase, come reliquia, quel fusto argenteo che la sorreggeva con le cesellate urbiche mura.  Da allora non vi è stato alcun gallipolino al pari di Goselmo!  Ma se la storia insegna allora è necessario dire l’evento è arido se non suscita effetto ed anche senza mammella, i gallipolini si sentono legati a Sant’Agata, la quale ha assicurato in tempo e modi la sua protezione alla sua seconda patria. L’inno dell’8 agosto ben ricorda la predilezione offerta  “Tu questo ciel purissimo e questo mar ceruleo, che il patrio lido abbraccia, un dì venisti a prendere in tua tutela amabile. Proteggi Tu Gallipoli, che ogn’or s’affida a Te!”.

Ad irrobustire la realtà del rinvenimento vi è il fatto che anche Catania festeggia il ritorno della sua Martire,  il 17 agosto, ricordando quello del 1126, quando sulla sicula sponda giunse, ad opera di Goselmo e Gilberto, quel sacro corpo, privo di una mammella, che da allora riposa nella sua patria, nel sacello del Duomo dedicatogli. Peraltro, non si conosce se Gilberto e Goselmo abbiano ricevuto la corona celeste. E’ certo che sono rappresentati, in un affresco e scolpiti sull’altare del Cappellone di Sant’Agata e furono eletti cittadini onorari della sua Città. Catania custodisce ancora quelle testimonianze storiche, nella Chiesa del Carcere, ove è tutelato il legno con cui fu trasportato il corpo della Martire. Ancora,  in prossimità della marina, vi è un tempietto con una scultura della Martire, al cui basamento, un’epigrafe ricorda il ritorno in patria di Agata, nel dì del 17 agosto 1126. In quel luogo accorsero i catanesi, avvisati notte tempo ritrovandosi in camicia da notte e papalina. In memoria di quell’evento, si mantiene ancora il tipico abito dei devoti: saio bianco, copricapo nero, con aggiunta di guanti bianchi e fazzoletto bianco per salutare Agata, la Santa. Coincidenze a distanza? A proposito di lingue vive, a me sembra che questa invenzione sia proprio un “inventione”!

L’inganno

faita

di Antonio FAITA

 

 

«Ci sono degli inganni così ben congegnati che sarebbe stupido non cascarvi».

Charles Caleb Colton (1780 – 1832)

 

Un episodio estremamente singolare avvenuto agli inizi del ‘700, nelle acque antistanti la zona detta “Pietra Cavalla”, narra di un inganno tramato ai danni di un’imbarcazione turca. I fatti che ora riporterò sono veramente accaduti.

Così narrò, nell’anno del Signore 1707, il “Regio Locotenente sostituto del Regio Vicescreto[1] e Regio Portolano di Taranto” signor Francesco Antonio Cariddi, deponendo davanti al notaio Carlo Megha[2] una dichiarazione, in qualità di testimone, per rendere noto lo stato delle indagini, ai fini della verità, di quanto accadde nel mese di ottobre dello stesso anno. Il giorno quattro ottobre, non poco lontano dalle mura della città di Gallipoli, fu avvistata un’imbarcazione «data l’Anchora in mare senza saputa di che natione si fusse». Nel porto vi era ancorato e messo in quarantena il Pinco[3], carico di grano, del Padron genovese Giovanni Ravenna, al quale fu chiesto dal signor Cariddi, su ordine del Governatore di questa città, di andare con uno schifo[4] e con della gente armata, a verificare da lontano l’imbarcazione suddetta. Il Ravenna si apprestò a recarsi col suo schifo e alcuni marinai armati. Giunti ad una certa distanza, «ad auditum vocis» compresero che si trattava di una Peotta[5] turca, perciò di gente «inimica». A questo punto, fu chiesto per dove fossero diretti e dall’imbarcazione risposero «per l’Isola di Taranto e come che correva borrasca di girocco lebecce, per la quale la detta imbarcazione era giunta in questi mari». Incredulo, in quanto frequenti erano le incursioni dei turchi lungo le nostre coste, il Padron Giovanni Ravenna, da esperto navigatore genovese, nonché mercante e sicuramente profondo conoscitore dei nostri fondali per la navigazione costiera, «operò con inganno» indicando loro «che per la via di Tramontana v’era il Canale per portarsi all’Isola di Taranto». L’inganno riuscì: i turchi salparono l’ancora e fecero rotta verso il canale che era, per i pescatori del luogo, un punto di riferimento e di orientamento per l’individuazione di un luogo. Anticamente esso sfociava a mare (in prossimità dell’attuale località Rivabella[6]) dopo aver percorso un lungo tratto dell’agro di Sannicola, per consentire il deflusso delle acque piovane. Così la Peota turca «camminando diede al secco in questa marina in loco detto La Pietra Cavalla, dove si roppe in acqua». Stando tra le due torri costiere denominate “Sabea” e ”Alto lido”, Pietra Cavalla, aliasposto marittimo dei cavalieri”, era un facile luogo di sbarco per i pirati provenienti dal mare; teatro di tristi avvenimenti, fu agevole approdo che andava costantemente sorvegliato dai cavallari[7]. In questo tratto di mare, dove si trovano rocce semisommerse e bassi fondali, la Peota, finì la sua navigazione, rompendo la chiglia tra gli scogli. Mentre il Ravenna, soddisfatto dell’ardita mossa, faceva ritorno in porto per recarsi sul suo Pinco, due barche gli andarono incontro. Su una vi era «il Tenente del regio Castello e tre soldati spagnoli e nell’altra gente che andava alla detta Peotta Torchesca». Dal tenente fu ordinato al Ravenna di seguirlo con i suoi marinai armati, per dare assistenza all’imbarcazione turca. Una volta giunti sul posto, il tenente e i soldati armati salirono a bordo della Peota e «presero li turchi e li legorno annodo dalla gente di detto Padrone armata». Purtroppo, per il Ravenna, la storia non finisce qui. Ritornato sulla sua imbarcazione, gli fu chiesto dal Signor Portolano che andasse a recuperare l’imbarcazione turca «con una sua gumena[8] per dare aggiuto e detta Peotta a salvarla». Senza esitare si recò verso l’imbarcazione ma vano risultò ogni tentativo di recupero. Un secondo tentativo fu fatto portando «una Anchora grossa». Man mano che si cercava di tirarla su,  avendo ormai  l’albero rotto e chiglia sfasciata, la Peota imbarcava sempre più acqua, a tal punto che il Ravenna si arrese e da «prattico marinaro se ne ritornò», mentre l’imbarcazione turca «come rotta sen’andava a pico al fondo e si perdeva il Bastimento e grano». E’ bastato un semplice inganno a far sì che i turchi non proseguissero il loro viaggio ai danni delle popolazioni, che hanno avuto la disgrazia di vivere sul mare, tormentate da incubi, anche quando il pericolo non c’era[9].

 


[1] Cfr., M. SERRAINO, “Storia di Trapani”, Ed. Corrao, Trapani 1976:«La screzia: Quale organo finanziario della regia Corte, la Screzia amministrava il patrimonio demaniale, soprintendeva a tutta la materia dei tributi, appaltava gabelle e dogane, esercitava una funzione anche giurisdizionale su questioni che avevano per oggetto materiali sua competenza», p. 86;  «Vicesecreto dipendeva dal Maestro secreto, che li nominava con la formula regio et nostro beneplacito perdurante», p. 88;

[2] ASL, Notaio Carlo MEGHA, coll. 40/13, Prot. Anno  1707, ff. 257/v – 259/r;

[3] Cfr., Wikipedia.it: Il pinco o pinco genovese fu un tipo di nave mercantile a tre alberi a vela latina con prua a sperone e poppa a specchio. Ebbe larga diffusione nella marineria ligure tra la fine del XVII e l’inizio del XIX secolo. La sua portata andava dalle 50 alle 200 t. Il pinco era dotato di una seconda attrezzatura di vele quadre da sostituire alle vele latine per le andature portanti.

Il nome pinco potrebbe derivare dall’olandese pink che già nel medioevo designava una piccola imbarcazione da trasporto per certi versi simile al pinco e dalla quale quest’ultimo potrebbe essere in parte derivato.

Le ragioni del successo di questo tipo di imbarcazione per un periodo storico così circoscritto vanno ricercate nella sua economicità di gestione, versatilità, velocità e manovrabilità, doti che ne facevano anche un’unità efficace nella lotta contro i corsari barbareschi;

[4] Il termine “schifo” era un tempo comunissimo, ed equivaleva a barca, canotto di servizio, portato sulle galee o sulle navi a vela sul ponte o a rimorchio;

[5] Cfr., Wikipedia.it: La peota era una barca veneziana di media grandezza sontuosamente decorata. Veniva usata anticamente a Venezia per le regate, addobbata con sfarzo e condotta da otto vogatori in costume. Il nome deriva forse da “pedota”, ovvero “pilota”;

[6] Rivabella, prima del suo sviluppo urbanistico era detta “ponticello”, costruito al disotto della litoranea;

[7] Cfr., E. MAINARDI, “Storia Di un luogo. Sannicola versus Gallipoli: la nascita di “Lido Conchiglie””, in Cultura Storia, Ed. Panico, Galatina 2010, p.24;

[8] Cfr., Wikipedia.it: Gómena è il termine nautico con cui si indica una cima, un cavo torticcio di canapa, di adeguata sezione, destinata all’ormeggio delle imbarcazioni.

[9] S. PANAREO, “Turchi e Barbareschi ai danni di Terra d’Otranto”, in “Rinascenza Salentina”, anno I, n. 1 (gen.-febr. 1933), p.4;

Gallipoli. Uccio di Corte Gallo

Uccio di Corte Gallo.

Un’emozionante scoperta nell’Isola dei tesori

di Antonio Mele ‘Melanton’

 

gallipoli-rivellino

Un luogo non è semplicemente un punto geografico.

È un sedimento di storia. Un magazzino di memoria. Un richiamo di sentimenti e pensieri.

Un luogo è innanzitutto una gente. La sua cultura stratificata. La sua immobile mutazione nel tempo, testimoniata da mirabilie o da scempi. Da amore e furore. Da uomini e donne che hanno vissuto e vivono con le loro radicate passioni.

Un luogo può anche essere un logo, un simbolo, un nome evocativo. Un desiderio di avventura e sorprese. Di incontri e suggestioni.

Ogni luogo, infine, è un’isola. Che in un arcipelago di altri luoghi e altre genti s’identifica e distingue col suo passato e la sua storia come con la sua vita corrente.

 

Isola per antonomasia è Gallipoli.

Kalè Polis, la Città Bella, come molti continuano ancora a chiamarla. Fra le più antiche e nobili del Salento. È la storica Anxa di Messapi e Romani. Da secoli il terminale naturale di commerci e di viaggi. Il fido baluardo difensivo che i D’Angiò contrapposero all’egemonia sui mari della Serenissima Repubblica di Venezia: “Fideliter excubat”, vigila fedelmente, ammonisce il motto del suo stemma civico, segnato in un cartiglio quasi artigliato da un gallo rampante.

Tra la fine del Seicento e l’Ottocento, Gallipoli fu anche la capitale mondiale del commercio dell’olio combustibile “lampante” che raggiungeva tutte le Capitali d’Europa, e il suo porto riconosciuto come uno dei più importanti del Mediterraneo.

 

Gallipoli, dunque. Terra di rinnovate scoperte ed appaganti emozioni.

Come in un viaggio promesso, qui non si arriva: si viene. Si viene per volontà, per curiosità, per sogno, per attrazione o sconfinamento.

La Città Bella vi accoglierà nel sole e nell’ombra della sua corona di case bianche, cinta da bastioni poderosi che sorgono dal mare, vi sorprenderà con i colori delle botteghe, con i profumi del mercato del pesce, con il sorridente vociare dei venditori di ricci e di spugne.

Per questo fascino immutabile – nonostante le molte disarmonie e contraddizioni di una nuova convulsa ‘civiltà’ consumistica e chiassosa, che sempre più assedia la sua fiera identità – Gallipoli è adorata perfino oltre misura dai suoi figli più fedeli, ma anche da schiere di viaggiatori e turisti che non resistono al suo azzurro richiamo.

C’è sempre qualcuno che ne è innamorato perdutamente.

Come Uccio di Corte Gallo.

 corte gallo

Non conosco il suo cognome. Non gliel’ho mai chiesto, né lui me l’ha mai dato. Anche se dal giorno del nostro sorprendente incontro, nella primavera scorsa, siamo diventati indivisibili amici.

Pur nella sua verace schiettezza e autenticità, Uccio di Corte Gallo è quello che si dice un personaggio. Conoscerlo è di per sé una conquista, un segno inequivocabile dell’amore per la tradizione e per la nostra vita di uomini, che è poi un condensato della civiltà di tutti gli uomini.

Intanto, per conoscere Uccio, bisogna andare nel suo piccolo regno. A Corte Gallo, appunto. Che, seminascosta, si trova quasi all’ingresso dell’isola, prima di arrivare alla Cattedrale, tra i vicoli che si snodano verso la Riviera di Scirocco. Fatevela indicare, e andateci. Se non lo trovate, chiedete di lui, e Uccio apparirà come per sortilegio, con il suo sorriso e il suo immenso bagaglio di racconti.

Così è accaduto, quando insieme a mia moglie Teresa (e portandovi poi molti altri amici), nell’abbraccio di questa corte abbiamo scoperto un fantastico museo a cielo aperto, generosamente disponibile a tutti, con le pareti tappezzate di ferri, legni, ceramiche, piatti, vecchie macchine da cucire, nasse e reti da pescatori, e tutti – davvero tutti! – gli oggetti del nostro arcaico vivere quotidiano, ormai dimenticati e dispersi, ma che Uccio ha amorevolmente conservato in bell’ordine, facendoli rivivere oltre il tempo nella loro bellezza artigianale: lu sicchiu per l’acqua del pozzo, li rocci per recuperarlo alla bisogna, lu farnaru per la farina, la crattacasu con il suo solido e armonioso perimetro di legno in cui raccogliere il formaggio, la strattiera per la salsa di pomodoro, li buccacci e li stangati per fichi, friselle, conserve e quant’altro, i misurini d’alluminio per l’olio (chi se li ricordava?), li caddarotti de rame russa, ovviamente anneriti dalla stratificazione di fuliggine, l’altrettanto ‘carbonizzato’ brustulinu per tostare l’orzo (più che il caffè), il termosifone d’altri tempi ossia la brasciera (completa di paletta), un port-enfant di legno, e perfino alcuni attrezzi agricoli come la sarchiudda, lu serrettu pe putare, ola pompa a spalla pe nzurfare le vigne… E ancora: vutti, barilotti, tine pe la scapece, menze, vozze e vucale per l’atavica sete di questa terra, i mitici e ingegnosi trapanaturi de li cconza limbi-e-giustacòfane, e lumi a petroju, spiritiere, scarfalietti, vasi de notte, fusi pe la lana, martieddhi, pinze, tenaje, ssuje de scarparu, staffe de cavaddhu, scale, scaleddhe, ‘mbuti, pignate, chiavi, catinazzi… E pile, stricaturi, limbi e còfani (completi di cenneraturu!) per fare il bucato.

Un’operazione, quella del bucato, che (come descritto magistralmente qualche anno fa su queste stesse pagine da Piero Vinsper) era un vero e proprio evento familiare, e che Uccio – con semplicità e irresistibile fascinazione – vi illustrerà in ogni sua fase, richiamando alla memoria il lavoro, la dedizione e la maestria delle casalinghe di un tempo, alle quali non dovrebbe mancare mai la nostra grata ammirazione.

A Corte Gallo, Uccio continua ad avere le visite di forestieri, turisti e ragazzi delle scuole, ai quali racconta sempre avvincenti episodi di vita vissuta quasi fossero favole da C’era una volta… E se avrete la fortuna di salire le scale insieme a lui per entrare nella sua casa piena di quadri e immagini d’epoca, scoprirete molti altri incredibili tesori, fra cui una rara fotografia dei primi del 1900, dove un gregge di pecore, dal ponte che si congiunge al Borgo, sta entrando nella città vecchia, costeggiando il Castello.

Ma la meraviglia di maggior richiamo – tanto nella sua semplicità quanto nella sua intensa devozione religiosa – resta per me la serie dei pupi di terracotta, che raffigurano le dieci antiche confraternite religiose di Gallipoli.

Realizzate e colorate a mano dallo stesso Uccio, queste piccole opere d’arte naif sono sistemate, una accanto all’altra, sotto la bella edicola con l’immagine di sant’Antonio da Padova che campeggia nella parete centrale di Corte Gallo, di fronte all’arco d’ingresso.

Credo che sia interessante conoscere la denominazione e la Chiesa di appartenenza di ciascuna Confraternita, i colori distintivi dell’abito (composto da una tunica lunga, detto sacco, e da una mantellina, chiamata mozzetta), nonché il legame di devozione con le varie categorie laiche di arti, mestieri e professioni che le hanno a suo tempo fondate.

Eccone la catalogazione fornitami da Uccio, e da me completata, dove possibile, con qualche data storica:

Venerabile Confraternita della Chiesa del Santissimo Crocifisso (sorta nel 1400 sotto il titolo di San Michele Arcangelo). Devoti: Bottai. Sacco di colore celeste, mozzetta di colore rosso. – Confraternita della Chiesa della Madonna del Monte Carmelo e della Misericordia (sorta intorno al 1530): Calzolai. Sacco nero, mozzetta nera. – Confraternita del Santissimo Sacramento (fondata nel 1567),insediata nella Chiesa del Sacro Cuore di Gesù: Fruttivendoli. Sacco bianco, mozzetta rossa. – Confraternita di Santa Maria ad Nives o Cassopo della Chiesa di San Francesco di Paola (istituita nell’aprile 1649): Fabbri ferrai. Sacco avana, mozzetta celeste. – Confraternita della Chiesa di Santa Maria degli Angeli (sorta nel 1662): Pescatori, Contadini, Artisti. Sacco azzurro, mozzetta bianca. – Confraternita della Chiesa della Madonna della Purità (anch’essa fondata nel 1662): Scaricatori di porto oBastasi. Sacco giallino, mozzetta bianca. – Confraternita del Rosario (del 1687): Sarti. Sacco nero, mozzetta bianca.- Confraternita di San Giuseppe e della Buona Morte nella Chiesa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo: Falegnami. Sacco giallo, mozzetta bianca. – Confraternita della Chiesa della Madonna Immacolata: Muratori. Sacco celeste, mozzetta marrone. – Confraternita della Santissima Trinità e delle Anime del Purgatorio: Nobili, Dottori. Sacco avana, mozzetta rossa.

Certo, sarà tutta un’altra cosa se descrivere – insieme a molti altri aneddoti – le Confraternite gallipoline  ve le farete illustrare dalla viva voce di Uccio, quando andrete a trovarlo.

Buona passeggiata a Corte Gallo, dunque.

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!