Un ispettore onorario per la tutela e la vigilanza degli organi a canne storici di terra d’Otranto

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Elsa Martinelli, ispettore e gentildonna

di Francesco Greco

 

Ispettore onorario “per la tutela e la vigilanza degli organi a canne storici per le province di Lecce, Brindisi e Taranto” (prima, dal 2012, lo era della sola provincia leccese). La nomina è arrivata a dicembre 2016 dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo.

Se la virtù dei grandi è la discrezione, il pudore, rifuggire dai riflettori della ribalta (atteggiamenti decisamente retrò al tempo della selfie-mania e dei social), c’è voluto del tempo a convincerla a dare la notizia.

E dunque, un altro step nella già prestigiosa carriera accademica e divulgativa della prof. Elsa Martinelli, salentina di Gallipoli, docente di “Poesia per Musica e Drammaturgia Musicale” al Conservatorio “Tito Schipa” di Lecce.

Tradurre le proprie passioni in un lavoro non càpita a tutti nella vita. Elsa ha avuto questa “buena suerte” e la vive come una mission senza lesinare energie, come sanno i suoi allievi e la stessa Terra d’Otranto, che conosce e apprezza i suoi saggi in cui spesso coinvolge l’architetto Beatrice Malorgio (“Fughe”, Edizioni del Grifo, 2012).

L’incarico, onorifico, è di durata triennale e prevede la tutela, la vigilanza, la consulenza storico-musicale, tecnica e archivistica, di restauro (di tipo filologico, conservativo, funzionale ed estetico) in funzione della salvaguardia del ricco patrimonio organario delle chiese.

La prof. fa capo agli organi centrali del Ministero tramite l’ufficio periferico della SABAP (Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio) di Lecce, ora diretto dal nuovo soprintendente, l’architetto Maria Piccarreta.

Una mission, s’è detto, vissuta full time. In ambito didattico e di ricerca con volumi, saggi, articoli su riviste specializzate, atti di convegno nazionali ed extra moenia, pubblicazioni miscellanee sugli organi a canne nel Salento, due corpose monografie e numerosi contributi di studio.

La prof. Martinelli ha studiato i vari aspetti della storia del melodramma (dai costumi teatrali ai libretti d’opera), opere e protagonisti della grande opera lirica: da Vivaldi a Niccolò Piccinni, incluso il contemporaneo Nino Rota.

I profili storici e l’attività artistica di musicisti come Eriberto Scarlino, Luigi Romano, Vincenzo Pecoraro e di cantanti lirici come il tenore di grazia Tito Schipa (leccese doc, “Canto per te. Omaggio a Schipa, 2016) e il soprano Ines Martucci, inclusi corsi di iconografia musicale, la storia di bande musicali e interconnessioni fra architettura e musica.

Non male per una giovane prof. appassionata del suo lavoro. Della serie “Eccellenze a Sud”, o “Ce ne fossero!”. Chapeau!

Aldo Moro, una tragedia italiana

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di Francesco Greco
 
Un secolo fa, il 23 settembre 1916, nasceva a Maglie (Lecce) lo statista Aldo Moro. Questo è dunque un anno di celebrazioni: incombe il recupero della complessa figura politica, la fervida azione dispiegata a tutto campo, delle sue “visioni” perseguite con tenacia tutta magno-greca, nel difficile transito storico del dopoguerra, la ricostruzione materiale e morale del Paese, il Novecento delle ideologie contrapposte, i blocchi e la Guerra Fredda, gli armamenti che svuotavano i granai, l’incubo nucleare.
Mentre si parla di una prossima beatificazione, si potrà rendere giustizia a un politico con la “p” maiuscola, un “gigante” della Storia se rapportato a quelli di seconda e terza Repubblica oggi sulla scena con performance al limite del tragicomico, enfatizzate da media embedded.
Moro è stato docente di Diritto all’Università di Bari. Nel 1948, a 32 anni, fu sottosegretario agli Esteri del quinto governo De Gasperi. Segretario nazionale della Dc (1959-1964), premier (1963-1968) e ministro degli Esteri (1969-1974, ma con brevi interruzioni).
Nel “secolo breve” e tragico segnato dagli “ismi” e “la fine della Storia”, tuttavia, ha avuto due disgrazie: ha vissuto in un momento storico marcato dalla supremazia della sinistra sull’establishment culturale: atenei, case editrici, mass media ne hanno derubricato la grandezza leggendolo come statista figlio di un dio minore.
E non annusò l’aria fetida del complotto attorno a lui quando – seconda metà anni ’70 – le convergenze parallele stavano sfociando nel compromesso storico. I due partiti di massa uniti nel combattere il salto nel buio dell’opzione terrorista. Com’era possibile che il rapimento (16 marzo 1978, via Fani, 38 anni fa) non fosse predisposto da tempo, se avvenne in tempi così rapidi, senza connivenze nel suo stesso partito e nello Stato? I processi lo hanno adombrato, le responsabilità restano vaghe e sfuggenti, anche se qualche sentore c’era stato: Moro era preoccupato, ma non ci aveva dato importanza.
Forse le Br furono solo la manu militari, uno dei soggetti in campo (ora è spuntata anche la camorra), ognuno ansioso, con le sue connivenze, di realizzare interessi politici, storici, personali.
A illuminare un politico che col martirio, quasi un eroe da tragedia greca, pagò con la vita la coerenza, il senso “sacro” dello Stato e delle istituzioni, due saggi pregnanti del giovane storico pugliese Federico Imperato, “Aldo Moro e la pace nella sicurezza” (La politica estera del centro-sinistra, 1963-1968), Progedit, Bari 2011, pp. 236, euro 25,00 (Collana Storia e Memoria diretta da Ennio Corvaglia, Vito Antonio Leuzzi e Luigi Masella) e “Aldo Moro, l’Italia e la diplomazia multilaterale. Momenti e problemi”, Besa, Nardò 2013, pp. 247, euro 17,00 (Collana Entropie).
Dottore di ricerca in Storia delle relazioni e delle organizzazioni internazionali, collabora con la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bari, Imperato ricostruisce con rigore analitico la parabola, i passaggi di un protagonismo dispiegato sul fronte interno ed estero, nella Dc, il centro-sinistra, sino all’unità nazionale stroncata in embrione, mentre lo Stato stava per essere abbattuto dal maglio delle Br.
Moro visse dunque di “visioni” dettate da una concezione “universalista” della politica e della Storia, in un mondo dove lo scontro ideologico era violento. Su questa trincea si rivelò un fine diplomatico nell’Italia “ventre molle della Nato”, al crocevia di paesi, etnie, interessi, conflitti. Italia ombelico del mondo: snodo fra est e ovest, porta sul sud del mondo, cuore antico dell’Europa continentale.
Cosciente di una mission complessa, ispida, la visse con grande coinvolgimento e anche stile, si caratterizzò per la rapidità analitica, l’autorevolezza dell’azione, l’eloquio barocco che aveva nel dna. Il suo pensiero è di straordinaria modernità, oggi che l’Italia ha perduto carisma e rispetto. Politico che elabora e che poi si muove, annusa i tempi e agisce di riflesso. Nel 1964 inventa il centro-sinistra aprendo al Psi (dopo il rude Tambroni e i fatti di Genova), ma l’anima conservatrice della Dc, i dorotei, lo ostacola, mentre Nenni spinge verso le riforme necessarie per ammodernare il Paese. Nel 1978 l’Italia è allo sbando, le Br fanno scorrere il sangue. Moro teorizza il compromesso storico anche per salvare lo Stato di diritto.
Imperato spiega con dovizia di documenti (consultati in giro per gli archivi) il protagonismo sulla scena interna e mondiale. Moro capisce, per esempio, che la Cina sta cambiando, evolvendo dal sistema comunista verso un liberismo originale, e non può essere lasciata fuori dal gioco. Così l’Italia si fa parte diligente di un suo seggio all’Onu, anche per scoraggiarne le “attività aggressive”. Siamo alla fine dei ’60 (Mao morirà nel 1975). Altro contesto in cui lo statista spende il suo acume politico: il Medio Oriente, dove l’Italia recita un ruolo di incessante mediazione fra i conflitti dell’area.
Per tre lustri l’Italia assume dunque un ruolo centrale. E se, 38 anni fa, non fosse intervenuta la barbarie terrorista, che finì col surrogare un groviglio di interessi di cui quello dello Stato che non riconosce le Br è solo quello più evidente e ne nasconde altri inconfessati e forse illegittimi, oggi la sua figura sarebbe ancora più “alta”.
Il martirio, l’assassinio (9 maggio 1978, via Caetani, a due passi da Botteghe Oscure e Piazza del Gesù) finisce così col riconoscerne oggettivamente la grandezza e col dichiararlo un “gigante” della Storia. Rievocarne la parabola (mentre l’ateneo barese si appresta a commemorarlo), la lucidità analitica, come ha fatto con grande nitidezza e passione Imperato, ridimensiona i nani che oggi intorbidano le acque con slogan vuoti che chiamano comunicazione. Chissà come sarebbe cambiata la Storia patria e del mondo se Moro fosse riuscito a portare a termine il suo disegno politico? I carnefici fuori e dentro le istituzioni, e nel suo stesso partito, hanno sulla coscienza anche questa virata della storia pregna di sangue e di tragedie.

Sta devastando migliaia di ulivi sparsi su oltre 25mila ettari del Leccese

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

di Francesco Greco

 

“La poltiglia bordolese? Una panacea, una suggestione, un modo di illudersi di contrastare la xylella fastidiosa e i suoi vettori…” (per il prof. Francesco Porcelli “pannaturismo cosmico”). E dunque, citando il Sommo Poeta: lasciate ogni speranza voi ch’entrate. La scienza gela il rimedio antico, naturale, proposto in un convegno ben riuscito ad agosto a Castiglione d’Otranto (ma non sottoposto a test), contro il micidiale batterio sconosciuto in Europa (in Brasile attacca agrumi e caffè) che occlude i vasi xilematici provocando (in 4-5 anni) la morte della pianta, che da un anno (15 ottobre 2013, ma l’incubazione, asintomatica, data almeno a 5-6 anni prima) sta devastando migliaia di ulivi sparsi su oltre 25mila ha del Leccese, concentrati nella zona di Gallipoli, Alezio, Taviano, Alliste, Parabita, Nardò e che avanza: è allarme pure nel Capo di Leuca.

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Pare però che la qualità “leccino” sia più resistente di “cellina” e “ogliarola” (gli impianti giovani). A rischio anche mandorli, ciliegi, oleandri, acacie, ginestre, ecc. Incluse molte piante da giardino. Primo sintomo: foglie rosso mattone. Il virus avanza di 20 cm. al mese. Se si mette mano con la motosega, si consiglia di tagliare mezzo metro oltre il ramo malato.

D’altronde, non si possono fare le nozze coi fichi secchi: se gli Usa (il microclima della California e Gallipoli sono assimilabili), che da 130 anni sono alle prese con lo stesso virus che attacca la vite, per contrastarlo finanzia la ricerca con 4-5 milioni di $ annui (e ci sono voluti 6 anni per testare la malattia di Pierce), qui siamo nell’ordine di 8mila €: la spending review che tollera l’evasione fiscale e i fatturati dei poteri criminale poi lesina i denari per le emergenze ambientali. Bella Italia, amate sponde…

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Sott’accusa anche l’Europa: non controlla efficacemente le frontiere. Così forse è penetrata da piante sospette e ci si espone alle epidemie. Per la xylella, indice puntato sulle piante ornamentali (42 milioni, giunte pare nel 2012, via Rotterdam) dal Costarica (lì attacca mango e noce, ulivi non ce ne sono), entrate clandestinamente.

Sullo sfondo è appena nato il Comitato Scientifico allargato a una componente internazionale, mentre a Gallipoli è previsto un convegno di esperti. Lo si è appreso a un convegno sul “complesso disseccamento rapido dell’ulivo” a Morciano di Leuca, indetto dalla Pro-Loco, moderato dall’avv. Antonio Coppola, con una folla di coltivatori preoccupati, che hanno incalzato gli studiosi con domande pertinenti. Dopo i saluti del presidente Antonio Cacciatore, del presidente dell’Unione delle Pro Loco del Capo di Leuca Antonio Renzo e l’assessore Maria Rosaria Ottobre, le relazioni di Antonio Pizzileo, agronomo e i ricercatori Donato Boscia (Istituto Virologia Vegetale Cnr di Bari: “E’ una malattia nuova, non c’è memoria…”) e Porcelli. Amaro un vecchio contadino: “Dopo secoli siamo riusciti a uccidere pure gli ulivi…”. E un altro: “Abbiamo dimostrato quello di cui siamo capaci e adesso la natura impazzisce e si vendica…”. Un terzo: “Provo a pensare come sarà la nostra terra senza ulivi e mi vien da piangere…”.

La bontà della poltiglia bordolese, rimedio antichissimo (rame e calce viva) a Castiglione era stata però dimostrata, slide alla mano, da Ivano Gioffreda, portavoce dell’Associazione “Spazi Popolari Agricoltura Organica Rigenerativa” (sue le foto), a cui rivolgiamo alcune domande.

 

ph Marco Cavalera
ph Marco Cavalera

Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?

Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali.Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.

 

D. Quali i sintomi della malattia?

La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.

 

D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?

R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.

 

D. E in termini di prevenzione?

Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.

 

D. Come si trasmette il batterio?

R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi  presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!

 

D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?

R.  Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.

 

D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?

R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse  multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.

Domenica 5 Ottobre a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2°meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.

 

D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?

R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi ? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!

 

D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?

R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.

 

D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?

R.  Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura.  Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.

 

D. Che interessi si giocano sul nostro olio?

La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% dei nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento  in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord.  Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.

 

D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?

R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.

Convegno. Monsignor Belisario Balduino vescovo da Montesardo al Concilio di Trento

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di Francesco Greco

“Monsignor Belisario Balduino Vescovo da Montesardo al Concilio di Trento”. E’ il titolo del convegno-commemorazione sulla figura dell’illustre Prelato (in foto il suo stemma) nato in Terra di Montisardui (Lecce) nel 1518 e morto a Larino (Campobasso) nel 1591, passato alla storia per aver istituito il primo Seminario della Cristianità.

Si svolgerà mercoledì 17 settembre.

Ecco il programma dei lavori:

Chiesa Madre (ore 18.30): Santa Messa in suffragio di Monsignor Belisario Balduino a 450 anni (26 gennaio 1564) dalla nascita, a Larino, del primo Seminario, celebrata da S. E. Monsignor Vito Angiuli, Vescovo della Diocesi Ugento – Santa Maria di Leuca, col Coro Parrocchiale di Montesardo diretto da Antonio Torsello e Rossella Torsello.

Alle 19.30 ci si sposterà nei Giardini del Castello (dove ha sede la Residenza Protetta “Gaudium”): dopo i saluti del parroco don Pietro Carluccio, il sindaco del Comune di Alessano Osvaldo Stendardo e Donato Melcarne, assessore al Welfare, seguiranno gli interventi di S. E. Monsignor Vito Angiuli, del Prof. Francesco Danieli sul personaggio e il contesto storico in cui visse e agì, titolo: “Monsignor Belisario Balduino, un Vescovo meridionale pioniere della tridentinizzazione”, di Francesco Calignano, studioso e Giuseppe Mammarella, Direttore dell’Archivio Storico Diocesano (Diocesi di Termoli-Larino):

“Il Seminario di Larino, primo della Cristianità e il suo Vescovo fondatore”.

Intermezzi del M° Doriano Longo (violino) che eseguirà brani di musica barocca. Gli atti del primo Sinodo (ne celebrò altri due, nel 1564 e 1571) tenuto a Larino il 26 marzo 1556 saranno letti dall’attrice Giustina De Jaco.

Moderatore dell’evento (che ha il patrocinio del Comune di Alessano) il giornalista Francesco Greco (info: 328-6457836).

Libri. Maria Rosaria Manieri in “Fraternità”

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di Francesco Greco

 

“Fraternité” vò cercando, ma anche égalité e liberté

 

Sosteneva Pertini che l’uguaglianza senza la libertà non è una conquista auspicabile, e comunque un uomo del suo spessore politico e culturale ne sarebbe rimasto indifferente. Ma come avrebbe reagito e cosa avrebbe detto se a essere messe in discussione fossero allo stesso tempo le idee di libertà, uguaglianza e fraternità? Concetti antichissimi, imposti da mille rivoluzioni e oggi svuotati semanticamente nel contesto di una deriva culturale e politica, ma anche etica, dell’Occidente? Ancor più grave perché non legittimata e quindi non contrastata, che sparge barbarie negli interstizi più nascosti della società civile?

La globalizzazione ispirata dal liberismo della foresta, da ferriere, ha inaridito le conquiste individuali e collettive dei popoli attraverso le rivoluzioni, da Spartaco a quella francese e poi russa, sino al suggello sottinteso della nostra Resistenza. Valori che erano il collante delle moderne società sono stati relativizzati. Il potere è nelle mani di pochi, di oligarchie e satrapie d’ogni sorta, in primis quelle bancarie. La comunicazione poi, concentrata nelle mani di pochi, ha svuotato l’etimo della “liberté”, riducendoci a cloni a cui è servita la stessa sbobba fatta di menzogne e verità addomesticate: sociologia da bar sport. La democrazia è così svuotata di senso e i cittadini ectoplasmi privi di potere reale vittime di un darwinismo sociale in un canovaccio atomizzato, “l’età del vuoto segnata del crepuscolo del dovere”, in cui prevale un soggettivismo arido che fa il gioco del nichilismo.

Collegate ontologicamente fra loro – non per caso gridate dai parigini sulle barricate – anche il termine “fraternité” (“termine in disuso nel lessico pubblico contemporaneo”) ha subìto un processo relativizzante, almeno nell’accezione laica, poiché il suo significato “giudaico-cristiano”, al contrario, non ha ceduto l’intimità del suo etimo alla secolarizzazione dominante (“…ethos della Chiesa, quale speranza di una nuova religione civile”). Sull’idea di fraternità in un momento storico così ambiguo e confuso, di transizione, in cui i vecchi idoli e le figure intrise di autorità finiscono nella polvere ma non se ne issano di nuove, e mentre la politica non sa più “leggere” la società, ed è lentamente disfatta e sopraffatta dai populismi, le intolleranze, i razzismi, attingendo a un’ampia bibliografia (Habermas, Bauman, Marramao, Ignatieff), riflette Maria Rosaria Manieri in “Fraternità” (rilettura civile di un’idea che può cambiare il mondo), Marsilio, Venezia 2013, pp. 156, € 15.00 (collana “Tempi”).

La Manieri ha un robusto background alle spalle: ha militato nel Psi ed è stata senatrice sino al 2006. E’ professore associato all’Università del Salento, ha firmato ricerche e saggi critici sull’umanesimo, il rapporto fra politica e morale, la donna e la famiglia nella filosofia moderna. Intensa la prefazione di Giuseppe Vacca, che mette molta carne al fuoco parlando di “principio dimenticato” (…) “La ricostruzione del principio politico europeo condotta in maniera brillante in questo saggio conferma che le uniche forme in cui il principio laico di fraternità si sia incarnato sono state il concetto kantiano di giustizia e quello socialista di solidarietà (…) Il tema è dunque squisitamente politico e condivido l’idea di ripartire dalla critica del modo di produzione capitalistico che costituisce non solo la lezione più feconda di Marx, ma anche l’urgenza storica del nostro tempo”.

E dunque, per la saggista nata a Nardò (Le) “nel panorama mutato e mutevole del mondo, va emergendo una nuova, quantunque antica e del tutto inedita e inesplorata, richiesta di fraternità (…) nuovi legami fra cittadini, sessi e generazioni, nel segno di una nuova sintesi storica fra libertà e uguaglianza”.

La modernità ci ha cacciati nel vicolo cieco di un paradosso. La saggista cita Peter Singer: “Oggi le persone sono legate un tempo inimmaginabili”. E Zygmunt Bauman (il teorico della modernità liquida): “…siamo già, e lo rimarremo a tempo indefinito, oggettivamente responsabili gli uni degli altri. Ma ci sono pochi segnali di una disponibilità, da parte di noi che condividiamo il pianeta, ad assumerci una responsabilità soggettiva per questa nostra responsabilità oggettiva”. Come dire: per ritrovare il filo della civiltà, sconfiggere il “vuoto etico”, ridare corpo al termine fraternità è un passaggio obbligato. Non ci sono altre opzioni.

”Non di amore – riflette la Manieri – ha dunque bisogno la società moderna, ma di organizzazione sotto principi razionali, universalmente validi, tali da consentire la formazione di un corpo sociale veramente comune”. La nostra sopravvivenza è legata a questa rivoluzione, una sfida epocale: ne saremo capaci?

Quattro corsie e un funerale (275 “No” al Salento sfregiato)

quattro corsie

Oggi, 20 febbraio, alle ore 19.00, ad Alessano (Lecce), presso la “Scuola di Pace” della Fondazione Don Tonino Bello (piazza Don Tonino Bello), so sarebbe dovuto presentare il libro “Quattro corsie e un funerale” (275 “No” al Salento sfregiato), curato da Francesco Greco e pubblicato dalle Edizioni Miele (in foto la copertina di Roberto Russo).

Erano previsti innterventi di: Vito Lisi, presidente del Comitato 275, Luigi Russo, presidente CSVS, Francesco Greco, giornalista e curatore del volume.

Avrebbe dovuto condurre Ada Martella, giornalista.

Il libro (progetto grafico di Antonio Pizzolante, foto di Dario Carbone e Vincenzo Santoro), propone le riflessioni sul tema di tecnici, imprenditori, intellettuali, artisti, giornalisti, contadini di varie nazionalità: Vito Lisi, Luigi Paccione (avvocato), Marco Cavalera (archeologo), Marcello Gasco (imprenditore), brani estrapolati da “La Colala”, a cura di Ferruccio Sansa, con Andrea Garibaldi, Antonio Massari, Marco Preve e Giuseppe Salvaggiulo (Chiarelettere, Milano 2010), dal romanzo “La leggenda di domani”, di Maria Corti (scrittrice e filologa), Manni Editore, Lecce 2007, una piccola rassegna-stampa dal quotidiano “Puglia”, Antonio Biasco (psicologo), Sergio L. Duma, scrittore e docente di Letteratura Angloamericana all’Università del Salento, Padre David Maria Turoldo, Franco Arminio (scittore, paesologo), Riccardo Scamarcio (attore), Regina Poso (Facoltà dei Beni Culturali Università del Salento), Alfredo De Giuseppe (imprenditore, scrittore, regista), Antonio Sodo (scultore), Fontas Ladis (poeta greco), Associazione Culturale “Salento: che fare?”, Luca Mercalli (climatologo), Bruno Vaglio (agronomo), Lorenzo Martina (poeta), Francesco Nuzzo (giornalista dell’ATS, Agenzia Telegrafica Svizzera), Fabio Calenda (giornalista, scrittore), Luigi Nicolardi (architetto, già sindaco di Alessano dal 2001 al 2011), Paolo Rausa (giornalista, scrittore, docente, socio dell’Arp, Associazione Regionale Pugliesi a Milano), Francesco De Benedetto (contadino), Vassilis Nicolakopoulos (interprete), Michalis Katsaros (poeta greco), Sandra Sammali (esperta in management del turismo), Cristina Rugge (Presidente Fitetrec-ante Puglia), Beppe Sebaste (giornalista), Massimo Fersini (regista), Rosario Scrimieri (archistar), Romina Power (cantante, attrice, pittrice), Antonio Prete (poeta, scrittore), Rosy Trane (tecnico dell’ambiente), Donato Margarito (docente, critico letterario), Rossella Pulimeno (poetessa, editrice) e Toby Follett (documentarista).

Nel corso della serata si sarebbe dovuto proiettare il documentario “275 strada a senso unico”, girato da Caterina Vitiello e Davide Penzo, con la regia di Maurizio Pepe e prodotto da Movideo Productions Tv.

L’evento era stato organizzato dalla Libreria Idrusa (Alessano) in collaborazione con il “Comitato No 275” e l’Associazione culturale “Archès”.

 

Poi tutto è saltato. Ancora non si sa perché!

Rivoluzione contadina: “Vento freddo sull’Arneo”

 

campagna salentina (ph Fondazione TdO)
campagna salentina (ph Fondazione TdO)

di Francesco Greco

 

Misconosciuta, anzi, rimossa: dalla Storia, dalla memoria popolare, dall’immaginario collettivo. Ma siamo figli dei tempi e questo, che sembra un tempo senza speranza per i giovani,   può essere quello che annoda i fili della nostra Storia e illumina gli eventi che hanno costruito  la nostra identità.

   Anche il Salento ha avuto la sua Rivoluzione. Ne scrisse il sommo poeta Vittorio Bodini in un memorabile reportage per la rivista “Omnibus” (1951). L’inviata di “Noi Donne” invece fu scacciata. A quel tempo il giornalismo era serio, autorevole, decisivo (come si dimostrò poi al processo in Corte d’Assise a Lecce, con gli articoli letti dal pm della Procura di Trani Biagio Cotugno che forse puntellarono la sentenza di assoluzione perché non c’era il reato).

Non come oggi: sociologia, acqua fresca per comari da bar sport.   

   Qualche documentario in anni recenti. Tutto qui. Difetto di comunicazione si dirà. Damnatio memoriae evocata dalla scuola e l’intellighentia, diremo. E non per caso. Più si cancella il passato, più si asserve una comunità e la si può dominare spingendola su disvalori, contagiando i surrogati da cui è aggredita la quotidianità.  

   Eppure fu una Rivoluzione di popolo, che dovrebbe continuare a intrigare chi volesse scannerizzarla (come ha fatto Salvatore Coppola). Affascinato almeno da un elemento: la sovrapposizione semantica con la più celebrata Rivoluzione d’Ottobre. 1905-1917 quella russa. 1920-1947-1950 in Salento: invasione delle terre abbandonate (tra Fattizze, Case Arse e Carignano); 2.000-4.000 contadini e braccianti piantarono bandiere rosse e tricolori cucite dalle sarte dell’Arneo (Nardò, Veglie, Monteroni, Trepuzzi, Guagnano, Carmiano, Salice, Copertino, Leverano, Campi S.) e  cominciarono a dissodare e coltivare le terre: tanto che, primavera 1951, al processo, i contadini offrirono i frutti del lavoro: piselli, fave e altre delizie fresche.

   Una scena che a immaginarla fa venire i brividi. Mentre l’agrario Achille Tamborino, senatore, da Maglie, proprietario di quelle terre, va a dire, ammantandosi di ridicolo, che gli servivano per la caccia, e di non sapere esattamente i loro confini, e comunque non aveva avuto danni. 15 contadini furono condannati a un mese, col condono e la non iscrizione (art. 633, “chiunque invada arbitrariamente terre altrui al fine di trarre profitto”).

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   L’epopea fra il 28 dicembre 1950 e la primavera 1951 (ma le occupazioni erano iniziate nel 1947), è ricostruita con un respiro narrativo essenziale che trasfigura l’epos da Tina Aventaggiato in “Vento freddo sull’Arneo”, editore Loffredo, Napoli 2013, pp. 255. € 13.50 (collana “I Semi di Partenope”), con l’emozionante prefazione di Gianni Giannoccolo, testimone del tempo (“uomini e donne veri… di quell’esperienza poi è stata segnata la loro vita (…) in seguito ai duri anni di guerra si era radicalmente mutata la psicologia dei contadini”).

   La password usata oscilla fra la tragedia greca (Odissea su tutte) e la lotta dei comuneros (contadini con terre in comune) peruviani narrata dal grande Manuel Scorza. Pure qui una sovrapposizione metodologica: Scorza vagò per le Ande armato di magnetofono, la scrittrice nata in Grecìa (Castrignano dei Greci, vive a Poggiardo), ha recuperato dalla memoria le storie udite da piccola, dal padre soldato in Etiopia; storie che ha arricchito con le sapide tracce dell’affabulazione popolare d’oggi. Il tutto poi stemperato in un romanzo storico che attinge ai canoni del neorealismo e del verismo, che intreccia elementi oggettivi e documentali al vissuto quotidiano del Salento rurale, librandosi verso la poesia più pura quando contamina il racconto con i sentimenti e le storie d’amore dei personaggi: Pati e Cristina, Arcona e Yusuf prima, l’ebreo Isaiah poi, Vera e Aldo Specchia “lo scemo di guerra”. Incluso il thriller che tanto piace alla narratrice (“Abigail è tornata”, sempre con Loffredo, 2012): una vecchia colt della guerra d’Africa sparisce all’inizio e riappare in un muretto alla fine.     

   E dunque l’Arneo, cuore vivo del Salento, in lotta per il pane e la dignità. Figli di un dio minore, tornati dal fronte, scoprono che mentre loro combattevano, i padroni e i furbi si arricchivano col mercato nero. Non solo, ma anche che la legge della Repubblica che ovunque in Italia assegna le terre con l’enfiteusi, per loro non vale. La coscienza politica nata sui fronti dove hanno combattuto (guerra coloniale compresa) non li rende però più disposti a tollerare un mondo ingiusto, le disparità sociali, le esclusioni, la fame.

   Dove la scrittrice è insuperabile è nel tracciare la composizione di classe rigidissima in un feudalesimo cristallizzato e antistorico, sullo sfondo di un canovaccio pregno di etos, modulato sull’antropologia, la sociologia, il conflitto di classe. Al processo tentarono di incolpare i contadini di aver bruciato le loro stesse biciclette: tutto ciò che avevano per campare.

   Un’opera memorabile (“Arneide”), scritta in stato di grazia, che dovrebbe essere adottata nelle scuole per rafforzare identità vacillanti, puntellare memorie fragili, rafforzare radici esili. Il suo oblio è funzionale al dominio delle nostre menti. Se ci occupiamo di subcultura (Grande Fratello, talent, soap e spam vario), di vuoto feticismo, chiusi in casa, quando mai guarderemo alla nobiltà del passato per decodificarlo e cercare così di governare il nostro futuro? 

Progetto Turismo Rurale Salento. Da Londra al Salento in cerca della sua anima

Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)
Complesso di pajare con forno (foto nicola febbraro)

di Francesco Greco

 

I love Salento: da Londra in Puglia, dove il melting-pot è un archetipo. Incrocio e fusione di popoli, culture, affabulazioni, epopee, miti, straniante bellezza dove lo sguardo si posa. In cerca della sua anima profonda, sfuggente, le radici del passato, la memoria stratificata, i riti immutati nel tempo, le infinite contaminazioni che s’irradiano sull’antica terra dei Messapi, elfi e briganti, “cafoni” e formiche: un fiore dai mille petali.

Il giornalista inglese Patrick Darryson, world tourism directory, sulla rivista “Rural Tourism International” (sedi a Londra e Monaco di Baviera), mette in rete fascinosi percorsi del turismo rurale planetario (Olanda, Grecia, Spagna, ecc.) che parte dalle bellezze naturali per addentrarsi sulle tracce del passato, gli antichi percorsi, la cucina, le colture, l’architettura, i personaggi storici, miti e riti, ecc.

Londra è una capitale del mondo dove i trend nascono sin dal tempo di Oscar Wilde e s’irradiano al pianeta. Da anni va il business degli orti fuori città (a New York sulle terrazze dei palazzi, in Svezia le fattorie verticali e le città per maiali). Si affittano e si coltiva il cibo per la propria mensa, il resto sul mercato. Moda al top: orti non se ne trovano più. Questa tendenza, che identifica un ritorno al passato, quasi all’autarchia dei tempi di guerra, ne ha innestata un’altra: lo dice Jojo Tulloh in “The Modern Peasent”. Le famiglie riscoprono il piacere del pane fatto in casa, le confetture di frutta, le salse, ma anche i lavori artigianali sono trendy.

Un’idea della vita “nature”, prodotti a km zero, opposta alle sofisticazioni alimentari, i veleni nella terra, le resse ai centri commerciali, ecc. Che si trasfigura in un modello esistenziale alternativo a quelli del XXI secolo. Dopo una sosta in Valle d’Itria per un reportage, con la moglie, la ph Elizabeth Keiler che collabora a prestigiose agenzie mondiali, cercava una dimensione del turismo alternativa, più istintiva, umana, per avvicinarsi all’anima profonda di una terra antica colma di bellezza e tesori, ricca di essenze, aromi, armonie.

Sul sito www.pugliaholidays.it ha contattato il manager Pierluigi Damiani, che lo ha invitato a Finisterre per mostragli le facce del Salento arcaico, nascosto, contadino, autarchico, dove il tempo pare fermo in una dimensione sospesa, e tutto attinge alla memoria, le radici: dal sapore ritrovato delle interiora di agnello cotte alla brace, i “gnommareddhi” (copyright della Polis pagana), i “pezzetti” di carne di cavallo, le “pìttele” (frittelle cotte nell’olio d’oliva), ai “cummarazzi”, cetrioli indigeni coltivati dagli antenati sin dai tempi dei Messapi, che gli inglesi hanno gustato ospitati in una pajara (trullo a tolos, in altre zone del Salento caseddhri, lamie, liame) dalla famiglia Cosi, nei campi fra Morciano e Torre Vado.

4 giorni molto intensi: Damiani ha fatto da “cicerone” inventando un percorso che ha messo in rilievo il Salento del passato (la mitica “Centopietre”, la grotta “Cipuliane”, ecc.), dell’identità, la memoria, le radici, i sapori, gli odori, le essenze. Dopo la campagna dei Cosi, che a inizio estate emana una possente energia vitale e sorprende con i colori dei frutti che maturano (le dolcissime “culummare”, i fioroni), oltre a pomodori, peperoni, melanzane dell’orto cucinati alla maniera antica dalla signora Cosi col sottofondo delle cicale, i due inglesi dallo Jonio sono passati all’Adriatico, la terra sospesa fra Oriente e Occidente nel morbido abbraccio degli ulivi secolari.

Altri due giorni in una pajara alla “Vardiola” (Marina  di Corsano), ripide scogliere a strapiombo su un mare di cristallo da cui si vede nascere il sole, impregnata dall’odore del timo, la salvia, il rosmarino portati dal grecale unto di sale. Nei giorni d’inverno appare magicamente la costa albanese al confine con la Grecia (Saranda) e a sud l’isola di Fanos e Corfù. Il loro sguardo incontra l’antica rotta delle navi che in passato portavano olio, vino, grano, ecc. in un intenso interscambio.

“Gli inglesi – osserva il manager – si sono innamorati del luogo: la sera adoravano la frescura, guardavano le costellazioni e ascoltavano il rumore del mare in compagnia di una bottiglia di Negroamaro”. Al porticciolo di Novaglie, dai pescatori che pulivano e rammendavano le reti un regalo inatteso: una stella marina e una conchiglia rimaste impigliate. Incantati dal senso dell’ospitalità delle genti del “Capo”, come dai centri storici di Gagliano, Alessano e Specchia e dall’incantevole location di “Pozzo Pasulo” (Patù). “Avete gioielli che dovete far conoscere”, esclamavano i reporter. Curiosi, facevano domande su usanze, costumi, dialetti, personaggi, fatti storici, piante selvatiche, cibi, fiori, a cosa servivano le pajare e la tecnica di costruzione.

Must: una visita alla grotta delle “Cipuliane” (Porto Vecchio, Novaglie), a respirare la preistoria. I reperti in selci emersi negli scavi sono nei musei di Lecce e Firenze. E la sosta pregna dei sapori antichi in una trattoria tipica di Lucugnano e un’altra fra Patù e San Gregorio. Sorpresi dalle tipicità sopravvissute: la delizia della “scapece” (pesciolini marinati con aceto e zafferano), l’olio extravergine di Presicce (nell’Ottocento questo lampante illuminava le vie di New York), i “panari” di canne e “vinchi” di Acquarica, i cesti dei maestri di Morciano, ecc.

I reporter sono così diventati “testimonial” del Salento: torneranno in un tour con esperti di turismo rurale. Hanno svelato ai nostri occhi ciò che si sospettava: il turismo nel Salento è all’anno zero, impantanato fra sole e mare. Ignora, sottovaluta le potenzialità inespresse di chi vuole immergersi nel passato. Lo aveva scoperto anni fa “Le Quotidièn de Tourism” con  un’inchiesta: il Salento scarseggia di strutture ricettive: ne potrebbe avere molte di più per la morfologia territoriale. E’ vero anche per quello termale: le richieste per Santa Cesarea sono di gran lunga superiori all’offerta. Ciò provoca anche una questione di fidelizzazione: molto bassa.

E dire che potrebbe “coprire” la bassa stagione, dall’autunno alla primavera: mettere in rete masserie, trattorie tipiche, modulare percorsi fra pajare e muretti a secco. I turisti sono interessati alla raccolta delle ulive, la coltivazione delle patate, del grano e i cereali, i pomodori, le verdure, ecc. “Col progetto Turismo Rurale Salento – spiega Damiani – vogliamo valorizzare le testimonianze del passato, la vita, i valori, le tradizioni ampliando l’offerta del territorio. Cerchiamo collaborazione ma c’è una resistenza culturale degli imprenditori”. Uno scarto nel futuro che tocca, oltre a loro, alle istituzioni, in sinergia: ne saranno capaci?

Eternit, Nord e Sud uniti nella lotta all’amianto

Amianto

di Francesco Greco

 

Infido, silenzioso, sfuggente: quel fiocco di neve racchiude un algoritmo. Incuba per 10 anni, poi esplode a ritmo esponenziale, atrofizza i polmoni, soffoca la vittima sacrificale sull’ara di un modello di sviluppo criminale, perseguito da un capitalismo assassino, “avido” (Antonio Mariello, ex operaio Eternit, malato: “Viviamo con la paura addosso…”) da albori della rivoluzione industriale, quando bambini e cavalli diventavano ciechi scendendo nel cuore nero del mondo, le miniere di carbone.

Non è un caso che la Svizzera, pure erede di Calvino e Jean Ziegler, dopo tale lasso di tempo non riconosce come invalidante la malattia causata dall’amianto e scoraggia vertenze e richieste di indennizzi. “C’è del metodo nella follia”, direbbe Shakespeare. “Come i truffatori italiani, spesso manco i nostri pagano…”, riflette amaro Dieter Bachman, intellettuale svizzero con casa a Urbino.

Dicono che il minerale era noto al tempo di Cesare e anche nell’Impero si crepava al suo contatto. Se non è leggenda metropolitana è segno che 20 secoli sono passati e la vita dell’operaio dell’Urbe valeva quanto quella di Ippazio Chiarello da Corsano, “uomo di polvere”, il primo morto nel Capo di Leuca, 20 anni in Svizzera a lavorare le “ternitte”: lo ha ucciso nel 1990, a 55 anni, lasciando sola Assunta a crescere 3 figli: “Lavorava alla macchina macina-sale, da quella polvere faceva la pasta d’amianto e nel frattempo firmava la sua condanna a morte…”.

Poi i morti verranno da Alessano, Andrano, Tiggiano, Salve, ecc.: ondate di flussi migratori fra i ’60 e gli ’80. Fiocchi pregni di semantica, si trasfigurano in un’idea filosofica: la vita, il lavoro, la paga assimila la malattia e poi la morte, le incarna, si sovrappone, coincidono. E c’è una beffa allegorica anche nell’etimologia: asbestos significa candido, Eternit richiama l’indistruttibilità del materiale come dell’ultimo sigillo, la manciata di malta che chiude la lapide.

Ma i tempi cambiano: nuovi soggetti irrompono nell’agorà, portatori di altre percezioni, sensibilità, rivendicazioni di diritti naturali recuperano linfa, magistrati coraggiosi, gente che ci mette la faccia. Il web è il volàno: sparge contaminazioni a ogni angolo del mondo, rafforza coscienze. Oggi nessuno può dire: non sapevo, non mi hanno dato la parola. Il 13 febbraio 2012 la giustizia italiana (pur aggredita e relativizzata da anni) ha scritto una pagina gloriosa: gli industriali svizzeri dei fiocchi di neve assassini condannati a pene severe dal Tribunale di Torino: non potevano non sapere che i loro operai si ammalavano e morivano d’amianto (oltre 2000). Confermate dall’appello di giugno. Infranto il sillogismo vita-morte. Non si può morire per vivere. Vittoria storica per i lavoratori di tutto il mondo, i loro diritti, il primo: la vita.

Nelle stesse ore, il docu-film “Se solo i petali volassero-Amianto mai più” (su youtube il trailer) era premiato per la terza volta nelle rassegne cinematografiche di tutto il mondo e alla Mexapya Produktio (www.mexapya.net) i registi Isidoro Colluto, Donato Nuzzo e Fulvio Rifuggio, in post-produzione davano gli ultimi ritocchi a “L’Eterneide” (gli operai pugliesi dell’Eternit di Niederurnen), 1a nazionale a Castiglione d’Otranto, Stazione ferroviaria, dibattito condotto con passione civile dalla bellissima Tiziana Colluto (foto di Mario Monsellato).

I due lavori durano un’ora. Il primo nasce nell’autunno 2011, porta la firma di 28 studenti della IV F del Liceo delle Scienze Sociali “Laura Bassi”, Bologna, finanziato con cene, feste, un cd di musica folk (“Induo Band”): girato fra Bologna, Roma, Casale Monferrato: “Abbiamo conosciuto una donna che ha perso il marito, un fratello e una sorella”, dice Angelica Bucca. Aiutati dal prof. Roberto Guglielmi, dopo Casale M. (sentenza di primo grado), a Roma, al Senato: “Abbiamo chiesto a Felice Casson – spiega – perché lo scandalo dell’amianto assassino era esploso e i politici stavano zitti…”. Il senatore Pd ha incartato le loro 7 proposte (http://www.facebook.comAmiantoMaiPiu: sensibilizzazione sui rischi dell’amianto nella scuola e nella società, una rete nazionale di segnalazione, prevenzione, controllo del territorio, un numero verde per segnalare abbandoni, rimozioni abusive, ecc. e un  database per monitorare in tempo reale la bonifica, obbligo per le Regioni di realizzare discariche apposite, eliminare la differenza fra amianto in materia compatta e friabile, uno sportello comunale che informi sui servizi offerti, obbligo di auto-denuncia dei mca, manufatti contenenti amianto e del certificato di fabbricato), in un progetto di legge che affronta razionalmente la materia: 80mila tonnellate di amianto avvelenano il paesaggio e le nostre case, i costi dello smaltimento scoraggiano i cittadini: perché le istituzioni non se ne fanno carico?

Anche Bologna (OGR, Officine Grandi Riparazioni) ha pagato un prezzo ai fiocchi velenosi: circa 200 morti per patologie absesto-correlate. E mentre leggiamo nel mondo altri operai stanno morendo: solo 60 Paesi l’hanno messo al bando: India, Brasile, Cina, Canada indugiano. D’altronde, qui si è andati avanti sino all’esaurimento scorte (1998): è il profitto, bellezza! Il documentario dei cineasti pugliesi dà voce ai protagonisti, fra Svizzera e Puglia, ma anche a un oncologo, a Bruno Pesce (portavoce Associazione vittime di Casale M.), Raffaele Guariniello procuratore capo di Torino. Lo stile è quello essenziale, rapsodico dei documentaristi inglesi, tedeschi, francesi (noi non abbiamo grandi tradizioni: moralisti e servili, ci parliamo addosso). Denuncia, realismo crudo, a tratti aspro, scorre sulla forza della parola. Autofinanziato col crownfunding: “Le produzioni dal basso – dicono i registi – garantiscono maggiore libertà d’espressione”. Sarà portato nel mondo: Bari (Fiera del Levante), Napoli, Svizzera, Brasile, ecc. Come dire: Nord e Sud del mondo uniti nella lotta all’amianto.

 

 

Storia di guerra e passione nel Salento rurale

giorgio cretì
Giorgio Cretì

di Francesco Greco

 

Nel Salento rurale dell’altro secolo, mentre sullo sfondo incombe la guerra di Libia, nel minuscolo universo che era la masseria si intreccia una storia d’amore e di miseria, di uomini consumati dal lavoro della terra e dalle passioni. Tripoli, bel suolo d’amore, richiama nel deserto la meglio gioventù. Alla masseria a sud di Otranto, fra Santa Cesarea e Ortelle, c’è anche Pasquale, che ha messo gravida la bella Maria, detta Ia, la figlia di Peppino “Parmatiu” ormai “valagna” (in età fertile). Non resta che organizzare una fuga d’amore per gettare fumo negli occhi della gente e salvare la faccia. Pasquale e Ia se ne vanno in una pajara (trullo a tolos).

E’ l’incipit di “Poppiti”, romanzo che lo scrittore salentino Giorgio Cretì (nato a Ortelle nel 1933, è morto a gennaio scorso, laureato in Scienze Politiche, ha vissuto a Pavia) pubblicò con “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano nel 1996 e che la scrittrice Raffaella Verdesca e il regista Paolo Rausa hanno adattato come testo teatrale in quattro atti, esaltando il pathos di una storia in cui compaiono molti archetipi della cultura meridiana, dinamiche sociali, rapporti famigliari e interpersonali, usi e costumi, spiritualità, sessualità, ecc.

Il tutto calato nella magia della campagna salentina, fra erbe e malerbe, con la natura dotata di un suo struggente carisma, elevata a elemento portante della narrazione. Sintetizzato, scarnificato, colto nella sua nuda, solare essenzialità, il testo risulta si può assimilare al Neorealismo letterario (verghiano) e cinematografico (De Sica), pregno di una energia e una vitalità da leggere come transfert e prosecuzione di quelle in di cui è pregna una terra selvaggia, un popolo onesto e fiero, scosso dal vento del desiderio, delle passioni (politica, civile, sessuale) che tende alla tragedia (dna magnogreco), una cultura che si regge sull’agorà dei sentimenti, una civiltà con la “c” maiuscola di cui s’indovina tuttoggi lo splendore. Pasquale parte “per conquistare l’Africa”, Ia resta col bimbo da svezzare. Il marito è fatto prigioniero e per mesi non dà sue notizie. Sindaco e speziale non sanno dire niente di più sulla sua sorte. La ragazza soffre la solitudine, “non sono da buttare, che scema!”. Potrebbe avere tutti gli uomini delle masserie, ma a guardarla con desiderio è il vecchio suocero: “Tu mi piaci ragazza e… non come figlia”. “Io sono la moglie di Pasquale, tuo figlio, non dimenticartelo!”.

Quando questi fa ritorno dalla Libia, trova la situazione che meno si sarebbe aspettato. Dopo essera andato a un funerale “nero come l’angoscia che mi porto dentro”: non gli resta che emigrare: “Bandirò dai miei occhi e dai miei pensieri questa terra… Andrò a coltivarne un’altra lontana, quella che con il sangue abbiamo conquistato in Libia, e mia moglie e mio figlio verranno con me a iniziare una nuova vita”.

Dopo la prima a Poggiardo, a casa Rausa (la dimora del grande poeta Fernando Rausa, “Terra mara e nicchiarica”), la compagnia “Ora in scena!” porterà in autunno lo spettacolo a Ortelle, nel contesto di un progetto di valorizzazione dell’opera dello scrittore di Ortelle voluto dal sindaco del paese.

Sono previste anche altre tappe. Pasquale, Rocco, Dorotea, Ia, Cirina, Crocefissa, massaro Rosario e Peppino Parmatiu sono interpretati da Michele Bovino, Florinda Caroppo, Luigi Cazzato, Norina Stincone, Francesco Greco, Maria Orsi, Rosaria Pasca, Tiziana Montinari. Musiche di Pasquale Quaranta (P40) e Lucia Minutello.

 

Emigrazione, la nipote di Nicola Sacco a Specchia

emigrati

 

di Francesco Greco

 

Sarà Fernanda Sacco l’ospite d’onore alla 13ma edizione della Festa degli Emigranti di ieri e oggi di Specchia Preti (Lecce), organizzata dall’Associazione Italiani nel Mondo (presieduta dall’ex emigrante in Svizzera Fernando Villani) in programma il 9 e 10 agosto nella location incantevole di Piazza del Popolo. Si tratta dell’ultima discendente dell’emigrante anarchico pugliese (di Torremaggiore, Foggia), che il 23 agosto 1927 fu giustiziato sulla sedia elettrica negli Usa (a Boston) insieme a Bartolomeo Vanzetti, che invece era piemontese, di Villafalletto (Cuneo). Sulla loro storia di passione politica scrisse una celebre canzone la folk-singer americana Joan Beaz, “La ballata di Nick and Burt” e fu anche girato un film di successo.

Una storia di emigrazione e militanza politica nell’altro secolo che culminò appunto con l’accusa di spionaggio e l’esecuzione. Sacco e Vanzetti furono “riabilitati” solo mezzo secolo dopo (nel 1977). La nipote dell’anachico pugliese (che sul celebre nonno ha scritto un libro) sarà ricevuta in municipio la mattina del 9 agosto alle ore 11 dal sindaco del paese Antonio Biasco. Saranno presenti altre personalità politiche, fra cui il sindaco di Torremaggiore, Costanzo Di Iorio, il primo cittadino di Villafalletto, Ilio Piana, il presidente della Provincia di Lecce Antonio Maria Gabellone, l’assessore regionale Elena Gentile, il vicepresidente del Consiglio Generale dei Pugliesi nel Mondo Gianni Mariella, la presidente del Consolato dei Maestri del Lavoro di Lecce Silvana Malvarosa, il sindaco di Casarano Gianni Stefàno.

La festa è cominciata martedì scorso alla Villa Comunale, dove è stato scoperto il Monumento all’Emigrante, opera dell’artista Giovanni Scupola, realizzata in marmo di Carrara nella “Fonderia Michele Mangiafico” di Modugno (Bari). I bozzetti sono sparsi per il mondo: sono presenti al Senato della Repubblica, alla Camera dei Deputati, a Zurigo, ecc. Dopo la visita di Fernanda Sacco in municipio, la Festa continuerà con la celebrazione della Santa Messa officiata da Monsignor Vito Angiuli, vescovo della Diocesi Ugento-Santa Maria di Leuca. La liturgia sarà animata dal coro “La voce degli angeli” della parrocchia “Presentazione della Vergine Maria” diretto dal m° Deborah De Blasi. Dopo i saluti e gli interventi degli oratori, deposizione della corona di fiori ai piedi del Monumento del Sacrificio del Lavoro italiano nel Mondo alla Villa Comunale. Partecipa il Concerto musicale di Specchia “Giacomo Puccini”. Alle ore 22 concerto dei “Coribanti”, gruppo di musica popolare (pizzica) del Salento che si caratterizza per il profondo rispetto verso il patrimonio musicale e culturale della tradizione più autentica e allo stesso tempo per la ricchezza di sonorità e di energia creativa.

Il 10 agosto il programma della festa prevede un altro dibattito dove interverranno, oltre a Fernando Villani, l’assessore alla Cultura del Comuen di Specchia Giampiero Pizza e il consigliere della Provincia di Lecce con delega alla pubblica istruzione Antonio Del Vino. A seguire il concerto della banda “Giacomo Puccini” e del m° Antonio Pepe, vincitore di un’edizione della “Corrida” condotta da Gerry Scotti qualche anno fa.

L’8 agosto di ogni anno si commemora la Giornata Nazionale del Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo. Le due serate saranno presentate da Francesca Ruppi. Oltre a Specchia, altre associazioni di emigranti sono presenti nel Salento: a Tuglie, Matino, Casarano (Museo del Minatore fondato dal compianto Lucio Parrotto), Corsano, Presicce, Sogliano Cavour, Nardò, ecc. La manifestazione ha il patrocinio di Regione Puglia, Provincia di Lecce, Comune di Specchia, Associazione Nazionale Comuni Italiani, Puglia Confederazione Elvetica, Regno del Belgio, Bundesrepublik Deutschland.

 

Dalle strade del mondo in Salento, “a Cappello”

di Francesco Greco

A cappello 2

L’arte di strada nasce con l’uomo. Quando un bambino di Atene si mise a fare capriole nell’agorà, un altro a giocare col “curuddhru” (cerchio) nelle piazze dell’Urbe, un altro ancora si dipinse in fronte il terzo occhio a Calcutta. Nei millenni questa arte povera ha attraversato le favelas, il barrio, le bidonville, i suk di ogni meridiano e paralello. Per giungere sino a noi conservando intatte la capacità di emozionare e stupire.

E’ la forma d’arte più vera e immediata, senza accademia, business, manager. Nessuna lacerazione semantica: l’arte per l’arte, allo stato puro, restituita alla primitiva etimologia. Non deve cercare il pubblico con le astuzie del marketing, soggiogandolo con la falsità dei moderni incantatori di serpenti, subdoli messaggi subliminali: ma lo trova dove decide che val la pena fermarsi e, col passaparola, convocare ogni artista che vuol mostrare al mondo la sua abilità.

L’idea di arte di strada si associa subito al mangiafuoco di Piazza Navona, l’illusionista indiano a Piazza di Spagna, il violinista all’angolo di piazza San Venceslao, l’omino delle bolle di sapone a Montmartre. Non costa niente, solo qualche “monetina, monetina!”, o “monetona!”, come dice sorridendo la ragazza che col cappello fa il giro del cerchio degli spettatori. Da qui questa forma d’arte nobile, sublime, poetica ha preso il nome di “A Cappello”.

A Cappello 3

Anche quest’anno il Carro di Tespi sbarca in Salento col suo carico di stupori e meraviglie. Gli artisti provengono da tutto il mondo e si sono dati appuntamento a Gagliano del Capo (nel Leccese, a due passi dal mare da sogno di Santa Maria di Leuca) per celebrare la Va edizione di “A Cappello” (Festival dell’Arte di Strada) il 17 e 18 agosto nel dedalo di vicoli tra Palazzo Ciardo, Palazzo Daniele e la chiesa di San Rocco (il protettore, festeggiato in quei giorni).

“Se la modernità è per voi una forma di eccezione – dice Matteo Greco (info: 329-4433924) – se amate solo le storie che vi portano lontano, se cercate nel profondo lo stupore, trasferitevi tutti a Gagliano, perché quest’anno il festival raddoppia il suo carico di meraviglia…”. E infatti Gagliano si veste di cosmopolitismo: con gli artisti in arrivo da tutto il mondo diventa una babele di lingue, popoli, etnie, intreccia arazzi di culture, arabeschi di vissuti, tesse le trame delle esperienze più varie. Per donare a grandi e piccoli allegria e stupore, emozioni intrecciate con la materia dei sogni, performance che incantano grandi e piccoli. “Due serate – aggiunge Greco– di performance e attrazioni con artisti di calibro internazionale che mostreranno al pubblico. Gli incroci si fanno musicali, le piazze diventano quelle di tutto il mondo e portano canzoni dall’Irlanda, l’America, le isole tropicali. E alla fine della notte si sale in mongolfiera…”.

Ecco gli artisti dell’evento: Alberto Cacopardi, “Et nunc” (spettacolo di teatro, danza e acrobazia scenografica); Delia De Marco e Valentina Elia, “Rotolandia” (attraversano le strade del paese in un folle viaggio sopra i materassi); Monsieur Cocò (promette grandi prove di fachirismo); il Grande Lebuski (sfreccia spericolato per le piazze sulla sua microbicicletta); i Los Minchios, gruppo cult messican-pugliesi doc (interpellano grandi e piccoli con le loro clownerie musicali); i corti cinematografici di Scratch (Festival internazionale di animazione); le storie cantate tratte dal repertorio popolare di Elisabetta Mazzullo e Evarossella Biolo; le magie di Robertino; la parata dei Galli trampolieri; il lancio delle mongolfiere di El Globo de Papel; le divagazioni comiche sul potere di Don Corleone; da Milano i Portugnol Connection, gruppo patchanka (liriche in italiano, spagnolo, francese, portoghese): autentico meltingpot musicale; da Taranto gli El Folk con la loro ossessiva musica irlandese; da Firenze, guest star, i Martinicca Boison che col folk elegante hanno incantato il pubblico italiano e dei Paesi del Mediterraneo: “Le canzoni del Trimarano”, terzo lavoro, ha scalato le classifiche delle radio indipendenti. E dunque, che la festa cominci, e che grandi e piccoli facciano “ooh!” spalancando gli occhi per lo stupore…

Cristiana Verardo. Piccole cantautrici crescono a Sud-Est

cristiana verardo

Verona, Cristiana Verardo vince il “Premio Beatrice”

di Francesco Greco

 

Sto cercando le parole… Raccontami di com’è difficile volare… Fino all’ultimo sole…“. Parole e musica di Cristiana Verardo.

Segniamoci questo nome, ne sentiremo parlare nei prossimi anni. Ha la musica nel sangue, trasfigurata in una mission esistenziale. Quel che si dice: un segno del destino. Piccole cantautrici crescono a Sud-Est.

Aveva  solo 4 anni quando si presentò al primo concorso cantando “Fatti mandare dalla mamma”, cover di Gianni Morandi. Da allora la sua vita si è snodata su due binari: lo studio serio e le manifestazioni canore in ogni angolo d’Italia, da cui quasi sempre torna vittoriosa.

A 10 anni comincia a studiare chitarra e a scrivere canzoni che piacciono ovunque dove le presenta. Ultimi riconoscimenti: 2011, al premio “Note d’estate” (presidente di giuria Diego Calvetti) con il brano “Anche domani”. Stesso anno: al “Summer Festival”, con “Firmato Eva”, premiata da Marcello Balestra, direttore artistico della Warner Music Italy, che poi l’ha invitata, con la band, a eseguire le sue canzoni negli studi milanesi di “Massive Art”.

Luglio 2012: a “Notte di note” vince con “Ma quel sempre ormai dov’è?” e si aggiudica la registrazione di un disco. Stesso anno: è seconda, premiata dalla critica a “Dream’s Note” (presidente di giuria Luca Matteoni, produttore di Renato Zero, Paolo Meneguzzi, Valerio Scanu, ecc.).

Cristiana è nata 22 anni fa a Poggiardo (Lecce), ed è figlia d’arte: la madre Cinzia Carluccio è attrice teatrale (Compagnia “Ora in scena!”, Milano-Poggiardo, fondata dal regista Paolo Rausa). Con “Credo ancora nell’amore” ha vinto il “Premio Beatrice” e l’8 giugno, a Verona, andrà a ritirarlo alla serata conclusiva di questa seconda edizione: la accompagnerà al pianoforte un altro talento emergente pugliese, Daniele Vitali (in foto, è nato fa a Gagliano del Capo, Lecce, 22 anni fa).

Di cosa parla la canzone? “E’ un messaggio di speranza – spiega la cantautrice  – nonostante la realtà ci porti a non essere fiduciosi nei confronti della vita, io voglio ancora credere nell’amore e che anche gli altri nutrano la stessa speranza”. La manifestazione si svolgerà a due passi della celebre Arena, l’Auditorium “Gran Guardia” e ai vincitori di ogni categoria, oltre al trofeo, sarà assegnato un premio di 1000 €. Nasce da un’idea di Rino Davoli ed è organizzata dall’Associazione onlus “Il sorriso di Beatrice” che raccoglie fondi in aiuto dei malati oncologici. Ci saranno Alexia, Paolo Vallesi, Dalila Di Prima (dal talent di Canale 5 “Io canto”), una rappresentanza dei ragazzi di “Ti lascio una canzone” (Rai1).

Manifestazione in collaborazione con Gruppo Carboni-Adv, Radio Bella&Monella, Radio Birikina, Festivalshow e Ufficio Scolastico Provinciale XII di Verona. Patrocinio di Regione Veneto, Comune e Provincia di Verona, Federazione Italiana Associazioni di volontariato in Oncologia, promosso da Uil Verona e patronato Ital nazionale. Si rivolge ai giovani talenti che hanno mandato progetti d’ogni tipo: foto, video, musica, danza, ecc., sempre con l’obiettivo di promuovere la cultura della solidarietà in ogni ambito.

Riceveranno un premio speciale Mia Milan (Roma) e Brooke Borg (New Malden-Surrey, Gran Bretagna), mentre per la categoria danza vincitori sono “Le ali della danza” e per “Scatti, video, pittura e scultura” saranno premiati i ragazzi di “Dietro l’angolo”.

La cantautrice di Terra d’Otranto intanto continua a studiare: è al III anno di canto jazz al Conservatorio “Nino Rota” di Monopoli, allieva di Gianni Lenoci (composizione, tecnica dell’improvvisazione) e Gianna Montecalvo (canto jazz). Lavora con passione su vari progetti. Gli ultimi: un jazz trio (contrabbasso, piano e voce) al femminile, “Les Passantes” (citazione della canzone del cantautore francese George Brassens) e “Lucilla”, band che suona le sue canzoni. Non male per avere solo 22 anni! “Raccontami di com’è difficile volare…”.

Ma Cristiana vola…  “Fino all’ultimo sole…”.

Salgado a Roma, la sua “Genesi” vista da Resci

di Francesco Greco

 

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Un maestro assoluto della Fotografia contemporanea visto da Giuseppe Resci, maestro “work in progress”. Sebastião Salgado a Roma per la terza volta (all’Ara Pacis, sino al 15 settembre, poi sarà anche a Londra, Toronto e Rio de Janeiro). “Roma mi ama –sorride il fotografo brasiliano – e anche io la amo…”.

250 foto suddivise in 5 sezioni. Titolo: “Genesi”. Un lungo viaggio nel 46% del pianeta rimasto intatto (dall’Antartico all’Amazzonia), dove il nostro mondo appare com’era alle origini. Salgado esplora le radici di questo Paradiso dandone una lettura polisemica: distanze sconfinate e abbaglianti, varietà vegetali, popolazioni umane e animali, vulcani e ghiacciai, la luce e l’ombra, i silenzi densi di allegorie dettati dai quattro elementi della Natura nelle infinite facce, spettacolari e di grande tensione emotiva, dilatata sino alla poesia pura.

Salgado osa sino a scarnificare, denudare gli archetipi catturandone l’anima più arcaica. Attenti! – pare dire però con l’immenso amore per l’Universo e per l’Uomo che nutre attraverso la sua Arte – questo “mondo nuovo” che ho incontrato può essere devastato da un modello di sviluppo aggressivo e suicida, l’incanto resettato e la bellezza potrà svanire per sempre. Ma come vede questo gigante Giuseppe Resci, fotografo professionista, che ha appena visto la mostra?

 

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   Domanda: E’ appropriato considerare Salgado uno dei più grandi fotografi d’ogni tempo, da Robert Capa a Helmut Newton?

Risposta: “Assolutamente sì, è una delle stelle più luminose di quel firmamento.

Già nel 1979 entra a far parte della celeberrima agenzia Magnum Photos, la stessa galassia nella quale brillano stelle come Henry Cartier-Bresson e Steve Mc Curry ma, ancora prima (1975), entra prepotentemente alla Sygma con il reportage sulla rivoluzione portoghese. Oggi gestisce la prestigiosa Amazonas Images, un gioiello autonomo, tutto suo, dedicato ai suoi progetti e alla sua opera. Inoltre, non si limita a lanciare un singolo messaggio, come Newton, che si è essenzialmente concentrato sulla donna, o meglio, sul potere della donna.Oppure Cartier – Bresson, considerato “l’Angelo del bizzarro”, o Robert Capa, che ha sviscerato le dinamiche e i volti della guerra”.

D. Come definirebbe il suo modo di fotografare?

R. “Credo sia riduttivo descriverlo come fotografo documentarista o reporter. Si capisce subito che è, prima di tutto, un fervente filantropo, paladino dei diritti dell’ Umanità, capace di sforzi eroici che non si fermano davanti al dolore, al disagio sociale o a situazioni oggettivamente complesse, anche estreme. Possiede la virtù di saper rappresentare il soggetto attraverso un’immagine potente, che trabocca di bellezza, grazia, equilibrio, eleganza e raffinatezza compositiva. Poco conta che lo scatto catturi un dramma piuttosto che una meraviglia della natura, il risultato è sempre lo stesso: si resta senza fiato… Provo a fare un esempio, in apparenza esagerato, di un’altra virtù simile che riguarda il Caravaggio: se osserviamo la Conversione di San Paolo, notiamo che il Santo non è canonicamente collocato al centro del dipinto, ma per terra, in una stalla sporca e poco illuminata; il cavallo, invece, riempie il resto della tela, gli passa sopra lentamente guardandolo per evitare di ferirlo. Decisamente insolito per i suoi tempi, insolito anche oggi, eppure sfido qualunque osservatore a non aggettivare le proprie percezioni al riguardo se non in nome della bellezza pura e semplice. Gli stessi sentimenti si provano davanti ad un’opera di Salgado”.

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D. E’ quindi evidente che sappia cogliere gli aspetti essenziali di un luogo, l’essere umano, una terra, per poi fissarla sulla pellicola…

R. “Prepotentemente evidente, direi. Ogni fotografo degno di tale appellativo sa che, in un determinato luogo bisogna cercare il ‘Genius loci’ e che, in una certa situazione, è necessario ‘cogliere l’attimo’ per scrivere un messaggio usando la luce. Del resto, faceva e fa ancora scuola Alfred Stieglitz, che auspicava di poter ‘…riuscire a trasmettere quello che vidi e sentii…”. Salgado, però, fa di più: concepisce e pianifica meticolosamente progetti ambiziosi, che richiedono anni di viaggio per lo sviluppo, continua a documentarsi anche durante la fase esecutiva, a prescindere che si tratti di un reportage di impronta umanitaria o tematiche di maggior respiro. Corona la conclusione di questi sforzi con colossali, pregevoli pubblicazioni di libri da centinaia di pagine, tradotte poi in almeno sei lingue e accompagnate da mostre nei più grandi, prestigiosi musei del mondo, percepite e attese come veri e propri grandi eventi”.

D. Cosa spinge un fotografo ad avventurarsi nei continenti del pianeta?

R. “La propria missione. Salgado si muove e opera per l’Umanità. Basti ricordare i suoi antecedenti scatti nella miniera d’oro della Serra Pelada, in Brasile, frutto di una ricerca volta a documentare lo sfruttamento e l’abuso dei diritti umani dei lavoratori, o meglio, schiavi. Migliaia di loro vengono raffigurati in gigantesche e polverose cave, arrampicati su una moltitudine di scale rozze, con una potenza narrativa che solo Gustavo Dorè riusciva a rendere nelle celebri incisioni, quando realizzava gli scenari dei gironi danteschi. Nel caso di questa mostra cullata nella solennità dell’Ara Pacis, prima tappa delle altre otto previste nel resto del mondo, vuol farci vedere in tutta la sua magnificenza un mondo che noi non conosciamo: quel 46% del Pianeta rimasto ancora intatto perché non contaminato dagli Esseri Umani. All’Umanità un solenne monito, quindi, lanciato dalla bellezza stessa del Pianeta Terra, passata attraverso il suo obbiettivo. 250 scatti-capolavoro di grande formato che narrano di altrettanti capolavori della Natura integra, una Natura che non immaginiamo nemmeno più, ma che siamo pronti a profanare e distruggere in modo sistematico, irrimediabile. Mi spiace, ma credo che nessun visitatore possa mai riferire con la parola cosa si provi dopo aver visto il Paradiso Terrestre. Posso solo assicurare che, su di me, il monito ha funzionato in modo fulmineo, quasi violento… Una mostra può essere insignificante, brutta o bella. Questa è davvero fantastica e ti cambia dentro. Dopo averla vista, posso dire che guardo la Natura con occhi diversi. E’ curata in modo ineccepibile dalla moglie, Lélia Wanich Salgado, fedele collaboratrice anche per questa splendida realizzazione. Sono stati necessari ben 8 anni di viaggio nei 5 continenti per regalarci tanta Arte”.

D. Come mai Salgado è fedele a una tecnica fotografica originaria e rifiuta le nuove tecnologie digitali?

R. “Per tre buoni motivi: usa corpo macchina e lenti Leica, padroneggia la tecnica di ripresa e di stampa e ossequia con rigore le regole della Fotografia: in primis quelle dettate dal sistema zonale di Ansel Adams. In aggiunta, impreziosisce la resa dei toni in fase di stampa, applicando con un pennello uno sbiancante sulle ombre troppo intense. Credo sia questo tocco finale che aggiunge ciò che definisco ‘il terzo elemento’ al suo bianco e nero: una gradevolissima tonalità argento (vedi foto), quasi cromo che, in sinergia con la gestione magistrale del contrasto, dona alle immagini grande profondità. Ne deriva un effetto di tridimensionalità impressionante: ammirando una sua stampa, ci si sente davvero proiettati all’interno dello scenario, da protagonisti. Con queste capacità connaturate, non vedo perché dovrebbe ridursi a gestire gli algoritmi del digitale. Sarà curioso, ma i pochi fotografi ancora fedeli alla fotografia analogica spesso operano con strumentazione Leica. Con il dovuto rispetto per ogni altro brand sul mercato, posso dire, avendone usata una, che la differenza che intercorre tra un’immagine che ha attraversato un obbiettivo Leica, piuttosto che un altro, è la stessa che passa tra lo champagne e una bibita gasata. Basta usare una compatta digitale giapponese – che monta gruppi ottici Leica – per avere indizi molto seri su quello che sto dicendo. Cartier-Bresson sosteneva che una foto si fa con il cuore, la tecnica e il cervello. Parole sacrosante. E’ però anche vero che, se un violino Stradivari capita – per fortunata circostanza – nelle mani di Uto Ughi, il risultato finale è che si resta basiti”.

D. Perché Salgado privilegia il bianco e nero?

R. “La prerogativa del bianco e nero è la sintesi e Salgado se ne avvale pienamente potenziando il risultato finale.Ogni sua Opera, per quanto concettualmente semplice e fruibile da chiunque, rappresenta un insieme variegato di contenuti profondi e toccanti. Bisogna considerare che la variabile del colore, anche quando scaturisce da un buon management, richiede pur sempre un’analisi aggiuntiva da parte dell’osservatore e i suoi scatti non ne hanno assolutamente bisogno. Proprio come non ha mai avuto bisogno di alcuna analisi complementare la scultura classica del Bernini”.

 

 

Sebastião Salgado è nato l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile.

Vive a Parigi. Dopo studi di Economia, Salgado ha cominciato la sua carriera come fotografo professionista nel 1973 a Parigi, lavorando con le agenzie fotografiche Sygma, Gamma e Magnum Photos fino a quando, nel 1994, insieme a Lélia Wanick Salgado, ha fondato Amazonas images, un’agenzia creata esclusivamente per il suo lavoro.

Ha viaggiato in oltre 100 paesi per realizzare i suoi progetti fotografici. Molti di questi, oltre ad apparire in diverse pubblicazioni sulle riviste internazionali, sono stati raccolti in libri come Other Americas (1986), Sahel: l’homme en détresse (1986), Sahel: el fin del camino (1988), La Mano dell’uomo (1993), Terra (1997), IN cammino e Ritratti (2000), Africa (2007).

 

Salento, è festa grande con la “Bohème” della Stajano

di Francesco Greco
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Salento in festa dal 16 al 23 aprile (dalle ore 19 alle ore 24, in contrada Est Bavota) con la manifestazione musicale “Messapia in….rondine” che si svolge a Parabita (Lecce), la città delle celebri “Veneri” e il cui Comitato Organizzatore è presieduto dall’avv. Mario Nicoletti, personaggio molto noto in Salento ed extra-moenia.
Questo evento è considerato la festa di primavera di tutta la Murgia Salentina e cade nel periodo della secolare e tradizionale Festa della Madonna della Coltura, protettrice di tutti gli agricoltori, riconosciuta come tale da Giovanni Paolo II nel settembre del 1994, che così rafforzò un culto da secoli è molto sentito dalla popolazione di tutta l’area attorno alla mitica città messapica di Bavota.
   Il programma messo in cantiere prevede l’esibizione delle bande musicali di Conversano (Bari) e di Squinzano (Lecce), delll’Orchestra Filarmonica  “Valente” con la direzione del Maestro Salvatore Valente.
Ma a impreziosire questa edizione sarà la grande musica, il bel canto. La sera del 20 a Parabita arriva infatti la “Bohème”, l’opera immortale di Giacomo Puccini, portata dalla Compagnia Lirica “Mondo d’Arte” del tenore Davide Olivoni, che firma anche la regia.
davide olivoni
La “gemma” della serata sarà la guest-star Francesca Stajano (in foto), attrice cinematografica e televisiva, produttrice, di origine leccese: una personalità artistica eclettica e multiforme, un talento naturale, quel che si dice “un’eccellenza di Puglia”.
   “Mondo d’Arte” vede la luce nel 2006, quando Olivoni ebbe l’occasione di presentare al teatro “Ambra” di Poggio a Caiano (Grosseto) la sua prima opera lirica, un testo del teatro classico, “La statua” (ovvero le donne di Pigmalione), di George Bernard Show. Da allora è stato un crescendo di proposte e di spettacoli nei teatri di tutta Italia (dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dalla Calabria al Piemonte) con un vasto repertorio di opere della nostra sconfinata e raffinata tradizione lirica: oltre all’opera pucciniana, “Elisir d’amore” di Gaetano Donizetti, la “Traviata” di Giuseppe Verdi, i “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, sono solo alcuni dei successi da “tutto esaurito” di Olivoni e Stajano, una diva molto amata dal pubblico che la segue ovunque in tutte le “piazze”.
   A Parabita sarà la “Bohème” che piace al pubblico sin dal 2007, conforme all’originale: un allestimento che vedrà in scena i cantanti principali e altre figurazioni attoriali. “L’ambientazione scenica e costumistica sarà contemporanea, perché – fanno sapere dalla produzione – l’argomento dell’opera è attualissimo: la povertà degli artisti, e l’indistruttibilità dei loro sogni, sono sempre esistiti e continuano a esistere”. E, c’è da aggiungere, non c’è crisi né recessione che tenga: esistono sin dalle corifee ateniesi e le tragedie greche, passando per il Carro di Tespi sino alla polvere del palcoscenico dei teatri d’avanguardia, da Brecht a Beckett e Jonesco.
yuri yoshikawa
yuri yoshikawa
   I cantanti, oltre allo stesso Olivoni (“Rodolfo”), sono Yuri Yoshikawa nel ruolo di “Mimì”, Merita Dileo è “Musetta”, Stefano Lovato (“Marcello”) Stefano Madeddu (“Alcindoro”), Francesca Stajano (“Momus” e coro).
staiano
E non finisce qui: questa edizione della festa della Madonna della Coltura si annuncia memorabile, ricordata a futura memoria: nelle serate del 21 e 23 avranno luogo infatti anche due concerti lirici, presentati da Francesca Stajano, eseguiti sempre dai cantanti della Compagnia Lirica “Mondo d’Arte”. In programma arie e duetti tratti dalle opere liriche più conosciute e più amate da secoli dal pubblico di tutto il mondo: Verdi, Donizetti, Leoncavallo, Mozart, Puccini, Mascagni, Giordano, ecc.
   E’ proprio il caso di dire: è qui la festa! Sipario!

Poggiardo. Quei “volti di carta” emergono quieti dal Novecento

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ph Antonio Chiarello

di Francesco Greco

Quei “volti di carta” emergono quieti dal Novecento, da un passato perduto, ma non nei valori che invece sono immortali. Arrivano a noi, nell’epoca dell’hashtag, con dolcezza, ma anche la grande forza dialettica del loro vissuto. E ci raccontano storie che oggi che la trasmissione della memoria è soffocata dalla perfida gramigna della tv-spazzatura e dai suoi squallidi mèntori, mestatori di un feticismo che si trasfigura in patologia della contemporaneità. “Guai se li dimenticassimo, se non attribuissimo a queste storie la giusta considerazione: a quelle donne dobbiamo tutto…”, ammonisce il regista Paolo Rausa: è nato a Poggiardo (Lecce) ma vive a Milano.

Un 8 marzo modulato sul filo della memoria quello che ha avuto luogo a Poggiardo (Palazzo della Cultura) davanti a un pubblico in prevalenza femminile, coinvolto, emozionato. La compagnia teatrale “In Scena!” ha riproposto “Volti delle donne di un tempo”, liberamente tratto da “Volti di carta” (Storie di donne del Salento che fu), dalla scrittrice salentina (nata a Copertino, nel Leccese, vive in Calabria, ha casa a Roma) Raffaella Verdesca, che presenzia sempre alle rappresentazioni del suo testo in cui è riuscita a catturare l’anima segreta di un tempo….

La sua gallery di donna è un “caso” editoriale: grazie anche alle presentazioni qua e là il libro, pur edito da una piccola casa editrice, la “Albatros”, vende senza tregua. E a ogni replica, le emozioni si rinnovano, anzi, si moltiplicano, come sempre accade quando c’è sintonia fra un testo e chi lo assimila e lo propone, all’insegna della poesia con la “p” maiuscola. La narratrice irrompe in scena, apra la sua enorme valigia colma di foto in bianco e nero: il vento le sparge nell’aria, cadono qua e là… E le storie delle sei donne-archetipo prendono vita. Vincenzina è quinta di dodici figli, la chiamano “la Moretta”, ha la pelle bruna e i capelli scuri “come una spremuta di uva nera”. “La prima cosa che ho imparato nella vita è di crescere alla svelta…”. Infatti la madre la chiama alle 3 perché deve andare a lavorare alla “frabbica”(così nel “secolo breve” chiamavano i magazzini dove si lavorava il tabacco selezionando le foglie: Perustiza, Erzegovina, Xanti-Iaca…

Portata dalle note grike intrise di nostalgia dovuta alla lontananza di “Encardia andra mou paei” (Franco Corlianò), arriva Nunziata: è una “vedova bianca”, è rimasta sola e sta scrivendo una lettera che affiderà alla rondinella al marito che vive lontano, alla “Merica”, dove lavora in una fabbrica di ferro: “Ci siamo sposati in fretta – confida con qualche errore di grammatica alla carta – non abbiamo avuto neanche il tempo di conoscerci meglio, intendo anche  carnale… Mi ammazzo di fatica per portare avanti il forno e per badare a tua madre… Marito mio vieni presto che non mi fito più resistere lontana di te”.

Teresina invece lavorava nei campi la terra del barone don Ignazio, che un giorno l’ha violentata come un animale e ora vorrebbe il bambino che è nato. La lusinga: “Se mi dai il bamnbino, non ti farò mancare nulla, e neanche alla tua famiglia. E poi ti troverò qualcuno che sarà disposto a sposarti!”. Ma lei, donna fiera e orgogliosa, si accaserà con Marcello, vedovo (“Serafina se l’è portata via una polmonite fulminante”) con due bambini piccoli, reduce dalla guerra “brutta storia!”.

Immacolata è una “fanciulla semplice e curiosa” che vive davanti al mare di Nardò, quando un giorno vede arrivare camion carichi di profughi ebrei. La gente accoglie gli stranieri con “malumore e diffidenza”. Fra di loro c’è Efrem: “Bello il mare… Questa terra, dove tutto luccica di un bianco splendente, è benedetta dal Signore, è Barakà…”. Lui le fa conoscere la cucina yddish (dall’hummus, antipasto con salse al sesamo, alla melanzana e ai ceci, all’harrosset, impasto di fichi, melograno, mele, datteri, noci e vino rosso), lei vermicelli col baccalà, rape e fichi secchi con le mandorle). “Credo che tutte le religioni del mondo nascono dall’amore”, filosofeggia lei, e lui, innamorato: “Quando l’uomo pensa, Dio sorride”. Si sposarono vicino al mare, che mandava il suo augurio: “Shalom! Pace!”.

E poi la storia di Uccia Capirizza, la mammana (levatrice) che un giorno d’inverno aiuta una ragazza a partorire sotto un ulivo, va in paese a chiedere aiuto, torna e la puerpera non c’è più: così diventa mamma a 50 anni chiamando Futura “la creatura che il destino mi aveva fatto incontrare”. Infine Caterina, vedova “bella e altera” (“il suo volto non era sfiorito con gli anni e il corpo era ancora vigoroso… ma il cuore era addolorato per la perdita del marito” Vincenzo, a 56 anni: diagnosi sbagliata, malasanità). Tutti i maschi del paese “sguardi pieni di desideri”, ma lei cresce da sola quattro figli facendo la sarta giorno e notte: “Ora che i miei figli si sono affermati nella società, posso dire di essere orgogliosa di quello che ho fatto e spero che anche loro lo siano di me… una donna e madre che ha lottato per la sua dignità”.

La chiave di lettura del testo e dello spettacolo è quindi multiforme: storica, antropologica, sociale, ecc. E’ anche qui la ragione del successo con cui viene accolto: prossima tappa della tournèe ad aprile a Lecce. Recitano Rosaria Pasca, Maria Orsi, Florinda Caroppo, Ninetto Cazzatello, Norina Stincone, Francesco Greco, Cinzia Carluccio, Tiziana Montinari, Michele Bovino, Lucia Minutello che con pasquale Quaranta (P40) cura canzoni e musiche. Un 8 marzo da ricordare, a futura memoria.

Giuseppe Resci, in Cina i racconti (in b/n) dell’inquietudine

 

Giuseppe Resci, Open-gate
Giuseppe Resci, Open gate

 

di Francesco Greco

 

Un’inquietudine intensa, energica, decisa, vigorosa, magica: carica di bianchi e neri pronti a “fermare” il movimento del tempo e il senso del fluire delle cose, cercando in quell’attimo l’equilibrio dell’immagine per ricrearlo.

Se è vero che “ci sono fotografi che guardano il mondo per farne fotografie e quelli che fanno fotografie con l’esigenza di raccontare il mondo” , il pugliese Giuseppe Resci appartiene decisamente a quest’ultima categoria.

I suoi paesaggi sanno ben raccontare un mondo denso di antichi anfratti attraversati dall’intensa luce del Sud, una luce che a volte corrode pietre e piante  increspando tormentosi nuvoloni bianchi.

Il colore non esiste nelle immagini dell’artista, ma s’intuisce. I blu, i rossi, i verdi, gli ocra, si leggono nelle pieghe infinite dei grigi fino al bianco più bianco e al nero più nero, interpretando con risoluta capacità creativa singoli elementi della composizione.

Mario Giacomelli – grande firma della fotografia italiana – sosteneva che “prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima”. Questo significa in fondo che lavorando in questi ambiti si ha la possibilità di “sentire” la realtà intorno e poi la facoltà di interpretarla ridando all’osservatore una propria verità della vita.

Giuseppe Resci, Sun and thorns
Giuseppe Resci, Sun and thorns

Giuseppe Resci ha la consapevolezza di tutto ciò, ma soprattutto la sensibilità della scelta, del momento fatidico, in cui quella realtà fatta di ritratti intensi, di corpi sensuali, di nature ataviche e incontaminate  incontrano una luce che sa dare valore ad ogni dettaglio e sfumatura.

“Il mio compito – afferma l’artista – è trasmettere all’osservatore tutta l’inquietudine e l’adrenalina che ho dentro quando scatto, tutto  racchiuso in un singolo fotogramma… “.

Giuseppe Resci è nato nel 1959 a Gagliano del Capo (Salento meridionale). Studi classici, poi laurea in Medicina (a Roma). Comincia a fotografare nel 1978, da autodidatta e, in seguito, studia Fotografia e si perfeziona alla Scuola Romana di Fotografia nel quartiere San Lorenzo, sempre nella Capitale. Nelle sue opere rappresenta atmosfere dense e mondi onirici sospesi sul reale ordinario. L’essere umano, relativamente poco rappresentato, è spesso sostituito da una galleria di simboli (riflessi, ombre, manichini) vettori di messaggi articolati e complessi che conducono l’osservatore ad approdare a dimensioni percettive che abitano nei luoghi ancestrali dell’immaginario e dell’inconscio, site a profondità tali da non poter essere raggiunte senza provare emozione, inquietudine, piacere o anche stupore e arrivare così a porsi interrogativi su se stessi.

Resci sostiene che l’Arte, nel figurare in prima istanza ciò che prima non era visibile, si deve dirigere verso il pubblico, mai il contrario. Per questo preferisce esporre in luoghi non convenzionali, modulando di volta in volta la selezione e spesso il concepimento delle proprie opere in funzione del sito espositivo, affinché possano fondersi in un unicum che diviene un vibrante strumento di comunicazione e condivisione artistica.

Fotografa in bianco e nero su pellicola e su dorsi digitali. Effettua ricerca fotografica in Italia e all’estero a si dedica alla post-produzione e alla stampa Fine-Art. Vive alle porte di Roma, in aperta campagna, in una dimora isolata, posta di fronte all’enigmatica maestosità del Monte Soratte. Per il 2013 (tra fine estate e inizio autunno) proporrà le sue inquietudini in bianco e nero con un’esposizione fotografica nel contesto di “Pechino – 2013 – Beijing  A. C. Art Museum Dongzhimenwai St.”, allestimento permanente, e successivamente un reportage e una ricerca su Pechino e la Mongolia.

 

AltaRomaAltaModa, Ventura da Taviano a Roma re del fashion per una notte

 

di Francesco Greco

 

Alla fine è magicamente apparsa la donna-ragno, commovente tribute alla sua terra, la demartiniana “terra del rimorso”, o della sete, che ha plasmato il suo dna, il gusto estetico, la sensibilità. Il pubblico ha capito: è stata standing-ovation. E così Antonio Ventura de Gnon, dopo 10 anni di assenza, è stato re di Roma per una notte alla fashion week AltaRomaAltaModa, sfilate primavera-estate 2013. L’emozione era così intensa che ha fatto solo metà passerella, lasciando tutta la scena alla performance demenzial-futurista di Enrico Lucci (Le Iene) in abiti da donna.

lo stilista salentino, a destra (foto di Michela De Nicola)
lo stilista salentino, a destra (foto di Michela De Nicola)

 

E ora la collezione, al grido di “Il mondo ha fame di stile italiano” e citando Dostoevskij (“La bellezza salverà il mondo”), parte alla conquista dei mercati globali, in un momento certo difficile, ma il made in Italy, stile, classe, raffinatezza, hanno storicamente un irresistibile appeal e possono rappresentare la password ideale per far passare, citando Eduardo, la “nuttata”. Se solo fosse sostenuto dalle istituzioni. Non è un caso che la collezione presentata nella deliziosa location delle Officine Farneto, a Roma, si intitola “VolerEssere”, quasi a sostanziare un’autostima necessaria per superare il default, come creativi e come sistema-Paese, coscienti che, come diceva Marguerite Yourcenar “siamo tutti responsabili della bellezza del mondo”. E la fiducia nella sua arte, la coscienza della propria grandezza, la modulazione geniale del suo essere uno stilista famoso nel mondo, caratterizzano la sua avventura sin da quando, ragazzo, lasciò Terra d’Otranto (è nato a Taviano, nel Leccese, unico maschio in un gineceo di sorelle e zie) per intraprendere gli studi universitari.

Da oltre quattro lustri firma collezioni di pret-à-porter che intrigano il jet-set internazionale, ha vestito due Miss Mondo, poi un’intera collezione per la finale nazionale di Miss Mondo (2006), ha firmato un abito che rappresentò l’Italia a Londra (a una kermesse di gioielli). Nel frattempo, dal 2001 è costumista Rai e scrive su prestigiose testate di Alta Moda. Vive fra la Capitale e New York.

A Roma il couturier pugliese è amatissimo e stimatissimo: ha avuto l’ennesima conferma che la sua stella è viva e brilla più che mai in un momento storico caratterizzato da proposte déjà-vu. Un evento (sostenuto da Italian Beauty Line e A&A Italian Fashion, ripreso e trasmesso da Rai2) che ha richiamato, grazie a un prezioso, certosino lavoro di pr di Emilio Sturla-Furnò, oltre 500 ospiti: la Roma-bene che ama il bello, buyers da tutto il mondo. Parterre ricco dove fra gli altri si notavano Valeria Mangani, Stefano Dominella, Ada Alberti, Franco Oppini, Elena Russo, Elisabetta Pellini, Marina Pennafina, Vincenzo Bocciarelli, Rodolfo Corsato, Roberta Beta, l’ambasciatore d’Austria Christian Berlakovitz, i giornalisti Maria Concetta Mattei, Camilla Nata, Antonio Pascotto, l’on. Antonio Paris, gli stilisti Nino Lettieri e Massimo Bomba, Mara Parmegiani, la psicoterapeuta Irene Bozzi, Bianca Maria Lucibelli Caringi, il principe Carlo Giovanelli, il marchese Giuseppe Ferraioli con Olga, il costumista Francesco Crivellini, il principe Guglielmo Giovanelli Marconi, la contessa Alessandra Olga Baglioni, la baronessa Cetty Lombardi Sartriani, lo scenografo Gigi Riggio, ecc.

Amatissimo si diceva: alle modelle si sono mescolate – adottando un format un pò ironico un po’ trasgressivo, un sacco postmoderno – le sue amiche in veste di guest star: da Nadia Bengala a Vira Carbone, da Carmen Di Pietro a Valeria Oppenheimer e Maria Chiara Cudillo. Il pianista Luca Scognamiglio ha accompagnato Juan Odierno col suo repertorio cosmopolita: Mambo Italiano, Nostalgia, Verde Luna.

una proposta primavera/estate 2013 (foto di Mauro Rosatelli)
una proposta primavera/estate 2013 (foto di Mauro Rosatelli)

 

In passerella 30 abiti in lino e seta (resi unici dai “gioielli non gioielli” di Ilaria Pascali, le borse di Eleonora Manara, linea Petronilla, gli insert in pelliccia di Alberto Leonardi, le acconciature di Sergio Valente, il Make Up di Studio 13), e ognuno rappresenta una citazione della sua terra, il Salento, che si porta nei cromosomi, pregno delle insospettate tonalità e solarità della natura: il verde dei campi avvolti nel silenzio dell’abbraccio rassicurante dei maestosi ulivi secolari, opere d’arte, il blu in tutte le sfumature del mare che da Otranto a Gallipoli e Leuca circonda il suo paese, e poi il grigio delle giornate uggiose di scirocco unto di sale e il caldo marrone della terra che in autunno si apre e che nel grembo accoglie il grano. I tessuti si posano dolcemente sul corpo accentuando la morbidezza delle curve: è il trend “scoperto” anche a Londra. Una collezione soirée in seta che dà luce e richiama la luce grazie a un sapiente gioco di contaminazioni giocato su innesti di micro perle, taffetà con richiami cornely, tulle, voile sfumati. Il lino non è il must per la sera, ma è valorizzato da ricami a micro-paillettes e pizzi vintage. Il nero opaco e lucido non può mancare in una collezione che si rispetti, come la sposa, che Ventura “vede” avvolta in una nuvola di pizzi in maglia di lino color avorio. Proposte che sfidano la crisi: gli abiti infatti possono essere facilmente trasformati da giorno a sera con semplici mosse: “In momenti come questi – osserva Ventura – si deve aguzzare l’ingegno: essendo il tessuto dell’abito privo di tagli è possibile disfarlo e ricucirlo: una nuova creazione così prende vita”.

Sorride enigmatico, a metà tra il filosofo ateniese e il guru in un tempio orientale: “Queste proposte sono l’insieme dell’Essere e del Volere”. Altra standing-ovation. Intimidito si rifugia nel backstage. Per la serie: “Eccellenze di Puglia”. Chapeau!

 

Quattro corsie e un funerale. 275 no al Salento sfregiato

di Paolo Rausa

 

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Il giornalista Francesco Greco ha chiamato a raccolta in questo saggio giornalisti, storici del paesaggio, antropologi, architetti, archeologi e studiosi vari per sostenere le ragioni dell’ambiente e della cultura salentina, che sarebbero compromessi se si realizzasse l’autostrada nord-sud Maglie-Leuca, considerata una ferita che taglierebbe un territorio su cui si sono miracolosamente  conservati gli elementi naturali come tratto distintivo di una cultura che si è sedimentata nel corso dei secoli, fin dall’età preistorica, nel paesaggio, in piccole strutture rurali, nei muri a secco e nei viottoli che si ramificano nelle campagne.

Ripercorrere la storia della proposta di ammodernamento di questa strada, nata per collegare la cittadina di Maglie al Faro/Santuario di Santa Maria di Leuca è defatigante e bisogna ritornare indietro di almeno 20 anni. Gli Enti istituzionali sono giunti a concepire e progettare un nastro d’asfalto di quattro corsie, che si slancia verso il mare. L’ampia arteria stradale prevede inspiegabilmente, nel tratto finale degli ultimi 6 km, un nuovo percorso nella campagna, in rilievo, su una selva di piloni che termina in una maxi rotatoria di 1,5 km di circonferenza. Questo sproposito di autostrada, che non collega centri industriali ma la povera campagna salentina, è parsa esagerata persino all’ANAS e alla Regione Puglia se il Presidente Vendola ha cercato di riparare proponendo dei correttivi, una strada-parco non meglio definita e ricorrendo al Tribunale Amministrativo contro le procedure di appalto, a quanto pare non molto trasparenti. Al quale si è appellato anche il combattivo Comitato contro la 275 che ha promosso una serie di sit-it per richiamare l’attenzione sui pericoli di sfregio del territorio che ne conseguirebbe nel caso della sua realizzazione.

Per quanto il TAR non abbia ritenuto che possa rappresentare gli interessi diffusi della popolazione, il Comitato si è contrapposto punto su punto alle motivazioni dei sostenitori di quest’opera, riassunti nella necessità della sicurezza stradale – l’esiguo numero di incidenti in verità non la giustificherebbe – e nella riduzione dei tempi di percorrenza, pochi minuti a fronte dei danni di impatto ambientale. Non risulta che sia stata mai coinvolta la popolazione locale nelle scelte e nelle decisioni, per es. ricorrendo a un referendum. L’aspetto più inquietante – sottolinea Francesco Greco – è che un ambiente rurale sedimentato nel corso dei secoli rischia di essere devastato da un’opera che porterà distruzione e sconvolgimenti a fronte di un nulla di positivo. E allora la riflessione si spinge a proporre alternative credibili: per es. una cura di ferro per il Salento, ammodernando la locale linea ferroviaria ancora ad un binario e senza elettrificazione, la realizzazione di strade bianche sull’esempio della Regione Toscana, piste ciclabili e ippovie come suggerisce una esperta di turismo verde e alternativo. La resistenza contro la realizzazione dell’opera da parte della popolazione locale rimarcherebbe l’intento di difesa del proprio territorio, come l’unico mezzo che può fornire risorse per un’attività economica basata sulle risorse della terra e sul genio degli artigiani locali.

Il timore soprattutto nasce dal sospetto che questa autostrada diventi il cavallo di Troia di quanti, speculatori e “maghi” della finanza, vogliano usare il Salento per fini residenziali, realizzando mega villaggi turistici, centri commerciali, ecc, distruggendo così oltre al territorio la sua memoria storica e svendendoli sull’altare di uno sviluppo distruttivo, con la conseguenza di seppellire anche l’anima del Salento.

E Francesco Greco, sostenuto da grandi e appassionati difensori di questo patrimonio, giura che questo non avverrà mai! “Quattro corsie e un funerale. 275 no al Salento sfregiato”, Edizioni Miele, 2012, Gagliano del capo, € 14,00.

Donne salentine alle 5 di mattina. Ad Otranto

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di Francesco Greco

 

Il 2013 è donna. E’ entrato pudico e pregno di belle promesse scacciando un anno vecchio che in tanti non vedevano l’ora di rottamare poiché è coinciso con sacrifici da lacrime e sangue, disastri d’ogni genere e default infiniti. E l’ha fatto portato dalle voci di donne dell’altro secolo, sulla frequenza della memoria e dell’identità, che narrano le loro storie tormentate ma dignitose, per tentare di sfuggire al tempo insonne che come un tarlo infido corrode tutto sino a non lasciare tracce.

Vincenzina la “tabbaccara” (tabacchina), quinta di undici figli, detta la “Moretta” per la carnagione olivastra e il colore dei capelli, Nunziata “vedova bianca” che scrive lettere sgrammaticate al marito Nicola che è partito per la Merica dove lavora in una fabbrica di ferro, Teresina che iniziata al sesso dal barone Ignazio, che la crede una sua proprietà, sposa Marcello Musca, soldato tornato dal fronte che ha perso la moglie a causa di una polmonite ed è rimasto solo con due bambini da crescere, nonostante le lusinghe del potente nobiluomo, Immacolata invece va a nozze con Efrem, soldato ebreo scaricato a Santa Maria al Bagno (Nardò): “Domani ti cucino un piatto di vermicelli con il baccalà… Credo che tutte le religioni del mondo nascano dall’amore”. La “mammana“ (levatrice) Uccia Capirizza che aiuta una ragazza a partorire e poi “decisi di prendere con me quella creatura che il destino mi aveva fatto incontrare e dal quel giorno divenni madre…”. Caterina giovane vedova “bella e altera”, che rifiuta le proposte di matrimonio dei paesani e si dedica alla sua famiglia lottando “per la sua dignità e per il futuro dei figli”.

Una gallery di donne del mondo di ieri, che abbiamo troppo velocemente relativizzato, senza metabolizzare i suoi valori immortali, per tuffarci in una modernità alienante che formatta ogni individualità, e che riappaiono sotto altre forme, ma con tutta la grande forza dialettica anche oggi, all’epoca di Facebook. Dopo la commovente performance il 26 di dicembre a Nociglia (alla Casa di riposo fra gli anziani grati) – una esperienza che fa il paio con l’altra che il regista ha vissuto due anni fa con i detenuti-attori nel Carcere di Milano-Bollate in un’altra sua rappresentazione dal titolo “Natura e Cultura nel mondo romano” , in attesa di recitare a Roma e l’8 marzo di nuovo in Salento, al Teatro Illiria di Poggiardo,  aspettando la prima alba dell’anno nuovo (foto di Filomena Giorgino) nel punto più a est d’Italia (Otranto), lo spettacolo tratto da “Volti di carta. Storie di donne del Salento che fu” della scrittrice pugliese Raffaella Verdesca è stato rappresentato dalla Compagnia “Ora in scena!” di Poggiardo a Punta Palascìa, alle pendici del celebre Faro, alle 5 del mattino, davanti a un pubblico attento e coinvolto, impressionato dalla cifra neorealistica del testo adattato dal regista teatrale Paolo Rausa, un maestro del teatro italiano, quello fatto con poche risorse ma con tanto cuore, che ha già rappresentato in diversi luoghi della penisola “L’idea di Italia nella letteratura: da Dante a Pasolini” nell’occasione del 150° dell’Unità dell’Italia e l’anno scorso l’opera teatrale “Sguardi sul Mediterraneo. Miti Leggende Storie”.

Altri personaggi: Rosaria Rita Pasca (Donna anziana che affida al vento le vecchie foto e i documenti), Norina Stincone (Vincenzina), Pippi (Francesco Greco), Maria Orsi (Nunziata), Paolo Rausa (Nicola ed Efrem), Ninetto Cazzatello (Marcello), Tiziana Montinari (Teresina), Francesco Greco (Don Ignazio, il barone), Cinzia Carluccio (Immacolata), Florinda Caroppo (Uccia Capirizza), Lucia Minutello (Caterina). Musiche di Pasquale Quaranta (P40), regia tecnica di Ornella Bongiorni.Dopo lo spettacolo, tutti sulla terrazza a guardare l’orizzonte che lentamente scolorava nell’alba. Tamburi e tamburelli hanno acceso il ritmo della pizzica. Una ragazza, Silvia Primiceri, di Casarano, addolciva il freddo dell’attesa passando con un vassoio di dolcetti fatti da lei (il suo sogno è aprire una pasticceria: auguri!). La luna piena campeggiava discreta come in una scenografia a picco sulla location, illuminando le scogliere di una atmosfera carica di energia dolce e le centinaia di persone giunte da ogni parte del mondo al beneaugurante appuntamento con l’Alba dei Popoli. Persino un missionario italiano che lavora in Nicaragua. Decine i reporter e i cineoperatori armati di videocamera, smartphone e quant’altro per immortalare l’evento. Faceva la comparsa persino un branco di delfini nuotando davanti al Faro e poi verso Badisco (l’approdo di Enea è colmo di monnezza!). Ma il sole, offuscato da una barriera di nuvole che occultava la costa albanese, tardava a sorgere. Previsto per le 6 e 40, per la Storia, è riuscito a vincere l’ostacolo solo alle 7 e 20 del primo giorno del nuovo anno salutato da una scarica di flash. Il tempo di un ultimo vortice di pizzica e di un altro brindisi accompagnato da una fetta di mascarpone (il panettone quaggiù non è molto popolare: richiama l’odiata iconografia leghista), e la folla si è sciolta come ipnotizzata dall’astro sovrano dell’universo. Tutti avevano sul viso un sorriso di infinita dolcezza e di quieta bellezza: le ragazze avvolte in sciarpe pesanti e plaid colorati e gli uomini con cappelli e giubbotti pesanti. E mentre i delfini sparivano leziosi all’orizzonte verso Porto Badisco, la socialità spontanea e contagiosa di un rito solenne, il cui fascino è immutato nel tempo, rendeva l’atmosfera serena e gaia, come se tutti, scaldati dallo stesso sole,dalla sua energia,appartenessero alla stessa etnia che include i popoli di tutto il mondo, condividessero un comune immaginario e avessero trovato il loro Graal, una formula magica capace di sintonizzarti con gli altri, il mondo, gli Universi possibili.

Ciao Otranto, e grazie per quest’altro Capodanno con tutti i Popoli della Terra: ci si vede fra un anno…

Terra d’Otranto, alla ricerca del bianco perduto

 

centro storico di Ostuni

 

di Francesco Greco

 

Alla ricerca del bianco perduto. Il colore della civiltà contadina, respiro del paesaggio mediterraneo, contaminato, offuscato da una modernità retta da un cromatismo volgare nei suoi postulati estetici aggressivi e devastanti. Metafora di un individualismo esasperato che trasferisce nel telecomando l’espressione di un libero arbitrio per cui il nostro io è diluito in un allucinato nulla cioraniano che ci trasforma in cloni dalla percezione e sensibilità uguale a quella di altri.

E così, brandendo un soggettivismo cieco e folle, dipingiamo le nostre case di colori assurdi, spesso ibridati: giallo canarino, verde voltastomaco, viola, marrone-feci. Il bianco è il colore solare dell’identità, la memoria, le radici, ma anche dell’innocenza perduta, svenduta, dell’umanesimo del mondo di ieri che ci portiamo nel sangue, della socialità mite e appagante tramite l’affabulazione dolce con cui avveniva il passaggio delle esperienze e i valori, della solidarietà tra individui, famiglie, collettività nell’aspra lotta per la sopravvivenza.

Il grande pittore pugliese (è nato a Supersano) Ezio Sanapo (erede di Toma, Casciaro, Vincenzo Ciardo, ecc.), da anni porta avanti una battaglia per il ritorno a quella che Rosy Trane (Critical Food) chiama “dignità del paesaggio” e Donato Margarito (critico lettarario) “respiro del paesaggio”. L’artista rimpiange quel bianco sfavillante di cui un tempo erano dipinte le case ora che viviamo in stanze di pietre nere a causa non della quieta sedimentazione del tempo ma della pitture industriali che soffocano le pareti. Parla di “bianco violentato da colori assurdi”, di “forme architettoniche deliranti”, di “respiro soffocato del mondo contadino”. La calce era prodotta nei forni del Salento (intorno a Taurisano) ora chiusi, la vendevano girando nei paesi su carri agricoli, mentre nel profondo Nord, nel Brenta, si continua a farla in modo tradizionale e la esportano nel mondo.

centro storico di Soleto

“…bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvare l’anima e quella di chi la abita (Andrea Zanzotto, poeta)”. Conscio che occorre parlarne alle nuove generazioni, l’artista porta avanti la battaglia nelle scuole, dove fa circolare un manifesto che richiama  il “Regolamento edilizio dei Comuni di Terra d’Otranto e  Leuca del 1899”, in cui espressamente agli articoli 16, 17, 20 e 25 si invitava la popolazione a escludere tinte che “per troppa vivezza potranno offendere la vista, od ingenerare diminuzione di luce…”. Il documento  è firmato da artisti e intellettuali italiani e stranieri: Rocco Turco (Tricase), Luigi Schiavano (Taurisano), Giuseppe Pellegrino (Cutrofiano), Arnaldo Alfarano (Supersano), Vito Lisi (Miggiano), Amedeo Gualtieri (Supersano), Costantino Nuzzo (Tricase), Agostino Branca (Tricase), Francesca Trane (Ruffano), Donato Margarito (Montesano S.), Cosimo Corallo (Ruffano), Mauro Arena (Tricase), Ingrid Simon (Vienna), Donato Nuzzo (Castiglione), Francesca Lillo (Ruffano), Francesco Accogli (Tricase), Tommaso De Marco (Tricase), Paola Trono (Tricase), Luca Santoro (Taurisano), Adelaide Gerardi (Monteroni), Miriam Rifuggio (Tricase), Antonio Macchia (Specchia), Alfredo De Giuseppe (Tricase), Roberta Cirillo (Napoli), Francesco Alfarano (Supersano), Eleonora De Giuseppe (Tricase), Giuseppe Nuzzo (Ruffano), Giovanni Pellegrino (Zollino) e Giorgio Fersini (Tricase).

Ostuni

Domanda: Maestro, lei si chiede cosa si dovrebbe esorcizzare, la taranta o un dèmone infido portato dalla modernità e che ci fa imbruttire ciò che per secoli è stato bello e sano…

R. “Nella maggioranza dei Comuni del Salento il paesaggio urbano continua a essere sfregiato da forme architettoniche estranee alla nostra cultura, dalla colorazione esagerata delle facciate delle abitazioni, il ricorso eccessivo alla pietra a vista e le bombolette spray. Così ha subìto un trattamento opposto alla musica popolare: uniti da secoli, sono stati separati. In questo contesto oggi si balla e si suona il tamburello sullo sfondo di ciò che ci circonda, e dovremmo chiederci: cosa c’è davvero da esorcizzare?”.

D. Lei sostiene che a forza di deturpare ne risentirà anche il turismo…

R. “Gli ospiti non sono attratti soltanto dal clima e dalla musica, ma anche dal paesaggio e ciò che i turisti trovano porta evidenti i segni del degrado e l’incuria dell’uomo. Essi dicono che non sappiamo conservare la bellezza, che è meglio se non tocchiamo più niente, che di danni ne abbiamo già fatti anche troppi. Nella nostra mentalità distorta, l’interesse privato prevale su quello pubblico”.

D. Di chi la colpa?

R. “Delle amministrazioni comunali, sindaci, assessori, uffici tecnici. Nei 60 anni di prima e seconda Repubblica, o sono stati incompetenti o hanno avuto altri interessi. Ma pure di geometri, ingegneri, architetti”.

D. C’è, pare di intuire, un forte elemento sub-culturale legato a un degrado complessivo, fuori e dentro di noi…

R. “Prevale una forma di anarchia, di fai da te. L’artigiano porta la mazzetta di colori, il committente guarda e punta sui più vistosi. Più forti sono più ci si distingue dagli altri: è la cultura dell’apparire senza essere. Rosso, azzurro, arancio, giallo, verde, viola. E così, quello che prima era un paesaggio unico ora è un agglomerato di singole e ibride case colorate come pacchi natalizi” .

scorcio del centro storico di Mesagne

D. Paradossalmente questa aggressività dell’uomo deriva da un benessere, o presunto tale, perché adesso sta svanendo…

R. “E’ vero: tutto ciò che la nostra povertà aveva conservato e tramandato oggi lo sta distruggendo appunto un benessere presunto. Lo stesso che ci fa credere che tutto quello che riguarda il passato è da cancellare, distruggere, come fosse una pagina amara e scomoda della nostra storia”.

D. Altrove le testimonianze del passato le recuperano…

R. “Le custodiscono gelosamente con regole scrupolosamente rispettate. Dove queste non ci sono non c’è memoria storica, tutto diviene terreno di conquista dei poteri forti, in questo caso l’industria che produce materiali chimici per l’edilizia. Il profitto non ha scrupoli né rispetto della civiltà, specialmente per quella del Sud, anche grazie all’ipocrisia delle amministrazioni locali, tutte quelle che si sono succedute, una uguale all’altra, negli ultimi 60 anni”.

 

centro storico di Ruffano

D. La calce viva era un fatto culturale ma anche di salubrità…

R. “Il Sud ha perduto ogni identità e dignità, ma anche le abitudini più elementari. Imbiancare a calce significava anche disinfettare e igienizzare gli ambienti abitati: lo si faceva quasi una volta l’anno. Sono passati 60 anni e in tutto questo tempo di sporco ne abbiamo accumulato troppo: una sola mano di calce vergine non basta…”.

Volti di carta, il libro di Raffaella Verdesca diventa un lavoro teatrale

di Francesco Greco

 

Teatro sotto le stelle a Poggiardo, nell’antica dimora del poeta Fernando Rausa (1926-1977, “Terra mara e nicchiarica”, Manni editori, 2006 e “L’umbra de la sira”, Edizioni Atena, 2009), una delle voci più appassionate e pregnanti del Novecento letterario di Terra d’Otranto. Il figlio Paolo (nella foto di Julia Moldovan mentre fa da voce narrante), brillante giornalista e vulcanico regista, ma soprattutto grande ideatore e organizzatore di eventi, che vive fra Milano e il Salento, con la sua Compagnia teatrale “In Scena!” ha presentato in prima nazionale uno spettacolo liberamente ispirato a “Volti di carta” (Storie di donne del Salento del tempo che fu), di Raffaella Verdesca (Edizioni Albatros, Roma 2012, pp. 176, € 15), scrittrice pugliese che ha messo insieme una gallery di ritratti in b/n e relative storie di donne dell’altro secolo affinché il velo dell’oblio non cadesse su di loro per sempre.

Dalla giovanissima operaia tabacchina (“Il biglietto”) alla mammana che diventa madre facendosi carico di una bambina partorita da una ragazza sola, dalla contadina fiera violentata mentre è al lavoro nei campi sotto gli ulivi dal barone che vuole un figlio a tutti i costi a Immacolata che, seconda guerra mondiale, curiosa di un’altra cultura, socializza con gli Ebrei a Santa Maria al Bagno (Nardò), in “Shalom” (sposerà uno dei prigionieri davanti al mare), alla “vedova bianca” (così era detta la donna col marito emigrato all’estero) che scrive lettere d’amore colme di desiderio e passione al suo uomo che sta alla “Merica”.

una delle protagoniste del libro di Raffaella Verdesca

In equilibrio sul filo teso della memoria, delle radici riscoperte in chiave dialettica, di un “ieri” che aveva le sue contraddizioni ma anche il suo fascino, ognuna di queste interagisce con gli uomini in piena autonomia di pensiero divenendo in tal modo, portando il proprio vissuto, protagonista della Storia. In un contesto, la civiltà contadina, dove sebbene il pane era poco ma condiviso, la società era tenuta insieme da valori forti, sentimenti autentici, ma anche dalla sofferenza quotidiana mentre sullo sfondo avveniva uno scontro sociale e di classe in termini forse non coscienti ma di enorme rilevanza storica, nel senso che conteneva il “virus” di quel che sarebbe avvenuto dopo: lotte sociali, rivoluzioni, sconvolgimenti epocali, conquiste di cui si trova traccia filologica anche nella canzoni d’amore e di lavoro, ma anche in quelle con cui il regista pugliese accompagna lo spettacolo, da De Andrè alla Mannoia, ai canti della tradizione popolare di Terra d’Otranto.

In scena dunque 2-3 generazioni di donne immerse in un quotidiano complesso, dove bisognava portare a casa un po’ di pane (e magari spartirlo con chi non aveva manco quello) e vivere ispirandosi a un patrimonio di valori non relativizzati. Una quotidianità ma da cui non se ne fanno travolgere, anzi, in un certo modo sanno gestire adombrando e rivendicando così vivendo un soggettivismo la cui valenza politica si riverbera nella società contemporanea, nel vissuto delle generazioni successive.

Paolo Rausa è anche socio dell’Arp (Associazione Regionale Pugliesi a Milano), e nella sua lunga e prestigiosa carriera ha firmato molte performance di successo: da “Sguardi sul Mediterraneo”, Alba dei Popoli al Faro della Palascìa a Otranto, la rappresentazione di “Natura e cultura nel mondo romano” con i carcerati a Milano-Bollate, il contributo al 150° dell’Unità d’Italia con lo spettacolo “L’idea di Italia nella letteratura: da Dante a Pasolini”) e altro col contributo di Ornella Bongiorni, esperta di audiovisivi.

Nello spettacolo “Volti di carta” i ruoli sono stati interprati da Maria Orsi, Tiziana Montinari, Norina Stincone, Lucia Minutello, Pasquale Quaranta, Tina Aventaggiato, Francesco Spadafora, Julia Moldovan, Francesco Greco, Vito Luceri, Rosaria Pasca, Ninetto Cazzatello e Florinda Caroppo. Uno spicchio di luna ha fatto da “testimone” a uno spettacolo di grande intensità, colmo di pathos già nel testo e interpretato con emozionante adesione stanislavskjana. “Le donne del Sud – osserva infine il regista – sono forti, sono state protagoniste del loro riscatto, hanno difeso la loro dignità: hanno molto da insegnarci”. Sono donne, c’è da aggiungere, espressione di un matriarcato sottinteso: i loro uomini erano in guerra, o emigrati e hanno preso il loro posto allevando i figli, facendo bastare il poco e vivendo con onore e dignità. Alto dunque lo spessore umano del testo della scrittrice di Copertino, Lecce (ci è nata nel 1968: anno-simbolo) e dello spettacolo, lieve e poetico, in certi passaggi onirico il modo di svilupparlo. Sarà portato in tournèe in tutta Italia. Mentre il regista già lavora al prossimo ripreso dalla cultura classica che frequenta così bene e non da oggi: le “Metamorfosi” di Ovidio attualizzate al Terzo Millennio, con un Re Mida (l’Imperatore) sbeffeggiato dal poeta, tanto da essere esiliato: una maschera dietro cui non è difficile indovinare un protagonista della politica italiana che era uscito di scena e ora rientra con un coup-de-theàtre alla Jonesco… Sipario!

Scrimieri archistar

di Francesco Greco

Da ragazzo, nei vicoli odorosi di cappero e salvia del centro storico di Galatina (è nato nel 1942), la città di Gaetano Martinez, fra Santa Caterina d’Alessandria e Porta Luce, sognava di fare lo scultore. E’ diventato un archistar del restauro richiesto in tutta Italia. La parabola vincente di Rosario Scrimieri è stata festeggiata alla “Pajara Rita”, ai Fani (la mitica città di Cassandra), incantevole scorcio di paradiso a due passi da Leuca-Finibus Terrae.
Scrimieri ha presentato “Lo Spazio e la Forma”, il secondo volume che racchiude i restauri firmati dal 1999 al 2012 (Nuovo Signum nel segno dell’arte-Roma, pp. 168, s.i.p., stampa Editrice Salentina, Galatina, progetto grafico di Valentina Buzzone e Tamara Rossi, disegni architettonici di Maurizio Caproni, Laura e Rosario Scrimieri, elaborazione disegni informatici di Donato De Bonis).
Il primo, “La Forma e lo Spazio”, storicizzava i lavori eseguiti dal 1957 al 1998. Di entrambi i volumi i testi sono di Giovanni Carbonara e Toti Carpentieri. Ecco

Torre Vado. Sorgenti libere!

ph Marco Cavalera
Sorgenti di Torre Vado viste dal lungomare (foto di Marco Cavalera)

di Francesco Greco

Il popolo delle “Sorgenti” è in festa. Facebook, Twitter, YouTube rimbalzano in tutto il mondo la notizia. La VI sezione del Consiglio di Stato ha respinto la sentenza del Tar (Tribunale Amministrativo Regionale) di Lecce con un ulteriore rinvio rispetto al progetto di stabilimento balneare presentato della “A. & C. Costruzioni srl” di Taurisano nel 2009.

Appena si è saputo il presidente del Comitato Pro-Sorgenti, Antonio Coppola, ha indetto un’assemblea per comunicare la novità. Accolta da una standing-ovation. E da qualche ora, da ogni parte del mondo, giungono messaggi di gioia e soddisfazione dei “fans” del mitico luogo nella marina di Torre Vado, nel Comune di Morciano di Leuca (Salento meridionale).

Per quest’anno dunque le “Sorgenti” resteranno libere: i giudici romani hanno riaffermato il loro status pubblico: appartengono alla comunità da infinite generazioni e nemmeno il pur giusto diritto a fare impresa può oscurare tale principio. Le acque dolcissime, freddissime (16° estate e inverno), adatte alla cura delle malattie vascolari, e a cui è legata anche l’antica leggenda della fertilità per le donne che tardano a diventare madri, sono della gente che da secoli le vive e le ama e dei turisti che ogni anno accorrono da tutto il mondo per bagnarsi fra gli scogli. Di più: rappresentano un topos culturale, fanno parte cioè del costume di tutta la zona.

La ditta che le voleva per sé, per fare business turistico, esce dunque sconfitta: il diritto di tanti non può prevalere su quello di pochi. E’ questo il

Libri/ Nefrhotel (mi hanno venduto un rene)

di Francesco Greco

Storia di Kamal, l’innocenza perduta dell’universo

Om mani padme hum… Dagli inferi danteschi, il sottosuolo dostoevskijano, il cuore di tenebra di un universo corrotto, (s)perduto, che ha rinunciato a ogni etica, incagliato nell’assenza di una qualche spiritualità, nella palude d’una solitudine cosmica dove le parole ormai non hanno più eco, ecco la voce di un bambino: ascoltiamola.

E’ quella di Kamal, bambino nepalese, solo al mondo, che narra la sua odissea scagliando parole dure come pietre, accuse a una civiltà infame, un’umanità disumana che usa i corpi per realizzare immondi profitti tra medici, intermediari, documenti falsi. Nato bene, nella casta potente dei Newari, devoto a Buddha, si ritrova a vagare come un animale ferito ai margini di Kathmandu, a lottare per avere il suo posto al mondo, riconquistare l’onore del censo perduto, un fantasma senza volto come se ne vedevano nei lager, i guilag, i laogai, bambino senza più innocenza in “un’India adultera dagli occhi di fanghiglia” col dito puntato verso di noi.

“Nefrhotel” (mi hanno venduto un rene), di Giuseppe Cristaldi, Promomusic, Corvino Meda Editore, Bologna 2011, pp. 200, € 12, è un romanzo curioso, spiazzante, insospettato. Il quarto (dopo “Storia di un metronomo capovolto”, 2007, Libellula; “Un rumore di gabbiani – Storia dei martiri del petrolchimico”, 2008, Besa; “Belli di papillon verso il sacrificio”, Edizioni Controluce, Besa 2010) del giovane scrittore pugliese.

E’ il lungo soliloquio di Kamal col suo aguzzino: il medico che gli ha chirurgicamente asportato il rene che finirà sul mercato di un Occidente che monetizza tutto, dove ormai i Lumi sono spenti, tra spraed, governi in affanno e banche che tengono in ostaggio i popoli, impotenza, suicidi, follia.

Che in India ci sia un mercato di organi è risaputo, abbiamo fatto l’assuefazione: non scandalizza nessuno, non ne parla nessuno. Lo scandalo, paradossalmente, non è qui, ma nell’aver rubato l’infanzia alle generazioni a cui per sopravvivere (a Kamal servono molte rupie per aprire un negozietto), un mondo dove tutto è mercificato non dà altre opzioni che il dolore, la rapina, la piaga in continua suppurazione.

Il romanzo procede su più livelli, che si intrecciano di continuo per poi separarsi, come fiumiciattoli che corrono verso il mare. Quello che colpisce è il furore politico scagliato contro lo status quo e i suoi orrori quotidiani, che una civiltà retta dal liberismo selvaggio ha ormai elevato ad archetipi. Notevole il piano lirico del narrare in cui la sensualità di un mantra (“Om mani padme hum…”), anzi, due (“Dottò”) inasprisce le parole di un bambino a cui è negata ogni pietas, che pure tutte le religioni invocano, per essere spinto sotto i ferri dei macellai: allegoria tremenda. L’accusa è di non aver saputo costruire un mondo diverso, di non aver avuto una, visione alternativa al reale, credere che questo sia il migliore dei mondi possibili: abbiamo coltivato il vuoto dove poi il serpente ha deposto le uova fatali. Ridotti a vegetali senza più utopie, sogni, a vivere in un mondo pieno di cicatrici dove “il silenzio è di moda” e capita di non dormire per sfinimento. Kamal siamo tutti noi, umiliati e offesi, vilipesi, saccheggiati nell’immaginario, omologati a modelli estranei e devastanti.

Del romanzo colpisce, cattura la scrittura viscerale, rapsodica, rabbiosa, che a un primo sguardo sembrerebbe sperimentale, e che invece è la modulazione scelta dallo scrittore per osservare il tutto e il particolare in una continua osmosi del senso che fluisce senza requie in un’affabulazione magnetica. Ma anche la padronanza della storia, che sconfina nella metafisica di un’universalità lacerata e purulenta, naufragata sotto il peso delle sue stesse bestemmie e orrori, delle continue abiure e dalla ridefinizione continua di valori relativizzati.

Pubblicare non vuol dire essere scrittori, oggi che il consumismo ha penetrato e corrotto l’etimo interno della scrittura piegata al marketing, all’apparire, alle scuole, al best-seller sintonizzato col gusto di lettori dalla percezione arida e formattata. La Babeleci avvolge e ci confonde, per cui trovare una propria via non è facile. Oggi anche Steinbeck o Caldwell resterebbero inediti. Benchè giovane, più mediterraneo che europeo, Cristaldi è un franco narratore che ha trovato una sua password assolutamente originale, una sorta di Sacro Graal che si regge su una melodia carsica che attraversa una koinè di parole magmatiche e ispide, portatrici di una semantica nuova, escatologica, di significati rimodulati. E’ anche qui la forza di un romanzo commovente, immaginifico, che suggerisce di cercare l’innocenza perduta per salvare il bambino in noi e richiudere una ferita che sanguina senza requie mentre altri tiranni affilano il bisturi, dottò. Om mani padme hum…   

Morciano e Torre Vado in lotta per le “Sorgenti”

Le sorgenti di Torre Vado (ph Marco Cavalera)

di Francesco Greco

Si tratta di uno specchio d’acqua dolce nella marina di Torre Vado, molto amato dalla gente del paese, della frazione Barbarano del Capo e dai turisti. L’acqua freddissima  sgorga con forza dal fondale e pare abbia proprietà terapeutiche.
Due anni fa il Comune concesse l’autorizzazione a una società di Taurisano, la “A.&C. Costruzioni” per l’apertura di uno stabilimento balneare proprio sulle scogliere davanti alle “Sorgenti”, privatizzando, di fatto, l’intera area.
Immediate le proteste della popolazione e dei turisti e dopo numerose manifestazioni, sulla spinta dell’indignazione popolare, il sindaco Giuseppe Picci, avvocato 46enne, revocò l’autorizzazione.
Immediato il ricorso al Tar della società.
La sentenza emessa in questi giorni dà torto al Comune, che è stato

Salento, in marcia contro la SS 275 a quattro corsie

di Francesco Greco

Dalla Grecia (Patrasso), dalla Svizzera, Roma, Avellino, ecc. in Salento per protestare contro l’ipotesi incombente della SS 275 a 4 corsie. Mentre si apprende del ricorso presentato dal Gruppo Matarrese contro l’appalto aggiudicato alla Igeco Costruzioni di Tommaso Ricchiuto (Surbo, Lecce) col ribasso del 46% (il Gruppo barese aveva partecipato all’asta col 30%). Sullo sfondo il dolore e il furore dei partecipanti per il vile attentato di Brindisi, quale che sia la matrice.
E dunque, dopo la “marcia” di ottobre 2011 che si snodò lungo il percorso che dovrebbe avere l’opera infrastrutturale finanziata da Cipe e Regione Puglia (288 milioni), e dopo l’enorme successo della manifestazione di Montesano Salentino il 25 aprile scorso (con gruppi musicali, intellettuali, attori, poeti, scrittori, ecc.), un altro appuntamento ideato dal Comitato 275 (dal presidente Vito Lisi e la vice Michela Santoro) per sensibilizzare l’opinione pubblica contro l’aggressività e la devastazione che porterebbe un progetto

Libri/ Stagioni mediane (Pensieri multipli lungo una litoranea salentina)

Da Marina Serra a Leuca

alla ricerca dell’io perduto

di Francesco Greco

Frammenti di un’identità mediterranea lacerata, sparsi nell’aria untuosa di scirocco. Il puzzle della memoria magno-greca scomposto in mille tessere.

Nel mezzo del cammin di nostra vita, nella “terra di mezzo” dove la tramontana sagoma i fianchi delle montagne albanesi e svela l’isola greca di Fanos. Fra mediani di spinta, oscuri e faticatori, e politici mediani, parassiti attaccati all’auto blu e a tutti i benefit castali impudici più che mai, retaggio di un feudalesimo destrutturato.

Nella bufera di una recessione globale, che dal 2009 riscrive i confini del mondo e l’animo degli uomini, oltre alla loro quotidianità, la lettura del reale di un imprenditore di successo incuriosisce, intriga la sua password. La offre Alfredo De Giuseppe in “Stagioni mediane” (Pensieri multipli lungo una litoranea salentina), Minuto d’Arco editore, Tricase, pp. 130, € 10.

E dunque, sebbene la giovinezza pare infinita – almeno per bamboccioni e sfigati – giunge il giorno di un bilancio, pubblico e privato.

E se il viaggio più faticoso è quello che si compie dentro se stessi, quando ci si avventura nel sottosuolo, il labirinto, gli inferi danteschi, l’inconscio, se con lo stupore del bambino in noi si riesce a portare in superficie un diario di bordo disincantato e folle, comporre un affresco dai colori schizzati come nell’action painting (quelli che vediamo sulle fiancate delle littorine quando scivolano felpate fra ulivi e muri a secco), allora la mission è compiuta.

De Giuseppe si mette in discussione. Non ha formule alchemiche particolari da offrire, è la sua sensibilità di artista a tutto tondo che gli consente di penetrare nella “selva oscura”, il suo navigare in mare aperto, pronto a tutte le contaminazioni possibili: politiche, esistenziali, estetiche, e comunque a porre in chiave dialettica i postulati della sua formazione culturale. Ne esce un libro ricco di spunti e di poesia, di pensieri e di input. Vagando in luoghi particolari (i locali fra Marina Serra e Leuca tra maggio e giugno, quando si preparano alla nuova stagione), e sintonizzandosi con la loro “anima” segreta, lo scrittore (che ha dato prova di sé anche come poeta e cineasta) riesce a cogliere e dilatare gli echi dei suoi passi nudi.

Le pennellate sociologhe e antropologiche sono rapide quanto sapide, l’occhio e l’orecchio attenti. E dove noi vediamo un cameriere annoiato, sottopagato, lo scrittore intravede storie, osserva i tic di tipi curiosi, i loro destini piegati amari, i sogni infranti, le contaminazioni (l’uomo del Nord che apre un locale fra Torre Nasparo e Scalamasciu, scala di maggio, il “Blu Pub”). In certi passaggi riecheggia la pietas dolente di Ettore Mo nel suk di Kabul o ai bordi delle risaie di Saigon, in altri il furore iconoclasta di Pasolini (“Noi siamo dei privilegiati… Quelle popolazioni non volevano continuare ad accettare la sottomissione della povertà”, “Le religioni tendevano ad ostacolare qualsiasi scoperta che mettesse in discussione i dogmi della loro fede”, “…dopo il 1989 la nuova storia dell’umanità era già scritta: bastava saperla leggere”). Ma anche l’Arbasino che nel suo “viaggio” anni Settanta colse l’Italia in rapida trasformazione (e il Salento oggi lo è), come il Piovene che nel dopoguerra scannerizzò un paese ricco d’inconsapevole bellezza, di passato e di umanità, che poi sarebbe sfociato nel “fantastico trentennio”.

A “Lido Piscina” (invenzione di un disoccupato che per non emigrare si incuneò fra gli scogli morbidi), col “mare a due metri, la luna davanti e nessuno intorno (…). Puoi stare qualche minuto a sentire la risacca… amplificando oltremodo i tuoi pensieri atei (…). Senti nell’attimo di una risacca ripetuta di aver compreso il tuo tempo, quello che verrà e quello che potrebbe essere”. Curioso lo scontro fra vecchio e nuovo: una presentatrice tv ha scambiato la Serra per l’Eden e porta in tribunale i ragazzi che al “Jamao” tirano tardi nelle sere d’estate ascoltando musica. Ovviamente perde. Bello lo sdoganamento del termine “mediano”, che forse lo scrittore proietta su se stesso: lavoro tanto, anche per gli altri, gloria poca. Furino (Juventus) e Lodetti (Milan), Pelagalli (Atalanta) e Gregori (Bologna), Bedin (Inter) e Mascetti (Verona).

E’ poco il vetriolo sui politici mediani: “topolini della casta, che ottengono privilegi per loro e la ristretta cerchia di amici e famigliari… figli del monopolio televisivo… l’immagine conta molto, ancora più lo stravolgimento del significato delle parole”.

Ma dove il libro ha uno scarto lirico è nel diario parallelo della ragazza bolognese, che lavora, e guadagna bene, nella pubblicità, che sugli stessi topoi dello scrittore passa vacanze solitarie: la sua vita è ferma in una palude, cerca qualcosa, forse un uomo che valga la pena, forse ha fretta di diventare madre: “Sarei ancora in grado di essere moglie e poi mamma?”, “Forse sono qui a cercare qualcosa che ancora non so, indefinito totem della mia personale felicità”. Come noi aborigeni, del resto…

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