Nella cara “Ariacorte”, orme d’operosità senza tempo

 di Rocco Boccadamo

A Francesco Nullo, patriota e militare italiano d’origine bergamasca, distintosi in particolar modo durante la garibaldina Spedizione dei Mille, è intitolata la breve strada che delimita, sul lato nord, il ristretto spazio del più volte riproposto rione di Marittima in cui è venuto al mondo l’autore di queste righe, cioè a dire l’Ariacorte.

Ariacorte, è d’uopo ricordarlo ancora, denominazione di un’antica e caratteristica fetta del paesello, fra l’altro, passaggio più diretto, e, quindi, obbligato, per quanti, a piedi, in bici, oppure, oggigiorno prevalentemente, a bordo di mezzi a motore, si rechino verso l’incantevole insenatura “Acquaviva”.

Detto ultimo sito, storicamente prediletto e frequentato in esclusiva, per i bagni marini, dai marittimesi e dagli abitanti dei paesi viciniori, adesso è una meta famosa, conosciuta, amata e scelta, grazie all’eccezionale suo fascino, da moltitudini di visitatori, vacanzieri e turisti, provenienti da ogni regione d’Italia e dall’estero.

Ma, nella presente occasione, è proprio sulla via di cui all’inizio che s’intende soffermarsi, per un excursus illustrativo in sintonia con l’intestazione del racconto.

S’affacciavano sul lato sinistro, in ordine strettamente successivo – residuano anche ora, beninteso modificati o rammodernati – quattro portoni o portoncini o semplici porte d’accesso in locali, cortili coperti e minuscole case d’abitazione.

In un immobile di detta infilata, dalla composizione e consistenza un po’ particolari, aveva in passato sede un forno pubblico, dove si svolgeva un’attività lavorativa unica e preziosa (nella borgata, a onore del vero, esistevano altri tre esercizi del medesimo genere), ossia a dire la produzione, per conto e per opera dei residenti che fossero a ciò interessati, del cosiddetto “pane fatto in casa”, da distinguersi nettamente dai panini o filoncini o rosette (pane bianco) acquistabili presso il negozio di alimentari del paese.

Di  fatto, più o meno in ciascun nucleo domestico locale, si ricavavano, da qualche terreno di proprietà, modici o medi quantitativi di grano e orzo, che, periodicamente, erano portati al mulino della vicina Diso, dopodiché si utilizzava la farina al fine di ottenerne, grazie alla panificazione e alla cottura nel forno pubblico,  scorte di “friselle”, poi conservate, in casa, in capienti contenitori di terracotta (capasuni o pitali, assimilabili per grandi linee a orci e anfore), e, a seguire, giorno dopo giorno, consumate sulla tavola o durante i frugali spuntini in campagna, previo ammorbidimento (sponzatura) in una scodella o in una padella piene d’acqua, oppure immediatamente sotto il getto di una borraccia o ancora mediante immersione nei resti di pioggia preservatisi nelle “conche”, minuscole buche sulle rocce affioranti qua e là nei campi.

A gestire il forno e a seguire e coordinare l’opera e la collaborazione degli utenti, c’era un’apposita figura, non a caso detta “furnara”(fornaia); per quanto riguarda l’esercizio attivo nel rione Ariacorte, si trattava di una donna, fra i cinquanta e i sessanta al tempo della presente rievocazione,  Matalena  (Maddalena), indossante perennemente un lungo vestito di panno nero, originaria di un paese vicino, Cerfignano, sposata con Giovanni, madre di Costantino e di Maria, dimorante in una casetta a una cinquantina di metri di distanza dal posto di lavoro.

Alla vigilia della data fissata per il suo turno, ciascun capofamiglia andava a ritirare dal forno un’ampia vasca o arca lignea, avente precisamente la forma d’una zattera, in dialetto “mattra”, dentro la quale si doveva versare, impastare sommariamente e, quindi, lasciar lievitare la farina, sotto l’effetto della fermentazione, appunto, del lievito, o pasta madre, ritirato in uno con l’anzidetta mattra.

Il trasporto dell’utile ma un po’ ingombrante attrezzo, dal forno alle abitazioni private, aveva luogo con l’ausilio di un carretto, (in gergo dialettale, trainella), anch’esso in dotazione all’esercizio di pubblica utilità. Mentre, il trasferimento a ritroso, con il carico della materia prima, predisposta o semilavorata, come meglio piaccia dire, a cura delle donne di casa, si svolgeva, di solito, in tarda serata.

Giacché, l’azione del “fare il pane nel forno comune” non doveva interferire o sovrapporsi con l’attività giornaliera, soprattutto in campagna, degli uomini, i quali avrebbero, di contro, potuto sopportare il sacrificio di una notte in piedi per il compimento, ogni tanto, dell’operazione in discorso.

Perciò, dopo aver cenato e sistemato a letto i figli piccolissimi, sospingendo la trainella, convenivano al forno gli adulti e i ragazzini della famiglia interessata, accompagnati e coadiuvati da un gruppo di stretti parenti, nonni e zii compresi.

Del resto, nell’esercizio, su gran parte di un’intera parete, correva una lunga tavola da lavoro, dove potevano sedersi fino a sei/sette persone, con in testa la fornaia, le quali prelevavano con cura, ma di buona lena, dalla mattra, porzioni dell’impasto, le lavoravano (scanavano, in dialetto) a forza di mani, gomiti e braccia, riducendole in consistenti e morbidi cilindri, da cui la gerente del forno ricavava, in quattro e quattr’otto, le friselle, una sorta di ciambelle tondeggianti, ognuna consistente in due strati sovrapposti e uniti insieme, via via  poggiate provvisoriamente su lunghe e larghe assi di legno che sovrastavano la tavola di lavorazione.

Mentre il gruppo si muoveva in tale processo manuale, la fornaia, a tratti, immetteva nel forno, inteso come vero e proprio vano di cottura, un certo numero di fascine di fronde e rami (in dialetto, sarcine), frutto, specialmente, della rimonda degli ulivi, lì recate dalla famiglia che panificava, in modo da riscaldarlo adeguatamente, dalla base fino alle pareti e alla volta.

Inoltre, al momento giusto, serbava accuratamente, accantonata in un angolo, la piccola montagna di brace residuata dalla combustione.

Nel contempo, seguendo scansioni temporali ritmate dalla mente e/o dalla pratica o suggerite dalla fornaia, la forza lavoro utilizzava il quantitativo finale dell’impasto contenuto nella mattra, per modellare medie pagnotte, dette in gergo “pane moddre” (molle)”, così definite, in quanto da sottoporsi a una sola fase di cottura,  e, da ultimo, raschiando cioè risicati strati di pasta dal fondo e dai lati della mattra, una serie di puliteie, assimilabili  alle focacce o alle piadine,  farcite, in sede di preparazione, con modiche manciate di olive nere.

Finalmente, dopo la pulitura del piano o pavimento mediante una grossa ramazza bagnata, si deponevano nel forno le friselle e, da ultimo, le pagnotte e le puliteie.

A questo punto, s’innestava una pausa di riposo, i presenti, stanchi di fatica e insonnoliti, provavano ad appisolarsi, la fornaia, da parte sua, per lo meno d’inverno, andava addirittura a stendersi su un rudimentale giaciglio tenuto in un cantone del “furneddru” (forno più piccolo, situato al di sopra di quello utilizzato per la prima cottura del pane appena fatto).

Parentesi, nondimeno, breve, corrispondente al tempo necessario per il compimento, esattamente, della prima fase di cottura delle friselle e delle restanti forme di pane preparate.

Non abbisognavano né timer, né campanelli, né ulteriori congegni, era sufficiente la maestria e un’occhiata di Maddalena verso l’interno del forno, già fiocamente rischiarato dalla brace ancora rosseggiante a margine del pavimento e, all’occorrenza, meglio illuminato grazie a una lanterna, bastava che osservare il colore della “cotta” e via la frase: “Dai, bisogna sfornare!”.

Non s’impiegava molto tempo, utilizzando appositi aggeggi metallici, le friselle erano tirate fuori e immesse in capienti cesti di vimini; da questi, ritornavano sulla lunga tavola di lavorazione, dove gli operatori, servendosi di un segmento di spago, le tagliavano a metà in due separate sezioni: una, con base ovviamente più piatta e liscia, effetto dell’appoggio sul pavimento del forno, la seconda, invece, tondeggiante.

Esaurita tale importante operazione, le friselle, così spaccate, erano nuovamente inserite all’interno del forno, la cui temperatura, sebbene in progressiva attenuazione, restava nondimeno ancora alta e media per molte ore, così da ottenere l’essiccazione o biscottatura delle friselle stesse, che sarebbero poi state definitivamente ritirate e portate in casa dagli interessati, a distanza di dieci/dodici ore.

Attraverso le feritoie o la semi apertura del portone dell’esercizio, facevano capolino i primi lucori del nuovo giorno.

I convenuti, affaticati ma soddisfatti per aver affrontato e portato a compimento un importante lavoro, se ne ritornavano alle rispettive case, ciascheduno portando con sé una forma di pane moddre (molle) o una puliteia, già pronti per essere consumati freschi di cottura.

 

Parallelamente, il capofamiglia o la padrona di casa proprietari della cotta di pane curavano di consegnare i suddetti due esemplari di alimenti alla fornaia, in questo caso a Maddalena, la quale – altri tempi, davvero altri tempi – a fronte del suo lavoro e del ruolo di responsabile del forno, non percepiva alcun corrispettivo o compenso in denaro.

Maddalena, semplice e umile per nascita e di carattere, espletava il suo compito con passione e impegno, sempre aperta e disponibile, s’interfacciava, ovviamente, con numerose famiglie del paese, ben voluta da tutti.

La sua figura era anche un preciso punto fermo nell’ambito della comunità; ad esempio, quando si voleva far riferimento ai suoi figli, non si diceva Costantino o Maria  ‘u Giuvanni (figli di Giovanni), bensì Costantino o Maria ‘a Matalena (figli di Maddalena); la medesima particolarità seguita a vigere oggigiorno, riguardo ai discendenti di grado successivo: per citare, il nipote Vitale A., figlio di Costantino, caro amico e assiduo compagno di veleggiate dello scrivente, gode dell’appellativo di Vitali  (Vitale) ’a Matalena (della Maddalena).

Proseguendo oltre il portone dell’antico forno, si trova l’abitazione, con ampio cortile coperto e scoperto, già occupata da un’anziana coppia: Giovanni ‘u Pativitu (figlio di Ippazio Vito), con la moglie Addolorata. Il capo famiglia, contadino, si può dire dalle fasce, disponeva, in aggiunta, di una non comune manualità, che manteneva attiva e concreta pure in età avanzata.

Procurandosi nelle campagne e/o in vicinanza delle scogliere, quantitativi di canne, vimini e giunchi, li nettava e sezionava, dopodiché, con una sapiente operazione d’intreccio, arrivava a realizzare panieri grandi e piccoli, cesti e cestini, che, poi vendeva ai compaesani.

A qualunque ora si transitasse davanti al suo cortile, lo si scorgeva immancabilmente intento a tale lavoro.

Accanto, la casetta di Vitale N., nomignolo ‘u ciucciu (origine del nomignolo sconosciuta, forse legata al possedimento, da parte sua o dei genitori, di un quadrupede, un somaro).

Il ricordo di detto nominativo è circoscritto alla sua figura già versante nella tarda età, nessuna notizia, infatti, circa le attività lavorative da lui svolte da giovane, forse contadino, forse falegname. E’, al contrario, viva, l’immagine di Vitale ‘u ciucciu, nella funzione di cavadenti, esercitata, verosimilmente, senza il possesso del relativo titolo accademico e avvalendosi di attrezzature molto approssimative.

Tuttavia, per le occorrenze di natura odontoiatrica (così sono definite oggi), la maggior parte dei marittimesi si metteva nelle mani del compaesano in questione: qualche lamento o urlo o strillo in corso d’opera e, però, denti e molari, non più sani, erano estratti.

A seguire, in un’ampia abitazione terranea con giardino, vivevano compare Chiaro, figlio di Giovanni, il fabbricante di panieri anzi ricordato, insieme con la moglie comare Donata e la figlia Maria Rosaria (il loro primogenito, già adulto, si era trasferito nel Nord Italia).

Caratteristica peculiare di compare Chiaro, rimasta impressa, la sua abilità nel catturare, ogni tanto, esemplari di volpi che andavano a insidiare, talvolta facendone strage, i galli, le galline e le pollastre da lui allevati nel vicino giardino denominato “canale ‘i rasci” (anche questa accezione, di origine e significato misteriosi).

Gli animali che restavano in trappola erano scuoiati e, successivamente, finivano in pentola; in qualche occasione, la comare Donata portava amabilmente in dono porzioni di carne di volpe alla vicina e amica famiglia Boccadamo.

Proseguendo verso sud, si trovava la casa di Toti ‘u Pativitu (figlio o nipote di Ippazio Vito), il quale, all’occorrenza, esercitava il mestiere di  ”conza limmi e ggiusta cofini” (riparatore di contenitori in terracotta, che ogni famiglia possedeva, per farvi il bucato o per differenti fabbisogni domestici).

Per completare il quadro illustrativo, in un altro vicolo dell’Ariacorte, abitava Giuseppe P., Peppe ‘e Tuie (nativo della località di Tuglie, situata nei pressi di Gallipoli), il quale non si occupava di un preciso, determinato e limitato lavoro, ma svolgeva un’attività in certo qual modo plurima: spazzino o netturbino, adesso si chiama operatore ecologico, attacchino di manifesti e operatore cimiteriale (becchino).

Farebbe torto all’intera comunità dell’Ariacorte dei tempi andati, il narratore, se, a parte le persone anzi passate in rassegna, non ponesse in evidenza che, in quell’isola del paese, non v’era proprio alcuno che stesse con le braccia conserte, che, lì, l’apatia e l’ozio non si sapeva neppure che cosa fossero.

Il sano daffare, in un modo o nell’altro, accompagnava ogni creatura, dalla stagione della prima infanzia fino alla vecchiaia avanzata.

Indovinello neretino

di Armando Polito

 

foto di Marcello Gaballo
foto di Marcello Gaballo

Sulla frisella segnalo in questo blog:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/13/la-frisella-regina-delle-tavole-salentine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/26/tutto-cio-che-avreste-voluto-sapere-sulla-frisella-e-non-avete-mai-osato-chiedere/ 

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

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1 Di genere maschile, come nell’italiano antico:

Jacopo Della Lana (XIV secolo), Commento alla Divina Commedia (Inferno, 124-130): poi viene  lo state  ed ello parturisce suoi frutti

Luigi Pulci (XV secolo), Morgante, XVIII, 130, 3:  che non mi lasciati mai  lo state  o ‘l verno

2 Corrisponde all’italiano favonio, dal latino favoniu(m), dalla radice di favère=favorire

3 Corrisponde all’italiano letterario gito.

4 Corrisponde all’italiano rilassato con prostesi di de. (*derilassato>*derlassato>*dirlassatu>ddirlassatu).

5 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/09/03/capasone-e-il-capofamiglia-capasa-la-mamma-capasieddhu-il-figlio/

6 Molto probabilmente connesso con l’italiano picca (arma appuntita).

7 Corrisponde all’italiano letterario alma che è da anima attraverso una forma dissimilata (*àlima) e poi sincopata.

8 In Apicio (I secolo d. C.), Nel De re coquinaria [raccolta di ricette sotto il nome di Marco Gavio Apicio (I secolo d. C.) compilata nel III o IV secolo) compaiono (I, 7 e VII, 16) spongizare e la sua variante spongiare,  ma entrambi col significato di detergere con una spugna, lo stesso della voce greca σπογγίζω (leggi sponghìzo), da cui deriva, insieme con il classico spòngia=spugna che è trascrizione del greco σπογγιά (leggi sponghià). Rispetto a spongizare/spongiare, dunque, il nostro spunzare ha subito un leggero slittamento semantico.

9  https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/29/gli-omofoni-del-dialetto-neretino-a-fumetti-2/

10 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/11/gastronomia-salentina-il-finocchio-marino/

11 Di regola sono le ciline (https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/24/olive-celline-perche-questo-nome/), varietà particolarmente adatta ad essere conservata sotto sale.

12 https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/08/22/cresciuti-a-frise-e-menuncelle/

13 Anche se in traduzione l’ho reso con fette, tuttavia la forma dialettale suppone un latino *offilla diminutivo del classico offa=boccone, focaccia, polpetta, bernoccolo, mentre quella italiana suppone un latino, sempre diminutivo di offa, *offitta. Però, mentre il suffisso diminutivo femminile latino –illa è frequente (p. e.: pupilla diminutivo di pupa), di –itta non son riuscito a trovare neppure un’attestazione.

14 ‘nd’ è dal latino inde; imu corrisponde all’italiano abbiamo ed è dal latino habemus>*havemus>*havìmus>*aìmu>imu. Alla lettera ‘nd’imu itire corrisponde a ne abbiamo (da) vedere.

15 Come l’italiano origano è dal latino orìganu(m), a sua volta dal greco ὀρίγανον (leggi orìganon) ma suppone una trafila meno diretta: orìganu(m)>*orijanu(m)>*orìanu>riènu.

16 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/01/ruca-rucola-ruchetta-insomma-la-rucula-salentina/

17 Corrisponde all’italiano dovunque ed è composto da ad+do’ (dove con apocope)+-unque (dal segmento latino -unque, a sua volta dal suffisso -cumque di parole come quicumque.

18 Il Rholfs registra ‘ndiminare solo per Nardò, ndinàre per Veglie nel Leccese e Avetrana per il Tarantino, nduvinare per Salve nel Leccese e per Carovigno nel Brindisino. Credo, però, che a Nardò, accanto alla forma probabilmente più antica, ‘ndiminare, vi è in uso pure ‘nduinare. Ma come si spiega la m di ‘ndiminare? Dico subito che tutte le varianti riportate meno questa (che, come tenterò di dimostrare, non sarebbe una variante) sono apparente deformazione dell’italiano indovinare, di cui, quindi, condividono l’etimo: da un latino *indivinare, composto da in+il classico divinare=presagire, da divinus=divino; come si vede le forme dialettali hanno meglio conservato il vocalismo originario, per cui prima ho definito apparente la deformazione rispetto all’italiano.

Il Rohlfs mettendo la voce  ‘ndiminare insieme con le altre la considera evidentemente una loro variante, dunque una parola con lo stesso loro etimo, senza dare ragione, neppure con un’ipotesi d’incrocio con altro vocabolo, di m invece di v. Io credo, invece, che ‘ndiminare nasca per dissimilazione da ‘nnuminare=nominare, che è dal latino adnominare (a sua volta composto da ad+nominare), secondo la trafila: ‘nnuminare>*’nduminare>’ndiminare.

Alla luce di quanto detto, perciò, ‘ndiminare non può essere considerata una variante del più recente ‘nduinare e di tutte le altre forme che, come ho detto, derivano dal latino *indivinare. Mi pare doveroso a questo punto sottolineare quanto concettualmente sia più preciso ‘ndiminare rispetto a tutte le altre forme salentine (compresa ‘nduinare neretina) che sono legate al concetto del presagio (previsione del futuro), da cui ‘ndiminare appare totalmente sganciata perché legata all’individuazione esatta (nominare, designare precisamente). Per essere più concreto: se io risolvo un indovinello la mia felice azione dovrebbe essere definita come nominare (citare l’esatta soluzione, che esiste da tempo, cioè da quando l’indovinello è stato ideato, per lo più condensabile in articolo e sostantivo) e non presagire (che significa individuare, con o senza successo, un evento futuro). A questo punto quasi quasi mi viene la tentazione di cambiare il titolo in Nominarello neretino …

La friseddra ppoppitara

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ph Angelo Arcobelli
di Angelo Micello

La friseddra ppoppitara si distingue dalla frisa salentina in quanto consumata esclusivamente da popolazione indigena di etnia ppoppitara. Mentre la frisa salentina vive e viene consumata da bauscia milanesi e altre popolazioni esogene in interminabili eppiaurs spizziccata da pulitissime unghie laccate, la friseddra ppoppitara compie la sua vita solo pochi secondi, il tempo giusto di compiere il suo destino, quello di sfamare. A differenza della variante geneticamente modificata, la frisa, prodotta da spregiudicate industrie turistico-commerciali, la friseddra non ha bisogno di guide e corsi per essere consumata. Non servono specifici attrezzi di ammollamento, non serve consultare rinomati forum di cultura salentina per sapere come spargerci sopra l’olio e il sale, non serve sapere quale tipo di sottopiatto abbinare. La friseddra ppoppitara non ha mai avuto affianco a sè sul tavolo una lista di vini o di aperitivi. A essere pignoli, l’archetipo ppoppitaro non si è mai posato su un piatto ma direttamente su una banca, più spesso sul solo palmo della mano.

frisa

Nata appunto per sfamare nei campi e sul lavoro, la friseddra ppoppitara, vede la luce nella sua vita solo per pochi secondi: dal buio dei forni, al buio dei capasoni al buio di una bocca, tutto molto riservato, nessuno fino ad ora è mai riuscito a fotografarla o a stamparla su un cartello pubblicitario. Dicevamo che il consumo della frisa salentina, come per altre pietanze salentine, richiede una lunga preparazione pseudo-culturale del consumatore. In genere si parte da storie di popoli nomadi, passando per soldati crociati e si finisce col ricordo del nonno appeso alla parete. Il bauscia va rassicurato perchè il dubbio che gli si stia facendo mangiare pane raffermo bagnato vecchio di due settimane è insito in queste operose genti italiche. Invero in questi ultimi anni, l’attività della propaganda salentina ha forgiato intere popolazioni europee alla convivenza pacifica coi gechi in camera da letto e a comprarsi il nostro vino a un prezzo quintuplo rispetto a quello di dieci anni fa. La cultura salentina in questo decennio, alimentata da svegli commercianti, scaltri operatori turistici e immobiari e rimbambiti settantenni salentini, estranei a qualunque corrente culturale ppoppitara di origine, ha fatto miracoli. Sopravvivono, comunque, in questo estremo lembo di Puglia molte enclavi di etnia ppoppitara che perseverano le loro abitudini tra cui il consumo della friseddra e l’uso del termine scajone. Perchè non restino dubbi al lettore, ma non sia assolutamente una guida anch’essa, in quanto il consumo della friseddra non richiede guide, ne tanto meno il ppoppitaro ne conosce l’uso e il bisogno di un manuale, ricordiamo brevemente i tre sottotipi di friseddre ppoppitare: la friseddra de ccumpagnamentu, la friseddra a ssula e la friseddra ntru latte. Trattandosi di cultura ppoppitara per gente ppoppitara, e quindi letta in futuro lontano da solo pochi studiosi di antropologia culturale la trattazione sarà in ppoppitaro stretto. Friseddra de ccumpagnamentu: Spicciatu u pane friscu te tocca alla friseddra! La moddri a ru cappa cappa, a spatti su a banca culla faci a frissuli. Li suppi ntru brudinu de pummidori siccati e ta manci. Friseddra a ssula: No ssa mancia ciuveddri, meju li spranci susu nu pummidoru. La moddri, fuscennu fuscennu spranci susu do pummidori, oju, sale e prima te sponsa ntra manu e cu te cade tuttu nterra, ta ngnutti a tre uccuni. Friseddra ntru latte: La moddri, la spatti su a banca o la spranci ntra manu, la scoppi ntra coppa du latte e te spicci cu giunci u zzuccuru prima ca a friseddra se suca tuttu u latte.

Monti: il 2013 sia l’anno del lavoro ai giovani. E il sud da gennaio crea studenti imprenditori

La sfida: crearsi un lavoro al sud e iniziare a guadagnare a 17 anni 

25 studenti di 4° anno impegnati in 5 progetti nell’agroalimentare:

un olio nuovo, un festival, un sito, la “frisedda” e il Pansorriso

 

I tecnocrati lo chiamerebbero “corporate culture”

noi lo chiamiamo “scuola pubblica”

 

 

Alla dichiarazione del premier Mario Monti: “Il mio desiderio è che il 2013 possa essere l’anno degli investimenti in capitale umano, scommettendo sui propri giovani e sulle loro image002competenze e sui loro talenti”, i giovani del sud si dimostrano profetici e, anziché aspettare gli investimenti delle imprese, decidono di fare da sé e diventare imprenditori a 17 anni, mentre frequentano il 4° anno superiore di un istituto tecnico economico.

Hanno iniziato ad occuparsi di agroalimentare appena un anno fa, quando erano al terzo anno, e oggi, al quarto, sono già pronti ad una sfida che, se non impossibile, è sicuramente azzardata: «vogliamo crearci un lavoro vero, qui al sud, entro il nostro diploma e vogliamo lavorarci già da ora, mentre siamo ancora a scuola e vogliamo persino iniziare a guadagnare»

Sono i 25 studenti della classe 4°B del settore economico/informatico dell’Istituto “Galilei Costa” di Lecce i quali, suddivisi in cinque gruppi di attività, stanno avviando in questi giorni, non delle simulazioni, ma delle vere e proprie azioni di marketing e di organizzazione concrete, capaci di creare business e un possibile introito in denaro. Chi l’ha detto, infatti, che gli studenti non possono guadagnare del denaro mentre sono ancora a scuola, se lavorano su qualcosa per cui aziende e clienti sono disposti a spendere?

Da qui la scommessa, quindi, di riuscire a tradurre in pratica quotidiana, reale, fatta di contatti, marketing e vendite, tutto quello che apprendono durante le lezioni e, così facendo, costruire le basi di quello che potrebbe diventare il loro futuro lavoro fra 18 mesi, quando otterranno il diploma. L’area d’azione, come già detto, è quella della “tripla A” di agricoltura, alimentazione e ambiente, un’area in cui i giovani salentini hanno implementato l’ormai nota “Dieta Med-Italiana” e su cui stanno puntando tutta la loro attenzione. Si muoveranno tra prodotti già consolidati, come olio e friselle, e nuove proposte da lanciare per la prima volta sul mercato. E non mancheranno realizzazioni di importanti eventi e nuovi siti web.

 

Questi i cinque progetti

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Antonio, Francesco, Gabriele, Jacopo, Matteo M. e Matteo S. tra pochissimi giorni annunceranno e lanceranno sul mercato nazionale ed internazionale un “nuovo” prodotto.

La parola “nuovo” è virgolettata in quanto il prodotto in sé non lo è affatto nuovo (in realtà ha più di 7.000 anni) mentre è nuovissimo e originale il concept e l’immagine che lo accompagna. I sei studenti del Galilei Costa garantiscono che riusciranno a stupire persino i più autorevoli e navigati esperti e produttori del settore. La loro è una vera e propria azione di marketing avanzato, dal design e dalla registrazione del marchio al packaging e alla commercializzazione. Hanno colto alcuni aspetti mai colti prima, o meglio, mai messi in evidenza sotto questa luce. Una sfida aperta tra sei diciassettenni ed il mercato globale. Come guadagneranno? Semplice, tramite la vendita di questo “nuovo” prodotto della gastronomia salentina.

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La “società” formata da Andrea, Evelina, Federico, Martina e Pierluigi si sta invece occupando di far conoscere al resto d’Italia e anche all’estero, a partire dal 2013, un antico e apprezzato prodotto da forno locale, meritevole, a loro parere, di essere diffuso e commercializzato al pari della piadina, della bruschetta e persino della pizza. Parliamo delle “frise” (o friselle, frisedde, friseddhre), un pane biscottato (cotto due volte) che diventa duro e durevole e che, al bisogno, necessita solo di un po’ d’acqua per riammorbidirsi e prestarsi alla consatura, ossia diventa pronto ad essere guarnito, sia in maniera tradizionale, semplicemente con olio extravergine, pomodoro e sale, che in maniera personale e creativa. Anche in questo caso i giovani studenti hanno creato e registrato un marchio, “Frisedda Regina”, attraverso il quale cercheranno di consorziare i migliori produttori locali e diffondere e commercializzare questa nuova ma antica tradizione culinaria della Puglia salentina. Anche in questo caso il guadagno scaturirà dai margini ottenuti dalla vendita del prodotto.

Mentre Andrea, Daniele, Giulia, Marco, Paola e Veronica sono già al lavoro per la realizzazione del “Festival della Dieta Med-Italiana”, una importante e originale kermesse agro-eno-gastronomica che avrà luogo nel centro di OLYMPUS DIGITAL CAMERALecce dal 25 al 28 aprile 2013. L’evento ha l’obiettivo primario di condurre e concentrare nel capoluogo salentino un’ingente quantità di persone (esperti, ricercatori, chef, nutrizionisti, giornalisti e semplici visitatori) attraverso l’organizzazione di seminari, esposizioni, mostre, degustazioni e importanti congressi, tutti incentrati sullo stile alimentare e di vita più importante e famoso del mondo, la Dieta Mediterranea. Naturalmente i riflettori saranno puntati sui prodotti della terra e della pesca e sulla loro lavorazione, con particolare attenzione ai produttori, presenti sia in proprio che tramite le organizzazioni di categoria e territoriali (Coldiretti, Cia, Confagricoltura, Confartigianato, Cna, Gal, Gac, etc.). In questo caso i ragazzi cercheranno di ritagliarsi un margine di guadagno ottenuto da una quantità di “entrate” (noleggio stands, sponsorizzazioni, …) maggiore delle uscite (spese di organizzazione e pubblicizzazione).

Sono quattro invece i ragazzi, Manuela, Nilo, Roberta e Stefano, che stanno lavorando a quello che sarà il portale nazionale italiano sulla Dieta Mediterranea.OLYMPUS DIGITAL CAMERA

All’indirizzo www.dietameditaliana.it, infatti, a breve saranno pubblicate pagine e pagine di informazioni e news, ricche di contenuti, le quali, oltre a descrivere nei dettagli le caratteristiche della “dieta” più famosa del mondo, riporteranno tutti i Centri e le istituzioni che si occupano di dieta mediterranea in Italia. Ci saranno anche tutti gli eventi che hanno luogo nel Bel Paese insieme anche alle iniziative internazionali in cui figurano contributi o partecipazioni italiane. Saranno persino create delle schede descrittive degli esperti e dei ricercatori che operano sul tema e dei loro lavori. Obiettivo degli studenti è quello di creare un unico e potente centro informativo su tutto ciò che avviene in Italia sulla promozione e diffusione della buona e sana dieta mediterranea. Se l’obiettivo sarà raggiunto, sarà semplice immaginare che il portale diventerà così di fondamentale importanza per tutte le aziende che operano nel settore e, quindi, capace di attirare pubblicità e contributi, le quali rappresenteranno un’ottima possibilità di guadagno per chi ci lavora.

Infine, ma non meno importante, Andrea, Giorgio, Mattia e Michael hanno assunto l’impegno di curare il marketing di un nuovo prodotto dolciario nato sei mesi fa, concepito appositamente per la Dieta Med-Italiana, il “PanSorriso”, un dolce particolarissimo creato dal pasticciere Giovanni Venneri che, grazie all’uso di prodotti naturali del Salento come olio extravergine d’oliva Adamo e miele, che sostituiscono rispettivamente burro e zucchero, yf08980arisulta essere al tempo stesso buono, naturale, digeribile e, soprattutto, sano, caratteristiche queste molto rare in un prodotto dolciario, come ben sanno tutti i golosi. L’artigiano di Alliste, creatore del PanSorriso, ha deciso di affidare alla creatività e all’intraprendenza degli studenti leccesi il delicato compito di far conoscere, apprezzare e, quindi, acquistare la sua nuova creatura. Ad oggi i ragazzi ne hanno concepito il nome, il logo e la forma e hanno già avviato diverse iniziative promozionali, attraverso sia il web ed i social network che i mezzi più tradizionali. Tra queste spicca l’ultima, estrosa e attualissima campagna che recita testualmente: “Fine del mondo? Tranquilli, il PanSorriso è così buono che …resuscita persino i morti”. In questo caso il margine degli studenti sarà garantito dalle provvigioni di vendita del “PanSorriso”. Non è escluso, inoltre, che i giovani possano prendere in considerazione di promozionare anche altri prodotti particolari del territorio.

 

I tecnocrati chiamerebbero tutto questo “corporate culture”, noi invece lo chiamiamo …“scuola pubblica”.

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Ma chi ha inventato la frisella?

Sulle tracce della frisèddha

di Armando Polito

E’ opinione comune che la nascita della frisèddha e la prima diffusione nel mondo contadino siano dovute al fatto che in passato i lavoratori, soprattutto quelli della terra, non potevano avere pane fresco ogni giorno e dovettero perciò inventare un prodotto a lunga conservazione (naturale!). Bastavano e bastano, infatti, poche gocce di acqua perché essa diventi morbida senza perdere il suo sapore (come succede per il pane raffermo).

Ma sono state veramente le popolazioni autoctone ad aver inventato la frisèddha?

Come succede di norma in questioni del genere, è praticamente impossibile giungere ad una certezza che abbia il  crisma della scientificità. Possono essere fatte solo delle supposizioni, pur partendo, com’è doveroso, da constatazioni di carattere storico.

Il Meridione, soprattutto il Salento è stato (e per certi versi lo è ancora) prevalentemente, com’è  noto,  per  motivi  di  posizione  geografica, un crocevia di popoli, per lo più animati da intenzioni tutt’altro che pacifiche (la guerra, anche quella preventiva, esiste da sempre), che si sono alternati e talora fusi con le popolazioni locali.

In assenza, purtroppo, di testimonianze letterarie ed archeologiche ad hoc sulle più antiche civiltà delle nostre terre [ad esempio, per quanto riguarda le abitudini di vita concreta, direi quotidiana, dei Messapi, sappiamo solo che, forse (!) erano abili domatori di cavalli; per gli Etruschi, invece, anche se estranei alla nostra cultura delle origini, nella fattispecie sappiamo che anche per loro il nutrimento principale furono per molto tempo le farinate a base di miglio e di farro, le clusinae pultes, la cui esistenza è documentata sia da Marco Valerio Marziale1 (I°secolo a.C.), sia da ritrovamenti archeologici], siamo obbligati a rivolgere la nostra attenzione alle epoche più recenti.

I Romani nella fase più antica della loro storia non conoscevano il pane, ma la polenta, almeno come vocabolo: il mais sarebbe arrivato dopo quasi 2000 anni…

Plinio (I° secolo d. C.) nella sua Naturalis Historia (18, 83-84) ci tramanda quanto segue: Pulte autem, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum, quoniam et pulmentaria hodieque dicuntur et Ennius, antiquissimus vates, obsidionis famem exprimens offam eripuisse plorantibus liberis patres commemorat. Et hodie sacra prisca atque natalium pulte fitilla conficiuntur, videturque tam puls ignota Graeciae fuisse quam Italiae.

[Poi che di puls2 , non di pane abbiano vissuto per lungo tempo i Romani  (è) cosa chiara, poiché e anche oggi si parla di  pulmentària3 ed  Ennio, antichissimo poeta, volendo dare un’idea della fame che si provava in occasione di un assedio, ricorda che i padri sottraevano ai figli che piangevano un’offa4. Anche oggi i riti antichi e quelli che  accompagnano le nascite  vengono  celebrati  con  puls fitilla5, e pare che la puls fosse sconosciuta tanto alla Grecia quanto all’Italia.].

Per tornare all’argomento in questione, i Romani , dunque, nell’epoca più antica della loro storia, in attesa che Colombo facesse conoscere il mais, mangiavano la puls, anche la polènta6, ma non conoscevano il pane.

Se è pacifico che esso non esisteva già  in epoca considerevolmente anteriore a Plinio, la testimonianza enniana che lo stesso riporta [(Ennio visse dal 239 al 169 a. C. e scrisse il poema Annales in 18 libri, narrante 6 secoli di storia romana, dall’arrivo di Enea nel Lazio fino a circa il 178 a. C; di tale poema ci restano, purtroppo solo pochi frammenti, nessuno dei quali (purtroppo nel purtroppo…) coincide con la citazione pliniana] ci fa intuire che quanto meno ai tempi di Ennio il pane esisteva; peccato che Plinio non ci abbia ricordato (ammesso che lo sapesse o che lo ricordasse) di quale assedio cantava Ennio, perché avremmo in tal caso potuto spostare ancora più indietro nel tempo la conoscenza di questo alimento; tuttavia tutto quello fin qui detto ci autorizza a supporre che i Romani abbiano conosciuto il pane non prima del IV secolo a. C.

E sulle testimonianze antiche di questo alimento diciamo qualcosa in più, cominciando proprio da Plinio: Naturalis historia, XVIII, 105-108: Panis ipsius varia genera persequi supervacuum videtur, alias ab opsoniis appellati, ut ostrearii, alias a deliciis, ut artolagani, alias a festinatione, ut speustici, nec non a coquendi ratione, ut furnacei vel artopticii aut in clibanis cocti, non pridem etiam e Parthis invecto quem aquaticum vocant, quoniam aqua trahitur ad tenuem et spongiosam inanitatem, alii Parthicum. Summa laus siliginis bonitate et cribri tenuitate constat. Quidam ex ovis aut lacte subigunt, butyro vero gentes etiam pacatae, ad operis pistorii genera transeunte cura. Durat sua Piceno in panis inventione gratia ex alicae materia. Eum novem diebus maceratum decumo ad speciem tractae subigunt uvae passae suco, postea in furnis ollis inditum, quae rumpantur ibi, torrent. [Sembra superfluo elencare i vari tipi di pane, che prende il nome ora dal companatico, come l’ostreario7, ora dalle leccornie, come l’artolàgano8, ora dalla fretta, come lo speustico9, e non dal metodo di cottura, come quello cotto al forno o l’artopticio10 o quello cotto nel clibano11,  importato non molto tempo fa dai Parti che lo chiamano acquatico, poiché l’acqua gli conferisce  una tenue e spugnosa delicatezza; altri lo chiamano partico. La fama sta tutta nella bontà del fior di farina e nella sottigliezza del setaccio. Certi lo lavorano con uova e latte, col burro poi pure popoli amici12, mentre dedico (ora) la mia attenzione all’arte dei fornai13. Continua la gratitudine al Piceno per aver inventato il pane dalla spelta (grano vestito). Dopo averlo lasciato macerare per nove giorni, al decimo lo lavorano con succo di uva passa preparato per l’occasione, poi, introdottolo nel forno su tegami, lo cuociono finchè i tegami non si rompono.].

Ma è nel libro XXII, 138 che Plinio ci fornisce un’indicazione che potrebbe essere, secondo me, un riferimento all’antenata della nostra frisèddha: Panis hic ipse, quo vivitur, innumeras paene continet medicamentas. Ex aqua et oleo aut rosaceo mollit collectiones; ex aqua mulsa ad duritias valde mitigandas, ex vino ad discutienda aut quae praestringi opus sit et, si magis etiamnum, ex aceto, adversus acutas pituitae fluctiones, quas Graeci rheumatismos vocant, item ad percussa, luxata, ad omnia autem fermentatus, qui vocatur autopyrus, utilior. Inlinitur et paronychiis et callo pedum in aceto. Vetus aut nauticus panis tusus atque iterum coctus sistit alvum. Pistores Romae non fuere ad Persicum usque bellum annis ab urbe condita super DLXXX. Ipsi panem faciebant Quirites, mulierumque id opus maxime erat, sicut etiam nunc in plurimis gentium. Artoptas iam Plautus appellat in fabula, quam Aululariam inscripsit, magna ob id concertatione eruditorum, an is versus poetae sit illius, certumque fit Atei Capitonis sententia cocos tum panem lautioribus coquere solitos, pistoresque tantum eos, qui far pisebant, nominatos. Nec cocos vero habebant in servitiis, eosque ex macello conducebant.

[Questo stesso pane14, di cui ci si nutre, contiene quasi innumerevoli proprietà medicamentose. Inzuppato in acqua e olio di oliva o di rose lenisce gli ascessi; inzuppato in acqua mescolata con miele è alquanto utile a mitigare sensibilmente gli indurimenti, inzuppato nel vino, meglio ancora nell’aceto, nei casi in cui bisogna fluidificare o solidificare, contro gli attacchi acuti di raffreddore, che i greci chiamano reumatismi, parimenti per le contusioni, le lussazioni; quello integrale poi, che è chiamato  autopìro15, per tutto. Si stende anche sui panerecci e, imbevuto nell’aceto, sul callo dei piedi. Il pane vecchio o il nautico16, pestato e di nuovo cotto, blocca la diarrea. Fornai a Roma non ce ne furono fino alla guerra contro Perseo17, oltre 580 anni dalla fondazione di Roma. Gli antichi romani si facevano il pane da soli e questa era esclusivamente incombenza delle donne, come anche ora nella maggior parte dei popoli. Già Plauto nella sua commedia Aulularia nomina le artopte18, con  grande discussione  a tal proposito tra gli eruditi se  questo verso sia di quel poeta; ma è certo, a parere di Ateo Capitone19, che i cuochi a quel tempo erano soliti cuocere il pane per quelli alquanto piuttosto raffinati e che erano chiamati mugnai solo quelli che macinavano il farro. Né per la verità avevano cuochi tra i servi, ma li  assoldavano dal mercato.].

E’ proprio l’ultimo tipo di pane citato (avente in comune con quello vecchio la durezza), ma distinto nel testo pliniano dalla congiunzione disgiuntiva aut (se avesse voluto dire vecchio altrimenti detto nautico Plinio avrebbe usato vel e non aut)20, che mi fa pensare alla nostra frisèddha, o, almeno, alla sua probabile antenata.

E’ intuitivo che il pane nautico, proprio in virtù della sua durezza, poteva durare a lungo e durante la navigazione essere consumato ammorbidito con acqua, magari di mare21.

Questa intuizione, però, per quanto banale, complica il problema, perché è certo che, prima e più dei Romani, altri popoli furono provetti navigatori e, quindi, dovettero affrontare il problema del pane a lunga conservazione: i Fenici, quelli del Vicino Oriente e i Greci. Purtroppo,  relativamente ai primi due, nessuna testimonianza specifica, neppure semplicemente onomastica, rimane, a quanto ne so, sull’argomento, a parte leggende di ignota provenienza, frutto, forse, di una forma di pubblicità ante litteram, o di elucubrazioni etimologiche facenti concorrenza alle mie, come quella  secondo la quale sarebbe stato Enea ad introdurre la frisèddha nel Salento in occasione del suo sbarco a Porto Badisco (credo, per paretimologia, da Phrygia=della Frigia, troiana); ad onor  del  vero  circola anche  la  leggenda inversa, per la quale  sarebbero  stati  gli  indigeni ad offrire friselle agli ospiti troiani22.

Decisamente meglio le cose vanno col mondo greco perchè vari autori antichi ci parlano di un pane cotto due volte: dipyrìtes23 o dìpyros, [sottinteso artos=pane)]24; entrambe le voci risultano composte da dis=due volte e pyr=fuoco e dalla seconda deriva il latino dìpyros attestato da Marziale25. Diretto discendente di questo tipo di pane è  il paximàdi26, caratteristico di Creta, che, in base alla forma, viene distinto in due categorie: il dakos o dakòs27 e le kulùres28. I dakos sono fette, tagliate spesse, di pane dalla forma allungata. Le kulùres sono ciambelle tagliate a metà longitudinalmente, che danno origine a due parti, quella inferiore e quella superiore (sembrano le gemelle della nostra frisella).

La maniera più comune di servirle è bagnarle, metterci su pomodoro fresco a pezzetti, cospargerle di origano o maggiorana freschi e versarci su un filo di olio extravergine di oliva.

E come dimenticare, spostandoci in altra area  geografica che  ci  riporta  ai  Vichinghi, lo     svedese knekerbrad o knäckebröd? (più simile, per la verità, nonostante il buco centrale, alla piadina  romagnola che  alla  frisella)?

Per aggiungere un altro tassello al  quadro, consapevole che esso, comunque, non sarà per questo completo, ricordo per la Sardegna il pane de fresa o pane carasau29, detto anche carta da musica in  riferimento allo  spessore e alla croccantezza, tipico di alcune zone del  Sassarese e del Nuorese: la sfoglia dopo una prima cottura si lasciava raffreddare, veniva poi spazzolata e  divisa  in due parti, (fresau), infine  posta  su  un  tavolo  a  cataste di  quaranta,  cinquanta pani (sa fresa). I pani venivano  infornati, per essere biscottati, una seconda volta. Una variante ancora più sottile è il bissau.

Infine, per il Veneto, il pan scafetò, pane che dura anche sei mesi e  che la gente di campagna, un tempo, acquistava una volta ogni tanto, conservandolo nello scafetò30, una specie di scaffale in cui i contadini custodivano granaglie, farine e, dunque, anche il pane.

Perciò ho l’impressione che la frisella conserverà forse per sempre il segreto del suo parto gemellare31, con le rughe che ricordano le onde nella parte inferiore (considerata la meno pregiata) e, in quella superiore, con il piccolo foro centrale simile a un gorgo o a un ombelico o, per fare onore alla fantasia dei napoletani che di fresèlla fanno anche un uso metaforico32, al sesso femminile.

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1 Xenia (Epigrammaton XIII, 8): Inbue plebeias Clusinis pultibus olla, ut satur in vacuis dulcia musta bibas.[Colma le pentole scadenti di farinate di Chiusi, affinchè sazio tu beva dolci mosti in quelle vuote] ; si può dedurre da questa testimonianza che gli Etruschi conoscevano la puls, probabilmente fatta non con farina di farro, ma di cereali meno nobili, come il miglio. Qualcosa di simile aveva ricordato, a proposito dei Cartaginesi,  Marco Porcio Catone (III-II secolo a. C.): (De agricultura, 85): Pultem Punicam sic coquito. Libram alicae in aquam indito, facito uti bene madeat. Id infundito in alveum purum, eo casei recentis P. III, mellis P. S, ovum unum, omnia una permisceto bene. Ita insipito in aulam novam. [Cucina così la polenta cartaginese: butta in acqua una libbra di spelta e fa che si imbeva bene; versala in un contenitore oblungo pulito, (aggiungi) tre libbre di formaggio fresco, mezza libbra di miele, un uovo, mescola bene il tutto. buttalo così in un’altra pentola.].

2 Riporto al nominativo le voci, per così dire, tecniche, di Plinio e degli autori citati successivamente anche per rendere più agevole e meno soggetta ad equivoci l’interpretazione del brano; puls (genitivo pultis)[probabilmente connesso con pollen=fior di farina e, in senso traslato polvere(da cui l’italiano polline)e sicuramente connesso col greco poltos o poltòs)=minestra a base di farina] indicava una farinata di farro.

3 Pulmentàrium [o pulmèntum o pulpamèntum o pulpàmen, tutti da pulpa]era il piatto di carne, cioè quello che noi chiamiamo genericamente il companatico, per cui Plinio ci fornisce anche una preziosa nota di ordine filologico;c’è da notare che panis (pane)in latino non entra mai in composizione come nel nostro companatico, per indicare il concetto del quale era usato anche il termine obsònium [dal greco opsònion)=approvvigionamento, da opsònes=chi compra vettovaglie, composto da opson=cibo e onèomai=comprare] voce già presente in Tito Maccio Plauto, autore del II secolo a. C., nel quale, però, la voce ha il significato originario del primo componente greco in uno dei suoi geniali, intraducibili, giochi di parole  (obsònium obsonàre=comprare le provviste, preparato da locuzioni più normali: obsonàtum ire =andare a fare la spesa; tribus obsonàtum est=si è fatta la spesa per tre); vale la pena qui ricordare  che il nostro polentone (nel significato spregiativo con cui vengono chiamati i settentrionali) in realtà era già stato inventato (riferito, però, alle abitudini alimentari dei Romani) più di duemila anni fa da Plauto con i suoi pultìphagus [Mostellaria:  non enim haec pultìphagus òpifex òpera fecit bàrbarus (infatti questi dettagli non li ha fatti un artigiano straniero mangiatore di polenta)] e  pultiphagònides [Poenulus: latìne Plautus pàtruus pultiphagònides (in latino Plauto lo zio dei discendenti di mangiatori di polenta)].

4 Offa significava boccone, focaccia, polpetta e, per traslato, bernoccolo; è evidente che qui sta nel senso di boccone o, al più, di focaccia, non certo di polpetta!(in Cicerone offa pultis: boccone di puls).

5 Per puls vedi la nota 2; della fitilla ci parla anche Lucio Anneo Seneca (più famoso del padre Lucio Anneo Seneca il Vecchio), autore del I secolo d. C., nella sua opera De beneficiis (I,6 VI): Non est ergo beneficium ipsum, quod numeratur, aut traditur; sicut nec in uictimis quidem, licet opimae sint, auroque praefulgeant, deorum est honos; sed pia ac recta uoluntate uenerantium. Itaque boni etiam farre ac fitilla religiosi sunt; mali rursus non effugiunt impietatem, quamuis aras sanguine multo cruentauerint.[Non è dunque il sacrificio in sè stesso che viene tenuto in conto o ricordato; come neppure nelle  vittime, per quanto siano grasse e risplendano di oro, consiste il rispetto degli dei, ma nella pia e retta volontà dei fedeli . E così i buoni sono religiosi anche col farro e con la fitilla; i cattivi, al contrario, non eviteranno l’empietà, sebbene abbiano lordato gli altari di abbondante sangue.]

Ma che cosa poteva essere questa fitilla? Tenendo conto che , oltre  alla puls fitilla citata da Plinio, esisteva anche la puls fabata [vale a dire la farinata di fave, in pratica l’antenata, questa sì, delle fàe iànche (fave bianche) che in un tipico piatto salentino si accompagnano alle cicurèddhe ti campàgna (cicorie selvatiche)] e che nel brano precedente farro e fitilla sono citati come offerte povere,  è legittimo dedurre che la fitilla era un cereale poco pregiato, certamente meno pregiato e costoso del farro la cui pianta, era più sensibile, come ci ricorda sempre Plinio (Naturalis historia, XVIII, 83  ricordi che ex omni genere durissimum far et contra hiemes firmissimum. patitur frigidissimos locos et minus subactos vel aestuosos sitientesque; primus antiquis Latii cibus, magno argumento in adoniae donis…  [di ogni specie il più duro, resistentissimo anche contro i rigori dell’inverno, è il farro; non sopporta  i luoghi molto freddi o troppo caldi e aridi; primo cibo per gli antichi abitanti del Lazio,  di grande importanza tra le ricompense per una vittoria…]. Sulla individuazione  del cereale da cui si ricavava la fitìlla ci viene in aiuto Arnobio (III secolo d. C.)(Adversus nationes, II, 21, 3): At vero cum coeperit solidioribus cibis infans debere fulciri, nutrice inferantur ab eadem…. Ipse autem qui infertur cibus sit unus atque idem semper, nihil materia differens nec per varios redintegratus sapores, sed aut fitilla de milio aut sit panis ex farre aut, ut saecula imitemur antiqua, ex cinere caldo glandes aut ex ramis agrestibus baculae. [Ma invero quando il bambino comincerà a dovere essere nutrito con cibi più solidi, questi siano somministrati da una sola nutrice…Lo stesso cibo poi che viene somministrato sia uno solo e sempre lo stesso, in nulla differente nella materia né corretto con varie sostanze  che gli conferiscano sapore, ma sia o una fitilla di miglio o un pane di farro o, per imitare i tempi antichi, castagne cotte nella cenere calda o bacche di alberi selvatici.]

Ad onor del vero, a complicare le cose, come spesso succede in filologia, in alcuni manoscritti compare, al posto di fitìlla, fit illa, per cui l’interpretazione sarebbe…ma o sia essa (la materia) ricavata dal miglio o…       Tuttavia, il contrasto di fit (indicativo) col successivo sit (congiuntivo) e il soggetto illa (la materia) che nella sua generità si contrappone alla specificità dei successivi (panis, glandes, baculae)mi fanno ritenere che sia da accettare la lezione fitìlla e non fit illa.

Ad ogni buon conto,  nello stesso autore la fitìlla compare senza ombra di dubbio in altri passi  (VII, 24, 5): Quid fitilla, quid frumen, quid africia, quid gratilla, catumeum, cumspolium, cubula? Ex quibus duo, quae prima, sunt pultium nomina sed genere et qualitate diversa, series vero quae sequitur liborum significantias continet; et ipsis enim non est una eademque formatio. [Che cosa è la fitilla, che cosa il frumen, l’africia, la gratilla, il catumeo, il cumspolio, la cubula? Di questi, i primi due, sono nomi di polente ma di specie e qualità diversa, il resto della serie ha il significato di sacrifici e per loro non è una sola e medesima la forma.]; VIII, 24, 6: … non mille species  vel sanguinaminum vel fitillarum, quibus nomina indidistis obscura  vulgoque ut essent augustiora fecistis. […non le mille specie o di offerte a base di sangue o di fitille, alle quali avete affibiato nomi oscuri  e lo faceste perché fossero importanti agli occhi della gente.]. Le parole non certo imparziali di questo apologeta cristiano sono una conferma al carattere “plebeo” della fitilla emerso dalle testimonianze precedenti.

La fitìlla, insomma, doveva essere unafarinata probabilmente non molto dissimile da quella etrusca criticata da Marziale (vedi nota 1 a pag. 2). Quanto, poi, all’etimologia di fitilla a prima vista si direbbe, in virtù del suffisso, un diminutivo; se così è, la radice sarebbe nominale (come in anguìlla=anguilla, da anguis=serpente) o verbale  [come in favìlla=scintilla, da (attraverso un *fovìlla) fovère=riscaldare?].

La candidatura contemporanea del sostantivo fetus=parto, oppure dell’aggettivo fetus=fecondo, oppure del verbo fetàre=fecondare, sembra tagliare la testa al toro, anche per l’evidentissimo accordo semantico tra questa radice *fet e il natàlium del passo  pliniano citato a pg. 2.Per questo mi appare meno praticabile  una derivazione dalla radice *fut (connessa con fùndere)con l’idea di versare (azione tipica dei sacrifici) che, a parte il sostantivo futis=vaso ha dato vita solo a verbi composti come confutàre e refutàre in cui l’idea di versare si è esasperata in quella di abbattere.

Ancora meno praticabile  mi pare la strada che porta al greco; in questo caso candidato sarebbe  fætlh (fiùtle)=stirpe , ma bisognerebbe immaginare nel passaggio al latino l’epentesi di –i– e un raddoppiamento espressivo –l>-ll-: troppo per non privilegiare le due radici prima messe in campo (tra l’altro, già *fet aveva in sé l’idea della fertilità).

A conclusione di questo lungo excursus, rimane, comunque, l’impossibilità di dare un’identità precisa all’ingrediente principale della puls fitìlla.A complicare ulteriormente le cose  e a rendere ancora più problematica l’etimologia della nostra frisèddha c’è da aggiungere, infine, che alcuni codici recano la variante fritìlla, comunque non accettata dalla maggior parte dei filologi., anche se vi si potrebbe ravvisare un legame con il neutro indeclinabile frit che in Marco Terenzio Varrone (I secolo a. C.)(De re rustica, I, XLVIII] indica i chicchi di grano apicali della spiga: Illut autem summa in spica iam matura, quod est minus quam granum, vocatur frit. [Quello poi alla sommità della spiga già matura, che è meno che grano, si chiama frit.].

6 polènta deriva da puls con aggiunta del suffisso  –olènta (da òlens, participio presente del verbo olère=odorare) come violèntus=violento da vis=forza. Puls ha dato vita in italiano a polta (pastone per animali da cortile e, estensivamente, intruglio) e, attraverso il tardo diminutivo pultìcula, a poltiglia.

Polènta assume, nel dettaglio, un significato diverso presso i vari autori che l’attestano: in Marco Porcio Catone  (III-II secolo a. C), più noto col nome di Catone Maggiore o Catone il Vecchio [(per distinguerlo da Marco Porcio Catone Minore o Uticense (I secolo a. C.)], polènta vale come farina d’orzo(De agricultura, 108: Vinum si voles experiri duraturum sit necne, polentam grandem dimidium acetabuli in caliculum novum indito et vini sextarium de eo vino quod voles experiri eodem infundito et inponito in carbones; facito bis aut ter inferveat. Tum id percolato, polentam abicito. Vinum ponito sub dio. Postridie mane gustato. Si id sapiet, quod in dolio est, scito duraturum; si subacidum erit, non durabit.[Se vuoi provare a far durare il vino o no butta in un altro piccolo calice  un ottavo di emina di chicchi di orzo grossolanamente macinati e versaci un sesto di congio di quel vino su cui vuoi fare l’esperimento e metti il tutto sui carboni; fallo bollire due o tre volte. Dopo averlo filtrato butta via l’orzo. Poni il vino lasciandolo scoperto. Assaggialo il giorno dopo al mattino. Se esso ha un sapore come se fosse stato in una botte sappi che durerà; se sarà un po’ acido, non durerà.]; [156]: Postea, salem addito, et cumini paululum et pollinem polentae eodem addito et oleum. [Poi, aggiunto il sale, mettici e un po’ di cumino e fior di farina di orzo e olio]; [157]: Eo addito oleum bene et salis paululum et cuminum et pollinum polentae. [Aggiungici olio abbondantemente e un po’ di sale e cumino e Fior di farina di orzo].

Tito Maccio Plauto (vedi nota 2 parla di polentàrius crèpitus=crepitio della polenta: Curculio, 294-295 :…tristes aut ebrìoli incèdunt: eos ego si offèndero ex unoquòque eòrum èxciam crèpitum polentàrium. […camminano malinconici e alticci: se li offenderò eda ciascuno di loro trarrò fuori il crepitio della polenta.].

In Lucio Giunio Moderato Columella (I secolo d. C.) la voce vale come farinata (probabilmente di orzo) terapeutica: De re rustica, VI, XVII, 8: Epìphoram supprìmit polènta conspèrsa mulsa aqua, et in supercìlia genàsque impòsita.[Sopprime il catarro la farinata bagnata con idromele e applicata sulle sopracciglia e sulle guance].

Vale anche  come cibo per i pulcini: VIII, XIV,  10: Deinde pullis, exclusis primis quinque diebus, polentam vel maceratum far sicut pavonibus obiciunt. [Poi ai pulcini, eccetto i primi cinque giorni, danno da mangiare farinata o farro bagnato come ai pavoni]; e poco più avanti (VIII, XIV,  11]: Et est facilis harum avium sagina, nam polentam et pollinem ter die, nihil sane aliud, dari necesse est…[Ed è facile l’ingrassamento di questi uccelli, infatti è sufficiente che sia data tre volte al giorno farinata e  fior di farina, nient’altro…].

In Publio Ovidio Nasone (I secolo a. C.-I secolo d. C. ) vale come orzo abbrustolito: Metamorphòseon V, 449-454: prodit anus divàmque videt lymphàmque rogànti dulce dedit, tosta quod tèxerat ante polènta. Dum bibit illa datum, duri puer oris et audax cònstitit ante deam risìtque avidàmque vocàvit. Offènsa est neque adhuc epòta parte loquèntem cum lìquido mixta perfùdit diva polènta. [Compare una vecchia ed ella vede la dea ed a lei che chiede un sorso d’acqua porge  una bevanda dolce che prima aveva insaporito con orzo tostato. Mentre ella beve quel dono un ragazzo dallo sguardo duro e insolente si fermò davanti alla dea e ris e la chiamò ingorda. (La dea) si offese  e senza finire di bere gli sputò in faccia, mentre lui parlava,  l’orzo misto al liquido.

In Plinio Secondo vale come polenta vera e propria: Naturalis historia, VIII, 136: ergo corpus eius exùstum adspèrgunt àliis càrnibus polèntae modo insidiàntes ferae necàntque ètiam cìnere. [dunque le fiere in agguato cospargono il suo corpo bruciato con altre carni a mò di polenta e lo spengono anche con cenere].

XIV, 92: sed Fàbius Dossènus his vèrsibus decèrnit: “Mittèbam vinum pulchrum, murrìnam” et in Acharistione:”Panem et polèntam, vinum murrìnam.” [ma Fabio Dosseno in questi versi dice:”mandavo un bel vino,  quello profumato di mirra” e nell’Acaristione:”Pane e polenta, vino profumato di mirra”.

Apuleio (II secolo d. C.) nomina una polènta caseàta, una sorta di torta al formaggio: Metamorphòseon I, 4: Ego denique vespera, dum polentae caseatae modico secus offulam grandiorem in convivas aemulus contruncare gestio, mollitie cibi glutinosi faucibus inhaerentis et meacula spiritus distinentis minimo minus interii. [Per finirla, l’altra sera, mentre  tra i commensali  facevo la bravata di consumare un boccone di torta al formaggio per disgrazia più grosso de l dovuto, a causa della morbidezza di quel cibo molliccio che mi si attaccava al palato e che mi ostuiva le vie respiratorie, per poco non morii].

In Mauro (o Mario) Servio Onorato (IV-V secolo d. C.) vale come pastone per animali.

In Marcio Celio Rufo (I secolo d. C.) e in Sesto Aurelio Vittore Afro (IV secolo d. C.) vale come polenta di farina d’orzo.

Infine, Tito Maccio Plauto (vedi nota 2) parla di polentàrius crèpitus=crepitio della polenta.

7 Che accompagna le ostriche.

8 Tipo di focaccia composta di farina, vino, latte, olio, grasso e pepe ; dal greco artolàganon), da artos=pane (forse da ararìsko=stringere insieme, con riferimento all’impasto) e  làganon=dolce di farina, miele e olio (da lagàio=liberare, con riferimento alla morbidezza).

9 Pane fatto in fretta; sempre dal greco speusticòs=frettoloso, da spèudo=affrettare.

10 Cotto nella teglia; dal greco artoptìkops=cotto in padella, da artos=pane  (vedi nota 2) e optào=arrostire.

11 Specie di teglia probabilmente dalle pareti più alte rispetto a quella della nota precedente; dal greco clìbanos o crìbanos)=tegame, vaso.

12 Ci vedo un’allusione alla difficoltà di reperire il burro in tempo di guerra.

13 Il pistor (da pìnsere=pestare) era in origine il mugnaio, ma ai tempi di Plinio era sinonimo di fornaio.

14 Quello di orzo, cereale di cui ha subito prima decantato le virtù.

15 Dal greco Žautòpyros, da Žautòs=da sé e pyròs=frumento.

16 Quello usato dai marinai; la traduzione fornita dai comuni dizionari, biscotto, la accetto solo in senso etimologico (cotto due volte).

17 Perseo, figlio illegittimo di Filippo, ultimo re di Macedonia, fu vinto da Paolo Emilio nel 168 a. C.

18 Teglie per cuocervi il pane di lusso o cibi raffinati; dal greco artòptes=panettiere, padella per cuocere il pane [da artos=pane e optào=cuocere]. Aulularia, 396-400: Dromo, desquama piscis. Tu, Machaerio, congrum, murenam exdorsua quantum potest. Ego hinc artoptam ex proximo utendam peto a Congrione. [Tu, Dromone, squama i pesci; tu, Macherione, togli le lische al grongo e alla murena, meglio che puoi. Io vado qui presso a chiedere in prestito a  Congrione una teglia.].

19 E’  più probabile che sia Gaio Ateio Capitone (I secolo a. C.-I secolo d. C.), l’insigne giurista, più che l’omonimo padre.

20 Non condivido, perciò,  per oggettivi motivi di grammatica e di stile e non per portare acqua al mio mulino, l’interpretazione che i comuni dizionari danno di questa locuzione pliniana alla voce panis: il Calonghi galletta da marinaio;  il Castiglioni-Mariotti pane vecchio, galletta da marinai (in cui l’uso della virgola e non del punto e virgola sottolinea, secondo me, il valore esplicativo (corrispondente ai nostri o, oppure, ovvero, ovverosia usati per cioè, vale a dire, altrimenti detto) e non disgiuntivo attribuito ad aut. L’importanza di tale tipo di pane rimane, secondo me, nel nesso napoletano mbarcarse senza viscuotte  (letteralmente imbarcarsi senza biscotti, in senso traslato intraprendere un’iniziativa o altro senza aver preso le dovute precauzioni).

21 Ancora fino a pochi anni fa per i pescatori di professione e per diporto la frisèddha, inzuppata nell’acqua di mare e condita con una croce di olio d’oliva, costituiva un impareggiabile spuntino; poi l’inquinamento ha costretto gli uni e gli altri a portarsi appresso l’acqua e il sale…

22 Le due leggende sono evidentemente legate, secondo me,  ai versi 526-546 del libro III dell’Eneide: e, la prima in particolare, ai versi 107-115 del libro VII dello stesso poema : (III, 526-546) Iamque rubescebat stellis Aurora fugatis/cum procul obscuros collis humilemque videmus/Italiam. Italiam primus conclamat Achates,/Italiam laeto socii clamore salutant./Tum pater Anchises magnum cratera corona/induit implevitque mero, divosque vocavit/stans celsa in puppi:/«Di maris et terrae tempestatumque potentes,/ferte viam vento facilem et spirate secundi»./Crebrescunt optatae aurae portusque patescit/iam propior, templumque apparet in arce Minervae;/vela legunt socii et proras ad litora torquent../Portus ab euroo fluctu curvatus in arcum,obiectae salsa spumant aspergine cautes,/ipse latet: gemino demittunt bracchia muro/turriti scopuli refugitque ab litore templum./Quattuor hic, primum omen, equos in gramine vidi/tondentis campum late, candore nivali./Et pater Anchises «bellum, o terra hospita, portas:/bello armantur equi, bellum haec armenta minantur./ sed tamen idem olim curru succedere sueti/quadripedes et frena iugo concordia ferre:/spes et pacis» ait. tum numina sancta precamur/Palladis armisonae, quae prima accepit ovantis,/et capita ante aras Phrygio velamur amictu,/praeceptisque Heleni, dederat quae maxima, rite/Iunoni Argivae iussos adolemus honores./Haud mora, continuo perfectis ordine votis/cornua velatarum obvertimus antemnarum,/Graiugenumque domos suspectaque linquimus arva.(E già, messe in fuga le stelle, rosseggiava l’aurora, quando da lontano vedemmo delle oscure colline [traduco genericamente così obscuros, in quanto l’aggettivo in latino può significare oscuro, vago, sconosciuto, nascosto; non escluderei nemmeno il concetto di misterioso o, più semplicemente, coperte di vegetazione] e la poco elevata Italia. “Italia!” per primo grida Acate, “Italia!” acclamano i compagni con lieto clamore. Allora il padre Anchise incoronò di fiori una grande coppa e la riempì di vino puro, e invocò gli dei ritto sulla parte più alta della poppa:”Dei dominatori del mare e della terra e delle tempeste, date facile via concedeteci al  vento e spirate favorevoli”. Cresce la brezza agognata e già si apre più vicino un porto, e appare sull’altura un tempio di Minerva. I compagni ammainano le vele e volgono la prua a terra. Il porto, curvato ad arco verso il mare di levante, mentre due promontori contrapposti schiumano di gocce salate, rimane nacosto: gli scogli a forma di torri allungano le braccia con una duplice muraglia e il tempio è lontano dalla riva. Vidi qui, primo presagio, pascolare quattro cavalli, bianchi come la neve. E il padre Anchise dice:”Terra straniera, tu porti guerra: si armano i cavalli per la guerra, questo bestiame minaccia la guerra. Tuttavia i quadrupedi talora sono ugualmente avvezzi ad essere aggiogati al carro e a sopportare di buon grado il freno col giogo: c’è anche speranza di pace”. Preghiamo allora la santa divinità di Pallade armisonante, che per prima ci accolse esultanti, e davanti agli altari veliamo il capo col velo frigio e, seguendo il consiglio più importante che Eleno ci aveva dato, secondo il rito compiamo in onore di Giunone protettrice di Argo i sacrifici  che ci erano stati raccomandati. Non c’è indugio, immediatamente dopo, sciolto il voto secondo quanto ci era stato ordinato, volgiamo le vele ed abbandoniamo le case e i campi sospetti dei Greci.)

(VII, 107-115) Aeneas primique duces et pulcher Iulus/ corpora sub ramis deponunt arboris altae,/ instituuntque dapes et adorea liba per herbam/subiciunt epulis (sic Iuppiter ipse monebat)/ et Cereale solum pomis agrestibus augent./ consumptis hic forte aliis, ut vertere morsus/ exiguam in Cererem penuria adegit edendi,/ et violare manu malisque audacibus orbem/ fatalis crusti patulis nec parcere quadris:/ «heus, etiam mensas consumimus?» inquit Iulus,/…[Enea e i condottieri più importanti e il bel Iulodistendono i corpi sotto i rami di un alto albero e dispongono il banchetto sacrificale e  sull’erba pongono come appoggio per le vivande le focacce di frumento (così ammoniva Giove in persona) e riempiono di frutti selvatici questo contenitore ricavato dal grano. Consumate  qui per avventura tutte le altre vivande, come l’esiguità del cibo spinse a volgere i morsi verso il sottile pane e a violare con la mano e con le audaci guance la circonferenza della crosta fatale e a non risparmiare  l’ampia  focaccia, Iulo disse:”Ehi!, consumiamo anche le mense?”…].

C’è da dire che la prima testimonianza di Virgilio (I secolo a. C.) con i suoi dettagli paesaggistici è compatibile con l’identificazione del porto di cui si parla nel poema  con Porto Badisco, identificazione che trova conferma nella toponomastica: nelle immediate vicinanze c’è Castro; di Castrum Minervae nobilissimum ubicato nel Salento parla un frammento delle Antiquitates rerum humanarum et divinarum  di Marco Terenzio Varrone (più o meno coevo di Virgilio) tramandatoci dallo Pseudo Probo (forse V secolo d. C.) nei suoi Commentarii  in Vergili Bucolica VI, 31; Castra Minervae compare anche, ubicato nella stessa zona, nella Tabula Peutingeriana VI 5-VII 2 (si tratta di una mappa il cui originale fu presumibilmente redatto nel IV secolo d. C.); nella stessa direzione sembra portare anche la testimonianza di Servio (fine del IV secolo-inizi del V d. C.) che nei suoi Commentarii in Vergilii Aeneidem III, 531 così dice:”Apparet in arce Minervae: hic dubium est utrum Minervae templum an in arce Minervae debeamus accepire. Sane Calabria ante Messapia vocata est. Hoc autem templum Idomeneus condidisse dicitur, quo etiam castrum vocatur. (Apparet in arce Minervae: qui è dubbio se si debba intendere il tempio di Minerva oppure sulla rocca di Minerva. Veramente la Calabria prima fu chiamata Messapia. Si dice inoltre che Idomeneo abbia fondato questo tempio che viene chiamato anche castrum)]. Tuttavia, a parer mio, il testo virgiliano sembrerebbe escludere un incontro amichevole tra Enea e la popolazione locale; si ha l’impressione che questa abbia autorizzato la visita al tempio solo per rispetto alla divinità più che ai doveri dell’ospitalità (non riesco ad immaginare che i Troiani siano arrivati al tempio senza che nessuno se ne accorgesse); credo pure che la rapidità della visita non sia connessa solo con le esigenze narrative e che la fretta con cui Troiani si allontanano non sia dovuta solo all’ansia di raggiungere il Lazio e alla proverbiale diffidenza nei confronti dei Greci  o, comunque, di popolazioni di origine greca, quasi autocitazione, più ristretta e generica, che Virgilio fa del timeo Danaos et dona ferentes (Temo i Greci anche quando portano doni) del v. 45 del libro II.

La seconda testimonianza fa pensare che i Troiani si fossero portati appresso una buona quantità di focacce da utilizzare come piatti per i sacrifici, ma da questo, a considerare la mensa come l’antenata ed  Enea il primo importatore della frisella, ne passa!

23 Ippocrate (V-IV secolo a. C.),  Sulle malattie interne, 25.

24 Eubulo (IV a. C.), 2;  Alexis (IV-III a. C.), 178.18; Alceo (V-IV secolo a. C. , da non confondersi con l’omonimo lirico del VII-VI secolo a. C.), 2.

25 Epigrammaton, IV, XLVII: Encaustus Phaethon tabula tibi pictus in hac est./Quid tibi vis, dipyrum qui Phaethonta facis? (Fetonte è stato da te dipinto ad encausto in un quadro./Che scopo ti sei prefisso nel dipingere Fetonte bruciato due volte?). Dìpyros non è qui usato con riferimento al pane, ma non posso fare a meno di notare  come l’arte di Marziale riesca a conferirgli un valore quasi surreale, amplificandone le valenze satiriche. Mi spiego meglio: Fetonte, personaggio della mitologia greca, ottenne dal padre Elio (o Apollo) di guidare per un giorno il carro del sole, ma perse il controllo, arse il cielo e fu fulminato da Giove; l’encausto è un metodo di pittura usato dagli antichi, per il quale i colori erano stemperati in cera liquefatta e fissati col fuoco; Fetonte, perciò, nel quadro risulta bruciato due volte, ma, anche se espressamente l’autore non lo dice , è come se la pessima arte del pittore l’avesse bruciato per la terza.

26 Il nome nacque  in epoca bizantina in onore del suo presunto inventore o, per averne parlato, valorizzatore: Pàxamos (scrittore dell’epoca di Cristo), che, secondo la testimonianza di Ateneo (II-III secolo d. C.), si sarebbe interessato di gastronomia. Facendo due ulteriori salti qua e là nel tempo: lo storico Procopio di Cesarea (VI secolo d. C.) nella sua Storia delle guerre ci informa che il pane destinato ai soldati veniva cotto due volte; ma già Elio Spartiano, uno degli autori della Historia Augusta (forse III secolo dopo C.) e Ammiano Marcellino (IV secolo d. C.) ci parlano di un buccellàtum=galletta, pane da militari (da buccèlla=panino, da bucca=bocca);  è noto che durante il dominio veneziano i forni di Creta producevano grandi quantità di paximadi destinato alla flotta della Serenissima; Henry Blount nel suo A voyage into the Levant (1636) ci fa sapere che  per i temerari sfuggarades (pescatori di spugne) di Kalimnos, che aravano il Mediterraneo nelle profondità per cercare le preziose spugne, il paximadi rappresentava il compagno più fedele e che se ne nutrivano fin da piccoli per rimanere magri.

27 Dacos probabilmente è dall’omonima voce classica che significa bestia feroce,  morso (da dakno=mordere).

28 Kulùres sono chiamati a Creta pure i pozzi circolari rinvenuti nella corte occidentale del palazzo di Festo. Ma è la somiglianza col pane ad aver dato il nome a quest’ultimi, o viceversa? Non sono in gradi di avanzare ipotesi: dico solo che nel greco classico collýra significa pagnotta e che certamente da questa voce derivano i siciliani, tipici di Caltanisetta, cuddrirèddri e la salentina cuddhùra (ciambella con un uovo nel mezzo) che ricorda, sia pure vagamente, i pozzi di Creta. Il parallelepipedo centrale  è veramente , come qualcuno vorrebbe, un residuo della distruzione del palazzo o parte integrante del pozzo?

Solo coincidenze?

29 Carasau probabilmente è dal latino charaxàre=solcare, dal greco charàsso=incidere, con riferimento alla crosta screpolata.

30 Dal longobardo skafa=tavola per appoggio.

31 L’impasto, modellato in forma circolare, subisce una prima cottura alla fine della quale la cocchia (corrispondente all’italiano coppia)  viene divisa longitudinalmente a metà con un filo.

32 In tale dialetto la voce è usata anche nel senso di ferita con carne martoriata. Vedi il post ‘A fresella all’indirizzo http://www.vesuvioweb.com/it/2012/01/armando-polito-a-fresella/

 

La frisella.Tutto ciò che avreste voluto sapere e non avete mai osato chiedere

 
ph Angelo Arcobelli

L’Eccellenza sulla tavola dei salentini: la  friseddha

di Massimo Vaglio

Friseddhe, sarebbe questa l’esatta denominazione di questa sorta di pani biscottati, che in epoca più recente nella foga italianizzatrice del lessico sono stati riappellati anche frise e friselle. La prima delle due denominazioni posticce per quanto usata e abusata, è sicuramente una forzatura linguistica. Più giustificabile l’uso del termine frisella, che trova una ratio nel sollevare i non salentini dal difficile e spesso impossibile impegno di pronunciare il ddhr, suono cacuminale (invertito), caratteristico dell’idioma salentino, la cui  verifica di una perfetta pronuncia è più efficace di un test del D.N.A., infatti per pronunciare alla perfezione questo suono bisogna arcuare all’indietro la lingua ripiegandola su se stessa, un’operazione che richiede un allenamento sin dalla primissima infanzia. Oscura la loro origine, probabilmente erano il cibo dei navigatori e dei soldati, qualcuno le vuole originarie della Grecia da dove sarebbero giunte al seguito dei navigatori che pare le usassero come gallette. Sono delle ciambelle senza buco, di farina di grano, o di orzo, cotte intere, poi spaccate e lasciate biscottare nel forno a legna.

Se la loro origine è remota quanto incerta, la loro diffusione su larga scala è invece certa, ed è iniziata quando, meno di un secolo fa, con il declino del latifondo, fu incoraggiato nel Salento la costituzione di piccoli poderi dati in beneficio o a riscatto e detti appunto beneficati o binificati. Su questi spesso aridi poderi, i conduttori oltre a coltivare e creare frutteti e oliveti edificavano delle precarie costruzioni a secco trulliformi, i furnieddhi, con tipologie e grandezza variabili a seconda del numero dei componenti della famiglia e del materiale litico rinvenibile sul luogo. In queste costruzioni, i contadini passavano insieme al nucleo familiare, tutta la stagione estiva, lavorando spesso, per un’economia di stretta sopravvivenza e con l’ambito scopo di procacciare le provviste per l’inverno.

La lontananza dai paesi, la precarietà dei mezzi di trasporto e la carenza delle suppellettili e delle strutture necessarie per preparare e cuocere il pane, imposero presto la necessità di trovare un’alternativa, alternativa offerta appunto, dalle mai dimenticate friseddhe, che potevano essere preparate e conservate per mesi nelle “capàse”, i tradizionali orci panciuti in terra cotta dal collo largo e le piccole e robuste anse.

L’impasto, costituito da farina, acqua e sale è del tutto simile a quello del pane ma con un 10 % in meno di acqua.

Per le friselle di grano duro e di orzo viene tradizionalmente utilizzato il lievito madre, in ragione di 200-220 grammi per ogni chilo di farina, l’impasto viene allungato lavorandolo sul tavoliere quindi diviso in tratti ognuno dei quali viene a sua volta allungato e riunito a cerchio in modo da formare delle ciambelle senza buco dal diametro oscillante  tra gli 8  e i 15 cm.

Queste, dopo essere state lasciate a lievitare, vengono sottoposte ad una prima cottura in forno di pietra, alla pompeiana, alimentato, secondo tradizione  con ramaglia d’olivo. Una volta cotte, vengono estratte dal forno e spaccate in due secondo l’asse mediano, orizzontale.

Questa operazione deve garantire un’accentuata rugosità nella parte tagliata, oggi i moderni panifici hanno a disposizione un’ingegnosa macchina appositamente brevettata. Un tempo, ed ancora oggi nella lavorazione casalinga o su piccola scala si effettua con l’ausilio di uno spago, cingendo le friselle e tirandone i capi, oppure utilizzando una sorta d’archetto rudimentale, attrezzato di un filo di ferro rugoso, nei vecchi forni che cocevano le friselle conto terzi, sovente si utilizzava un filo di balla di paglia (non zincato) ben teso ai bordi di un canestro di canna.

Le friselle, una volta spaccate si differenziano in friseddhre te sutta e friseddhre te susu, immediatamente distinguibili fra loro poiché la prima appare più schiacciata e dura per il contatto avuto con la chianca del forno ovvero con il piano di cottura. La friseddhra te susu, invece, più bella esteticamente, conserva ancora una mezza forma toroidale.

Per una perfetta riuscita queste devono essere spaccate appena sfornate, e poste subito a biscottare, un eccessivo ritardo in questa sequenza provoca la riuscita di fiseddhe ‘mpitruddhate, dure, che si imbibiscono d’acqua con difficoltà e in modo non omogeneo o nnuticuse, cioè che si deglutiscono con difficoltà.

La biscottatura può essere effettuata direttamente nel forno, dopo ovviamente averlo lasciato scendere di temperatura, oppure, nel caso di forni, per così dire, più professionali in una sorta di duomo, ossia un’ampia camera realizzata sopra i forni medesimi.

Dalle friselle, in tempi più recenti, sono state derivate le cosiddette friselline, queste si realizzano utilizzando farina di grano tenero di tipo 0 o 00 e vengono lievitate con lievito di birra; spesso nell’impasto viene fatta rientrare anche una piccola quantità d’olio di frantoio che dona loro un piacevole sapore e un’invitante fragranza.

ph Marcello Gaballo

Uso delle friseddhe

Il consumo delle friselle è soprattutto estivo, quando vanno a costituire un piatto fresco e facilmente digeribile. L’uso canonico, consiste nel bagnarle, incoronarle con i pomodorini freschi locali ricchi di criddhu o riddhu, che sarebbero i semi ancora avvolti nella loro gelatinosa placenta, cospargerle di origano salentino (Origanum eracleonticum), di sale e infine nell’allagarle o quasi d’olio di frantoio.

Ciononostante, la riuscita non è sempre garantita poiché, sembrerà strano, ma anche nell’espletazione di queste semplicissime operazioni si possono commettere degli errori ottenendo un risultato insoddisfacente. Facile infatti dire bagnare, ma come si bagna una friseddha doc? Alcuni la profanano direttamente sotto il rubinetto, altri la pongono in una ciotola e sommergono di acqua, altri, la bagnano a rate con piccole, timide mestolate d’acqua.

Tutte le metodiche elencate, ed altre che potrebbero aggiungersi sono implacabilmente errate e portano il più delle volte a portare in tavola un prodotto simile ad un pappone informe.

Vi dettiamo ora un preciso protocollo per eseguire questa operazione a regola d’arte: per prima cosa bisogna porre in tavola una ciotola con acqua preferibilmente fresca, poi, dopo essersi muniti di fondine, bisogna afferrare le friseddhre con tre dita, con la parte rugosa sopra e calarle e cacciarle velocemente per tre volte dall’acqua della ciotole, quindi porle nella fondina sul cui fondo, badate bene si è proceduto a versare un mestolino della stessa acqua e solo allora si può procedere al condimento. In questo modo la frisella si manterrà soda e consistente per tutto il tempo necessario a consumarla senza gonfiarsi, provare per credere.

Qualche volta vengono arricchite con altri condimenti come: rucola, peperoni, peperoncini, capperi, caruselle, finocchio marino sott’aceto…in questo caso, in alcuni paesi, vengono denominate friseddhe ’ncapunate.

Sull’argomento rimandiamo ad altri contributi pubblicati su questo sito:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/13/la-frisella-regina-delle-tavole-salentine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2015/06/13/indovinello-neretino/

 

La frisella… mistero risolto!

di Armando Polito

Accolgo l’invito fattomi dall’amico Marcello nel suo recente post dedicato alla frisèddha e chiedo scusa se, per motivi di spazio, per rispondere non mi avvarrò della casella allo scopo destinata ma lo farò attraverso questo post e se, almeno all’inizio, mi attarderò su qualche voce connessa, prima di affrontare la questione etimologica della voce in questione.

La frisèddha, prodotto tipicamente meridionale, è un pane di piccole dimensioni confezionato (una volta solo in casa) esclusivamente con farina di grano duro o di orzo o entrambe (oggi sovente mescolate l’una e l’altra con quella di grano tenero), impastata con acqua, lievito e sale in forme circolari che subiscono una prima cottura nel forno a legna (oggi, solo a livello artigianale); estratta, la còcchia1 (in italiano coppia, e subito si capirà il perchè) viene tagliata a metà trasversalmente con un filo e le due parti vengono cotte una seconda volta (mpiscuttàte, in italiano biscottate) a forno tiepido.

La trascrizione italiana della voce (presente, però, fino a qualche anno fa solo nei dizionari gastronomici) è frisella o frisa; quest’ultima variante è nata dalla prima che, pure, sembra il suo diminutivo, ma nella realtà gli ingredienti, le dimensioni, il metodo di cottura, le modalità di consumo di entrambe coincidono perfettamente: il mistero sarà svelato tra poco. Frisella, poi, è madre non solo di frisa, ma anche dell’ulteriore diminutivo frisellina (in questo caso con riferimento alle dimensioni più ridotte dettate da moderne esigenze di marketing e non solo…).

Riprendiamo il mistero lasciato in sospeso all’inizio: frisa che nasce da frisella, contro ogni regola grammaticale che vorrebbe il derivato originato dal primitivo. Vedremo quant’è vero, anche in questo caso, che l’eccezione conferma la regola. Procediamo con ordine.

Se frisèlla è trascrizione di frisèddha (foneticamente più di quanto non lo sia rispetto alla sua variante napoletana fresèlla) significa che essa è nata dopo. E frisa? La voce compare in due espressioni differenti appartenenti al dialetto di due regioni geografivamente relativamente vicine tra loro rispetto alla distanza che separa entrambe dalla nostra terra:

a Torino: dame na frisa del to temp (dammi un po’ del tuo tempo); na frisa = mm. 0,18-1,9; a Udine: guarda che frisa!   (guarda che pezzo di ragazza!).

Dalle tre espressioni si deduce che frisa è usata nella prima nel senso di pezzo, nella seconda come range di misura, senza alcun riferimento (nemmeno traslato) alla gastronomia o ad altro (a differenza di quanto succede, secondo me, nella terza espressione e, come  vedremo, nel napoletano fresèlla in uso metaforico). E’ evidente, comunque, che frisa qui deriva dal latino fresa(m) [o fressa(m)], participio passato femminile di frèndere=digrignare i denti; triturare. E’ altrettanto evidente che dalla stessa voce latina deriva, con aggiunta del suffisso diminutivo –èddha [(corrispondente all’italiano –èlla, dal latino -ella(m)] la nostra frisèddha3.

Ciò, a mio parere,  sembra confermato da voci simili che si incontrano in altri dialetti: per esempio, in Sardegna, il logudorese e campidanese fresa che indica un particolare tipo di pane duro di forma molto appiattita e con la crosta molto screpolata [l’atto del dividere la pasta in pezzi rotondi è detto (a)frèsare in logudorese e frèsai in campidanese, dialetto in cui i pezzi così ottenuti sono chiamati fresas], nonché un particolare tipo di formaggio di forma piatta e rotonda, che nel territorio del Gennargentu si chiama anche paneddha per la somiglianza con il pane denominato con lo stesso vocabolo.

Dà, oltretutto,  sicurezza a questa etimologia l’indiscussa autorità del Rohlfs, il quale, però, forse perché troppo ovvio, non specifica l’eventuale riferimento o alla materia prima (il grano macinato, il che sarebbe troppo banale nella sua genericità perché riguarderebbe una fase di vita comune a tutte le varietà di pane) o, piuttosto, al fatto che per consumare il prodotto  senza bagnarlo bisogna prima frantumarlo in piccoli pezzi.

In conclusione, la voce settentrionale frisa ha la stessa etimologia di frisèddha e il frisa che oggi compare sulle  etichette, se  non è  voce  settentrionale, è  da  considerare  una particolare forma di ipercorrettismo (probabilmente di natura commerciale) che ha portato alla nascita (etimologicamente corretta), meglio alla rinascita con slittamento semantico, di frisa dal suo alterato frisèddha.

La proposta etimologica avanzata trova, oltretutto, una suggestiva conferma nell’uso metaforico di fresella nel dialetto napoletano come sinonimo di mazzata, ma anche di vulva (Chella guagliona teneva sotto na fresella….); in particolare, il secondo nesso ricorda la frisa udinese di cui si è parlato prima.

Una prova, infine, della suggestione che la voce ha continuato ad esercitare in tempi moderni in zone diverse da quella di origine è data, per esempio, dalla fondazione nel 1976 a Firenze della compagnia teatrale (di livello internazionale) Pupi e Fresedde ad opera di Angelo Savelli, gruppo che, non a caso, negli spettacoli della sua prima fase [La terra del rimorso (non è casuale l’omonimia col titolo dello studio di Ernesto De Martino sul tarantismo uscito nel 1961), Sulla via di San Michele] coniugava folklore meridionale ed antropologia, mondo contadino e psicanalisi, facendo della musica, del canto, della danza, del dialetto, del rapporto con la cultura meridionale gli ingredienti privilegiati della sua poetica; tuttavia, bisogna aggiungere che il nome venne assunto come una sorta di traduzione di quello della famosa compagnia americana Bread and Puppet (Pane e Burattini) con cui il gruppo agli albori della sua attività aveva prodotto La ballata dei 14 giorni di Masaniello di Peter Schumann, replicata poi in Italia.

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1 Còcchia (in italiano coppia) è dal latino còpula=corda, laccio, catena, legame, da con– (da cum=insieme) e àpere=attaccare, attraverso la trafila còpula>copla (sincope di –u-), passaggio –pl->chi e raddoppiamento espressivo di -c-.

2 Il diminutivo, lungi qui dall’assumere qualsiasi riferimento più o meno pietistico ad una situazione di limitatezza, senso della misura, povertà o, addirittura, bisogno, è, al contrario, specchio del consumismo, cioè dell’opulenza e, paradossalmente, dello scarso sentimento della misura. In passato, infatti, la frisèddha costituiva per la maggior parte dei contadini (e non solo per motivi di praticità,)  la colazione, il pranzo e forse anche la cena: poteva chi se ne nutriva, pensare alla vezzosa frisellina? Non gli avrebbe fatto nemmeno il solletico…

3 Mi pare meno praticabile, per questo, l’ipotesi, per prima venutami in mente, che derivi dal francese fraise, forse dall’antico francese fraiser=pieghettare, oppure dalla voce di origine francese frisé (acconciatura con capelli leggermente crespi), participio passato di friser=arricciare (questa voce, secondo me, è connessa con la prima), con riferimento alla sua superficie increspata, rugosa che caratterizza una delle sue facce.  Che poi la prima o emtrambe le voci francesi siano connesse con la voce latina fresa (per increspare o arricciare bisogna pur sempre passare da un segno continuo ad uno spezzato) è un’altra questione che, se risolta, insieme  con il mancato influsso della pronuncia francese  sulle due voci settentrionali riportate, darebbe ulteriore credito alla mia proposta etimologica conclusiva.

Altrettanto impraticabile mi pare l’altra ipotesi, pure venutami in mente,  che derivi da fritìlla (variante poco credibile della fitilla, specie di focaccia votiva] che, tutt’al più, può aver dato vita al medioevale fritèlla che (Du Cange,  Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, Zunner, Francoforte, 1710, pg. 607)significherebbe tipo di focaccia fatta a Cartagine o crosta del pane e che potrebbe essere collegata, secondo me, ad un precedente *friatìlla, dal classico friàre=sminuzzare (evidente parente del già citato frèndere].

Per completare il quadro cito anche altre proposte secondo me ancora meno accettabili:

a)dal salentino frisìllu (nastro decorativo) che ha il suo corrispondente italiano parzialmente formale in friso (negli scafi in legno il corso più alto e robusto del fasciame esterno), forma veneziana del toscano fregio, che è dal latino tardo Phrýgiu(m) (opus)=(lavoro) frigio, da Phryges, dal greco Friùghes, nome degli abitanti della Frigia, regione dell’Asia Minore;  non credo che l’aspetto certamente decorativo della frisèddha sia sufficiente a giustificare questa etimologia né l’altra, sempre legata alla Frigia, che, in un percorso etimologico secondo me farneticante, sostiene che sarebbe stato Enea ad introdurre nel Salento la friseddha in occasione del suo sbarco a Porto Badisco;

b) da fresa, proposta che mi pare insostenibile per evidenti motivi cronologici;

c) dallo spagnolo frisoles=fagioli; bisognerebbe supporre che la pratica di inzuppare la frisèddha nell’acqua di cottura dei fagioli fosse in passato la più diffusa, tanto da trasferire  il nome dei fagioli alla galletta.

 

La frisella, regina delle tavole salentine

di Marcello Gaballo

Nelle calde serate estive, dopo aver giocato con i fratellini e con gli amichetti nnanzi ccasa, mia madre invitava al rientro immediato perché aveva già preparato la cena: aggiu ssuppatu li friseddhe. L’ordine era perentorio. Bisognava lasciar tutto, anche la conta del nascondino (“mazzareddhe”), per correre filati al desco dove ci attendeva una gustosa e variopinta frisella. Ritardare avrebbe significato trovare nel piatto una molliccia e inzuppata pietanza, disgustosa, che difficilmente poteva mangiarsi con le mani.

Per chi non è salentino diciamo subito che l’arcinota frisa o frisella (friseddha) può paragonarsi ad una galletta secca circolare, che va bagnata in acqua fredda per poterla consumare. In realtà essa è pane casereccio, cotto due volte nel forno di pietra, dopo averla tagliata in due in senso orizzontale.
Alimento “povero”, antichissimo, di basso costo (acqua, farina integrale e lievito), creato per necessità, quando bisognava trasferirsi in campagna, senza possibilità di avere a disposizione il forno in cui cuocere il pane.

Priva di grassi (al contrario di crackers e grissini arricchiti con oli e strutto), fornisce un discreto apporto calorico e nei tempi passati si consumava anche “a secco”, sgranocchiandola nel tardo pomeriggio, durante un viaggio o mentre si lavorava nei campi. Ottima compagna anche per i pescatori e per quanti vanno a fare il bagno, in questo caso spugnandola direttamente nel pulitissimo mare di un tempo, senza bisogno di aggiungervi il sale.
Le nonne la gradivano inzuppata nel latte, a colazione o nelle cene frugali invernali, quando davano fondo all’esubero estivo.

Essendo biscottata, se correttamente conservata, non può andare a male e la sua gradevolezza può anche mantenersi per due-tre mesi, a patto di riporla negli appositi recipienti di terracotta (capase). Lasciata all’esterno, anche solo per poche ore, perde la sua caratteristica croccantezza, sino a “risciuncare”, come per i biscotti lasciati fuori dalla confezione per qualche ora.
Non deve mai essere troppo bagnata (spunzata) e quindi il tempo di immersione in acqua deve limitarsi a pochi minuti (lu tiempu ti ‘n’Ave Maria). Alcuni preferiscono la metà inferiore, più compatta, altri la superiore, più friabile e perciò atta a trattenere maggior quantità di acqua.

Insostituibile compagno della frisella è lo straordinario olio d’oliva locale, con cui si condiscono abbondantemente i pomodori rossi che la ricoprono e le fette di poponelle (minunceddhe) accantonate con le olive nere e le foglie di rucola selvatica (cresta) al bordo della ciotola che la contiene. La dolcezza di questi ultimi veniva alleviata dai rametti di “erva ti mare” sottaceto, preparata all’inizio dell’estate o avanzata dall’anno precedente. Col passare degli anni è stata guarnita con cubetti di mozzarella, cipolla barlettana a fette, tonno, acciughe, olive verdi, sottaceti, magari spolverandola con origano raccolto nelle “macchie” dell’ubertosa campagna salentina.

Delle tante etimologie proposte forse si deve optare per il latino frendere = spezzettare, pestare, stritolare. Frisa dunque sarebbe un participio passato femminile del verbo, da cui il diminutivo frisella. Ma il buon Armando Polito son certo interverrà per chiarire l’arcano.

Una norma valida per tutti: mangiatela con le mani, mai con la forchetta. I vostri commensali salentini vi riterrebbero troppo schizzinosi!

Alcuni termini propri della frisella:
ssuppare: bagnare in acqua, come si farebbe con i crostini nel brodo. È il verbo più appropriato per il nostro alimento.
Spunzare: trattenere acqua oltre il dovuto, tanto da alterare le qualità organolettiche della pietanza. Il grado successivo, che disfa la frisella, si indica con “spulisciare
Risciuncare: rammollirsi della frisa per umidità protratta
Friseddha ti sotta: metà inferiore della frisella che è stata a contatto con le chianche del forno durante la cottura. Più compatta rispetto alla friseddha ti sobbra.
Capasa: grande recipiente di terracotta (circa 5 litri) per riporvi fichi, olive in salamoia o le stesse frise. La chiusura era garantita da un piatto posto in corrispondenza dell’apertura circolare.

Modi di dire:
ssuppatu a friseddha: bagnato fradicio
ti fazzu a friseddha: colpire fino a ridurre a persona informe
ndi ssuppamu ‘na friseddha: invito al convivio, anche se non si consuma la frisella
ruzzulisciare: crocchiare tra i denti della frisa non bagnata.

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