Nero(è)Notte. Ovvero il racconto del raccontare

neronottemare

di Francesco Pasca

 

Esiste un popolo della notte. Ma esiste anche la notte non uguale per ogni singolo di quel popolo. A quel singolo può capitare di avere avuto assegnato il nome di “Ermanno” e che può averlo avuto e determinato da chi ha voluto scrivere della sua storia e di un NERO NOTTE.

All’apparenza la seguente asserzione parrebbe nell’ovvio. Chi ne vuole pronunciare e scrivere, con la recensione di quel che si è letto, è uno di quei “lupi della steppa” e lo farà perché vorrà dedicarlo assecondando l’amico Paolo Vincenti e Hermann Hesse per quel: “Soltanto per pazzi”.

Come per l’introdurre dirò che: ”il semplice non è il banale” e che, “il complesso non è il difficile”.

M’è parso un buon motivo per scriverne e per soffermami. Dapprima dialogando sul titolo, che ho anch’io voluto segnare con il lungo prologo, poi descrivendo il seguito suggerendolo con un altrettanto brevissimo epilogo (Vincenti del suo NERO/NOTTE ne ha fatto del prologo centocinquantacinque pagine e solo un capoverso di tredici righe dell’epilogo).

Paolo Vincenti mi ha bloccato nell’illimitato sulla prima di copertina e mi ha fatto rileggere più volte quel titolo, quel “Nero Notte”.

Ho avuto la strana sensazione, per me che ne trattavo, di una “copula” sottratta, di un Tempo del voler persistere necessariamente e volutamente mancante, di un volersi affermare e corrispondere per e a un ulteriore “rovello” che si può dipanare in una Notte, di un dover immaginare una clessidra dal collo così largo da non poter concedere che essa si possa riempire o svuotarsi.

Non sono ma mi dispongo, nello scrivere, come il gemello giovane ma più “anziano” che si trova al cospetto del suo gemello più vecchio ma più “giovane”. Sono il paradosso di Einstein che ha visto violare il suo e l’altrui Tempo. L’asserzione di quel che dico è parzialmente dovuta al fatto che, con Paolo Vincenti ho in comune lo stesso giorno, probabilmente anche la stessa ora, ma l’anno di quella nascita diverge, si altera per ragioni non solo di scrittura anagrafica in paradosso.

Fatta questa breve considerazione eccomi a voler caparbiamente affermare che l’aggettivo Nero è il soggetto ed ha per nome Ermanno e che il sostantivo Notte ne è la sua specificazione ma non lo stato in luogo.

Fra Nero/Notte provo ad immaginare un Nous, una terza Enne che pone essere nell’ES, l’intimo dovuto dall’ònfalo-ὀμϕαλός nato dallo stesso, che è d’argento ed è stato deposto dalla Notte e, nel frattempo, divenuto Fanete, nonché il Dio che prova a trovarsi ad essere la romanza di Eros e Thanatos e districarsi dall’essere orfico, morfico, metamorfico.

Oppure matematicamenteorficonellasuaprobabiletrasformazioneonirica.

Messa così parrebbe proprio quel “semplice” e quel “complesso” di cui ho sopra accennato.

La sorpresa maggiore di quel che ho pensato, cioè di quand’ero con sosta obbligata in prima di copertina, l’ho trovata fortunatamente a pag. 28 nel luogo delle Parche. L’amico Paolo mi ha dato conforto scrivendo di un’immagine, di un dipinto: «… L’opera, che aveva intitolato sic volvere Parcas, con Virgilio, era divisa in tre sezioni: nella prima Cloto a filare, nella seconda Lachesi a distribuire il filo e nella terza la crudele Atropo a reciderlo; sui tre campi incombeva un signore dall’aria malvagia che era il Tempo …»

Bene! Mi son detto e poi aggiunto: gli ingredienti per il racconto ci sono tutti.

Nel frattempo, cioè nel lasso di un voltare e leggere pagina dopo pagina, ho rammentato quel che precedentemente il Vincenti ha voluto scrivere di Ermanno e a come ne ha dato titolo, dapprima, esaltandolo con: [dal diario poetico di Ermanno] pag. 19 (… e sono attimi/che passano/si consumano/evaporano/non tornano …) e poi ancora a pag. 34 (le cose cambiano, cambiano le persone/e così siamo cambiati anche noi/ci siamo concessi un ultimo amplesso …), poi, ricucendolo con patina nerastra.

Ma dicevo anche del Nero e della Notte, così come di Amore e di Morte ed ancora del Giorno e della Notte nonché di Luce e Buio. Altresì, da gemello, facevo sostare il Tempo.

Mi concedo, scrivendo, di alterarlo, di posporlo, di alternarlo ad altro gemello e lo scorgo a pag. 37 (… Gerry, un barbone venuto da un’altra città …).

Paolo Vincenti mi dà la prova di racconto, di saper trovare e scrivere del racconto. Vincenti mi convince del trova e del prova e mi dà la certezza di far specchiare il suo personaggio.

Ermanno è lì davanti allo specchio, è lo specchio, è la scrittura/pensiero dello stesso Vincenti con: (… che aveva conosciuto anni prima …) e il racconto impresso in quello specchio con: (… mentre sovrapensiero camminava …)

Come giustifica e al contempo allontana il NeroErmanno da quel rispecchiarsi?

È il compito dello scrittore far stringere il collo alla clessidra e riportare il Tempo dov’è il Tempo. A pag. 47 c’è la soluzione. (“ Allora Ermanno: «sai, abbiamo un rapporto molto diverso con il tempo, io e te. Tu aspetti il futuro, un futuro prossimo, vicinissimo, perché sai che da questo … otterrai … io invece …»)

Tocca ancora una volta allo scrittore Vincenti trovare la reale differenza fra futuro e futuro, sia esso semplice o anteriore. Dovrà stabilire se quell’essere dovrà essere coniugato con “io sarò” o “sarò stato”. Vincenti ancora una volta trova e mi dà prova con il ricordo di un attraversamento nel Nero e in una Notte con: a pag. 68.(… ci sono luci che a volte si accendono dentro/ma durano così poco, solo un attimo/… in qualche posto imprecisato/…/è così raro …)

Il Nero è la descrizione, è il modo del dubbio, della possibilità, dell‘eventualità, dell‘irrealtà … quel che spinge il lettore a non fermarsi. A superare e a come lo descrive è il Nostro a pag. 89 (… quante volte ho detto: noia/ma era la speranza/quante volte ho detto: via/ma era il bene perduto/… ho pensato all’acqua/ma era fuoco/e ho pensato fuoco/ma era acqua …)

Vi ho detto del mio prologo che sarà lungo e di una Notte ch’è stata lunga, lunghissima per la descrizione di Paolo Vincenti, ma ch’è anche lunga o breve, grande o piccola quanto può essere piccolo o grande il Nero.

Per meglio descrivere quell’eternità di Nero/Notte, di un solo attimo consumabile con un gesto andrò a rileggere e a raccomandarvi di leggere anche voi bene quel che è stato scritto a pag. 117.

Andrò a rileggere e voi a ricordarvi che Vincenti conosce qual è il racconto e da dove nasce e chi lo ha insegnato. Conosce e sa che era Omero a far riposare i suoi guerrieri dopo la battaglia. Appura che vi è differenza fra combattere ed arrendersi. Scrive che non ci si può bagnare nello stesso fiume, se tutto scorre. Vede che scompaiono le anime smarrite al chiarore del giorno e sa dell’esistenza di Elena che può reclamare la sua bellezza sfiorita: “O, tempo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, tu distruggi tutte le cose da duri denti della vecchiezza a poco a poco con lenta morte!

Elena quando si specchiava, vedendo le vizze grinze del suo viso, fatte per la vecchiezza, piagne e pensa seco, perché fu rapita due volte.

O tempo consumatore delle cose, e o invidiosa antichità, per la quale tutte le cose sono consumate!” (Leonardo da Vinci)

Lo scrittore urla Wanted dead or alive! Può condurre alla ricerca del proprio Nous con l’imperativo: Ricercato(ricercatelo) vivo o morto! 

Ricercare per Vincenti è avere dinanzi a sé continue visioni e quelle visioni si apprestano ad essere reclamate alla fine del suo lungo prologo, a pag.155: “vide … udì … vide,vide,vide, … si rivide … ebbe … sentì”.

Vi ho parlato anche di un breve epilogo. Il gesto scrittura farà coincidere i due tempi al futuro. Coinciderà il Tempo del crederà di Elena con quello di un non crederà di Ermanno.

Buona lettura!

Se dico Francesco Pasca, penso alla “singlossia”

di Paolo Vincenti

Se dico Francesco Pasca, penso alla “singlossia”. Penso all’irrazionale, che stimola la curiosità sempre in fermento di questo intellettuale così anomalo (di “anomalia come arte”, per dirla con Brenot, se è vero che alla base di ogni pratica artistica c’è sempre una follia creativa che smuove qualcosa dentro, spinge, stimola, suscita..) 

Se dico Francesco Pasca, penso a parole in libertà, archetipi, combinazioni alchemiche o a strutture palindromiche, come il famoso quadrato magico “Sator Arepo”, che l’autore cerca nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto .. e il mosaicista è lui stesso, l’autore, che gioca una partita a scacchi con le entità sovra individuali, come il tempo, lo spazio, il reale, il virtuale, e poi Fiato, Thea, Poiesi(es), Giano, Alber(t)o, Guido, ossia le pedine-personaggi nella scacchiera di una complessa rappresentazione trans-modale che sono i suoi libri.

Se dico Francesco Pasca, penso a “diversalità poetiche”, penso all’acronimo del suo cognome (P-pardus A-alatus S-sternit C-cornutum A-arietem),  impresso enigmaticamente dal monaco Pantaleone in una scena di quel libro di pietra che è il mosaico otrantino.

Dico Francesco Pasca e penso al linguaggio multiforme delle sue opere, alle più ardite sperimentazioni verbo-visive che caratterizzano il suo percorso  poetico, filosofico, matematico, e penso ad un viaggio multimediale, fra luoghi reali e mentali, seguendo quel filo rosso che imbastiscono i pensieri

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