Agar nel deserto del Solimena… persuasa a non tornare indietro a Tutino! 

Dipinto originale del ‘600 attribuito a Francesco Solimena detto Abate Ciccio trafugato nella notte del 21 maggio 1982 (foto in b/n tratta dal Cat. gen. Soprint. Beni Storici Artist. ed Etnoantrop. di Puglia)

 

di Fabrizio Cazzato

Ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario del furto della pregevole opera pittorica  “AGAR nel DESERTO” (persuasa dall’Angelo a tornare indietro), attribuito al maestro napoletano Francesco Solimena  (*1657- +1747), conosciuto anche con il nome di Abate Ciccio, trafugata da ignoti nella notte del 21 maggio 1982 nella chiesa di San Gaetano di Tutino.

La tela, in dote alla corposa collezione dei Principi Gallone di Tricase, che molta influenza ebbero nella società partenopea sia nell’arte che nel commercio, venne donata alla venerabile confraternita dell’Immacolata e S. Nicolò in Tutino dal padre spirituale don Giuseppe Gratis nel 1889 e successivamente restaurata nel 1896, dato non poco rilevante che già evidenziava, presumibilmente, uno stato di conservazione del dipinto non proprio buono.

Il programmato restauro e l’imminente traslazione del dipinto presso un laboratorio di Belle Arti di Puglia, trovò il disappunto dell’allora consiglio di amministrazione della confraternita dell’Immacolata proprietaria dell’opera, che per paura di riceverne una copia in cambio dell’originale, fece trattenere il dipinto nella sua sede originaria di S. Gaetano.

Prospetto Chiesa di san Gaetano – Tutino – sede della Confraternita dell’Immacolata e s.Nicolò. (foto trattta dal sito uff. del Comune di Tricase)

 

Con stupore, dopo alcuni giorni, si notò la grande cornice appesa sulla parete destra della chiesa (per intenderci sullo stipone della statua lignea di S.Gaetano) senza la tela che era stata asportata dal telaio e che a Tutino non fece mai più ritorno.

Francesco Solimena operò nella città partenopea nel XVII secolo, entrando in contatto con altri grandi pittori del periodo barocco come Luca Giordano e Mattia Preti,  acquisendo un alto livello artistico espresso nei suoi capolavori ricercati e commissionati dalle più importanti Casate del tempo.

Nell’agosto del  1995 in occasione della riapertura al culto della chiesa di S.Gaetano, dopo un radicale restauro durato un anno, la confraternita dell’Immacolata commissionò al pittore prof. Roberto Buttazzo da Lequile una copia del dipinto “Agar nel deserto”, in sostituzione di quella originale e posizionata nella stessa cornice per l’occasione restaurata.

Dipinto “Agar nel deserto” del maestro prof. Roberto Buttazzo da Lequile 1995 – Chiesa san Gaetano Tutino – Foto di Fabrizio Cazzato

 

Dopo quarant’anni AGAR  attende di essere ritrovata e di ritornare nel suo luogo di appartenenza.

Da questa vicenda forse impareremo a capire e amare l’arte, perché solo una comunità consapevole del proprio patrimonio sarà in grado di custodirlo, proteggerlo e trasmetterlo alle future generazioni.

 

Bibliografia

R.Baglivo, La Confraternita dell’Immacolata nella Cappella di San Gaetano di Tutino, Congedo Editore, Galatina 1996

Lecce: galeotto fu il convento e chi lo eresse

di Armando Polito

Immagine tratta da http://www.trnews.it/2018/03/04/209655/209655

 

La locuzione del titolo dopo i due punti forse apparirà a qualcuno come un meschino espediente per avere qualche lettore in più. Sarà. ma sicuramente più di uno non animato solo da morbosa curiosità avrà colto il mio miserabile, questo sì, tentativo di utilizzo con parafrasi del celebre verso dantesco (Inferno, V, 137) Galeotto fu il libro e chi lo scrisse, con cui Francesca da Rimini attribuisce alla lettura di un poema cavalleresco (Galeotto è la traduzione di Galehaut, nome del siniscalco della regina che nel ciclo bretone fungeva da paraninfo o, se preferite, mezzano, tra lei e Lancillotto) il bacio scambiato con Paolo Malatesta e la responsabilità del loro adulterio.

Oggi Galeotto è usato per antonomasia  come nome comune (perciò scritto con l’iniziale minuscola, al pari ci cicerone e mecenate) nel significato di intermediario d’amore, ben diverso come etimo (nonostante qualche punto semantico di contatto che potrebbe ingenerare confusione) da galeotto nel significato originario di condannato a regare sulle galee.

L’intermediario (o, meglio, gli intermediari ) d’amore qui sono i Teatini ed il loro convento. Senza di loro, infatti, a Lecce non sarebbe stato dedicato nel XVII secolo un epigramma in distici elegiaci scritto da Giuseppe Silos di Bitonto. Di lui e del componimento mi sono già occupato più di un paio d’anni fa in https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/06/lecce-taranto-due-epigrammi-giuseppe-silos-1601-1674/, ma qui riprendo ed integro l’argomento rispondendo ad alcune domande che allora neppure mi ero posto.

Parto dal frontespizio del volume, che riproduco con la mia traduzione a fronte.

Il volume, dunque, fu scritto da un teatino (Giuseppe Silos; per altre notizie su di lui vedi il link segnalato all’inizio) in occasione della canonizzazione del fondatore dell’ordine, Gaetano Thiene, avvenuta il 12 aprile 1671 da parte di Clemente X. Non so quanto possa tornare utile ma, coi tempi che corrono, ne approfitto per ricordare che è il santo della divina provvidenza, dei disoccupati e di coloro che cercano lavoro (non mi meraviglierei se ogni navigator fosse stato dotato dell’apposito santino, che protegga proprio lui in via prioritaria …

Per passare dal faceto al serio, provvidenziale è, a questo punto, una parentesi iconografica.

L’immagine è tratta da Columnæ militantis Ecclesiæ, sive Sancti, et illustres Viri, eremitae primi, anachoretae, ordinum regularium institutores, propagatores, reformatores aeneis figuris excusi, elogiis dilaudati, a spese della vedova di Cristoforo Weigel cittadino di Norimberga, 1725. La didascalia recita: Italus, Vicentiae illustri Thienoeorum prosapia natus, Iulii II Papae Praelatus domesticus, deserta aula proximorum saluti se impendit, Venator animarum dictus. Ordinem Clericorum regularium, a Clemente VII a. 1524 confirmatum erexit, qui Theatini a Joanne Petro Caraffa Episcopo Theatino, post Paulo IV Pontifice dicti, Dei Providentiae intenti, eleemosynis sponte oblatis viverent. Multis clarus miraculis obiit 7 Aug. 1547 aet. 60.

(Italiano, nato a Vicenza dall’illustre famiglia dei Thiene, prelato domestico di papa Giulio II, lasciata la corte, si dedicò al bene del prossimo, detto cacciatore di anime. Istituì l’ordine dei chierici regolari confermato da Clemente VII nell’anno 1524 perché i Teatini, così detti da Giovanni Pietro Carafa vescovo di Chieti, poi dal pontefice Paolo IV, vivessero di elemosine spontaneamente offerte. Famoso per molti miracoli, morì il 7 agosto 1547 a 60 anni)

L’incisione appena esaminata è anonima, a differenza di quella che segue, custodita nel Museo statale di Monaco (immagine tratta da http://www.portraitindex.de/documents/obj/34704744/gs13153d).

Fuori campo (dettaglio ingrandito) si legge in basso a sinistra Solimene pinx(it) Solimena dipinse

e a destra Dom(ini)cus Cunego del(ineavit) et sc(ulpsit) Veronae Domenico Cunego disegnò ed incise a Verona

Dunque il Cunego (1724/5-1803) fu autore del disegno e dell’incisione, avendo come modello la pittura di Francesco Solimena (1657-1747), che è inequivocabilmente, nonostante quache infedeltà,  quella che segue, custodita nella chiesa di S. Gaetano a Vicenza  (immagine tratta da https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Diedci-Solimena-Sangaetano.jpg).

Non fu questa la sola incisione ispirata dal Solimena. Quella che segue è conservata nel British Museum a Londra (immagine tratta da https://www.britishmuseum.org/research/collection_online/collection_object_details/collection_image_gallery.aspx?assetId=830227001&objectId=3225620&partId=1).

Ecco la lettura dei dettagli ingranditi.

                                                    F. Solimena in(venit) Francesco Solimena ideò

                  Petrini excu(dit) Petrini stampò        Andrea Magliar scul(psit) Andrea Magliar incise

Torniamo al libro: il frontespizio ci informa pure della struttura del libro e il lettore avrà già intuito che il componimento che ci accingiamo a leggere fa parte della sezione relativa alle lodi delle città. È l’epigramma XX e si trova a p. 78. Lo riproduco in formato immagine con la mia trascrizione a fronte e traduzione a seguire.

(Lecce

Sebbene tu mi veda presso le estreme regioni degli Itali, sono la prima gloria del territorio salentino. Mi nobilitano l’umanità, lo splendore degli uomini ed i templi dal soffitto a cassettoni e le pietre scolpite da abile mano. Mentre risuonava la fama del trionfo di Gaetano  non mi rincrebbe che essa avesse intrapreso lunghe vie, senza dubbio con cuore appassionato, più velocemente degli stessi venti, sembrando divorare tante terre con  rapido passo; sicché io, che di certo  sono l’ultima città del mondo italico. sono stata la prima per la gioia di Gaetano)

Il componimento è in forma di  prosopopea: è la città stessa a parlare in prima persona e a rivendicare nell’ultimo verso  una priorità devozionale contrapposta ad una marginalità geografica espressa nel primo e ribadita nel penultimo. E, oltretutto, Lecce è la sola città del Salento a comparire nell’elenco che vede il resto della compagnia così composto: Roma, Matritum (Madrid), Ulyssipo (Lisbona), Caesaraugusta (Saragozza), Valentia (Valencia), Parisii (Parigi), Praga, Monachium Bavariae (Monaco di Baviera), Neapolis (Napoli), Mediolanum, (Milano) Venetiae (Venezia), Genua (Genova), Panormus (Palermo), Messana (Messina), Bononia (Bologna), Florentia (Firenze), Vicentia (Vicenza), Liburnus (Livorno), Comum (Como), Licium (Lecce), Bituntum (Bitonto), Goa.

Non è certo casuale il fatto che siamo in presenza di un catalogo delle città dove più significativa era in quel tempo la presenza dei Teatini , non solo in Europa ma anche in India (a Goa già nel 1640 i Teatini avevano creato una testa di ponte, prodromo dell’arrivo nel 1683 dell’arrivo di Antonino Ventimiglia , che poi fu vescovo del Borneo dal 1691 al 1693, anno in cui morì in quella terra lontana).

Nel post relativo al link segnalato all’inizio ho riportato a suo tempo un altro epigramma dello stesso autore dedicato a Taranto, inserito, però in un’altra pubblicazione (epigramma 54 a p. 254). Anche di questa riporto il frontespizio sottoponendolo allo stesso trattamento riservato a quello dell’altra.

Se l’epigramma relativo a Lecce era legato ai Teatini, questo dedicato a Taranto (per testo, traduzione e commento rinvio al link più di una volta citato) è sempre di carattere celebrativo ma il Galeotto questa volta è Tommaso Caracciolo, che fu  arcivescovo di Taranto dal 1637 al 1663: a lui l’autore indirizzò la lettera dedicatoria che si legge alle pp. 350-354. Galeotto secondario è da considerare Gaetano Thiene: le  pp. 355-357 contengono un componimento in versi latini per il beato (la beatificazione era avvenuta l’8 ottobre 1629 da parte di Urbano VIII). Ma un altro Galeotto di primo piano prende definitivamente il sopravvento: le pp.358-377, con cui si chiude il volume, contengono  ben 23 elogi della famiglia Caracciolo.

Anche qui Taranto è in buona compagnia:  Roma diruta (Roma diroccata), Neapolis (Napoli), CapuaPanormus (Palermo), Messana (Messina), Siracusa, Drepanum (Drepano), Florentia (Firenze), Bononia (Bologna), Venetia (Venezia), Verona (Verona), Patavium (Padova), Vicentia (Vicenza), Ferraria (Ferrara), Genua (Genova), Mantua (Mantova), Mediolanum (Milano), Taurinum (Torino), Parisii (Parigi), Constantinopolis (Costantinopoli)

Per le città in comune nelle due pubblicazioni (Roma, Napoli, Palermo, Messina, Firenze, Bologna, Venezia, Genova, Milano e Parigi) il testo è diverso e, quando compaiono nel secondo. non contiene alcun riferimento ai Teatini.

Il “non finito” di Francesco Solimena a Nardò

di Paolo Marzano

fronte
S. Michele Arcangelo, attribuito a Francesco Solimena, nella cattedrale di Nardò

Ritengo si debba continuare a parlare di ‘scuola del Solimena’, intendendo, con questa affermazione, determinare un contesto di ‘culture’ pittoriche differenti e, allo stesso tempo, afferenti al maestro napoletano. Nell’ opera del S. Michele Arcangelo, appena restaurato, diversi sono i caratteri che potrebbero avvicinare la pittura in esame, ad una delle figure dominanti, quell’arte, a cavallo tra ’600 e ’700, nell’Italia meridionale. Ma, anche diversi particolari, non corrispondono al risultato che invece, proprio Francesco Solimena, pretendeva venisse fuori, dalle sue opere.

Chi ha pratica della storia dell’arte, conosce l’importanza dei documenti, l’ambito storico, ne contempla la veridicità, ma anche dei non secondari filtri che attengono alle descrizioni d’impostazione della scena, dei piani sovrapposti ed intersecanti i volumi, la struttura anatomica, i lineamenti del viso, direzione e tiraggio dei muscoli in relazione ai gesti espressi, quindi l’incarnato, la direzionalità del panneggio, la piegatura e la sovrapposizione del flusso coloristico sulle stoffe, la naturalità delle forme in relazione alla luce al chiaroscuro e all’ombra.
Un piccolo anticipo su quello che verrà a breve pubblicato.

Oltre alla strana aureola dell’Arcangelo (forse la continuazione del panneggio rosso) e ai semplificati, quasi schematici, tratti del viso (occhi troppo segnati, proporzionalmente grandi e quieti rispetto all’azione totalizzante della scena che vi si svolge) di sicuro ambiente napoletano, ma lontani come approcci del maestro, suggerisco di osservare nelle molte opere del Solimena il trattamento della luce.

Proprio il contatto della zona di luce, anche violenta e unidirezionale, sui volumi, determina, nei più importanti lavori del Solimena, appena dopo la scura zona d’ombra, un chiaro riverbero luminoso che, in numerosi altri casi, conferma la serie dei piani (o quinte) dell’impostazione compositiva dell’intera scena e risolve l’apparato chiaroscurale, dell’episodio raffigurato. Il viso del S. Michele, dunque, pur nella posizione privilegiata, poco si discosta, per i semplici lineamenti, dai cherubini sul fondo immersi nelle nuvole.

La ‘scuola’ quindi è certamente del Solimena, come la figura di lucifero che viene a forza ricacciato nell’inferno sembrerebbe confermare. Infatti, un maggiore approfondimento e quindi avvicinamento alle opere del Solimena rivela quella particolare figura ripresa più volte; per esempio dal personaggio quasi centrale sulle scale nella “Cacciata di Eliodoro dal tempio” o nei suoi disegni preparatori la ritroviamo disegnata per due volte nei due sensi di appoggio. Poi nel putto con la corona della “Giuditta e Oloferne” o ancora la stessa torsione e postura nella “Battaglia tra Lapiti e Centauri”.
L’opera ritengo sia attribuibile ad allievi del Solimena, su suo evidente disegno preparatorio, oppure, se si certificasse la chiara paternità del maestro, risulta sempre essere un’opera “non finita”, appunto per l’assenza dell’ultimo strato di riverbero luminoso e dunque della maggiore brillantezza ed evidenziazione tridimensionale generale, ora assente. Poco esaltata infatti la cascata centrale della ‘spira’ del panneggio rosso (l’afflato divino al suo guerriero) e la sublime curvatura finemente piumata (meravigliosamente reale) dell’ala a sinistra dell’arcangelo Michele.

Si attendono ulteriori riflessioni dibattiti, discussioni e confronti, per un’opera che va ad arricchire il bagaglio dell’antichissimo, e che si sta rivelando sempre più prezioso, scrigno della Cattedrale di Nardò.

 

I primi due sono compresi insieme nell'opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne "La cacciata di Eliodoro dal Tempio", solo il primo lo ripete nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell'Arte di Toledo, il terzo si trova inserito ne "la battaglia tra Lapiti e Centauri", il quarto è il S. Michele Arcangelo nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell'opera "Giuditta e Oloferne" di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.
I primi due sono compresi insieme nell’opera che si trova al Museo del Louvre a Parigi ne “La cacciata di Eliodoro dal Tempio”, solo il primo lo ripete nella chiesa del Gesù Nuovo, a Napoli, nel dipinto con lo stesso titolo e lo ripete ancora nel Museo dell’Arte di Toledo, il terzo si trova inserito ne “la battaglia tra Lapiti e Centauri”, il quarto è il S. Michele Arcangelo nella cattedrale di Nardò (Le), il putto reggi corona invece è nell’opera “Giuditta e Oloferne” di Vienna, nel Kunsthistorisches Museum.

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/22/nardo-un-solimena-riscoperto/

 

http://www.liberoquotidiano.it/news/454848/Scoperto-un-nuovo-Caravaggio.html
http://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/10_luglio_27/caravaggio-non-suo-martirio-1703469347692.shtml
http://culturasalentina.wordpress.com/2010/07/28/a-proposito-del-caravaggio-a-lecce/

Finalmente riemerge il dipinto del Solimena nella cattedrale di Nardò

di Marcello Gaballo

 

Occorre tornare sulla determinazione del già citato don Giuliano Santantonio, parroco della Cattedrale di Nardò, che continua a recuperare le memorie artistiche dell’Ecclesia Mater neritina, magari sollecitato dall’appuntamento del 2013, atteso evento che celebrerà i 600 anni del massimo tempio religioso cittadino[1].

La facciata della cattedrale di Nardò, disegnata da Ferdinando Sanfelice

Questa volta si è restituito all’ antico splendore un dipinto raffigurante un san Bernardino da Siena[2] sul pulpito della basilica, quasi rispondendo all’appello lanciato da Milena Loiacono in un suo saggio di qualche anno fa: Un’opera da salvare: il San Bernardino da Siena attribuito a Francesco Solimena[3]. L’Autrice sottolineava “il pessimo stato di conservazione” e “al fine di arrestarne il lento ed inevitabile degrado, sarebbe auspicabile un intervento di restauro che consentisse di giungere anche ad una più approfondita conoscenza dei materiali e quindi ad una più corretta lettura del manufatto”.

Il dipinto di nostro interesse, distinto dall’altro affrescato nel 1478 sulla parete della navata sinistra e del quale si è già trattato[4],  è ubicato sul dossale del solenne pulpito, addossato al quinto pilastro della navata centrale, in cornu evangelii.

Il pulpito della cattedrale di Nardò

La presenza in questo luogo, un tempo deputato alle predicazioni più che alla proclamazione della Parola di Dio tenuta dall’ambone[5], fu scelta dal vescovo Antonio Sanfelice[6], per tramandare ai posteri, ancora una volta, che in  questo sacro tempio predicò il santo senese (*Massa Marittima, 8 settembre 1350 – +L’Aquila, 20 maggio 1444). Celebre per la straordinaria capacità oratoria e le ferventi prediche tenute in moltissime città italiane, tanto da essere ancora considerato il più illustre predicatore italiano del secolo XV, il frate Minore avrebbe predicato nella cattedrale di Nardò nel 1433, probabilmente chiamato dal vescovo dell’epoca, suo confratello, monsignor Giovanni  Barella o Barlà, in carica dal 1423 al 1435.

La tribuna, il dossale e il baldacchino del pulpito della cattedrale di Nardò

Prima di accennare al capolavoro riemerso, forse è utile qualche cenno sul pulpito che lo ospita. Poggia questo su  quattro colonne marmoree policrome, delle quali le anteriori a base circolare e le posteriori, addossate al muro, a base rettangolare. Particolarmente elaborata la tribuna, sempre in marmo policromo, con i due stemmi angolari del vescovo Sanfelice e il monogramma bernardiniano nella parte centrale, tutti e tre altorilevati. A sinistra di chi guarda una porticina d’accesso lignea, inserita nell’interruzione della tribuna,  mette in comunicazione il ridotto spazio della stessa con la scala in ferro che consente di salirvi; un elemento decorativo, anche questo ligneo, riprende il controlaterale in marmo. Il dossale su cui è posto il nostro lavoro sorregge il baldacchino, sul cui soffitto è dipinto lo Spirito Santo, sotto forma di splendida colomba ad ali spiegate al centro di una raggiera.

La scala in ferro che conduce al pulpito. In primo piano particolare del marmoreo portacereo pasquale, coevo con il pulpito
particolare con le colonne e lo stemma del vescovo Sanfelice, sempre in marmi policromi, che si ripete ai due angoli della tribuna
particolare della tribuna e spessore murario (di colore bianco) sopravvissuto nei restauri di fine Ottocento, quando di svestì la cattedrale delle opere architettoniche realizzate da Ferdinando Sanfelice
base della tribuna
porticina lignea che separa la tribuna dalla scala

L’eccezionalità dell’evento, ritenendo da più parti quella neritina come l’unica tappa del santo nella nostra regione, fu giustamente rimarcata dall’instancabile Sanfelice, che commissionò il lavoro ad uno dei più grandi artisti napoletani a lui coevi, il celeberrimo Solimena, che lo eseguì con pittura ad olio su marmo.

Un’epigrafe immortalava l’opera e l’autore: S. Bernardinus Senensis/ qui suis concionibus/ illustriorem reddidit/ basilicam hanc/ ad uiuum expressus[7]/ a celeberrimo Solimena/ Anno D(omi)ni MDCCXXXIV.

l’epigrafe sanfeliciana posta sotto il dipinto

 

lo Spirito Santo sotto forma di colomba dipinto sulla volta del baldacchino

Marina Falla Castelfranchi[8], pur non avendo potuto visionare il dipinto per il pessimo stato in cui versava, lo ha attribuito alla maturità di Francesco Solimena. Dell’artista, ben noto al vescovo e a suo fratello Ferdinando, si conservano a Nardò almeno altre due opere: la Madonna in gloria tra i Santi Pietro e Paolo (cappella privata del vescovo) e San Michele Arcangelo, sull’altare omonimo in Cattedrale, di cui si legge la paternità in una delle visite pastorali[9].

S. Bernardino da Siena (1734) di Francesco Solimena nella cattedrale di Nardò

La perizia dell’operatore Valerio Giorgino ha restituito un’opera molto interessante, che certamente sarà esaminata e descritta dagli studiosi del Solimena. Il santo, vestito di un abbondante saio minoritico e stretto in cintura dal cingolo, è raffigurato per tre quarti. Con l’indice della mano destra mostra l’oggetto, forse ligneo, che è tenuto dalla sinistra; sul fusto si innesta una cartella ottagonale su cui è inciso il trigramma IHS[10], con la croce innestata sull’asta trasversale della H e con i tre chiodi della Passione alla base delle lettere. Se nell’affresco neritino di cui si è già fatto cenno il santo viene raffigurato in età avanzata, qui invece ha una età media, con il capo leggermente volto a destra e lo sguardo verso il riguardante, quasi ad invitarlo alla contemplazione del simbolo da lui stesso ideato.

Ci auguriamo che l’azione di recupero e di restauro continui per le tante altre ricchezze di cui può gloriarsi la cattedrale neritina, così che si presenti all’appuntamento, ormai prossimo, nella sua migliore forma.


[2] Sul san Bernardino da Siena affrescato a Nardò si veda la relativa scheda di restauro pubblicata su “Il delfino e la mezzaluna”, a. I, n. 1 (luglio 2012), pp. 146-148. Cfr. inoltre R. Poso, La cultura del restauro pittorico in Puglia nella seconda metà del XIX secolo, in Storia del restauro dei dipinti a Napoli e nel Regno nel XIX secolo, Atti del Convengo Internazionale di Studi (Napoli, 14-16 novembre 1999), a cura di M.I. Catalano e G. Prisco, volume speciale 2003 del “Bollettino d’Arte”, pp. 273-286.

[3] In “Kronos”, n°4 (2003), pp. 145-146, Congedo Editore.

[5] Furono le Instructiones fabricae del cardinale Borromeo a stabilire che il pulpito dovesse trovarsi in tutte le chiese, a circa metà della navata, sopraelevato rispetto all’assemblea, così che il predicatore potesse essere visto e udito da tutti.

[6] Napoletano, XXIV vescovo della diocesi, in carica dal 2/11/1707 sino al 1/1/1736, data della sua morte. Sull’attività del presule si veda anche https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/09/03/il-conservatorio-della-purita-a-nardo-e-il-vescovo-antonio-sanfelice/

[7] Da leggersi ad vivum expressus = rappresentato realisticamente, al naturale. Ringrazio Armando Polito per la corretta interpretazione.

[8] M. Falla Castelfranchi, Monumenti di Nardò dal XIII al XVIII secolo, in Città e Monastero. I segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), a cura di Benedetto Vetere, Galatina 1986, p. 253. Del dipinto ne aveva già scritto M. D’Elia in due suoi lavori: Mostra dell’Arte in Puglia dal Tardo Antico al Rococò, Roma 1964, p. 185; La Pittura Barocca, in La Puglia tra Barocco e Rococò, Milano 1982, p. 279.

[9] La tela è in restauro e si spera che questo confermi l’attribuzione.

[10] IHS, le prime tre del nome greco di Gesù, oppure forma abbreviata di “Iesus Hominum Salvator”. Il simbolo, più tardi adottato anche dai Gesuiti, conteneva la devozione al Nome di Gesù. Venne rappresentato in moltissimi luoghi religiosi e civili, pubblici e privati, e risulta che esso campeggiasse sulle antiche porte della città di Nardò. Risalta anche sulla tribuna del nostro pulpito, inserita nel sole raggiante.

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