L’ambiguità artistica dei due pittori salentini Catalano e D’Orlando

Catalano e D’Orlando: un’apparente ambiguità artistica tra i due pittori. Sulla bottega del gallipolino e alcune sue opere “sicure”

 

di Santo Venerdì Patella

Leggendo vari scritti che riguardano il gallipolino Gian Domenico Catalano e il neretino Antonio Donato D’Orlando (pittori attivi nel Salento tra gli ultimi decenni del ‘500 ed i primi del ‘600), pare che in alcune opere loro attribuite vi sia un rapporto artistico ambiguo tra i due artisti: che il D’Orlando alcune volte copi il Catalano.

Le paternità delle opere la cui attribuzione oscilla tra i due pittori, è caratterizzata da una qualità non “elevata”, e tende a favorire il più “arretrato” D’Orlando adducendo giudizi che in generale sottolineano una essenzialità stilistica della composizione della sua opera, che riguarda il colore, l’espressività dei volti e il carattere devozionale dell’opera stessa.

In queste opere si è scritto, come accennavo prima, che il D’Orlando copi il Catalano; questa osservazione però può valere quando i diversi elementi che compongono l’opera del neretino rimandano ad un aggiornamento generale del suo stile, ma non quando questi elementi sono specifici del Catalano.

Il fatto che il D’Orlando copi questi elementi pedissequamente, senza una propria originalità, non mi ha mai convinto del tutto. Il D’Orlando, nelle sue opere che ho esaminato, non copia mai il Catalano, quasi fosse un suo falsario. Immaginare il D’Orlando che vada in giro per il Salento a copiare angeli, visi, panneggi, cromie, decori, pennellate ecc. e poi nelle sue opere si prenda la briga di riposizionarli, a volte nei posti equivalenti delle stesse opere del Catalano, mi sembra quantomeno deviante. Il neretino ha un suo stile, e nella sua evoluzione artistica, al massimo si aggiorna sul Catalano e non ha bisogno di copiare passivamente chicchessia.

Al contrario, avviene che alcune opere riportate come certe del Catalano, e che in alcuni casi gli sono vicine stilisticamente, più “arcaiche”, in virtù della certezza documentaria, o stilistica, non sono di sicuro attribuibili al D’Orlando.

Questo fraintendimento critico potrebbe presentare anche una bizzarrìa, un paradosso: se il D’Orlando a volte si “aggiorna” seguendo il Catalano, allora anche il Catalano a volte “regredisce” mediante il D’Orlando?

Entrando nello specifico ho notato che alcune delle opere assegnate al D’Orlando hanno, non a caso, la stessa qualità artistica, e lo stesso stile, di altre “sicure” attribuite al Catalano e che, perlomeno, rientrano nella scia di una qualità media della produzione dello stesso pittore gallipolino.

Come esempio per tutte si tenga conto della tela della Vergine con bambino e i Santi Eligio e Menna nella cattedrale di Gallipoli, riconosciuta alla bottega del Catalano grazie alle fonti documentarie.

Venendo al dunque, in queste opere, si dovrebbe valutare piuttosto l’ambito artistico del Catalano, bottega o aiuti, che magari realizzano opere, o parti di esse, meno sostenute qualitativamente ma che sono sempre pertinenti al gallipolino.

Ora possiamo accostare perlomeno alla “qualità media” della produzione del Catalano un elenco di alcuni dipinti che dalla critica, nel corso del tempo, sono stati attribuiti ad entrambi gli artisti in questione:

La “Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi” a Galatone, chiesa della Vergine Assunta;

La “Madonna col Bambino in trono e i Santi Domenico e Pietro Martire” a Matino, chiesa del Rosario;

Il “Perdono di Assisi” (realizzato nel 1608) a Muro Leccese, chiesa Madre;

Il “San Francesco e le Anime purganti” (1613 ca.) a Squinzano, chiesa di San Nicola;

Il “Perdono di Assisi” (1616 ca.) a Campi Salentina, chiesa Madonna degli Angeli;

La “Madonna del Carmine tra San Carlo Borromeo e San Francesco di Paola”, (realizzata tra il 1613 ed il 1624) a Muro Leccese, chiesa Madre.

I confronti che seguono riguardano ancora altre opere del Catalano.                            Partendo dalla tela sopra menzionata della Vergine con Bambino e i Santi Eligio e Menna che si attribuisce con una certa sicurezza, grazie alle fonti documentarie, alla bottega del Catalano, è importante notare che nel 1614 era ancora allo stato iniziale dell’esecuzione e venne completata nel 1617.

Effettivamente in quest’opera si nota un livello qualitativo meno aulico rispetto alle opere maggiori del Catalano e che si può spiegare con la presenza di aiuti; tra essi si può individuare il nome del figlio del Catalano, Giovan Pietro, che nel 1617 aveva circa 18 anni e che da qualche anno poteva già lavorare col padre (nel XVI sec. la soglia della maggiore età si situava tra i 12 e i 14 anni). Pochi anni più tardi invece vi sarà la presenza di un pittore romano che collaborò col Catalano dal 1621 sino alla sua dipartita. Si può anche citare la vicinanza stilistica alla maniera del Catalano da parte del pittore leccese Antonio Della Fiore, che dipinse il “San Carlo Borromeo” nella cattedrale leccese, dove è molto evidente l’influsso dell’artista gallipolino.                  

Facendo dei confronti ed accostando la tela della Madonna del Carmine tra San Giacomo Maggiore e San Francesco d’Assisi della chiesa della Vergine Assunta di Galatone [fig. 1] alla tela della Madonna del Carmine tra San Menna e San Eligio possiamo notare che la Madonna col Bambino è sovrapponibile in entrambe.

Fig. 1. Tratto da “La Puglia, il Manierismo e la Controriforma”, Galatina : Congedo, 2013

 

Si noti che per realizzare queste opere, si è fatto ricorso al tipo iconografico della Madre di Dio della “Bruna“, conservata nella Basilica Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore a Napoli.

Altre tangenze le ritroviamo nei volti posti di profilo, tra loro speculari, del Sant’Antonio Abate nella tela della Regina Martyrum di Squinzano [fig. 2], chiesa di San Nicola, e il San Giacomo Maggiore della tela di Galatone [fig. 3], simili sono anche i medaglioni istoriati a quelli della tela di San Carlo Borromeo di Surbo.

 

Fig. 2

 

Fig. 3

 

Per quanto riguarda il modo di dipingere gli angeli notiamo che sono simili alla tela del San Tommaso della chiesa del Rosario di Gallipoli, dove è stato anche ipotizzato l’intervento della bottega del Catalano; angeli simili sono anche in altre opere qui citate: Madonna del Carmine a Muro [fig. 4 e Perdono di Assisi a Campi [fig. 5]. Per quanto riguarda i panneggi alcune spigolosità ricordano quelli dell’Andata al Calvario di Scorrano e del Martirio di Sant’Andrea a Presicce.                                                                                                                           

  

Fig. 4 tratta da Anronaci, Muro Leccese, Panico, Galatina 1995

 

Fig. 5

 

Stessa iconografia mariana della “Bruna” di Napoli, e stesso stile delle precedenti opere sopramenzionate, è stata utilizzata per la tela della Madonna del Carmine tra i Santi Carlo Borromeo e Francesco di Paola di Muro Leccese [fig. 4] (commissionata da Pascale Rotundi tra il 1613 ed il 1624), somiglianze vi si rintracciano negli angeli, come nel modo di dipingere il saio dei santi francescani, figure presenti nella tela di San Francesco e le Anime purganti di Squinzano. Va sottolineato che le anime purganti già attribuire alla bottega del gallipolino, appaiono di qualità inferiore.

Tangenze con l’immagine di San Carlo Borromeo della tela del Carmine di Muro le possiamo intravedere anche nelle figure dello stesso santo esistenti nei dipinti di Surbo (Parrocchiale), nella chiesa della Lizza ad Alezio e nel trittico della Regina Martyrum, della chiesa di San Nicola a Squinzano. Una ulteriore somiglianza ai medaglioni della tela murese del Carmine è riscontrabile anche in quella della Madonna del Rosario di Casarano, (Parrocchiale).

 

Fig. 6, tratta da “La Puglia, il manierismo e la Controriforma”

 

Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente la tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese [fig. 6]. Come ho già affermato nel 2003, anche in questo dipinto le creature angeliche sono simili a quelle esistenti nelle tele del Catalano. Un esempio potrebbe essere rappresentato dall’angelo posto a destra della Madonna del dipinto in questione che è simile ad uno degli angeli di destra, al di sopra dell’Arcangelo Gabriele, nella tela dell’Annunciazione nella matrice di Specchia Preti; come pure simile è anche ad un altro angelo posto nella tela dell’Annunciazione di Squinzano, (chiesa di San Nicola) [fig. 7 A-B-C]. Simili sono anche altri angeli posti a destra del Perdono e della Dormitio Virginis della chiesa di San Francesco di Gallipoli [fig. 8 A-B]. Si noti che sul piano compositivo equivalenti sono le ubicazioni, e parzialmente anche le posture, che queste figure occupano nelle rispettive opere.

Fig. 7A

 

Fig. 7B

 

Fig. 7C

 

Fig. 8A

 

Fig. 8B

 

Le stesse somiglianze ritornano anche nelle figure del San Domenico e in quelle del committente della tela della Madonna con Bambino ed i Santi Domenico e Pietro martire di Matino, – ex chiesa dei Domenicani – infatti sono uguali le teste del San Francesco murese e del San Domenico matinese, come pure la postura dei committenti maschili [fig. 9 A-B].

Fig. 9A

 

Fig. 9B

 

A voler essere scrupolosi si possono individuare altre similitudini con altre opere riconosciute del Catalano: la frangia posta sul paliotto con croce gigliata al centro, dipinta con tre o quattro colori distinti [fig. 10], la si ritrova: nella tela della Circoncisione nella chiesa del Rosario a Gallipoli, in quella della Presentazione di Gesù al tempio, chiesa di San Francesco, Gallipoli, e addirittura anche sulla dalmatica di Santo Stefano nella tela Regina Martyrum a Squinzano, e sule vesti del Sant’Eligio della tela della Vergine con Bambino nella cattedrale di Gallipoli. Ritornando alla croce gigliata, sopra menzionata, la ritroviamo dipinta anche nel paliotto della tela di San Carlo Borromeo della chiesa parrocchiale di Surbo.

Fig. 10

 

Fig. 11

Sulla tela del Perdono di Assisi di Campi (simile al Perdono murese, che rappresenta una versione semplificata sia nelle dimensioni che nell’articolazione della composizione) [fig. 11]: le figure angeliche, sia quelle a figura intera che quelle con le teste alate, sono riprese da quelle analoghe dalla tela dell’Annunciazione di Squinzano [fig. 12]; anche qui ritorna la frangia descritta prima usata nelle altre opere già citate.

Fig. 12

 

Il volto del San Francesco, eseguito di tre quarti, é sovrapponibile a quello del Cristo della tela dell’Andata al Calvario, dei Cappuccini di Scorrano, e anche in quello del San Francesco della tela dell’Annunciazione, nella chiesa di San Francesco a Gallipoli [13A e B].

 

Fig. 13A

 

Fig. 13B

 

Rammento la mia attribuzione del 2003 al Catalano, piuttosto che al D’Orlando, della tela del “Perdono di Assisi” di Muro Leccese, purtroppo non sempre condivisa. Venne mantenuta – inspiegabilmente a mio parere – l’attribuzione al D’Orlando senza considerare le effettive tangenze stilistiche riscontrabili nei dipinti esaminati.

Pertanto, oltre a tutte le comparazioni precedenti, credo vada sottolineata la questione relativa all’angelo con le vesti celesti che si ritrova (insieme alle cromie e alle pennellate) nelle tele di Muro, “Perdono di Assisi” [fig. 7A], e Specchia, “Annunciazione” [fig. 7C].

In merito approfondiamo l’epoca di realizzazione delle due opere ed i rispettivi committenti.

La tela murese è datata 1608 ed ho potuto appurare che è stata commissionata dal “Regio Judice ad contractus” Annibale Adamo (non a caso lo stemma alludente della famiglia Adamo, o D’Adamo, richiama il pomo di Adamo); mentre la tela di Specchia, vista la sua qualità artistica, viene di solito datata al periodo maturo del Catalano. Facendo il confronto con altre opere simili dovremmo trovarci nel secondo decennio del ‘600; i personaggi ritratti in questa tela, dovrebbero essere pertanto (dopo aver valutato gli altri feudatari di Specchia nel periodo che va dagli ultimi decenni del ‘500 ai primi decenni del ‘600), Ottavio Trane e la moglie Isabella Rocco Carafa, ed ipotizzerei, vista anche l’intitolazione della tela all’Annunciazione di Maria, la data 1611, data di nascita di Margherita Trane, futura Marchesa e moglie di Desiderio Protonobilissimo, in tal caso questa tela potrebbe configurarsi come una sorta di ex voto.

Un ulteriore dilemma infine è relativo all’attribuzione del Perdono di Muro, assegnato dalla critica al D’Orlando: può l’angelo con le vesti celesti di questa tela, datata 1608 e attribuito al D’Orlando, essere stato realizzato dal Catalano nella successiva tela dell’Annunciazione di Specchia e ritenuta opera certa del pittore gallipolino?

La soluzione credo di averla espressa – in forma differente – già nel 2003, con tutte le prove del caso; il dipinto andrebbe attribuito all’ambito artistico del Catalano, come le altre tele proposte, e vista la sua qualità artistica e la caratura sociale di chi la commissionò, la riterrei anche una buona opera dello stesso pittore gallipolino.

 

Bibliografia essenziale

E. Pendinelli, M. Cazzato, Il pittore Catalano, Galatina 2000.

S. V. Patella, Una nova opera del pittore Giandomenico Catalano. Originali, copie e riprese del gallipolino a Muro Leccese, in “Il Bardo”, XIII, n. 1, p. 2, Ottobre, Copertino 2003.

L. Galante, Gian Domenico Catalano “Eccellente Pittore della città di Gallipoli”, Galatina 2004.

A. Cassiano, F. Vona (a cura di), La Puglia, il manierismo e la controriforma, Modugno 2013.

 

Archivi consultati: Archivio diocesano di Otranto e Archivio storico parrocchiale di Muro Leccese.

Ringrazio Luigi Mastrolia per avermi fornito gentilmente le foto del “Perdono di Assisi” di Campi.

 

Galatone e le sue tradizioni, tra antropologia e fede

Vernet

di Giuseppe Resta

Conoscere è importante per ricordare.

Ricordare è necessario per essere comunità.

Certi fenomeni sociali e di pietà popolare, legati alla storia e all’antropologia, oggi, dimenticate ma non perdute le ragioni dell’origine, sembrano svuotati dai significati originari. Questo porta chi non conosce la genesi di questi fenomeni a giudizi non sempre obiettivi, a volte affrettati.

Purtroppo tante delle nostre tradizioni (dal latino traditiònem, da tràdere = consegnare, trasmettere) hanno perso il messaggio significante, confondendo il percettore sul significato. E chiunque legga la tradizione con i paradigmi dell’oggi e non quelli del passato può incappare in giudizi superficiali, nati su presupposti errati.

A mio modestissimo parere la tradizione non dovrebbe essere bruscamente cancellata o violentemente modificata solo perché oggi c’è chi si dimostra incapace di leggerla, ma piuttosto bisognerebbe indagare e riscoprire i veri profondi significati che la hanno generata e trasmetterli ancora per divulgare la comprensione e rinsaldare il legame con la comunità per fortificare la socialità e la civicità.

E’ pertanto difficile, per un appartenente alla Comunità Galatea, assistere a spostamenti di significati di antiche tradizioni consolidate, senza provare, seppur nell’obbedienza, un moto di disagio.

« Le storie antiche sono, o sembrano, arbitrarie, prive di senso, assurde, eppure a quanto pare si ritrovano in tutto il mondo. Una creazione “fantastica” nata dalla mente in determinato luogo sarebbe unica, non la ritroveremmo identica in un luogo del tutto diverso » (Claude Levi Strauss)

In antropologia la tradizione è l’insieme degli usi e costumi – e dei valori collegati – che ogni generazione, dopo aver appreso, conservato, modificato dalla precedente, trasmette alle generazioni successive. La tradizione è particolarmente sentita dalle comunità minoritarie che, attraverso di essa, tendono a conservare la propria identità.

Nella teologia cattolica, la tradizione cristiana è quella approvata dal concilio di Trento, ricca anche di tutti gli eventi non provabili, ma che sono ritenuti reali dai fedeli e/o dalle gerarchie ecclesiastiche. Nella teologia cattolica la tradizione è la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, nell’atto in cui perpetua e trasmette a tutte le generazioni “tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede” (Concilio Vat II, Dei Verbum 8).

2 maggio 2011 004

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n° 1679 <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana.>>

Un rito (o rituale) è ogni atto, o insieme di atti, che viene eseguito secondo norme codificate.

Secondo Ernesto de Martino, lo studioso italiano che tanto ha legato il suo lavoro alle fenomenologie antropologiche di questo nostro Salento, il rito aiuta l’uomo a sopportare una sorta di “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, sentendo minacciata la propria stessa vita. I comportamenti stereotipati dei riti offrono rassicuranti modelli da seguire, costruendo quella che viene in seguito definita come “tradizione”.

Il sociologo Emile Durkheim ha invece fatto notare come la componente iniziale religiosa del rito porti a una funzione sociale, che permette di fondare o di rinsaldare i legami interni alla comunità. Sulla stessa linea anche l’antropologo funzionalista Bronislaw Malinowski.

Diversamente gli antropologi Arnold Van Gennep e Meyer Fortes considerano primaria la funzione sociale e culturale del rito che può estendersi poi in ambito religioso.

Pertanto la sfera della “tradizione”, così come quella del “rito”, così interconnesse, rappresentano un patrimonio culturale connotante una comunità, identificandola.

<<Tutto ciò che tentiamo di pensare e in qualunque modo tentiamo di pensarlo, lo pensiamo nell’ambito della tradizione. Essa si impone quando ci libera da un pensiero che segue le cose per portarci verso un pensiero che le anticipi senza essere più un pianificare. Solo se ci rivolgiamo pensando verso ciò che è già stato pensato, ci troviamo ad esser volti al servizio di ciò che ancora è da pensare.>> (M. Heidegger- Identità e differenza-).

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica, alla voce “La religiosità popolare”, n°1674: <<Oltre che della liturgia dei sacramenti e dei sacramentali, la catechesi deve tener conto delle forme della pietà dei fedeli e della religiosità popolare. Il senso religioso del popolo cristiano, in ogni tempo, ha trovato la sua espressione nelle varie forme di pietà che accompagnano la vita sacramentale della Chiesa, quali la venerazione delle reliquie, le visite ai santuari, i pellegrinaggi, le processioni, la «via crucis», le danze religiose, il Rosario, le medaglie, ecc.>>. 1679: <<Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illuminarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di religiosità popolare, che esprimono un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana>>.

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Lo spaesamento (letteralmente!) che potrebbe derivare da una perdita di queste connotazioni sarebbe gravissimo, portando alla spersonalizzazione di una comunità, nel baratro della globalizzazione amorfa e senza elementi identificativi, verso l’incultura dei “nonluoghi”, come li definisce l’etnoantropologo Marc Augé, in contrapposizione ai luoghi antropologici. Cioè tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici; prodotti della società della surmodernità (o supermodernismo), incapace di integrare in sé i luoghi storici confinandoli e banalizzandoli in posizioni limitate e circoscritte; privilegiano l’immagine e la quantità sull’essenza e la qualità.

5 maggio 2011 2 037 (2)

Due tradizioni storiche centenarie, come l’Asta, per aggiudicarsi il privilegio devozionale e sacrificale del portare in processione la statua del SS. Crocifisso, o addirittura tricentenarie, come il “carro di San’Elena”, rappresentano una connotazione identitaria forte per tutto la comunità galatea. Perderle sarebbe veramente “un peccato”.

Secondo i sociologi sono questi rituali con i quali gli abitanti del posto ripetono una tradizione che li contraddistingue da tutti gli altri paesi vicini. Dunque il tema è quello del loro valore socializzante: la festa diventa il simbolo principale della propria storia, cultura, tradizione, della propria personalità collettiva. Il riferimento alla tradizione rappresenta in tal modo il patrimonio culturale, ambientale e familiare, rivelando un popolo, la sua cultura e la sua fede.

Comprenderne la genesi aiuterebbe a preservarne lo spirito originario, sempre molto legato al culto e alla devozione sincera e, quindi, forte e “pulita”.

“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)

 

L’Asta di Galatone

2 maggio 2011 004

di Giuseppe Resta

Nel 1892, a seguito di una guarigione da una polmonite (allora di polmonite si moriva), Vito Lucio De Benedetto, il guarito, insieme ai fratelli Marino, Sebastiano e Luigi, fecero realizzare la statua del SS. Crocefisso che tutti conosciamo, commissionandola a Lecce (probabilmente al cartapestaio Antonio Malecore, discepolo di Giuseppe Manzo, ma si dice anche al cavaliere Luigi Guacci. La statua non è firmata e si sono persi i documenti). Il 1° maggio del 1892 i fratelli De Benedetto andarono a Lecce con un carro, di buon’ora, per ritirarla accompagnati da 12 loro uomini di fiducia, in parte comandati, in altra parte offertisi volontari.

Tanta fu l’impressione suscitata dalla bellezza della statua, dalla sua espressione dolce e sofferente, dalla pietà e dal dolore intimo che trasmetteva, che decisero di non caricarla sul carro, ma di portarla a spalle per i circa 26 chilometri che intercorrono tra il centro di Lecce e quello di Galatone. Probabilmente, con le strade sterrate e il carro senza sospensioni, avranno pensato che tanta bellezza si sarebbe potuta sciupare o danneggiare.

Giunti a destinazione non entrarono in paese, ma si fermarono poco fuori, presso il convento della Madonna della Grazia. Qui la custodirono fino al giorno successivo, 2 di maggio, finché il vescovo Giuseppe Ricciardi la benedisse solennemente. E dal convento la statua fu portata nel centro del paese con una solenne processione, dove le si affiancarono anche le altre statue presenti a Galatone.

Da allora ogni anno, insieme alla reliquia del Sacro Legno come sempre si era fatto, si porta in processione la statua. E, siccome portarla a spalle, come “gli uomini dei De Benedetto”, è stato sempre considerato un privilegio, una devozione, un sacrificio per espiare colpe o per ringraziare di grazie ricevute o per suffragare intercessioni richieste, si decise che, per evitare discussioni – che potevano anche degenerare – si procedesse all’Asta fra squadre di portatori. Procedura diffusa, per altro, in tutto il meridione italiano.

Così si definì il rito: sei uomini del comitato dei festeggiamenti spostavano la statua dal sacello e la munivano delle tre assi (operazione complicata che prevede maestria e mestiere; cultura, insomma). Una volta guarnita del necessario per poterla portare a spalla, la presentavano alla folla sul sacrato, fermandosi sopra al primo dei tre scalini che separano il piano del Santuario dalla strada. Qui un membro anziano ed esperto del Comitato (l’ultimo a fare l’Asta in questa maniera è stato Mesciu Totu Parisi) dava inizio all’Asta secondo la formula consolidata della “candela di cera vergine” (quindi ai sensi degli artt. 73, lett. a), e 74 del R.D. 23/5/1924 n 827). Come spesso succede ed è comunemente accettato, le candele sono state sostituite da tre fiammiferi – li pospari – . Avvertiti gli astanti sulle modalità dell’Asta il banditore passava solennemente all’accensione del primo fiammifero. Partivano le prime offerte. Spento il primo fiammifero, la prima fila dei portatori della statua faceva un passo avanti scendendo il primo gradino. Si accendeva il secondo fiammifero. Stesso rito. Così fino al terzo scalino e al terzo fiammifero. Spento questo si riteneva inderogabilmente valida l’ultima offerta. Così, fra gli applausi, si poteva consegnare la statua alla prima sestina di portatori che si erano aggiudicati l’onore. E la processione poteva partire.

L’Asta così è diventata in e per più di cent’anni un segno antropologico identificativo della nostra comunità. Un segno connotante e distintivo.

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Bisogna pensare che la pratica dell’Asta per l’aggiudicazione di un qualsiasi bene è antichissima. Presso gli antichi Romani una vendita pubblica era annunciata da un’ hasta, una lancia, simbolo di proprietà, che si piantava sul luogo del pubblico incanto come segno della pubblica autorità. È proprio attraverso le aste che gli antichi romani ripartivano il tesoro conquistato in guerra. In latino esistevano le seguenti espressioni:

– sub hastā venděre, o hastae subicěre  (vendere all’incanto);

– hastam poněre (“piantare l’asta”, cioè “annunciare una pubblica vendita”) ;

– ab hastā (acquisto all’incanto);

– ius hastae (diritto di vendita all’incanto).

Nella cultura galatonese, invece rimangono di questo rito le frasi “simu rriati all’ultimo scalone” (siamo giunti all’ultimo gradino), “stae prossimu all’urtimu scalone” (è prossimo all’ultimo gradino) o “s’è stutatu l’urtimo posparu” (si è spento l’ultimo fiammifero). Tutte frasi entrate nei modi di dire popolari per definire un momento di non ritorno, la fine di un’impresa, di un’avventura, la fine infausta di una malattia, un fallimento economico, l’avvenuta o incipiente morte. Frasi che fanno capire come la ritualità dell’asta sia entrata prepotentemente e stabilmente nella tradizione di questo popolo. Ne ha rappresentato “cultura” tanto da essere assorbita dal lessico popolare.

Le aste sono la modalità di scambio sicuramente più conosciuta. Diversi tipi di merci, ma anche di titoli (come i Titoli di Stato), di contratti e diritti vengono scambiati tramite aste. La sostanza dell’asta resta sempre identica: mettere in concorrenza più agenti per l’acquisizione di una o più risorse limitate, così da realizzare una attribuzione efficace.

Di sicuro l’Asta che si è tenuta per la processione non ha messo in vendita né la statua, che rimane sempre donata al santuario, né tantomeno il Crocifisso, ma si è disputato solo il privilegio devozionale, e molto sentito, di potersi sacrificare a portare la statua per la processione. In palio è solo quel privilegio. Nient’altro.

Bisogna aggiungere che per formare le varie squadre si cominciavano a tessere relazioni già subito dopo le feste di Natale, si contattavano i partecipanti degli anni precedenti, si integravano con nuovi, molti si proponevano ai capi squadra perché avevano ringraziamenti da fare o grazie da chiedere al Crocifisso. Si stabiliva il tetto massimo di ogni quota, chi poteva “coprire” eventuali splafonature. Si accettavano anche quelli che non avevano da versare l’intera quota ma erano devoti e non potevano rinunciare a quel rito. Composta la squadra (almeno 36 persone valide, escludendo dal computo chi partecipa finanziariamente ma per acciacchi non può reggere il peso) ci si ritrovava presso un bar o uno spiazzo almeno un’ora prima dell’inizio dell’asta. Si verificano le presenze, si componevano le squadre per parità di altezza. Si sorteggiavano l’ordine di alternanza delle squadre. Si riteneva fortunata la prima squadra che iniziava per prima la processione, così come l’ultima che è quella che la chiudeva. Gli anziani o esperti del gruppo mettevano subito a conoscenza i neofiti del sistema per portare la statua senza molti danni, di come bilanciarne il peso, di come incedere sempre con lo stesso passo, come non farla ballonzolare troppo, con danni alla statua e alle spalle dei portatori. Si trasmettevano informazioni, facendo cultura. Solo dopo tutta questa preparazione di recitava una preghiera tutti insieme e si raggiungeva compatti la piazza dell’Asta. Avrebbero potuto parlare solo i caposquadra precedentemente designati. Il caposquadra principale si sarebbe messo sotto il banditore per gli ultimi rilanci e per controllare la piazza e tenere d’occhio le altre squadre.

Tutto un complesso di procedure e di sapienze che si tramandava.

Il ricavato dell’Asta, pubblico e quindi trasparentissimo e sotto gli occhi ed il controllo di tutti, è sempre andato a pagare le spese della Festa.

Tutto questo rito, vissuto con partecipazione e solennità ha avuto un grave colpo quando, negli anni novanta, in ottemperanza a decisioni prese nella conferenza episcopale pugliese, si impose – senza ascoltare e comprendere – di spostare il luogo dell’asta, svolgendola senza la statua dietro le spalle. Scelta che non solo ha ammantato di ipocrisia una centenaria tradizione (l’asta rimane, in denaro gira, si sposta solo di una piazza il luogo: occhio non vede, cuore non duole.) ma ha creato una spettacolarizzazione senza significato. Senza la presenza della statua e senza il rito dei fiammiferi e degli scalini si è svuotato il pathos della celebrazione, creando una cesura tra il significato ed il significante. Tra il sacro ritualizzato ed il profano esposto in piazza. Così in una piazza si faceva l’asta sotto le luci, consentendo a chiunque di salire sulla cassarmonica, persino a far passerelle politiche, a pronunciare discorsi, a fare comizi, a pavoneggiarsi, e nell’altra i fedeli si assembravano in attesa della partenza della processione. L’Asta ha perduto la ritualità e trasformandosi in una sorta di televendita televisiva con tanto di banditore, effetti speciali, musiche, esibizioni.

E’ chiaro che in questo ambiente liberato dalla ritualità ci sia stato chi non la letto più l’origine di questa antica usanza. Rimaneva intatto lo spirito di chi partecipava, di chi aveva conservato cultura e significante, ma chi guardava dall’esterno coglieva solo – anche giustamente – l’aspetto profano ed esibizionistico. Aspetto esibizionistico che, chiaramente, ci poteva anche essere. Ma dove non è? Però bisogna dire anche che i tentativi di alcuni personaggi politici di entrare nelle squadre per farsi vedere non ha avuto molto seguito: non è da tutti portare sulla spalla una cinquantina di chili per qualcosa in più di mezzo chilometro. La mattina seguente la spalla e la schiena facevano male. Certi personaggi per farsi pubblicità usano mezzi meno faticosi e anche a minor costo.

asta

Ci si è preoccupati – anche questo giustamente! – come non far avvenire che queste manifestazioni, come in altri posti succede ed è successo, fossero finite in mano a mafie e delinquenza. A Galatone tutto questo non è mai successo. (É successo invece anni fa che i fuochi di una festa parrocchiale siano stati pagati, con tanto di nome in grassetto sui manifesti, da affiliati alla Sacra Corona, qualcuno persino già tradotto in carcere. Ma di questo pare nessuno provò scandalo).

Si sarebbe potuto ovviare a questi problemi chiedendo quindici giorni prima l’elenco dei partecipanti alle squadre con una autodichiarazione (da consegnare alle autorità competenti) di verginità da procedimenti penali trascorsi o in corso. Fatto salvo che sarebbe dovuta rimanere una dichiarazione volontaria, considerato che una eventuale richiesta obbligatoria dell’elenco dei portatori delle statue da parte delle autorità civili, pur nello spirito di una opportuna e saggia collaborazione di massima, non troverebbe fondamento nel vigente sistema normativo dello Stato italiano. L’esercizio pubblico del culto, infatti, nel cui ambito ricadono anche le processioni religiose, è garantito pienamente dagli artt. 17 e 19 della Costituzione italiana. Per la Chiesa cattolica tale garanzia è stata ribadita anche nell’Accordo del 18 febbraio 1984 tra la Repubblica italiana e la Santa Sede (L. 25 marzo 1985, n. 121) che nell’art. 2 afferma che “…è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. L’esercizio pubblico del culto tocca, pertanto, sia l’ambito proprio del diritto di libertà religiosa e del diritto di riunione, sia l’ambito dei rapporti tra Repubblica italiana e Santa Sede (art.7 Cost.).

D’altronde escamotages come l’asta in busta chiusa o l’estrazione dei partecipanti non cambierebbero o risolverebbero il problema. Anzi! Nella busta chiusa ci sarebbero comunque denari di ancora più ignota provenienza. Col sorteggio non sarebbe esclusa comunque la presenza o di mandanti di infiltrazioni malavitose.

A mio parere, pertanto, tutto considerato, forse sarebbe bene, almeno in questo specifico caso, tornare all’antico, facendo l’asta come si è fatta per più di cent’anni, con la statua e con i fiammiferi, ridando il giusto peso alla cultura ed alla storia e lasciando intatto il legame tra la sacralità e la sentita e partecipata manifestazione di pietà popolare.

D’altronde, a ben guardare, in altre realtà pugliesi le aste si fanno ancora, anche più sontuose e più spettacolari, senza che nessuno abbia pensato di toglierle. E questa discrepanza di trattamento indispone non poco i fedeli. Se il denaro è “lo sterco del Diavolo” è anche vero che, in altri casi, è buon concime, e non tanto disprezzato. Da nessuno.

Si è anche più volte notato come succeda che dei riti siano soggetti a improvvisi accessi di modernismo e/o episodi di pauperismo. Come quando in alcuni Capitoli si abolirono le vesti tradizionali delle congreghe, trasformando i confratelli in anonimi maggiordomi, mentre, dove si sono conservate, la sacralità, l’anonimato, l’effetto scenico, e quindi turistico ed identificativo, rimane sempre fortissimo.

“Se il cielo si svuota di Dio, la terra si popola di idoli” (Karl Barth, fondatore della “teologia dialettica”)

Come succede a tanti sedicenti atei che poi frequentano sette, santoni, fattucchiere, ciarlatani, o abbracciano religioni e credenze orientali o alimentari estremizzate e programmano la loro vita in base all’oroscopo.

Il Carro di Sant’Elena a Galatone

5 maggio 2011 2 037 (2)

di Giuseppe Resta

Il Carro di Sant’Elena a Galatone
(Origini, storia, ritualità, cultura, evoluzione, spettacolarizzazione e tentativi di corruzione di un rito di pietà popolare)

Tanto è stato detto sul Carro – per ogni galatonese “Lu Carru” tout court – perché tanta è la connotazione identitaria che questo evento riveste nella galatonesità e tanto antica è la sua origine.
Ma proprio questa “popolarizzazione” ha permesso che le radici originali del Carro, i motivi che hanno portato alla sua realizzazione, si perdessero tra leggende, credenze, imprecisioni, inutili polemiche prive di fondamento o basate non su di un insieme di fattori – come sempre succede nelle cose umane – ma cercando di isolare questi da quelli, secondo l’impostazione del polemista di turno.
Forse è il caso di mettere finalmente ordine.
A partire molto da lontano, non possiamo dimenticare che i primi giorni di maggio erano i giorni nei quali in tutta l’Europa si celebrava il trionfo della primavera e la ripresa della piena attività agricola fin da epoche arcaiche. Dalle lotte rituali tra Inverno e Primavera nacquero persino le giostre dei tornei medievali.
Fin dal 238 avanti cristo, tra il 28 aprile e il 3 di maggio a Roma si celebrava una festa in onore di Flora, protettrice degli alberi durante la fioritura, Dai classici sappiamo che queste feste si chiamavano Floralia.

Protagoniste di queste feste erano le prostitute scelte come simbolo di sessualità primigenia ed energia fecondatrice. Da questi riti nasce il Calendimaggio, festa corale non meno importante del Carnevale.

Nicola Cusano, capace di conciliare paganesimo e cristianesimo, nel suo trattato “La Dotta Ignoranza” afferma : << Questa è stata dunque la differenze tra tutte le genti, che tutte avevano una fede nell’unico Dio massimo… però alcuni, come i Giudei e gli Esseni, lo adoravano nella sua unità semplicissima, quale complicazione di tutte le cose, altri invece lo veneravano in quelle cose ove trovavano un’esplicazione della divinità, accogliendo quanto ci è noto ai sensi come uno strumento per ricondursi alla causa ed al principio>>.
Tralasciando tutta una nutrita serie di eventi folkloristici legati a queste feste arcaiche di maggio, nel caso specifico ci si deve meglio riferire alla “Croci di Maggio”.

Nel vecchio calendario romano al 3 di Maggio si celebrava l’Inventio Sanctae Crucis, il ritrovamento della Croce di Gesù, scoperta da Elena, madre di Costantino il 14 settembre del 326 e poi trafugata nel 614 dal re persiano Cosroe Parviz dopo la conquista di Gerusalemme e restituita nel 628 all’imperatore Bizantino Eraclio (Esaltazione della Croce). ( Vedi le Storie della Vera Croce, ciclo di episodi affrescato da Piero della Francesca nella cappella maggiore della basilica di San Francesco ad Arezzo, databile al 1458-1466).
Secondo l’Enciclopedia Cattolica la data del 14 settembre assunse il nome ufficiale di Trionfo della Croce nel 1963, commemorando la conquista della Croce tolta ai Persiani, e la data del 3 di maggio fu mantenuta come Ritrovamento della Santa Croce, comunemente detta Invenzione della Croce.
La croce alla quale venne crocifisso Gesù sarebbe stata trovata insieme a quelle dei due ladroni scavando il terreno del Golgota. Si racconta che venne riconosciuta miracolosamente: accostando le tre croci a una malata, questa sarebbe stata guarita all’esposizione della terza. La “Vera Croce” rimase esposta a Gerusalemme; sottratta dai Persiani nel VII secolo, venne recuperata dall’imperatore bizantino Eraclio I. Nel 1187 venne portata dai Crociati sul campo di battaglia di Hattin, perché assicurasse loro la vittoria contro il Saladino; la battaglia invece fu perduta e della croce si persero le tracce per sempre.

Tuttavia nei secoli precedenti ne erano stati prelevati numerosi frammenti che sono tuttora conservati in molte chiese. Erasmo da Rotterdam ironicamente affermava che ne circolavano così tanti che con quel legno si sarebbe potuta costruire una nave.

Una recente ricerca stima invece che i frammenti oggi esistenti, messi insieme, costituiscano solo circa un decimo del volume della croce di Elena. Tuttavia la sproporzionata quantità di reliquie della Croce che vi era nei tempi passati era tanto esagerata che si trovarono diverse spiegazioni. San Paolino ne propose una miracolosa, ovvero il fenomeno “della reintegrazione della Croce”: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma, a fronte di qualunque prelievo di legno, la croce restava sempre integra [The Catholic Encyclopaedia, Vol. 4, p. 524].

Nel centro-sud dell’Italia la festa delle Croci era particolarmente sentita perché cadeva quando stava per maturare il grano. Per questo si facevano grandi processioni portando una grande croce. Altre croci costruite di canne o ramoscelli venivano piantate nel mezzo di campi di frumento.
Ad Accettura, in provincia di Matera, la sagra del Maggio è una festa popolare che si tiene ogni anno in occasione dei festeggiamenti per il patrono San Giuliano. Si tratta di un antico rito nuziale e propiziatorio in cui il Maggio, un albero di alto fusto, viene unito ad un agrifoglio, la Cima, rappresentando i tradizionali culti arborei molto diffusi soprattutto nelle aree interne della Basilicata e della Calabria.

Secondo gli antropologi, queste celebrazioni sono fedeli ad uno schema presente negli antichissimi riti pagani agrari ed arborei tipici delle popolazioni contadine di molti Paesi europei e mirano a portare nel proprio paese e nella propria casa lo spirito fecondatore della natura, risvegliatosi con la primavera; rappresentano pertanto l’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione.
Un retaggio dell’importanza rituale e stagionale delle due feste cattoliche riferite all’Inventio e all’Esaltazione della Croce è racchiusa nel detto galateo “ Da Croce a Croce”, cioè dal 3 di maggio al 14 di Settembre, quindi dalla festa del Crocifisso a quella di Cristo di Tabelle (cappella sita nel comune di Galatina in confine con quello di Galatone, molto frequentata dai galatonesi.). Con questa limitazione temporale determinata si scandiva il periodo dell’affitto dei fondi rustici, o della villeggiatura, o, più comunemente, del riposo pomeridiano.
La conservazione di usi, costumi, riti, credenze che risalgono a parecchi secoli, alcuni di millenni (i cosiddetti “Rottami di antichità” di Giambattista Vico), riveste grande importanza, dal momento che l’attuale perdurare di antiche forme di vita e cultura, testimonianze di un passato assai remoto, riveste il fenomeno di un significato e di un valore veramente notevoli.
È infatti acquisizione ormai certa e incontrovertibile il fatto che diversi culti cristiani si siano innestati nel corso dei secoli su culti pagani che risultano perduranti tuttora nel mezzogiorno d’Italia.
Il paganesimo è stato una religione politeista prevalentemente a carattere misterico e soteriologico, basato sul rapporto tra singolo e il dio. Il termine “pagano” designa colui che non ha aderito al cristianesimo ed è rimasto fedele all’antica religione. L’origine del vocabolo è stata spiegata in vari modi. Per la maggior parte degli studiosi, “paganus” equivale a “rustico”: i pagi (villaggi), infatti, sarebbero stati l’ultima roccaforte e baluardo del paganesimo. I culti popolari sono sopravvissuti per millenni, passando dalle religioni antiche a quelle moderne. Tale continuità è da identificarsi nel mantenimento della struttura sociale caratteristica delle società contadine, nonostante alcuni mutamenti, i quali non hanno intaccato tuttora il tipo di rapporto tra la comunità e le sue divinità. Le permanenze cultuali del passato sono particolarmente evidenti nei culti popolari (processioni, feste, manifestazioni carnevalesche, ecc.), nei quali spesso i motivi cristiani si sono sovrapposti a motivi di religioni preesistenti a carattere popolare.
In molte delle manifestazioni di religiosità popolare è, difatti, spesso riconoscibile un sottofondo pagano che la Chiesa, quando non è riuscita a estirpare, ha saputo trasformare e adottare, dando ad esso un nuovo significato. Con un reciproco effetto: alcuni riti pagani si sono cristianizzati ma al contempo il cristianesimo si è anche paganizzato.
A prescindere da queste considerazioni bisogna entrare nel quadro culturale e cultuale del periodo di nascita del Carro. É probabile e non escludibile che nei primi anni del 1700 a Galatone ci fossero ancora in uso riti agrari propiziatori del tipo suesposto.

Ma di certo il primo Carro di Sant’Elena di cui si ha certa notizia si riscontra negli anni tra il 1718 ed il 1719 nel libro degli Esiti del Santuario del Santissimo Crocifisso  – terminato nel 1696 e poi consacrato nel 1711. E’ anche lecito pensare, ma non abbiamo nessuna prova, che il carro di Sant’Elena sia una delle tante cristianizzazioni di culti pagani. È però certo che di carri barocchi come il nostro in quel periodo se ne facevano tanti. Vedi quello per la Madonna della Bruna che ancora si fa a Matera.

Siamo nei primi anni del 1700, appena fuori dallo sforzo normalizzatore post tridentino, così difficile da far attecchire nell’estremo sud della penisola. Si edifica il nuovo santuario come un reliquiario di pietra del Crocefisso, quindi della Croce. Tutto il santuario, consacrato nel 1711, è concepito come una teologia di pietra per esaltare la Croce, dall’ Invenzione all’Esaltazione.

Lo stesso altare maggiore, che poggia sulle quattro Virtù Cardinali, effigiate secondo la canonizzata iconologia di Cesare Ripa, è un continuo rimando al mistero ed alla teologia della Croce. Al centro è custodita l’icona del SS. Crocifisso della Pietà affiancata dalle statue di san Francesco Saverio e san Francesco di Sales, difensori della fede e custodi della Croce. In alto una teoria di quattro angeli con gli attrezzi della passione e al centro la Madonna Addolorata, fra le pie donne e gli angeli del Giudizio, in alto la Veronica. A destra e sinistra del finto tendaggio che sormonta la Veronica, due pitture del Letizia che raffigurano rispettivamente una il ritrovamento da parte di Elena, madre di Costantino, della Croce sul luogo della crocifissione e l’altra la restituzione ad Eraclio I della Croce sottratta a Gerusalemme dai Persiani.
Negli stessi anni, precisamente nel 1716, ma commissionati l’anno precedente, arrivano da Napoli l’ostensorio d’argento con la figura a tutto tondo di San’Elena che regge la Croce e il reliquiario d’argento del frammento della S. Croce, con l’immagine a bassorilievo della Veronica.
In quegli anni (1716) nasceva lo stesso O. Amorosi, che a quanto risulta fu lo sviluppatore del carro, (e non l’inventore, ameno ché a due o tre anni non fosse già prodigiosamente attivo) che scrisse una grande Sacra Rappresentazione “L’Invenzione delle Croce”, musicata da Don Domenico Lillo. Lo Stesso Amorosi teneva delle adunanze nello stesso santuario del Crocifisso disquisendo di Verità cattoliche e sulla stessa devozione locale per il Crocifisso.
In questo clima non è difficile immaginare che sia nato coscientemente il Carro, per celebrare degnamente l’invenzione della Croce, se mai incanalando anche precedenti manifestazioni, ma sicuramente con una connotazione cattolica controriformista e legata alle mode dell’epoca.
La manifestazione non rappresentava certo il passaggio da Galatone di Sant’Elena con la Croce (Croce che dopo la scoperta era peraltro rimasta a Gerusalemme, e questa è storia!) da queste lande (in ogni caso, anche sbarcando a Otranto, avrebbe percorso la Traiana salentina Orientale – o via Calabra, valorizzata proprio in epoca costantiniana – fino alla via Appia, e non certamente la Traiana occidentale).
Né vale nemmeno la pena discutere su presunte origini messapiche, legate a culti di fecondità per niente presenti in questa zona del mediterraneo. Così non vale nemmeno la pena di sprecare del tempo per confutare presunti legami di toponomastica di vecchie vie rurali. La Storia è fatta di documenti certi, parallelismi inequivocabili. Le supposizioni, le intuizioni, le strane combinazioni, le coincidenza, gli indizi, insomma, senza prove non fanno parte della Storia, ma servono a creare storie, leggende, favole, letteratura. Tutte cose belle e valide, ma diverse dalla Storia. Almeno questo è il metodo scientifico di approccio alla materia valido, quello che insegnano nelle università di tutto il mondo. D’altronde le ipotesi sono un buon stimolo di ricerca, ma se poi non si arriva a dimostrarle rimangono ipotesi. Senza contare che spesso si dimentica che la storia del Salento ha una cesura di circa duecento anni tra la fine disastrosa delle guerre gotiche che portò allo spopolamento quasi totale del Salento romanizzato e i primi ripopolamenti bizantini. In questi casi spariscono intere città, si inselvatichiscono intere regioni, pensare che possano rimanere toponimi senza popoli che li tramandino è fantasia.
Perciò la rappresentazione era e dovrebbe essere nient’altro che la riproposizione della rappresentazione del Trionfo di Elena, di ritorno da Gerusalemme dopo aver ritrovato la vera Croce, che riportava i Tre Chiodi Sacri a Roma. (Per approfondire si consiglia una lettura della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.)
I Tre Sacri Chiodi (due per le mani e uno per i piedi inchiodati insieme), trovati ancora attaccati alla Sacra Croce, sarebbero stati portati da Elena negli anni tra il secondo e terzo decennio del IV° secolo al figlio Costantino.

Secondo la leggenda uno di essi venne montato sul suo elmo da battaglia, da un altro invece fu ricavato un morso per il suo cavallo. Il terzo chiodo, secondo la tradizione, è conservato nella chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Il “Sacro Morso” invece, si trova nel Duomo di Milano, dove due volte l’anno viene mostrato ai fedeli.

Del chiodo montato sull’elmo si sono perse le tracce; secondo una tradizione si trova oggi nella Corona Ferrea, conservata nel Duomo di Monza (che, secondo alcuni storici, è proprio il diadema dell’elmo di Costantino), ma anche altre città e santuari ne hanno rivendicato il possesso. Ma tutto si perde nella leggenda, tanto più che il ferro della Corona Ferrea si è dimostrato, in anni recenti, essere invece d’argento.

Il Trionfo era un’Istituzione prettamente romana. Costituiva il più alto onore riconosciuto a un comandante che, in possesso dell’”imperium maius”, avesse riportato un’importante vittoria su un nemico. L’aspetto originario del Trionfo era religioso: il suo scopo consisteva nel recarsi al tempio di Giove Capitolino per sciogliere i voti fatti all’inizio della spedizione. Con il tempo il prevalere dell’aspetto politico-militare rese il trionfo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
Il corteo si formava fuori del pomerio, dove i militari si accampavano nel Campo Marzio, entrava in città attraverso la Porta Triumphalis, passava per il Circo Massimo e, presa la Via Sacra, ascendeva per il Clivo Capitolino giungendo al tempio di Giove. E’ chiaro che nei secoli il percorso della Via Sacra ha subito diverse modifiche ed il punto di arrivo nel tempo è stato spostato più volte mseguendo le trasformazioni urbane ed edilizie. In testa al corteo erano i senatori e i magistrati, seguiti dagli animali sacrificali votati al dio, dall’apparato sacerdotale e dalle spoglie dei vinti: il bottino trainato su carri, i prigionieri di alto rango e infine la massa dei prigionieri più umili. Al centro del corteo era il gruppo del trionfatore: preceduto da littori e musici, il vincitore della campagna, abbigliato come Giove Capitolino e con il viso dipinto dal sacrale colore rosso, avanzava su un carro trionfale trainato da quattro cavalli bianchi, accompagnato da figli e parenti. Dietro il trionfatore, la coda del corteo era dedicata ai combattenti: preceduti dagli ufficiali superiori dei vari reparti (legati e tribuni) sfilavano gli ufficiali inferiori e le truppe, in ordine militare e con le loro decorazioni. A Giove Capitolino il trionfatore offriva il lauro e quindi compiva il sacrificio.

Quindi è questo il solo vero significato del Carro di Sant’Elena.
Dobbiamo ricordare che i Trionfi romani avevano avuto una grande fortuna artistica iconografica sia in epoca medievale che rinascimentale, quando gli artisti copiavano i bassorilievi dei ruderi romani o gli encausti che si andavano scoprendo. In letteratura sono notissimi I Trionfi scritti da Francesco Petrarca. Un poemetto allegorico in volgare italiano; opera iniziata nel 1351 e terminata nel 1374, che grande fortuna ebbe durante il rinascimento ed il manierismo, ritrovando interesse nel periodo barocco.
Il Trionfo Allegorico di Giovanni Granai Castriota che sormonta il portale cinquecentesco della chiesa di San Sebastiano a Galatone, che allegoricamente si ripropone come comandante vittorioso al ritorno delle guerre contro gli infedeli nei Balcani, è copiato da originali romani, copiati e ricopiati fin nel periodo Barocco e poi Neoclassico. Tant’è che Claude-Joseph Vernet, nel 1789, con il “ trionfo di Emilio Paolo” del 1789 ancora ripropone fedelmente lo stesso schema iconografico di quello galateo. (Spero che a nessuno venga in mente di dire che Vernet lo copiò da Galatone!!! Ma potrebbe anche essere che qualche storico-creativo lo possa anche dire. Ormai…).

Da notare proprio come il bassorilievo di San Sebastiano riporti in bassorilievo la Porta Trionfale da una parte e il Circo Massimo dall’altra.
I Galatei quindi, nel bassorilievo di foggia romana della facciata di San Sebastiano avevano fin dal 1500 un modello. Modello che è stato di supporto anche negli anni settanta del secolo scorso quando, con il professore De Mitri e Don Gino Leante, si è cercato di sfrondare il carro da improbabili incrostazioni pacchiane per ridare una certa plausibilità storica e spendibilità turistica all’evento.
Date queste premesse cultuali, teologiche, artistiche e storiche è assolutamente impensabile spostare la manifestazione dalla sua propria collocazione temporale a ridosso della festa del’Invenzione della Croce. Né appaiono fondate e giustificabili le istanze volte a portare la manifestazione nel giorno dedicato a Sant’Elena – 18 agosto – solo per cercare di trasformare una manifestazione che ha precise origini sacre in un semplice richiamo turistico di massa. Sarebbe un vero scippo prosaico ad una manifestazione religiosa connotante. Sempre che non si voglia artatamente trasformare anche questa tradizione cattolica e popolare in un trionfale e sfarzoso spettacolo propagandistico. Proprio come il trionfo ai tempi di Roma imperiale.
Così non è condivisibile che si tenti di laicizzare una manifestazione che invece nasce nel Santuario del Crocifisso, ispirata da questo, legata a questo e che ha sempre rappresentato un momento spettacolare di evangelizzazione sui valori della Croce per tutti i fedeli.
Pertanto mi auguro rimanga il rientro della Sant’Elena in chiesa al grido di –Ave Augusta, Ave Crux, Milites Vos Salutant!-. l’accoglimento del cappellano e la benedizione della Croce e della folla.
Anche se siamo tutti debitori agli organizzatori dell’ultima rappresentazione – la migliore, certamente, di sempre – plaudendo doverosamente per l’encomiabile entusiasmo, lo sforzo sovrumano, la incrollabile dedizione, il tanto sacrificio, sarebbe meglio esimerci dal commentare, poi, l’inopportuna messinscena con l’”assalto al Carro”.

Detto “assalto” sembrerebbe perpetrato da presunti “saraceni” col turbante, che sarebbero già musulmani nientepopodimenoche quasi duecentocinquanta anni prima della nascita di Maometto (se è vero come è vero che il ritrovamento della Croce risale agli anni intorno al 320 d.C. e che Maometto è nato alla Mecca tra il 570 e il 580 d. C. ); e che questi non ben identificati predoni in turbante non romanizzati avrebbero dovuto poi assaltare il Carro Trionfale nel suo rituale percorso sulla Via Sacra in pieno centro di Roma imperiale per depredarlo di una reliquia (che non c’era) di una religione ancora non pienamente diffusa.
Anche a leggere una sceneggiatura teatrale metaforica, allegorica, riproponendo un’angoscia per l’attuale attacco del Sultanato all’Occidente cattolico, rimane a mio personale parere, stante quanto sin qua detto e argomentato, un malriuscito tentativo di spettacolarizzazione lontano da verità storiche e dalla tradizione consolidata; uno straniante cortocircuito spazio temporale, poco plausibile. Personalmente mi auguro che più non si ripeta.
Le fonti bibliografiche che si sono consultate per redigere questo scritto sono a disposizione di tutti. Se si vuol fare e fare bene, alla storia, alla tradizione, al culto, alla verità si dovrebbe leggere e studiare – o di chiedere a chi ha già approfondito – prima di decidere e fare.
Non penso che sia proficuo volgere tutto in spettacolo, in fanta e meta storia per ottenere solo uno sfarzoso spettacolo propagandistico.
In questo caso dovrebbe essere l’identità comunitaria dei galatonesi, se vogliono e sanno, e se soprattutto c’è, opporsi ai primi segnali di stravolgimento di una tradizione consolidata antica di trecento anni per riportarla nei giusti canoni, farla progredire, rifinirla bene, organizzarla meglio e renderla sempre di più elemento corale connotante e qualificante della nostra comunità. Si dovrebbe riuscire a lavorare tutti d’accordo e concordemente su rispettose basi storiche per la buona riuscita e la conservazione di una così preziosa e rara tradizione connotante. La spendibilità turistica si può avere solo portandola a livelli qualitativi alti, in linea con la concorrenza di tanti altri cortei storici.
Ognuno faccia il suo, secondo le proprie competenze e vocazioni. Solo insieme si può riuscire a fare cose buone.

Daniele Greco vince la medaglia d’oro nel salto triplo

 

Daniele Greco (da fiammeoroatletica.it)
Daniele Greco (da fiammeoroatletica.it)

 

L’atleta salentino conquista il primo posto ai Campionati europei indoor. La sua Galatone in festa

 

di Stefano Manca

Di “straniero” ha solo il cognome, ma l’atleta 24enne Daniele Greco è italianissimo. Viene da Galatone, in piena terra salentina. Lo scorso due marzo Daniele, specializzato nel salto triplo, conquista a Goteborg la medaglia d’oro ai Campionati europei indoor. Greco diventa campione d’Europa nel salto triplo, “volando” per oltre diciassette metri: 17.70, per la precisione. Medaglia d’argento e di bronzo per due atleti russi, rispettivamente Samitov (17.30) e Fyodorov (17.12). In questi casi sono i centimetri a fare la differenza. Lo sa bene anche Raimondo Orsini, l’allenatore che segue Daniele dal 2003. E fu proprio Orsini ad indirizzare Greco all’atletica leggera. Seppur giovanissimo Daniele vanta già un glorioso curriculum: è stato infatti uno dei protagonisti dello sport italiano anche un anno fa, alle Olimpiadi di Londra. Per la prima volta un cittadino galatonese approda nella manifestazione sportiva più prestigiosa del mondo. È il 9 agosto 2012: sotto gli occhi di tutto il pianeta, il triplista salentino salta per 17.34 metri, ottenendo un lusinghiero quarto posto nella classifica finale. Anche senza medaglia, pochi giorni dopo la città di Galatone festeggia l’atleta che rientra da Londra.

E adesso arriva l’oro di Goteborg. Il Salento riesplode di gioia. Galatone è pronta ad accogliere nuovamente il “suo” campione. Uno di poche parole che dialoga con i ragazzi. Uno dei suoi ultimi incontri lo ha tenuto in un istituto superiore di Nardò qualche settimana fa, poco prima di gareggiare in Svezia. Daniele risponde alle domande dei suoi quasi coetanei. Poi, armato di semplicità, se ne va, conquista l’oro, sventola il tricolore, si commuove e ringrazia Gesù. Nel frattempo la grande stampa racconta la sua impresa.

E la sua Galatone? Cittadini, amministratori, amici e familiari lo aspettano con entusiasmo. Qui non ci sono calciatori miliardari o veline o scontri tra tifoserie. Qui c’è “solo” un oro da festeggiare, conquistato da un ragazzino con la faccia pulita che salta più di tutti.

 

 

Francesco Bellotto scultore di Nardò e il cinquecentesco corteo trionfale della chiesa di S. Sebastiano a Galatone

 

Mesagne, portale del Bellotto (ph M. Gaballo)

di Vittorio Zacchino

Se vi capita di recarvi a Mesagne, vi raccomando una visita alla chiesa dell’Annunziata, o almeno una veloce incursione al «vico Antonio Corsi, alle spalle della Chiesa dei Domenicani». Vi imbatterete nella piacevole sorpresa di poter ancora ammirare «incastonato nella muratura esterna del coro» un bel portale di gusto e fattura rinascimentali con un sopraporta scolpito con scene di un corteo.

Ne fu autore, come scoprirete di lì a poco, uno scultore salentino del Cinquecento, anzi un neretino di Nardò: Francisco Bellocto de Nerito, reso noto per primo nel 1875 dallo storico di Mesagne Antonio Profilo. Dopo un superficiale interessamento di Amilcare Foscarini, fu un altro genius mesagnese, Antonio Franco, che il 1960 sottopose il portale a rigorosa analisi critica, in un ambito comparativo fra portali di epoca rinascimentale, allargato a tutta l’area pugliese. Da quella scrupolosa ricognizione non sortirono altri frutti se non questo che il portale della chiesa domenicana dell’Annunziata risultava opera unica a firma di questo pressoché ignoto scultore.
Infatti su due targhette laterali del portale di Mesagne si conservano il nome del suo autore e quello della sua patria d’origine: su quella di sinistra è inciso M(Fran)CISCO BELLOCTO, sull’altra di destra DE NERITO SCULPSIT, e in aggiunta l’impresa della città di Mesagne e quella della Famiglia Beltrano, feudataria pro tempore di Mesagne; sul filatterio, ai lati della Veronica (testa del Cristo) la data di esecuzione IS/SS (1555).

A giudizio del Franco l’autografo corteo di Francesco Bellotto è «di squisita eleganza» ed ancora in buono stato nonostante le bucherellature del salnitro e quelle prodotte dalle fionde dei monelli.

In concreto siamo di fronte a un fregio rettangolare, collocato al di sotto della statua della Madonna Annunziata, in cui viene effigiata una «scena continua che si svolge da sinistra verso destra e rappresenta molto probabilmente un corteggio regale che entra in una città simboleggiata da una specie di torre a tre piani che si trova all’estremità destra». Nonostante l’entusiasmo di Franco, l’opera appariva, già nel 1960, molto rovinata, ma non fino al punto da non consentirne una descrizione: «da sinistra di chi guarda sono riconoscibili vicino la torre due specie di buffoni che precedono due figure virili con corona, col capo vestito di lunga tunica stretta alla cintura che avanzano verso la torre seguite da paggi, fanciulli, cavalieri e da un carro a due ruote tirato da una coppia di cavalli, uno dei quali arpionato da una figura infantile, è preceduto da un cane. Sul carro è seduta una donna anch’essa con corona sul capo. Segue questo gruppo centrale una serie di guerrieri appiedati vestiti di corazze e con ampi scudi, chiudono il corteo alcuni cavalieri al galoppo verso i quali si sottomette una figura prona».

Ma il corteo rappresentato, smentendo Antonio Franco, non era quello della principessa Isabella Gonzaga che aveva fatto tappa a Mesagne nel luglio 1549, durante il viaggio verso i suoi feudi del basso Salento (di Alessano e Specchia), bensì quello che il 1510 aveva portato la Regina Giovanna a Mesagne e in altre sue terre, dove l’avevano accolta in pompa magna il governatore Giovanni Granai Castriota e il di lui fratello Alfonso (le due figure virili coronate).
Questo di Mesagne, autografo dell’artista neritino, è pertanto un pannello lapideo cinquecentesco, dedicato all’ingresso di una regina in una piccola terra del Mezzogiorno, un corteo affollato delle varie rappresentanze cittadine (civili, religiose, militari) che scortano l’augusta ospite, Giovanna III d’Aragona, una delle due tristi reyne, vedova di re Ferrante nel suo ingresso a Mesagne di cui è feudataria.

Antonio Franco nel tentarne la destrutturazione storica ed artistica, mediante un suggestivo excursus che prende in esame diverse sculture di analogo soggetto, presenti in edifici sacri di tutta la regione, veniva fortemente attratto, tanto da concentrarvi ogni sua attenzione, dal portale rinascimentale della chiesa dei Santi Sebastiano e Rocco di Galatone, datato 1500 e, particolarmente, dall’elegante fregio che lo sormonta. Anche il sovrapporta di Galatone infatti propone un corteo trionfale di rilevanti qualità artistiche.

Mesagne, particolare el portale firmato dal Bellotto (ph M. Gaballo)

Sulla base delle forti somiglianze che vi colse tra le due opere, di Mesagne e di Galatone, Franco si convinse che questo secondo corteo doveva attribuirsi alla stessa mano che aveva firmato il portale di Mesagne, cioè a Francesco Bellotto de Nerito. Il portale di Galatone fa venire in mente scultori di maggior grido come Nuzzo Barba e Niccolò Ferrando di Galatina, o loro discepoli, né si deve escludere che lo stesso Bellotto, come anche il Franco supponeva, potrebbe essersi formato nelle loro botteghe. Un’ipotesi su cui scava il dibattito storiografico come sull’altra, suggestiva, dell’attribuzione del medesimo portale ad artista di maggior spicco, il famoso Gabriele Riccardi proposto di recente da Mario Cazzato, autorevole storico dell’arte. In questa sede mi preme tentare di capire ed eventualmente riuscire a dimostrare, sul piano umano e storiografico, se è compatibile e conciliabile nella vicenda esistenziale ed artistica di Bellotto una divaricazione cronologica di ben cinquantacinque anni, quanti ne sarebbero corsi appunto tra le due committenze domenicane di Galatone (1500) e di Mesagne (1555).

Recentissime analisi storiche, nostre e di altri, hanno dimostrato che la forbice si può restringere di almeno una ventina d’anni, con la conseguente datazione del bassorilievo di Galatone al 1530-1535, e l’agevole superamento del problema di incompatibile longevità artistica del Bellotto. Analisi confortate e supportate dagli avvenimenti storici galatonesi e salentini coevi, e dai loro protagonisti. Nella problematica epigrafe situata sul prospetto della chiesa di Galatone si afferma che la chiesa sorse nell’anno 1500 (MD) per voto ed iniziativa di Giovanni Granai Castriota figlio primogenito di Bernardo, barone di Ferrandina e conte di Copertino, il quale Giovanni dedicò il tempio a San Sebastiano e lo affidò ai padri domenicani.

Chi era costui e quali rapporti ebbe con Galatone? Oriundo macedone, brillante dongiovanni, cortigiano ed intrinseco della regina Giovanna, dopo essere stato anche vescovo di Mazara, il Castriota fu soprattutto audace condottiero e tenace difensore di Taranto di Gallipoli e di Galatone che, fortiter pugnans, aveva difeso e liberato dai francesi invasori del Salento negli anni 1500-1502. Amico dell’umanista Antonio Galateo, il quale qualche anno dopo ne ricorderà le gesta eroiche e le vittorie nel De Situ Iapygiae (1507-1509) e in due epistole dirette ai fratelli Alfonso e Giovanni, e al figlio di quest’ultimo Pirro.

Fu sicuramente in quel tempo (1500-1503) di perdurante esposizione ai pericoli che Giovanni Castriota dovette proclamare l’intenzione di erigere la chiesa la quale, come si può facilmente intuire, non poteva essere costruita in tempo di guerra, bensì alcuni anni più tardi. Nel 1712, ricostruita la chiesa, i domenicani ricordarono l’avvenimento sottolineandone la data con epigrafi dentro e fuori dell’edificio sacro: graffita sulla sommità della facciata in una cornice barocca (PRAEDICATORUM ORDINIS DUX ET MAGISTER DOMINICUM A.D.1712), replicata nella targa marmorea sovrastante il portale, su fascia di colore più scuro aggiunta in basso (NOVITER ERECTUM A(NNO) D(OMINI) MDCCXII), e ancora il 5 maggio 1719 al momento della consacrazione officiata dal vescovo Antonio Sanfelice, con altra più elaborata iscrizione posta all’interno, per riaffermare che questa nuova fabbrica era sorta il 1712 post CC annos dalla precedente del 1500, ad iniziativa dell’ordine domenicano. E così la data della prima fabbrica veniva avanzata, per malizia o ignoranza, dal MD al 1512 senza osservazioni di chicchessia. Fino ad oggi. E già questa discrepanza tra due epigrafi apposte a soli 7 anni di distanza, segnala una correzione di ben dodici anni tramite l’espressione post CC annos. Perché è assurdo che nel 1719, imperversanti Antonio Sanfelice e Pietro Polidori negli ambienti curiali di Nardò, si continuasse a parlare di Giovanni Granai Castriota semplicemente come del rampollo dei baroni di Ferrandina, e si ignorasse il nobile guerriero barone di Galatone e conte di Copertino, e valoroso trionfatore dei francesi.

Giovanni Castriota era succeduto al padre Bernardo nella contea di Copertino e nella baronia di Galatone, nell’ agosto 1508, e gli era anche subentrato a Ferrandina, e nella amministrazione dei feudi reginali di Leverano, Veglie, e Mesagne, dove si narra abbia perso la vita in duello nel 1516 (non nel 1514).

È importante, quindi, sottolineare i seguenti elementi: Mesagne e Galatone, due località governate dal medesimo barone Giovanni Granai Castriota, stessa intermediazione nelle due città dei padri domenicani, incaricati di far costruire due chiese o dallo stesso mecenate-committente finché fu in vita, o, in seguito, da congiunti del medesimo casato. Come è noto i Granai Castriota, con Maria, unica erede di Giovanni a Ferrandina, Galatone, e nella contea di Copertino, inizialmente tutorata dallo zio Alfonso, governatore della provincia e marchese di Atripalda, governarono quei feudi fino al 1549; quindi stesso artifex (Bellotto) pur con interventi eseguiti in epoche assai distanti tra loro.

Qualche anno dopo la morte del Castriota, la sua vedova Giovanna Gaetani di Traetto, aveva sposato in seconde nozze il duca di Nardò Bernardino Acquaviva. Una coincidenza non priva di sviluppi. Si può supporre infatti che il Bellotto sia stato suggerito ai domenicani di Mesagne da Isabella Acquaviva Castriota la quale, per essere figlia di Francesco, terzo duca di Nardò, era nipote di Bernardino Acquaviva, e ovviamente di Giovanna Gaetani, e naturalmente già vedovata in questi anni del conte Beltrano. Sicché la committenza mesagnese potrebbe essere riconducibile a lei che, verosimilmente, vivendo anche a Nardò, vi aveva conosciuto il Bellotto e viste opere sue forse eseguite in precedenza a Galatone e a Nardò.

Il nostro discorso, come è evidente, punta a dimostrare che la prima fabbrica del San Sebastiano di Galatone, e quindi il suo portale col corteo, vanno spostati di una trentina d’anni: a) per le difficoltà belliche già accennate (guerra tra Francia e Spagna scandita dalla disfida di Barletta del 1503, poi dalla battaglia di Cerignola dello stesso anno, fino alla stabilizzazione del viceregno di Napoli nel 1506 con Ferdinando il Cattolico; guerra franco-ispanica di Lautrech del 1527-1529; b) per il ritrovamento di un cartiglio (da me scoperto sul suddetto portale) con incisa la frase CASTRIOTA DOMUS, coincidente col documentato decennio di dimora nel castello di Galatone della famiglia Castriota (Alfonso con la moglie Camilla Gonzaga e la nipote Maria Castriota orfana di Giovanni) dal 1522 al 1531; c) l’inoppugnabile evoluzione artistica del classico manufatto galatonese rispetto a quello più modesto di Mesagne.

Alla luce di tali presupposti si può sostenere che, dopo il voto di Giovanni Castriota dichiarato il 1500, mentre ferveva in Salento la guerra contro i francesi, a costruire la chiesa di S.Sebastiano siano stati i Castriota, con tutta probabilità nel corso della loro residenza a Galatone. La Casa Castriota in solidum (con Pirro e la sua sorellastra Maria figli di Giovanni, soprattutto quest’ultima, ormai uscita di minorità e titolare della baronia) i quali, prima a Galatone, in seguito a Mesagne, vollero immortalare, nei rispettivi portali di due chiese domenicane, le gesta eroiche del loro glorioso congiunto. Le cui spoglie, ormai circondate dall’aureola e dal mito, alla cui nascita avevano contribuito l’amicizia personale e gli elogi di Antonio Galateo, potrebbero aver trovato l’ultima ospitalità in San Sebastiano, ed aver costituito il pannello di un eventuale sarcofago-mausoleo dell’eroe albanese.
(continua)

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°4

Da Profico a Caputo: l’avvento del fascismo nel Salento

 

di Alessio Palumbo

 

Nel giungo di novanta anni fa, esattamente il 15 di giugno, Cosimo Profico, un contadino, ex combattente, vicino alle posizioni del neonato partito popolare e attivo fautore delle leghe contadine organizzate da don Vito Marinuzzi e mons. Vito De Razza, incontra in piazza Colonna, ad Ugento, Luigi Ancora.

Ancora è un procaccia postale, un fascista facinoroso, distintosi per gli attacchi ai popolari e per alcune scritte minacciose ed offensive sull’abitazione del De Razza. In piazza Colonna gli animi si surriscaldano facilmente: tra i due scoppia una lite ed il procaccia estrae la pistola. Profico tenta allora di darsi alla fuga, ma quattro colpi di pistola lo raggiungono alla nuca, uccidendolo. Ancora fu arrestato ma, a distanza di due anni quasi esatti (24 giugno) “beneficiando di un decreto di amnistia emanato dal governo Mussolini nel dicembre del 1922, era stato assolto dalla Corte d’Assise di Lecce in quanto l’omicidio di Cosimo Profico (iscritto al Partito Popolare) era stato qualificato come omicidio politico” (S.Coppola, Politica e violenza nel Capo di Leuca all’avvento del fascismo, Lecce, Grafiche Giorgiani, 1999, pp.10-11).

L’omicidio Profico non era certo il primo in ordine di tempo. Il quattro novembre dell’anno precedente degli squadristi di Galatone avevano ucciso Giuseppe Manta, contadino di Sogliano. Tre mesi dopo fu la volta di Salvatore Giuppa

Galatone. Il castello di Fulcignano e la triste leggenda del tesoro

di Massimo Negro

Bastano pochi passi lungo il sentiero sterrato, che il suono ritmato dai miei passi sul terriccio mi fa quasi subito dimenticare il rumore invadente dell’auto lasciata poco distante e l’anonimo asfalto. Un alto muro di recinzione con mattoni uniti da antica malta, muretti a secco dalle dimensioni e altezze ben oltre la mia, ripari abbandonati immersi in un verde della campagna che piacevolmente occupa sempre più la vista man mano che procedo lungo il sentiero che, in alcuni punti, pare intagliato nella roccia.

Le lievi sinuosità del sentiero e gli alti muretti a secco trattengono il mistero e solo nell’approssimarsi della meta iniziano ad apparire tra le fronde degli alberi le alte mura dell’antico Casale di Fulcignano. Si svelano lentamente, e chi ci arriva per la prima volta deve quasi attendere di essere dinanzi alla cancellata d’ingresso per capire appieno la maestosità dell’antico complesso fortificato.

Il tragitto lungo il sentiero è breve ma, se ben predisposti nell’animo e messa da parte la nostra ordinaria frenesia, è sufficiente per fungere quasi da macchina del tempo. Per iniziare lentamente a proiettarci in una dimensione temporale che non è la nostra, ma i cui echi agli orecchi attenti fa ancora sentire il suo richiamo.

Il Castello di Fulcignano, quello che rimane dell’antico Casale che occupava quella zona, non è la solita struttura fortificata a cui siamo abituati visitando i castelli di Otranto,  Copertino, Gallipoli, Acaya e Lecce. Non mi riferisco alle caratteristiche architetturali e strutturali di questi siti, comunque profondamente diverse, quanto al fatto che queste strutture, parte integrante del nucleo urbano storico di queste cittadine, sono ormai inglobate nel centro abitato. Circondati da strade, da case, spesso da esercizi commerciali. Non è così per Fulcignano che resta immerso, forse casualmente risparmiato dalla speculazione edilizia, nella campagna a ridosso della periferia di Galatone. Fortunatamente le case presenti nell’intorno non rompono questa atmosfera di magia che vi sto raccontando, grazie forse anche a questi sentieri sterrati e ai maestosi muretti a secco da ammirare, che stanno diventando sempre più una rarità nel nostro Salento.

Ed è la storia a rispondere alle nostre domande. Il sito dell’antico Casale di Fulcignano con il suo castello non è quello che poi sarebbe diventata l’attuale Galatone, con il suo centro storico e le bellissime chiese barocche erette a poca distanza.

Antonio De Ferrariis nel suo “Liber de Situ Japygiae” scritto nei primi del XVI secolo, riporta quanto segue:

“… Ricordo di aver sentito riferire da alcuni vecchi sacerdoti greci  … che i Galatonesi avessero avuto origine dai Tessali … Ora, per un gioco della fortuna, è tornata sotto il potere dei Tessali. Infatti Giovanni Castriota, duca di Ferrandina… è un macedone, originario di una località non distante da Calatana e Filace [Phylace], città della Tessaglia.

Galatone nei tempi antichi racchiudeva nel perimetro urbano sia l’altura che la vallata. L’acropoli era detta “sentinella”, e fu così chiamata dall’omonima città tessala, come ascoltai dire dagli anziani [il Galateo si riferisce al nome della località di Phylace]. I Latini, avendo cambiato come al solito  y in u, pronunziarono Fulaciano ossia Fulciliano. Questa era posta sul colle, nel piano invece Galatone. Da un’unica città sorsero due insediamenti distanti tra loro neppure cinquecento passi. Fulaciano conservò sempre la lingua greca, Galatone invece adottò la latina.

Sorti dei contrasti tra i due centri abitati dalla stessa gente, come frequentemente suole accadere tra vicini, si venne alle armi. Galatone sconfisse Fulaciano e la rase al suolo. Quasi tutti gli abitanti trasmigarono a Galatone; pochi, per l’oltraggio subito, trovarono rifugio nelle città vicine e smisero di servirsi delle consuetudini, delle fogge dei vestiti e della lingua greca, ma non dimenticarono la loro originaria etnia”.

Poco più avanti il Galateo torna a descrivere il sito:

“Galatone è ubicata alle pendici della collina, la sua acropoli, che abbiam detto chiamarsi Filace, è posta sul colle. Qui l’aria è salubre e tiepida, i venti giovevoli e dolci, i campi soleggiati: è un’eterna primavera con la terra coperta di fiori e profumata di erbe …”

Nella seconda metà dell’ottocento, Cosimo De Giorgi nel suo libro “La Provincia di Lecce. Bozzetti”, nel riprendere quanto scritto dal Galateo, fa un breve ma efficace descrizione del sito:

“Oggi non resta che il solo castello, e dista da Galatone circa ottocento metri in linea retta al S.E. dell’abitato. Nell’interno è di forma rettangolare; all’esterno gli spigoli volti al N.O. sono rinforzati da torrette quadre, mentre gli opposti che guardano la collina ne mancano affatto. Bella è la porta d’ingresso ed il vestibolo … L’arco è gotico, ed è decorato da un fregio delicato scolpito sulla pietra leccese e in parte cariato. Restano ancora poche stanze nell’interno e da una scala, che sembra quella descritta dall’Alighieri fra Lerici e Turbia, si monta sulle mura che hanno circa due metri di grossezza. Osservate che bel panorama!

… Il fossato che lo cingeva è stato colmato, e la carie, corrodendo le pareti esterne delle sue mura, lascia credere sia stato prodotto da proiettili nemici ciò che è lavoro di mamma natura.”

Riguardo le origini del castello, dell’antico casale e la loro storia, la documentazione a disposizione è molto scarna, né ad oggi sono mai state condotte ispezioni e ricerche archeologiche tali da avvalorare quanto ci racconta il Galateo nel suo libro. Ipotizzare un’origine greca del sito, ritengo che non ci porterebbe molto lontano dalla realtà, alla luce del fatto che molti casali sorsero intorno a preesistenti siti bizantini (nell’area è stata rinvenuta una moneta dell’imperatore Basilio I). Né d’altro canto, sono ad oggi note informazioni che possano connettere la storia di questo sito con la popolazione Messapica. Ma alle luce del precario quadro documentale e archeologico ad oggi disponibile, qualora dovessero essere avviate serie e strutturate indagini del sito, altre e importanti informazioni verrebbero sicuramente alla luce.

Le prime notizie documentate risalgono al XII secolo. Durante una visita pastorale tenutasi nel 1719, il  Vescovo di Nardò Antonio Sanfelice fece riportare l’esistenza di un’epigrafe scritta in greco e in latino che descrive Fulcignano come un centro di passaggio di carovane e pellegrini: “theodorus protopas famulus sanctae dei genitricis hospitium construxit anno 6657”, che corrispondente al 1149 del calendario cristiano.

Altre notizie, sempre dello stesso periodo, riportano i nomi di alcuni signori e possessori di Fulcignano. Nel 1192 un certo milite, Maurizio Falcone, e poi successivamente un Aymarus di Guarnierius Alemannus possessore di Zurfiniani.

E’ presumibile che il Casale di Fulcignano continuò la sua crescita dimensionale nei successivi due secoli, tra il XIII e il XIV secolo, sino a quella che il Galateo descrive come una sorta di guerra con la vicina Galatone, che portò alla distruzione del casale. Il Chronicon Neretinum fa riferimento a questa contesa, datandola nel 1335.

Nel 1412 gli abitanti del Casale non dovevano essere più di 170 e appena trent’anni dopo un focolario aragonese non ne conta più di una trentina.

Da quel nefasto evento, quel che rimaneva del Casale e il suo Castello, passarono di mano in mano a diverse nobili famiglie, tra i primi Giovanni Del Balzo Orsini che lo ricevette come donazione nel 1426 dalla Regina Giovanna II. La sconfitta di Fulcignano nel 1135 e alcune successive contese che interessarono alcune zone del Salento, tra cui presumibilmente anche questa, portarono al suo definitivo declino e al suo progressivo abbandono.

Avviciniamoci al castello percorrendo un breve sentiero che dall’attuale cancellata di ingresso del sito porta verso l’antico portale ‘ingresso. Dell’antico fossato rimane solo traccia in un lungo ed ampio avvallamento posto ad una decina di metri dal castello. Questo lascia supporre che l’eventuale ponte levatoio non fosse parte integrante del Castello, ma posto in una struttura prospiciente il prospetto d’ingresso.

Secondo Paul Arthur, professore di Archeologia Medievale presso l’Università del Salento, “la forma planimetrica, e i dettagli architettonici, suggeriscono che l’edificio non sia anteriore all’età sveva, quando una serie di fortificazioni in Italia, note specialmente attraverso i castelli in Sicilia, risentono di influssi architettonici orientali trasmessi dalle Crociate. La forma quasi quadrata, con quattro torri angolari (le due posteriori scomparse: una circolare, l’altra forse circolare in una prima fase e quadrata in una seconda), trova confronti nell’architettura castellare islamica, che sembra aver, a sua volta, mantenuto vivo le tradizioni tardo romane di architettura castrense.”

Per il professor Arthur, il Castello di Fulcignano rappresenta una delle testimonianze più singolari del Medioevo salentino, in particolare per la sua forma localmente inconsueta (da altri studiosi definita come “castello-recinto”), tanto da poterlo ritenere una delle fortificazioni medievali più antiche sopravvissute nella provincia.

Ponendosi immediatamente sotto le mura e guardando in alto, non si può non notare la maestosità del complesso. La forma della cinta muraria è quadrangolare con i lati che presentano una lunghezza variabile che va dai 75 metri (torri comprese) del lato d’ingresso, ai 49 metri del lato più corto. L’altezza delle mura è di circa 8 metri con uno spessore di circa 2,6 metri. Le due torri angolari rimaste ancora in piedi, hanno i lati che presentano misure variabili tra gli 8,40 e i7,55 metri.

Il portale d’ingresso è quello ottimamente descritto dal De Giorgi, anche se, rispetto alla struttura originaria,  sono evidenti dei successivi rimaneggiamenti come il camino ricavato nella muraglia all’esterno dell’entrata.

Il primo vano dopo l’ingresso è caratterizzato da una volta a crociera a sesto acuto con interessanti decorazioni, un sedile in muratura lungo il lato destro e un camino. L’accesso al giardino è stato modificato e, guardando dall’esterno è chiaramente visibile la forma originaria ad arco, poi successivamente tamponato in mattoni per ricavare l’attuale porta. Dal vano d’ingresso si accede, sulla destra a due vani con volta a botte, oggi abbondantemente deturpati da scritte in vernice o a penna.
Dal secondo vano, da una porticina sia accede ad un terzo locale privo di pavimentazione caratterizzato, da diversi elementi architettonici che meritano una breve descrizione.

Al centro del locale vi sono i resti di un antico ed ampio camino oggi ormai completamente distrutto. A sinistra del camino, da un’apertura con arco a sesto acuto, parte quel che resta di una scala circolare che conduceva su una delle torri di difesa. Oggi è solo percorribile in parte e bisogna stare attenti ai detriti e mattoni crollati. Mentre a destra parte una scala che conduce sul tetto dei locali in precedenza attraversati, da cui è possibile ammirare l’interno del complesso fortificato e il profilo della città di Galatone. La vista di oggi è indubbiamente ben diversa rispetto a quella che fece esclamare al De Giorgi: “Osservate che bel panorama!”.

Il panorama non  è lo stesso, ma in compenso ci si può arrischiare a compiere qualche passo sulla sommità delle mura.

Le caratteristiche del terzo vano visitato sono ben diverse rispetto ai primi due vani attraversati tanto da farmi sorgere qualche dubbio sui tempi di realizzazione di questi locali, che appaiono costruiti solo in tempi successivi.

Questo terzo vano ha un porticina che conduce all’esterno verso il giardino. Percorrendo un piccolo vialetto il cui piano di calpestio è di circa un metro più in basso rispetto al piano del giardino, si ritorna verso il corpo centrale del Castello. A sinistra si notano tracce di locali ormai crollati, con la sezione iniziale di un arco in pietra ancora ben visibile e altre decorazioni in pietra sulla facciata dell’unico locale non crollato presente su quel lato del complesso. Molto probabilmente, si tratta di locali già da tempo non più utilizzati, per lo meno a fini abitativi, perché non vi è un accesso diretto dal vano d’ingresso, né in quella sezione mi conduce il vialetto del giardino.

Continuando a seguire il perimetro interno delle mura, la torre posta a sinistra dell’ingresso nasconde al suo interno un incredibile sorpresa. Occorre fare un piccolo sforzo per arrampicarsi ed accedere dall’apertura ad arco a sesto acuto che conduce all’interno. Proseguendo mantenendosi sul lato sinistro, con molta attenzione, si può nuovamente arrivare, grazie ai resti di un antico passaggio in pietra arricchito con semplici decori, sulla sommità delle mura. A destra invece vi è un’ampia apertura che si affaccia all’interno della torre che si presenta cava all’interno.

Tornato nel giardino e proseguendo lungo il lato sinistro, è possibile notare una evidente particolarità nella struttura delle mura, non visibile dall’esterno. Sino all’altezza di circa cinque metri la muratura è a pietre informi ed opera incerta, salvo diventare ben rifinita nella restante parte superiore dove sono ben visibili numerose buche per quasi tutta la lunghezza della muratura. Non si tratta di ripari per piccioni, sono delle “buche pontaie”, ossia dei fori nella muratura usati solitamente per conficcare i pali delle impalcature necessarie per completare le costruzioni particolarmente alte, per poi essere successivamente sfilate a lavoro ultimato. Ma a volte venivano usate, in modo definitivo, come base per realizzare dei ballatoi esterni. Vi è anche l’ipotesi che potessero accogliere delle travi di copertura di alloggiamenti realizzati in legno. Solo studi approfonditi e verifiche anche alla base delle mura potranno svelare l’effettivo utilizzo che venne fatto di queste buche e cosa vi fosse intorno al perimetro interno delle mura. Vi è comunque da tener presente che lungo l’esterno delle mura vi sono lunghe file di buche pontaie, e queste sono sicuramente state utilizzate per elevare l’altezza delle mura.

Concludendo il cammino lungo il lato sinistro della cinta muraria, nella parte finale si aprono due ampie nicchie ad arco, sotto una delle quali passa un lungo canale di scolo che, partendo da una sorta di pozzo-cisterna porta verso il vicino tracciato ferroviario, e i resti della solita apertura che doveva condurre sulla torre ormai distrutta. L’utilizzo di queste nicchie è alquanto oscuro e potrebbero lasciar pensare ad un nucleo di strutture in muratura andato poi successivamente incluso nelle mura.

Il lato che corre parallelo al lato d’ingresso presenta indicativamente le stesse caratteristiche del tratto appena percorso. Nel giungere al luogo dove una volta doveva sorgere la quarta torre, si possono notare tra i rami dei melograni, i resti dell’antico ballatoio in muratura che doveva condurre sulle mura.

Ma prima di concludere, non si può non raccontare la leggenda del luogo. Come tradizione vuole, ogni castello che si rispetti ha il suo fantasma. E il nascere di queste credenze, di queste leggende, è molto spesso legato a storie, difficili da dimostrare nella loro veridicità, molto spesso drammatiche se non proprio cruente, come quella che vi andrò a raccontare. La leggenda racconta che durante un assedio che si stava protraendo da lungo tempo, senza che gli aggressori ne venissero a capo, costoro con un colpo di mano riuscirono a rapire il figlioletto del feudatario del tempo per fiaccarne le difese. Il fanciullo fece un orribile fine: venne ucciso e, una volta squartato, le sue membra vennero appese ad un carrubo affinché i poveri resti fossero visibili dall’interno del castello. Quando all’indomani la madre si trovò dinanzi allo scempio fatto al corpo del figlio, impazzi per il dolore e invocò il diavolo affinché custodisse il tesoro del castello. Chi voleva impadronirsi delle ricchezze avrebbe dovuto portare un bimbo in dono a Satana. Il tempo che il demonio avesse impiegato per divorare il bimbo, sarebbe stato il tempo concesso per trovare il tesoro.

Si racconta che un uomo tentò nell’impresa ma con l’inganno, camuffando da bambino un gatto. Purtroppo per lui il gatto si mise a miagolare e i suoi  versi mandarono a monte l’impresa. Il diavolo resosi conto del raggiro scatenò una tremenda tempesta facendo fuggire a gambe levate il malcapitato imprudente. Da allora nessuno provò più a cercare il tesoro del castello che rimase e rimane così protetto e guardato a vista dal diavolo. C’è poi chi racconta che in alcune notti è possibile udire ancora le grida e i lamenti della povera madre privata crudelmente della vita del suo figlioletto. Una storia molto triste, come lo  sono buona parte delle storie di fantasmi.

Lasciato l’interno del Castello, mi sono incamminato verso sinistra costeggiando i resti del fossato e poi le mura seguendole per l’intero perimetro, con lo sguardo costantemente rivolto verso l’alto per abbracciarle in tutta la loro altezza. Una meraviglia!

Il sito, che era già stato dichiarato monumento nazionale con D.M. 6/11/1967, è divenuto di proprietà comunale nel 2011 dopo una lunga e veemente protesta civile da parte di molti abitanti di Galatone e non solo. Ma molto resta ancora da fare.

Fulcignano è come un forziere di un tesoro ancora non aperto. Un tesoro vero, non come quello della leggenda, che appartiene non solo a Galatone ma a tutti quanti noi Salentini, e per questo è necessario uno sforzo collettivo, da parte degli Enti, Università, Associazioni e liberi cittadini, volto a tutelate non solo il Castello ma anche l’area circostante per consentire di mantenere questa sorta di unicità anche nel paesaggio che lo caratterizza.

Speriamo di non dover attendere a lungo!

di Massimo Negro

PS: vi segnalo questo video realizzato (il 31.12.2009) con foto del luogo durante il periodo in cui montava la protesta per chiedere al Comune di Galatone l’acquisto del luogo; video che venne segnalato anche in un articolo de “Il Quotidiano” dal corrispondente locale.

http://www.youtube.com/watch?v=HAlLrcnI5YY

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da: http://massimonegro.wordpress.com/2012/01/22/galatone-il-castello-di-fulcignano-e-la-triste-leggenda-del-tesoro/

Galatone. Tabelle. Genesi, morte e rinascita di un casale: la chiesa di Santa Lucia

ingresso attuale della chiesetta, ph Viganò R

 

di Riccardo Viganò

La chiesetta di santa Lucia, attualmente sconsacrata, è l’unica sopravissuta, in alzato,delle numerose chiese del casale medievale di Tabelle a Galatone (Lecce). Sicuramente di culto greco- bizantino, confermata dai nomi dei santi legati alla liturgia bizantina cui erano dedicati la maggior parte dei nove luoghi di culto presenti in questo feudo:  in particolare S. Nicola di Myra , S. Eleuterio, S. Costantino, S. Onofrio, S. Demetrio, oltre alle chiesette di Santa Maria e di S. Pietro. Di queste  rimangono solo poche evidenze archeologiche e poche notizie da fonti orali.

ingresso originario, ph Viganò R.

Risultato  di modifiche e ristrutturazioni operate tra i secoli XVI e XVIII, la chiesetta di Santa Lucia si presenta attualmente come un edificio di piccole

Seclì. La chiesetta della Madonna di Luna

La chiesetta della Madonna di Luna

Uno scempio storico-artistico tra Seclì, Galatone e Aradeo

 

di Annunziata Piccinno

 

Nelle campagne salentine sono disseminate le cappelle e le edicole votive; di alcune di queste spesso si ignora l’esistenza o le radici storiche, altre invece sono conosciute e frequentate, altre ancora, sebbene si conoscano le radici storiche e l’importanza che hanno avuto anche in un recente passato, sono abbandonate a se stesse in uno stato di precaria conservazione. La grande quantità di testimonianze del passato, se da un lato ci riempie di orgoglio, dall’altro ci pone di fronte a delle responsabilità nel custodire questa grande mole di opere che i nostri avi hanno saputo realizzare.

Il nostro presente non può esistere senza il passato, e noi abbiamo il dovere di conservare e tutelare ciò che abbiamo ricevuto per trasmetterlo alle nuove generazioni.

In un saggio del 1997 il sovrintendente ai beni culturali, Giovanni Giangreco, denunciava il senso di impotenza ad operare per ragioni magari comprensibili, come la carenza di risorse, ma che non cancellano la nostra responsabilità storica. E scriveva:«Che fare? Questa domanda diventa sempre più pressante col passare degli anni perché le nuove generazioni incalzano […] Bisogna allora individuare la causa di tale impotenza e, se le leggi non aiutano, bisogna adoperarsi con la cultura e con la fantasia per tentare strade nuove che portano alla risoluzione di questi problemi»[1].

Problemi che si ripropongono ogni qual volta veniamo a conoscenza o constatiamo direttamente il degrado in cui certi monumenti sono caduti, nonostante la ricerca storica e il vincolo. Un caso esplicito è la piccola chiesa rurale della Madonna di Luna, in agro di Seclì.

facciata principale (ph A. Piccinno)

Abbandonata a se stessa versa in uno stato di deplorevole degrado, ridotta quasi a un rudere; riconoscibile a malapena da chi ne ricordasse le primigenie sembianze, non tanto per il logorio dei secoli, ma soprattutto per l’incuria e il vandalismo cui è stata soggetta in questi ultimi anni[2].

La storia della chiesa la conosciamo attraverso le ricerche del sacerdote Sebastiano Fattizzo, pubblicate nel suo volume sul Crocifisso di Galatone[3] e in seguito riproposte in un saggio edito dal Comune di Seclì[4].

Sulla scia delle ricerche del sacerdote galateo, è facile tracciare brevemente le vicende della chiesetta, a partire dall’inusuale intitolazione alla Madonna di Luna.

Probabilmente nell’area dell’attuale edificio esisteva un sacello già in epoca pagana. Il titolo dunque deriverebbe da un luogo di culto dedicato alla dea Luna, consacrato alla Vergine una volta scomparso il paganesimo. Ecco perché la festa della titolare, fino a pochi decenni addietro, veniva ancora celebrata alla fine di agosto o ai primi di settembre, in prossimità della luna piena. Nei pressi della chiesetta, del resto, vi era un grosso macigno in pietra viva, chiamato pietra di luna, posto sul ciglio di un quadrivio campestre e poi gettato nel fondo della cava, ormai esaurita, della Masseria Gentiluono. Sarebbe una reliquia dell’antico tempio pagano, o addirittura un resto dell’ara su cui si immolavano sacrifici alla dea.

Sta di fatto che la fantasia popolare dei galatei non disdegnò di imbastire leggende su quello strano cimelio. Così recita una strofa dialettale, che l’ignoto scopritore della pietra avrebbe trovato incisa sul retro, dopo averla rivoltata:Iata a ci mi ota!

E mò ca m’ha bbutàta

M’aggiu totta ddiffriscàta.

Òtame e sbòtame ‘n’addha fiata.

che si traduce così:

Beato chi mi volta!

E ora che mi hai voltata

mi sono tutta rinfrescata.

Voltami e rivoltami di nuovo.

La chiesa, come accennato in precedenza, è sita nei limiti di feudo tra Seclì (appartiene territorialmente a questo comune), Aradeo e Galatone.

prospetto laterale

L’originaria costruzione è di indubbia antichità, anche se ricostruita ed ampliata nel corso degli anni. La chiesa, nell’Inventario dei Beneficji Ecclesiastici di Galatone, redatto nel 1678, appare esistente dal 1657. Ivi si apprende che, in quella data, tal Francesco Buia ristrutturò un’antica cappella preesistente, la ampliò e la dedicò, per una sua particolare devozione, alla Madonna di Costantinopoli; il popolo, però, continuò a chiamare la chiesa con il suo vecchio nome di “Madonna di Luna” e così fino ad oggi.

La chiesetta, sollevata sul piano stradale di circa un metro e mezzo, è a due vani con volta a botte. Nel vano rettangolare, addossato al muro, vi era un altare sormontato dall’affresco della Madonna con in braccio Gesù Bambino. Era dotata degli arredi sacri e di una pregevole acquasantiera. Sul fronte dell’edificio, affacciato sulla strada principale, vi era (e oggi se ne può vedere solo una parte) un piccolo campanile a vela con una campana. Questo fino ad una ventina d’anni fa.

Un campanello di allarme sullo stato del monumento trillava già in un articolo del 1989 dove, tramite un altro scritto di Sebastiano Fattizzo, si denunziavano le pessime condizioni dell’affresco e la necessità di provvedere alla custodia della chiesa:

«[…] l’affresco […] è circondato da una magnifica cornice di pietra scolpita: se non si provvederà quanto prima a riparare il guasto, qualche piromane brucerà i vecchi scanni rimasti dentro la chiesa… ed altri sfonderà l’altare e il pavimento… ed in questo modo tutto sarà sfasciato…».

Profezia che purtroppo si è avverata!

Il monumento, sottoposto dalla Soprintendenza a vincolo di tutela con declaratoria del 19-08-1987, è beneficio dell’Insigne Collegiata di Maria SS.ma Assunta di Galatone. Per tale motivo i canonici galatei avevano l’obbligo di celebrarvi un certo numero di messe e di impegnarsi nella manutenzione e conservazione del monumento. Oggi, messo da parte tale obbligo morale, la chiesa è quasi del tutto inesistente se non per le mura, anch’esse percorse da numerose e profonde crepe. Soggetta a furti ripetuti, da quanto ho potuto personalmente appurare, dell’antico corredo la chiesa non conserva nulla. Durante un mio sopralluogo nel 2001 notai che l’altare era stato asportato e mancava l’acquasantiera. L’affresco della Vergine, picconato giù dalla parete, era a terra, fatto a pezzi, ridotto a un cumulo di frammenti informi; coperti da strati di polvere e calce, si potevano riconoscere come tessere di un mosaico il manto azzurro della Vergine, i piedi del Bambino e altri particolari[5]. Ora neppure questo. È lo scempio più totale! È addirittura arduo e pericoloso poterci entrare, giacché l’architrave è lesionata, così come la volta, e a terra vi sono pietre disseminate dappertutto. Uno scheletro che a malapena si mantiene in piedi, così è disgraziatamente ridotta la chiesetta.

Intanto, a braccia conserte, si resta a guardare. Che ne sarà di Luna? Ai posteri l’ardua sentenza.


[1] G. Giangreco, La Chiesa di S. Angelo De Salute in Galatone o l’eredità culturale del passato, in L’oro di Galatone, Lecce 1997, 135.

[2] Cf M. Grasso, Li petre ti luna, in «Il giornale di Galatone», 29 (2000), 11.

[3] S. Fattizzo, Il Crocifisso di Galatone, Galatina 1982, 484-492.

[4] S. Fattizzo, La leggenda della pietra di luna, in Seclì. Almanacco di storia arte e società 2003-2004, a cura di V. Zacchino, Galatina 2003, 105-113.

[5] A. Piccinno, La Chiesa di “Madonna di Luna”nella Visita Pastorale di Mons. Antonio Sanfelice del 1719, in «Piazza San Paolo, periodico di Seclì», 4 (2001), 9.

 

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6

Spigolature gallipoline e noterelle galateane

Gallipoli (ph Vincenzo Gaballo)

di Paolo Vincenti

Sulla contrada che da Gallipoli porta a Chiesanuova si trova il complesso Magettaro, un insediamento rupestre medievale.  Per quanto riguarda Torre Pizzo, un’antica masseria, così denominata dal luogo in cui essa sorge, nei pressi della torre d’avvistamento cinquecentesca, sono stati individuati dei resti di un insediamento risalente all’età romana.

Testimonianze preistoriche ha dato anche Torre Sabea, presso Rivabella, e per l’esattezza testimonianze dell’età neolitica quando questo luogo era frequentato da gente che svolgeva un’attività prevalentemente pastorale.

Un notevole complesso di importanza artistica e storica è San Pietro dei Samari, risalente al Medioevo.

La Chiesa del Sacro Cuore  risale agli inizi del Novecento.Nel 1912, il vescovo Gaetano Muller decise di elevare a parrocchia la chiesa di Santa Maria del Canneto e Monsignor Sebastiano Natali, nominato dal vescovo parroco di questa chiesa, volle edificare nel Borgo un grande centro di accoglienza per i giovani che erano a rischio di devianza ed assicurare a loro un avvenire certo. Il progetto venne elaborato dall’Ing. Luigi Pastore,  e venne approvato dalla Commissione edilizia comunale nel gennaio del 1922. I lavori per erigere la chiesa procedevano a singhiozzo in quanto, nel frattempo, era stato anche progettato l’annesso Istituto Michele Bianchi, che venne inaugurato nel 1930. Anche a causa delle indisposizioni dell’Arch. Napoleone Pagliarulo, che doveva seguire i lavori, la chiesa fu terminata e aperta al culto nel 1943. Il Vescovo trasferì la sede parrocchiale di Santa Maria del Canneto alla chiesa del Sacro Cuore di Gesù, che risulta costruita a pianta basilicale, suddivisa in tre navate, culminanti in tre absidi, da due file di colonne su cui poggiano quattro arcate a tutto sesto. Don Sebastiano Natali, principale promotore della costruzione della Chiesa del Sacro Cuore di Gesù, nel 1938 pubblicò un raro volume dal titolo “Una storia di un’opera della divina Provvidenza e di una vita di apostolato”, in cui ricordava le sue disavventure con il regime fascista che gli causarono anche il confino a Cefalonia.

Nella Chiesa del Rosario, si trova la tela del patriarca San Domenico di Guzman, recentemente restaurata, che si trova al centro del coro, opera di Giandomenico Catalano (1560-1626). In questo dipinto, San Domenico, in atto benedicente, stringe con la mano destra il Crocefisso e recita il Salmo penitenziale quaresimale “Parce Domine parce populo tuo”, mentre con la sinistra indica la città di Gallipoli chiedendone il perdono e la benedizione. Molto interessante la veduta di Gallipoli nel Seicento. Con lo stesso soggetto, il Catalano realizzò anche due tele nel Santuario dell’Alizza di Alezio, ovvero San Pancrazio e San Carlo Borromeo e un’altra tela raffigurante i Santi Eligio e Menna, un tempo nell’omonima cappella ed oggi nella sacrestia della Cattedrale gallipolina.

Queste le antiche mura fortificate della città di Gallipoli: il torrione trapezoidale nei pressi della chiesa di San Francesco di  Paola; il fortino di San Giorgio, adiacente ad una chiesetta dedicata a San Giorgio, ora distrutta; fortino di San Benedetto; torrione di San Guglielmo, anche detto delle Ghizzene o della Purità, perché situato nei pressi della chiesa della Madonna della Purità; fortino di San Francesco d’Assisi, il più importante Forte di tutta la cinta muraria, adiacente alla chiesa di San Francesco d’Assisi e attiguo convento.Questo Forte venne restaurato nel 1684 e notevolmente ampliato. Vennero apposte le armi della casa regnante e all’interno una statua raffigurante San Fausto, uno dei protettori della città, con una lapide, ora distrutta. La tradizione vuole che la chiesa sia stata fondata per volere di San Francesco che, nel XIII secolo, sbarcò nel Salento di ritorno dalla Terra Santa. Accanto a questa fortezza esisteva anche una  antichissima chiesetta dedicata a Santa Maria del Cassopo, distrutta, assieme alla costruzione fortificata, nel 1819; questa chiesetta era stata costruita in epoca bizantina sui resti di un distrutto tempio pagano e il suo nome, Cassopo, riportava all’origine bizantina del culto e ricordava Corfù con cui Gallipoli intratteneva lucrosi rapporti commerciali; in questa chiesetta era venerata un’antichissima immagine della Vergine che, secondo la leggenda, riferita da Ettore Vergole, in “Il Castello di Gallipoli” del 1933, era miracolosa. Infatti la sacra immagine era riposta in un angolo molto buio e stretto dell’edificio sacro e chiunque volesse conoscere la sorte di qualche familiare che era andato per mare e non era più tornato, si inoltrava nell’angusto passaggio per pregarela Vergine del Cassopo e chiederle se il congiunto fosse vivo o morto; dopo aver rivolto innumerevoli preghiere, sempre senza muovere la bocca ma con contrizione e raccoglimento,  il fedele si affacciava su una finestrella che dava sul mare e gridava il nome del proprio parente di cui voleva conoscere la sorte; angeli o demoni, allora, rispondevano se il parente fosse vivo, morto o gravemente ferito, ecc. ; questo era udito anche da tutti quelli che erano presenti; Torre del Ceraro, così chiamata dai lavoratorio della cera che la frequentavano nel Settecento quando fu costruita; il Forte di forma pentagonale di San Domenico o del Rosario, così chiamato dalla attigua Chiesa del Rosario o di San Domenico con l’annesso convento dei Domenicani; anticamente questo bastione era chiamato Baluardo di Santa Maria delle Servine, per un antico monastero bizantino esistente nelle vicinanze, e poi fu chiamato Torre degli Arsi, a causa di un incendio che, nel 1595, divampò in una fabbrica di polvere da sparo.

Il grande Galateo si occupò di Gallipoli nella “Descriptio urbis Callipolis”, un trattato dedicato all’amico Pietro Summonte in cui descrive Gallipoli del Cinquecento con tutte le sue bellezze ed arriva a definire Gallipoli un angolo di Paradiso, per il suo clima salutare e mite, per i suoi usi e costumi, per le sue bellissime tradizioni popolari. Galateo, medico alla corte aragonese, usava trascorrere a Gallipoli le sue vacanze estive, quando ritornava in patria da Napoli. Accenna a Gallipoli anche nella sua opera maggiore, il “De situ Japygiae”.  Inoltre il Galateo ha anche lasciato un epigramma, dedicato a Nifi, una giovane amata dal poeta, in cui canta la bellezza delle donne gallipoline.

Numerosi i contributi sul Galateo apparsi su Anxa News, rivista di storia e cultura gallipolina, arrivata al quinto anno di vita: “Il Galateo a Gallipoli”, di Vittorio Basile, marzo 2003; “Nifia, la bella gallipolina amata dal Galateo”, con una traduzione dell’epigramma galateano dedicato alla bella Nifia, fatta dall’illustre poeta gallipolino Luigi Sansò ed un’altra fatta dal prof. Gino Pisanò dell’Università di Lecce, settembre 2003; nel novembre 2003, in occasione del 490° anniversario della “Callipolis descriptio” (12-12-1513), Anxa ricorda il grande amore perla Città bella di Antonio De Ferrariis, galatonese di nascita ma gallipolino di adozione, con “Ancora su Gallipoli e sul Galateo” di Vittorio Basile e “Nifi, vamp gallipolina di 500 anni fa”, di Vittorio Zacchino; “Nifi, la bella gallipolina amata dal Galateo”, del gennaio 2004, con  traduzioni dell’epigramma latino del Galateo, da parte di alcuni alunni del Liceo Classico Quinto Ennio di Gallipoli; “Emanuele Barba per Antonio Galateo”, di Vittorio Zacchino, marzo 2004; “La presa di Gallipoli del 1484 nelle testimonianze letterarie di Antonio Galateo” di Vittorio Zacchino, maggio 2004; nel numero del luglio 2004, viene pubblicata parte dell’Introduzione curata da Vittorio Zacchino alla sua recente edizione del De situ Iapygiae, dal titolo “Orgoglio Iapigio”: si tratta di una nuova edizione del capolavoro dell’umanista salentino “Antonio Galateo De Ferrariis, Lecce e Terra d’Otranto – De Situ Iapygiae” (Edi pan 2004),  con prefazione appunto dello Zacchino e traduzione italiana a cura del prof. Nicola Biffi, dell’Università di Bari. L’opera, che presenta anche traduzioni in inglese e tedesco, è un prodotto editoriale di taglio veloce e moderno, rivolto anche ai non addetti ai lavori;  “Il De neophitis del Galateo e Benedetto Croce”, di Vittorio Zacchino, marzo 2005; inoltre Vittorio Zacchino ha recentemente raccolto insieme alcuni suoi contributi sul Galateo apparsi su vari fogli salentini, fra cui anche Anxa News, e li ha pubblicati in una miscellanea dal titolo “Noterelle galateane”, per la collana “I quaderni del Brogliaccio” , diretta da Gigi Montonato. Questo fascicolo è stato allegato come omaggio al numero del dicembre 2005 di Presenza Taurisanese, mensile di politica cultura attualità, diretto dallo stesso Montonato.

Il castello di Fulcignano a Galatone

di Giuseppe Resta

“…Intentio vero nostra est manifestare ea quae sunt, sicut sunt…”

L’imponderabile può essere di segno positivo o negativo. Lo sappiamo bene noi “umani” che spesso confidiamo nella “fortuna” per avere successo e felicità nella vita, o imprechiamo la “sfortuna” quando gli avvenimenti  non succedono a nostro vantaggio. Ma ci sono casi in cui la “fortuna” pare abbandonare anche le “cose”. Si dovrebbe pensare, se la razionalità non lo inibisse, che sia proprio frutto della sfortuna l’amara sorte del Castello di Fulcignano: possente maniero da prima abbandonato da una popolazione in fuga, poi, nonostante sopravvissuto per almeno 600 anni alle ingiurie del tempo e della natura, – per dirla col Galateo Antonio De Ferrariis “Ne han fatto crollare le costruzioni il tempo e il contadino, che ogni traccia dell’antichità distrugge”  –  oggi negletto dagli uomini che da anni non sanno, o non vogliono, valorizzare e riportare alla fruibilità ed al giusto interesse, anche turistico oltre che culturale,  una così unica, interessante e ancora inesplorata struttura castellare. Decisamente un destino non comune a tanti altri castelli che, anche ridotti a ruderi più scalcinati, riescono ad attrarre turismo e cultura, e a dare identità e connotare positivamente il territorio. Invece sarà anche difficile rintracciare Fulcignano senza una mappa o una guida: mancano le segnalazioni stradali, per non parlare di quelle turistiche, ed anche la viabilità rurale a contorno non è del tutto agevolmente transitabile. Galatone lo ha enucleato dal proprio vivere. E, fino a oggi, è ancora di proprietà privata.

I ruderi del castello di Fulcignano si trovano a sud est del centro urbano di Galatone, in provincia di Lecce, proprio nella periferia urbana della cittadina, verso la fine di Via S. Luca e l’inizio della vicinale Vorelle,  a pochi metri dalla sede ferroviaria verso Neviano. In catasto lo rintracciamo al foglio 26, Comune di Galatone, particelle 390-391. Coordinate 40°08’25 N; 18°04’36 E. Il castello si trova in posizione leggermente più rialzata rispetto alla campagna immediatamente circostante, ma un più in basso rispetto all’altura delle Serre Salentine, che lo costeggia sul versante est. Il sito è lambito da un antico corso d’acqua stagionale che scende dalla collina dei Campilatini e si spande nella piccola pianura disperdendosi in alcune vore carsiche poste a nord del castello.

Ciò che è rimasto del castello  è quasi solamente la cinta quadrilatera fortificata. Ma anche da questi resti, ancora generalmente ben conservati, chiara emerge la tipologia del castrum romano come mutuata dagli svevi.

Paul Arthur, professore di Archeologia Medievale presso l’Università del Salento, nel 1997 scrive di Fulcignano in una relazione indirizzata al Sindaco Roberto Maglio del Comune di Galatone “La forma planimetrica, e i dettagli architettonici, suggeriscono che l’edificio non sia anteriore all’età sveva, quando una serie di fortificazioni in Italia, note specialmente attraverso i castelli in Sicilia, risentono di influssi architettonici orientali trasmessi dalle Crociate. La forma quasi quadrata, con quattro torri angolari (le due posteriori scomparse: una circolare, l’altra forse circolare in una prima fase e quadrata in una seconda), trova confronti nell’architettura castellare islamica, che sembra aver, a sua volta, mantenuto vivo le tradizioni tardo romane di architettura castrense.”

La forma della cinta muraria è quadrangolare con i lati lunghi circa una cinquantina di metri: il più lungo, quello dell’ingresso a sud-est, misura, torri comprese, poco più di 75 metri ed il più corto, a nord-ovest, 49 metri senza torri. L’altezza delle mura è di circa 8 metri e lo spessore è di circa 2,6. Le torri angolari hanno i lati di misure variabili tra gli 8,40 ed i 7,55 metri. Tutta la cinta insiste su di una zona di 8800 metri quadri, racchiude una superficie di 2930 metri quadri di cui 220 coperti e 2100 scoperti. Da notare come gli spigoli del quadrilatero sono posti approssimativamente secondo i punti cardinali. Dalla facciata nord-est si accede ad un ingresso voltato a botte con forno laterale; il primo vano è costituito da una sala d’ingresso con volta a crociera a sesto acuto e costoloni sporgenti a sezione trilobata che si intersecano al vertice con una rosetta.  Sulla destra rispetto all’ingresso si trovano due vani laterali  con volta a botte. Proteggono l’ingresso arretrato  delle solide torri angolari poste sul lato est ed allo spigolo nord, la torre a est non si distingue dall’esterno perché è inglobata dalla muratura. Le torri accanto all’ingresso sono cilindriche internamente e quadrate esternamente. Un’altra grossa torre quadrangolare è posta all’angolo est. Altre due torri sono poste a sud ed a ovest e sono quasi dirute: una, quella a sud, cilindrica e di manifattura costruttiva più rozza, è ammalorata da crolli, sembrerebbe essere appartenuta ad un nucleo fortificato più antico ed essere stata inglobata in quello attuale; della quarta, quella ad ovest,  vi sono rimaste solo tracce murarie, le intersezioni con le mura e il passetto d’entrata con volta a sesto acuto; da quello che vediamo oggi sembrerebbe essere stata con l’interno cilindrico.

La tipologia architettonica, secondo la definizione che è stata introdotta dal prof. Architetto Carlo Perogalli, è assimilabile perfettamente a quella di “castello-recinto”, simile a quella di numerosi esempi di fortificazione medievale che attualmente si presentano con la sola cinta, solitamente rinforzata da torri perimetrali, ed eventualmente una torre maestra.

A Fulcignano il paramento esterno della muratura a sacco è costruito in arenaria locale del tipo “tufo carparino” perfettamente squadrata e allettata con buona precisione. Molti sono gli aggressori vegetali che allignano sulla parte superiore delle mura o ne minano le basi. In alcuni tratti si nota ben evidente lo strato di muratura di fondazione. All’interno, eccettuati i vani dell’ingresso e i due laterali anzidetti, non vi è altra superstite struttura. Si nota solo la muratura a pietre informi ed opera incerta sino all’altezza di circa cinque metri – nella quale sono ricavati dei nicchioni ad arco – che lascia posto per la restante altezza ad una muratura ben rifinita anche all’interno. Si potrebbe ipotizzare che la muratura a opera incerta facesse parte della prima costruzione e quella a conci regolari sia stata frutto di un successivo ampliamento ed irrobustimento. In corrispondenza del cambio di tipologia muraria interna si notano numerose buche pontaie. Ciò fa presumere – la specifica tipologia, come s’è anzidetto, lo autorizza con buona plausibilità – che le strutture interne del castello fossero in legno ed erano addossate alle murature esterne secondo una tipologia medievale  consolidata.

Quindi il castello, di tipologia simile ai castelli d’oltremare, è di fogge sveve; è tipico l’arco ogivale, che denota l’ingresso, realizzato con conci di arenaria regolari e perfettamente squadrati. Bisogna dire, però, che la finitura a falde rettilinee che sormonta l’arco ogivale, con una decorazione a foglie, palmette e intrecci viminei,  rimanda a stilemi decorativi bizantino–normanni di datazione ascrivibile tra l’ XII e il XIV secolo. E’ certamente questo particolare che fece maturare al De Giorgi la convinzione che la rocca fosse del periodo angioino e che fossero diretti i collegamenti con la tipologia decorativa del Tempio dedicato a S. Caterina d’Alessandria nella vicina Galatina. Ma questa tipologia decorativa in Puglia ha una diffusione temporale molto più ampia. Basterà confrontarla con quella esistente nel portale della Cattedrale di S. Nicola di Bari, o nel portale romanico dei santi Nicolò e Cataldo a Lecce, o nel complesso di S. Benedetto a Brindisi per averne una retrodatazione. Certo è che il fregio decorato è proveniente dallo spoglio di una precedente struttura: gli angoli presentano una evidente soluzione di continuità decorativa e il pezzo della falda a destra è completamente privo si decorazione, proprio come se fosse stato aggiunto per completare un elemento mancante. Questo ci farebbe supporre con buona certezza che comunque il fregio è precedente all’apparato murario che attualmente lo ingloba.

Tra l’arco a sesto acuto ed il decoro cuspidato a falde piane, nel vuoto che si crea, è inserito un concio di leccese molto corroso. Alcuni sostengono riportasse delle insegne nobiliari, sembra ipotizzabile, ma allo stato non è possibile desumere alcunché. Le mura e le torri sono completamente senza aperture di passaggio o di affaccio, se si eccettua una postierla, accanto alla torre in rovina sullo spigolo a sud, e delle feritoie arciere sulle facciate delle torri. La predetta postierla è coronata da un arco svevo a sesto acuto e doppia ogiva, i conci sono in studiata alternanza di pietra leccese e di tufo carparino e creano un  motivo bicromatico. Le feritoie arciere sono realizzate con la strombatura interna più accentuata verso il lato di tiro più favorevole. Vi sono anche delle aperture strombate verso il basso, molto ben costruite, per l’allontanamento delle acque e dei liquami poste su vari livelli d’altezza. Altri scarichi di forma semplice si rintracciano sulle murature sud ed ovest. All’esterno, sul lato nord, si nota un residuo del fossato originario. Attualmente l’accesso all’ingresso della cinta muraria avviene proprio tramite un viale ottenuto col riempimento di parte di questo residuo fossato.

Dalla forma dell’arco d’ingresso e dall’assenza di specifiche tracce murarie si ritiene che il castello non doveva avere un ponte levatoio direttamente sull’ingresso. E’ invece ipotizzabile l’esistenza di un corpo avanzato munito di ponte mobile. Il forno posto sul lato sinistro della nicchia d’ingresso farebbe presupporre un adattamento utilitaristico dello spessore murario della torre in epoca recente. Si potrebbe ipotizzare anche un uso pubblico e controllato del forno dietro pagamento di gabella. Però il forno è una struttura ricavata molto posteriormente: se fosse stato usato contemporaneamente all’esistenza della pesante anta del portone non vi si sarebbe potuto accedere ad anta aperta perché questa ne avrebbe chiuso il fornice. Bisogna notare che il secondo arco di scarico ogivale, posto sul muro che porta al primo ambiente con la volta a crociera e costoloni, oggi  tamponato di muratura, non sia tanto alto (misura al vertice poco più di due metri e mezzo) e largo. La ridotta dimensione del vano d’accesso rende veramente difficile immaginare un comodo accesso per dei carri stipati di merce essendo già difficoltoso il passaggio di un uomo a cavallo.

Sempre il professore Arthur, nella sopracitata lettera al Sindaco di Galatone afferma come “Senza dubbio il castello rappresenta una delle testimonianze più singolari del Medioevo salentino, per una serie di motivi. La sua forma è localmente inconsueta, ed è probabilmente una delle  fortificazioni medievali più antiche sopravvissute nella provincia, e gode di un rimarchevole stato di conservazione, senza cospicui rimaneggiamenti. Inoltre, non essendo stato inglobato dall’attuale centro di Galatone, offre la possibilità di indagine e di un eventuale sistemazione che tenga conto non solo delle sue strutture, ma anche del suo contesto storico-ambientale”.

Ancora Paul Arthur ci ricorda che “è metodologicamente scorretto porre l’attenzione esclusivamente sul castello, senza considerare che era intimamente legato al territorio, alla viabilità e al casale di Fulcignano, attestato sin dal XII secolo, ma probabilmente ancor più antico. Si ricordi che una moneta dell’imperatore Basilio I è stata rinvenuta nell’area, e che molti casali della Puglia meridionale sono di origine bizantina. Perciò, un qualsiasi progetto scientifico di valorizzazione e tutela del castello deve necessariamente prendere in considerazione le testimonianze archeologiche almeno nel territorio immediatamente circostante il monumento.”

Come ogni castello, infatti,  anche quello di Fulcignano dominava un borgo abitato: il Casale di Fulcignano, quasi certamente posto ad est della residua struttura castellare, sul lato della porta ma che oggi è completamente scomparso. Le ipotesi sull’origine del Casale si perdono in fantasie mai accertate. Il De Ferrariis attribuiva al casale origini greche. Si vuol fare risalire l’etimo del toponimo al greco fulacà, cosa nascosta, mentre non si valuta abbastanza il latino fulcire, puntellare, ergere su cavalletti; etimologia che potrebbe pure avere buona attinenza con le strutture lignee che costituivano originalmente i piani altri delle fortificazioni. Nei documenti troviamo il sito censito come Furcignano (1192 e 1335); Zurfiniani (fine del 1200) o Furciniani (1426); nel dialetto locale è sempre Furcignanu, null’altro.

Ma anche l’effettiva localizzazione dell’abitato è stata fonte di congetture e supposizioni.

Di sicuro, al di là di ogni altra fantasiosa congettura, era lì, proprio di fronte alla porta del Castello, che si è andato a costituire il nucleo abitato del casale vissuto fino alla metà XV secolo quando fu completamente abbandonato. E comunque bene  ricordare come nel Salento non esiste continuità storica e culturale tra i periodi Fenicio–Greco–Romano e la ricolonizzazione bizantina successiva alle così dette Guerre Gotiche. La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, nel 476 d.C., portò la penisola Italica ad essere oggetto di saccheggi e distruzioni ad opera delle popolazioni barbare.

Dobbiamo tenere conto che la frequentazione fittile nell’agro di Fulcignano,  riscontrata con esami superficiali, si connota di reperti ceramici bizantini e poi normanno svevi, sino a raggiungere la massima estensione con ceramica rinascimentale. Questi reperti fanno ipotizzare che il casale si sia sviluppato proprio a partire dal VII secolo quando vi fu la intromissione di genti bizantine che si installarono su probabili preesistenze romane. I reperti rinvenuti sono solo frutto di raccolta di superficie in quanto una campagna di scavo scientifica ed approfondita non è stata mai intrapresa. Però, a conferma dell’attendibilità delle ipotesi archeologiche provenienti dalla lettura dei reperti, si può segnalare come  nell’ellisse di territorio che prospetta il lato est del castello, e che è interessata dai rinvenimenti, siano riscontrabili cisterne e pozzi di capienza e portata decisamente importanti.  Saverio Caputi, medico e uomo di cultura, ancora nell’ottocento, rinveniva “cisterne e trozzi profondi, granai e vie sotterranee, rottami e pezzi di antiche mura”.

Conforta l’ipotesi proveniente dall’archeologia di superficie l’osservazione delle tavole aerofotografiche IGM dove si leggono con sufficiente chiarezza due percorsi viari ortogonali che dividono l’ellisse di territorio in oggetto secondo gli assi della stessa. La zona, inoltre, è caratterizzata da un certo consistente rilievo rispetto ai terreni circostanti e la conformazione ellittica del nucleo del probabile insediamento è ribadita dagli stessi attuali percorsi viari.

Sembrerebbe proprio che il castello sia stato localizzato esternamente ad un chorion bizantino. Probabilmente il castello era dapprima posto su di una motta ed, in seguito, si è espanso in epoca sveva per imporre il controllo dell’incrocio dei percorsi costituiti dall’Augusta Traiana Salentina Ionica, che andava da Taranto a Ugento, e del percorso istimico che andava da Roca Vecchia allo scalo di Nardò, il latino “Portus Nauna”, le attuali S. Maria al Bagno e S. Caterina.

Il Fuzio, autorità indiscussa sull’analisi della tipologia e la struttura dei castelli pugliesi,  ritiene che Fulcignano facesse parte di una linea difensiva normanna costituita da dodici castelli costruiti ex novo che andavano da Gallipoli a Castro. Di certo, però, il Castello di Fulcignano è stato sicuramente solo un castello feudale, non castello reale né castello demaniale. Non ve n’è infatti traccia nel federiciano “Statutum de reparatione castrorum”, del 1231, che pure censiva  le “domus solaciorum”, le case da svago e i casini di caccia, differenziandoli dai Castra e dalle Domus, ossia dalle fortezze militari e dai castelli per la corte e l’amministrazione. (Confronta : E. Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo I d’Angiò Ed. M. Adda, 1995.)

L’importanza di Fulcignano come centro di passaggio di carovane e di pellegrini è testimoniata dall’epigrafe di uno xenodochio distrutto, rinvenuta a fianco alla chiesa rurale di Fulcignano, che il Vescovo di Nardò Antonio Sanfelice legge nel 1719 durante una visita pastorale. L’epigrafe è in greco ed in latino. In latino recita: “theodorus protopas famulus sanctae dei genitricis hospitium construxit anno 6657”, corrispondente al 1149 del calendario cristiano.

Bisogna ricordare che proprio la parte degli archivi Angioini che riguardano la Terra D’Otranto si sono persi nell’incendio di mano Nazista che distrusse l’Archivio di Napoli conservato a villa Montesano Questo compromette qualsiasi seria ricerca documentale.

Ci dobbiamo, quindi, accontentare di poche notizie. Una prima notizia si ha riguardo a certo milite Maurizio Falcone, signore di Fulcignano nel 1192, certamente imparentato con la Domina Luisa de Falconi de Furcignano, che nel 1208 era badessa in un convento di Lecce. Dopo incontriamo un Aymarus di Guarnierius Alemannus possessore di Zurfiniani. La famiglia d’Alemagna risulta anche in possesso dello scomparso feudo neretino d’Agnano.

In periodo Svevo il feudo, assieme a quello di Galatone e Nardò,  passa ai Gentile: nel 1212 a Simone, poi a Bernardo, quindi a Tommaso intorno al 1239. Nel 1266 tocca all’ultimo Gentile, Simone, che viene giustiziato a Nardò nel 1269 e il feudo di Fulcignano passa all’ammiraglio angioino Filippo de Toucy. Con questo feudatario Fulcignano distacca definitivamente le sue sorti feudali da Galatone. Questi nel 1273 scambierà il feudo con Guglielmo Brunello. L’esosità delle pretese fiscali del Brunello farà fuggire gli abitanti di Fulcignano. Il feudatario li rintraccerà e li farà ritornare forzatamente nella sua proprietà. Il feudo si trasmetterà ai successori del Brunello sino alla primi decenni del XIV secolo. Dopo c’è una svariata moltitudine di feudatari. Si rintracciano i de Caniano tra il 1314 ed il 1319, i Capitignano, i Palmieri nel 1348, poi i De Mistretta,  fino a Gualtieri di Brienne, conte di Lecce e duca di Atene,  nel 1352.

Negli anni angioini  Fulcignano risulta avere una buona consistenza demografica,  nel 1378 è ipotizzabile raggiungesse un migliaio di persone (come e più di Otranto o di Gallipoli). Raggiunto questo apice dobbiamo annotare una veloce decimazione dei fuochi. Nel 1412 i suoi abitanti non dovevano essere più di 170. Appena trent’anni dopo un focolario aragonese non ne conta più di una trentina. La rapida discesa ed il declino di Fulcignano deve essere fatto risalire alle lotte tra il capitano di ventura Ottino Malacarne che usurpa dei possedimenti alla Chiesa di Taranto e Giovanni Del Balzo Orsini che si incarica di spodestarlo e rimettere la Chiesa nel legittimo possesso. Nel 1426 la Regina Giovanna II concede l’assenso alla donazione di Fulcignano ed altri feudi al Principe di Taranto del Balzo Orsini precisando che la “Terra Furciniani cum castro et pertinentiis suisi omnibus sita similiter in d.a Provincia Terrae Hydronti iuxta territorium d. ae terrae Galatulae (Galatone), et iuxta territorium rettae Sfilichij (Seclì) et iuxta territorium castri Naviani (Neviano) et alios confines”.

Probabilmente la riedificazione con l’espansione delle mura di Galatone in periodo aragonese, intorno all’inizio del XVI secolo, favoriranno la completa desertificazione del casale aperto di Fulcignano e la fagocitazione dei suoi ultimi abitanti. Comunque nel XVI secolo i fossati e le terre intorno al castello di Fulcignano risultano già messi a coltura. Nello stesso periodo nella sola Puglia scompaiono circa sessanta borghi e casali. Solo in Capitanata ne scompaiono ben trenta. Possiamo dire che le situazioni storiche, economiche e sanitarie del periodo sono diffusamente volte ad una inurbazione verso centri più sicuri.

Come causa dell’improvvisa scomparsa di Fulcignano appare veramente fantasticata la contesa con la vicina Galatone che è riportata da Antonio De Ferrariis. Tanto meno pare ipotizzabile ascrivere la guerra al predominio della chiesa latina su quella greca. Una guerra con Galatone vittoriosa pare, invece, fosse veramente accaduta nel 1335. Fulcignano sarebbe stata rasa al suolo e molti degli scampati sarebbero confluiti nella stessa Galatone o avrebbero contribuito a popolare piccoli paesi vicini. Questa notizia è desumibile dal Chronicon Neretinum, fonte dimostratasi però non perfettamente attendibile.

Attualmente il Castello, dichiarato monumento nazionale con D.M. 6/11/1967,  è ancora di proprietà privata. I timidi e mai convinti tentativi di acquisizione fatti dalle amministrazioni comunali di Galatone non hanno mai avuto efficaci risultati. Eppure l’unicità di un castello “fossile” giunto sino a noi dal passato, senza essere stato manomesso nelle epoche successive, avrebbe spinto chiunque dotato di buon giudizio,  non dico di amore per la propria Terra ma almeno di spirito imprenditoriale, a cercare di fare l’impossibile per assumerlo ai beni comunali, ai beni pubblici. Come dice sempre Paul Arthur  “sarebbe opportuno acquisire il castello o eventualmente alcune aree limitrofe come bene pubblico.” Perché solo così si potrebbe studiarlo e valorizzarlo, cercando di decifrare i suoi messaggi nascosti e rendendo fruibili i suoi spazi emozionanti. 

Il Castello, insomma, è sopravvissuto al tempo, alle guerre, alle radici degli alberi ed al sacco dei contadini; resisterà anche alla scarsa lungimiranza degli amministratori?

Non resta che sperare.

L’articolo integrale è stato pubblicato in Spicilegia Sallentina n°6

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