Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte seconda)

Giulio Cesare Bedeschini,, San Pietro Celestino, 1613, dall’arcivescovato de L’Aquila (da wikipedia)

 

di Giovanna Falco

 

Santa Croce e la Controriforma

Aver individuato in «Frater Iacobus de Leccio civitate Apuliae, Monachus Ordinis Caelestinorum, Paulo Papae IIII summe carus»[1] l’abate generale della Congregazione celestina dal 1546 al 1549, il cui operato e pensiero è trasmesso dalle sue opere letterarie[2],  è spunto di molteplici riflessioni e di future ricerche atte a riportare in luce verità dimenticate e capire a fondo i messaggi scolpiti sulla facciata della chiesa di Santa Croce in Lecce, realizzata a partire dallo stesso anno, il 1549[3], della pubblicazione di Le cerimonie dei Monaci Celestini di fra Iacopo.

Le riflessioni riguardano in primo luogo l’influenza che ebbe la Controriforma nella progettazione dell’opera, ma anche l’ importanza che all’epoca ebbe la sua realizzazione per la Congregazione celestina.

La progettazione e le prime fasi costruttive della nuova chiesa (1549-1582) sono contemporanee ai lavori del Concilio di Trento (1545-1563).  Così come l’abate generale celestino – sull’onda del rigore necessario a ridare vigore alla Chiesa indebolita dalle “dottrine eretiche” sempre più diffuse, anche in ambito leccese[4] – avverte la necessità di rammentare ai suoi frati le antiche regole della Congregazione tramite la stesura in lingua volgare di Le cerimonie dei Monaci Celestini, così fa esprimere da Gabriele Riccardi lo stesso rigore nell’impianto base della chiesa leccese, atta, tra le altre, a rendere manifesta a tutti i fedeli la dottrina celestina divulgata sotto il controllo del priore della comunità monastica locale. Il rigore voluto da Fra Iacopo è tale da far pensare che nelle primissime fasi l’opera di Riccardi (1549-1582) abbia anticipato le Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae del cardinale Carlo Borromeo[5], in quanto nell’impianto della chiesa si riscontrano gran parte delle indicazioni raccolte nel trattato del Santo. Ci si chiede, dunque, quale fosse all’epoca la rinomanza di Gabriele Riccardi e se oltrepassasse i confini locali, se, quali e quante fonti di ispirazione gli abati generali celestini offrirono all’architetto per poter realizzare il repertorio architettonico e scultoreo presente nella chiesa leccese. È innegabile, ad esempio, la rispondenza tra gli elementi decorativi del monumento funebre di Celestino V di Girolamo Pittoni e alcuni presenti non solo in Santa Croce, ma anche sulle colonne e l’architrave del portale di Santa Maria degli Angeli dei Minimi di San Francesco di Paola in Lecce, realizzato anni prima dallo stesso Riccardi.

Mausoleo di Celestino V

 

La possibilità di  costruire una chiesa di tale imponenza era dovuta, alla ricchezza dell’insediamento leccese – feudatario di Carmiano e Magliano[6]-, all’epoca tra i più ricchi della Congregazione celestina, così come è emerso da Le cerimonie dei Monaci Celestini, ma anche perché il pio luogo era di patronato regio e il  detentore del beneficio ecclesiastico nel 1549, sino al 1577, era Carlo V[7].

La realizzazione dell’opera – il solo insediamento celestino di nuova fabbricazione realizzato almeno sino al 1590[8] -, può essere letta come un’occasione unica per la Congregazione Celestina di trasformare in pietra i precetti tramandati da Celestino V, i dettami in corso di definizione della Controriforma e rendere omaggio a Carlo V in qualità di difensore della Chiesa. Si spiegherebbe così l’opulenza della facciata, non riscontrabile in nessun’altra chiesa celestina, ma anche l’impegno costante degli abati generali che si avvicendarono nel corso della realizzazione delle varie fasi costruttive, come, ad esempio, è intuibile osservando il frontespizio degli Opuscola omnia del Santo pubblicati nel 1640 da frate Celestino Telera[9], dov’è raffigurato Celestino V tra l’Umiltà e la Sapienza, poste nello stesso periodo anche ai lati della facciata leccese.

 

A causa della necessità di essere al passo con i tempi, l’eventuale tributo dei Celestini a Carlo V – già espresso dal potere civico con l’Arco di Trionfo realizzato nel 1548 –  non è più leggibile (sul portale centrale risalente al 1606 Francesco Antonio Zimbalo scolpì lo stemma di Filippo III, all’epoca detentore del beneficio ecclesiastico), a meno che non si vogliano interpretare le sei mensole antropomorfe della balconata, come i nemici della Chiesa sopraffatti dall’imperatore. Alla genuflessione fra Iacopo dedica ben tre capitoli di Le cerimonie dei Monaci Celestini.

Nonostante nel corso del tempo la facciata sia stata sempre più arricchita di nuovi elementi iconografici, derivanti sia dalle vicissitudini storiche, sia da nuove esigenze di carattere dottrinale nel frattempo sviluppatesi, a ben guardare il primitivo messaggio,  rivolto alla popolazione con gli elementi essenziali e agli eruditi con l’esorbitante tripudio di allegorie, è ancora leggibile in facciata (lo è meno all’interno dell’edificio, a causa delle varie trasformazioni avvenute nel corso dei secoli).

Osservando il prospetto di Santa Croce si notano immediatamente gli elementi fondamentali che informano chi si appresta ad entrare in chiesa, sia nella partizione orizzontale (i due ordini e il fastigio), sia in quella verticale (corrispondente alla navata maggiore e alle due laterali). Dopo aver  letto De invocazione, venerazione et reliquiis sanctorum et sacris imaginibus stilata nella XXV sessione del Concilio di Trento del dicembre 1563, si capisce cosa vuole indicare ai fedeli: la chiesa di Santa Croce, in sintesi, è un luogo dove grazie all’insegnamento dei frati celestini, i fedeli hanno la possibilità di dare tributo e venerare in modo corretto Cristo, la Vergine madre di Dio e tutti i santi.

 

Note

[1] D. A. Wion, Lignum Vitae, Ornamentum, & Decus Ecclesiae, in quinque libros divisus, Venezia 1595, p. 99.

[2] Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini, con la vita di Celestino quinto loro primo padre, Bologna 1549; Il modello di Martino Lutero, Venezia 1555; De necessitate et utilitate crucis humanae vitae libellus, Roma 1556.

[3] Gli storici che hanno studiato la chiesa riportano al 1549 la posa della prima pietra del pio edificio. Le vicende storiche ed architettoniche di Santa Croce ormai sono note, anche se si spera in una revisione unitaria di quelle che circolano nei siti divulgativi sul web. La bibliografia è vastissima  e in continuo aggiornamento, è impossibile indicarla tutta, ma è innegabile affermare che chiunque abbia condotto ricerche  sul monumento perlomeno negli ultimi vent’anni, apportando nuovi significativi contributi, ha consultato, tra gli altri, i testi a seguire: C. Infantino, Lecce sacra, Lecce 1634 (ed. anast. a cura e con introduzione di P. De Leo, Bologna 1979); M. Calvesi, M. Manieri Elia, Architettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia, Roma 1971; M. Paone (a cura di), Lecce città chiesa, Galatina 1974; M. Fagiolo – V. Cazzato, Le città nella storia d’Italia. Lecce, Roma-Bari 1984-88; M. Manieri Elia, Barocco Leccese, Milano 1989; A. Cassiano, V. Cazzato, Santa Croce a Lecce. Storia e restauri, Galatina 1997.

[4] Alla luce degli scritti di fra Iacopo, potrebbe essere approfondito il ruolo che ebbero i celestini leccesi nel contrastare le “dottrine eretiche”, da confrontare sia con quello degli altri ordini religiosi già presenti in città, sia con quello degli ordini appositamente fondati, a partire dai frati Cappuccini, che nel 1533 fondarono presso Rugge il primo insediamento della loro Provincia di Puglia (cui si aggiunse nel 1553 il ricovero di San Sebastiano e nel 1570 il convento di Santa Maria dell’Alto), e in seguito dai Gesuiti (che si stanziarono  nel 1574)  cui dal 1588 si aggiunsero Fatebenefratelli e Teatini.

[5] Cfr. C. Borromeo, Instructiones fabricae et supellectilis ecclesisticae, Milano 1577. Le Instructiones sono già state prese in considerazione, nell’ambito della storia dell’architettura leccese, da Francesco Del Sole (Cfr. F. Del Sole, Fenomenologia del Barocco leccese. Un delicato compromesso fra Controriforma e Riforma cattolica, in Bollettino Telematico dell’Arte, 25 luglio 2021, n. 916.

[6] Cfr. M.E. Petrelli, Palazzo dei Celestini a Carmiano: memorie di barocco e tabacco, in fondazioneterradotranto.it, 14.06.2018.

[7] Il trecentesco complesso celestino di Santa Croce, fondato dal conte Gualtieri VI di Brienne, sorgeva vicino al castello medievale. Quando nel 1537 si decise di ingrandire la struttura militare e allargare lo spiazzo antistante, furono dismessi assieme alla cappella regia della Trinità, ricostruita a spese della Regia Corte nel 1562, e alle cappelle di patronato regio di San Leonardo Confessore e Santi Giacomo e Filippo (Cfr G.C. Infantino. Lecce sacra, Lecce 1634, a cura di M. Cazzato, Lecce 2022, pp. 182-83).

[8] Affermazione che si evince confrontando gli elenchi dei monasteri celestini pubblicati nel 1549 (Cfr. I. Moronessa, Le cerimonie dei Monaci Celestini… cit.) e nel 1590 (Cfr. Constitutiones monacorum sancti benedicti congregationis coelestinorum, Bologna  1590).

[9] Cfr. C. Telera, S. Petri Caelestini PP.V. Opuscola Omnia, Napoli 1640. Strenuo difensore di Celestino V, frate Celestino Telera di Manfredonia fu abate generale della Congregazione dal 1660 al 1664. Oltre agli opuscoli di Pietro da Morrone, scrisse le Historie sagre degli huomini illustri della Congregazione de’ Celestini, pubblicato a Bologna nel 1648. Alla sua morte, avvenuta nel 1670, l’abate generale Matteo da Napoli fece erigere in suo onore un monumento.

 

Per la prima parte vedi qui:

Santa Croce di Lecce e l’abate generale celestino fra Iacopo da Lezze (parte prima) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Il castello di Francavilla (seconda parte)

di Mirko Belfiore

Nel 1739, l’ultimo principe di Francavilla Michele IV Junior apportò le modifiche più tarde, facendo demolire delle botteghe addossate lungo il perimetro Nord e alcune colonne che reggevano un pergolato posizionato dinanzi al portone d’ingresso e commissionando, infine, quell’elegante balaustra che ancora oggi cinge il fossato.

Alla morte di questi nel 1782, il palazzo fu incamerato tra i beni del Regno demanio nonostante che il Principe avesse nominato erede il cugino di terzo grado Vincenzo, marchese di Latiano. Dopo una lunga vertenza con il Regio Fisco, Vincenzo ottenne solo i beni mobili presenti nel palazzo (arredamenti, libreria, mobili, gioielli e le attrezzature del teatro) e il titolo di Principe di Francavilla. L’edificio rimase inutilizzato e abbandonato a sé stesso fino al 1821 quando divenne proprietà del Comune, il quale si occupò di ripristinare gli spazi interni apportando modifiche che in parte privarono la struttura di molti degli elementi originari.

Oggi lo ritroviamo in tutta la sua magnificenza grazie ai recenti restauri che oltre a preservarne le forme di età moderna ne ha ripristinato il valore di massimo emblema della città, assieme alla Chiesa matrice. A tutto ciò si è aggiunta una posizione di primo piano nella nuova politica di valorizzazione turistica che vede lo stesso assumere il ruolo non solo di contenitore culturale (allestimento del MAFF, il Museo archeologico di Francavilla Fontana) ma anche come punto di partenza per la riscoperta della storia della città e del suo centro storico.

1 Castello-Residenza Imperiali, Francavilla Fontana (Foto Alessandro Rodia)

 

Analizzandolo dal punto di vista architettonico, il complesso si sviluppa su tre piani distribuiti in maniera asimmetrica, con una stretta relazione fra le strutture murarie preesistenti e gli elementi ornamentali tipici del periodo Barocco.

Facciata sud con portale d’ingresso (Foto Vanessa Nacci)

 

Tutta la linea esterna è scandita da due linee marcapiano che si sviluppano lungo i quattro lati della struttura e che sono conclusi in alto da una possente merlatura guelfa e in basso da una muraglia a scarpa. La decorazione a dentelli rinascimentali e quella ad archetti concorrono insieme alle incorniciature aggettanti delle finestre del primo piano a vivacizzare la facies di tutto il prospetto, sfumando il ricordo dell’antica fortezza quattro-cinquecentesca.

Ai quattro angoli dell’edificio si collocano quattro stemmi araldici riproducenti un’aquila con le ali spiegate, sormontati da una corona e sorretti da mascheroni tufacei diversi per ogni spigolo, testimoni della proprietà della famiglia Imperiale.

Araldo della famiglia Imperiali posto sull’angolo sud-est (Foto Vanessa Nacci)

 

L’edificio è inserito in un ampio e profondo fossato che da una funzione difensiva si è evoluto in una piccola oasi floreale fatta realizzare fra il XVII e XVIII secolo e che al mutare delle stagioni si impreziosisce di un cromatismo unico.

La residenza nobiliare ha due varchi d’accesso: uno sul lato meridionale posto su via del Municipio e uno secondario sito sul lato settentrionale e prospiciente via Barbaro Forleo. L’ingresso principale si apre su un elegante slargo a forma ovoidale, preceduto da due possenti colonne barocche e che introduce il visitatore al ponte di pietra, sostituto dell’antico ponte levatoio in legno.

Portale d’ingresso lato sud, particolare (Foto Vanessa Nacci)

 

Lo splendido portale che adorna il varco d’ingresso è racchiuso fra due colonne con capitelli compositi ed è ornato da un cornicione a tutto sesto fortemente aggettante che accoglie un raffinato encarpo con foglie d’alloro, due rosette e, in chiave di volta, lo stemma degli Imperiale.

Portale d’ingresso facciata nord, particolare (Foto Vanessa Nacci)

 

Più sobrio ma non per questo meno raffinato è il portale sito sul lato opposto, introdotto sempre da due imponenti colonne barocche e sormontato da una balconata in ferro dal profilo a petto d’oca che secondo Fulgenzio Clavica e Regina Poso, ricalca in parte il disegno di Mauro Manieri per l’accesso del Seminario di Brindisi e per il palazzo Imperiale poi Filotico di Manduria.

Loggiato barocco facciata est (Foto Alessandro Rodia)

 

La facciata orientale collocata su Corso Umberto I è contraddistinta da una splendida loggia seicentesca in pietra locale e da molti attribuita a Pietro Antonio Pugliese, maestro scalpellino di Nardò, cresciuto nella bottega di Francesco Antonio Zimbalo e autore, fra il 1614 e il 1615, del magnifico altare di San Francesco di Paola collocato nella Basilica di Santa Croce a Lecce. Il manufatto si inserisce in posizione rientrante rispetto alle parti aggettanti ed è composto da quattro arcate, le quali risultano scandite da coppie di semicolonne quadrate con arcate a tutto sesto a cui si aggiungono quattro timpani spezzati di forma triangolare e altrettante finestre.

Nella parte sommitale troviamo una ricca trabeazione recante bassorilievi riproducenti grappoli d’uva e foglie di vite, colture rilevanti per la produzione agricola dell’area, oggi come allora. A questa si unisce un’estesa decorazione con soggetti di natura zooformi e fitoformi che in maniera uniforme si dipana lungo tutta la superficie del loggiato: la foglia di palma sezionata verticalmente e racchiusa da caulicoli, il motivo dei viticci che si avvolgono sinuosi intorno al fusto delle colonne e le rosette che in maniera geometrica si dispongono lungo le arcate. Questi particolari sottolineano l’esperienza del Pugliese per un gusto tutto leccese che non può che risalire agli insegnamenti dello Zimbalo e del Riccardi. Infine, un’elegante balaustra composta da colonnine di gusto classico e pilastrini squadrati – uno dei quali, al centro, accoglie lo stemma degli Imperiale – poggia naturalmente su una fila di mensoloni robusti, di cui ritroviamo corrispondenze con i ballatoi di alcuni palazzi di Oria, Manduria e nella stessa Francavilla (Palazzo Giannuzzi-Carissimo).

Loggiato barocco facciata est, particolare (Foto Alessandro Rodia)

 

Durante i lavori di ripristino sono stati riscoperti una serie di ambienti ormai dimenticati e posti sotto l’attuale piano di calpestio. Tramite un passaggio posto lungo il lato occidentale del fossato si può ancora accedere a quelli che erano gli antichi locali che ospitavano le stalle e le rispettive mangiatoie dei cavalli. Sempre a questo livello ma sul lato opposto un medesimo ingresso introduce ad altri locali, probabile luogo di stoccaggio per le derrate alimentari poi divenuti in tempi recenti carceri mandamentali. Qui si conservano mercanzie di vario genere, una fra tutte il sale proveniente dalle saline presenti a Torre Columena (nei pressi di Avetrana) e di proprietà della famiglia Imperiale.

Locali stalle con mangiatoie, lato ovest piano interrato (Foto Alessandro Rodia)

 

Locali Magazzini, lato est piano interrato (Foto Alessandro Rodia)

 

Per la prima parte:

Il castello di Francavilla Fontana (prima parte)

Breve profilo degli artisti di Santa Croce in Lecce

Gabriele Riccardi (Lecce, 1524 – ?): architetto. Artista di formazione manierista, unisce il patrimonio culturale mediterraneo con i dettami delle idee gesuitiche. La sua architettura può rientrare nell’ambito dell’arte controriformata: a santa Croce inventa la soluzione della colonna inglobata.

Francesco Antonio Zimbalo (Lecce, 1567 – 1631 ca): architetto. A Lecce è la prima figura importante per la nuova decorazione barocca, interviene a santa Croce nei tre portali della facciata e per l’altare di san Francesco da Paola. È legato in larga misura alla cultura figurativa cinquecentesca avviando poi cadenze, motivi, stilemi e fantasie decorative che troveranno il loro più compiuto sviluppo nel barocco.

Giuseppe Zimbalo (Lecce, 1620? – 1710): architetto. Non è chiaro il rapporto di parentela con Francesco Antonio. È l’artista più importante del barocco a Lecce, è autore della facciata superiore di santa Croce che si pone come svolta per l’arte del XVII secolo in Puglia. Giuseppe Zimbalo unisce la tradizione culturale locale con le soluzioni di fantastica libertà, guardando all’arte iberica e agli esempi napoletani di Fanzago. Lavora nelle maggiori fabbriche del periodo e presto diventa l’architetto preferito dal vescovo Pappacoda. Suoi sono anche la facciata della chiesa del Rosario, la facciata del duomo e il suo campanile.

Cesare Penna (Lecce, 1607 – 1656): scultore. Lavora alla facciata superiore della basilica di santa Croce. Il suo modo di lavorare la pietra è quasi da ricamatore, egli riesce a creare figure e motivi ornamentali di grande sfarzo e potente effetto visivo.

 

queste brevi note sono estratte dal più ampio articolo su Santa Croce pubblicato su Spicilegia Sallentina n°6 

Santa Croce in Lecce. L’ordine prigioniero e la colonna inglobata. L’interno della basilica

di Teodoro De Cesare

Nella parte inferiore della facciata ci si accorge di un altro elemento architettonico e decorativo che viene definito colonna inglobata. Questa colonna è posta sul fianco della facciata e fa parte, quindi, della fase progettuale di Gabriele Riccardi. Questo tipo di colonna può essere ricondotto al simbolismo dei volumi, cioè alla forma pura della colonna cilindrica (assimilabile alla perfezione celeste del cerchio) contenuto all’interno del pilastro (assimilabile al movimento del cubo, simbolo della terra). La successione di cornici ovali può far pensare sia alla serie di figurazioni romaniche entro riquadri circolari sia alle cornici circolari od ovali che appaiono negli altari del Rosario. Gli ovali inseriti sul fusto del pilastro possono far pensare anche ai circoli come moduli sovrapposti dai teorici sul disegno degli ordini architettonici .

La colonna inglobata non è un caso isolato a Lecce, oltre a che sulla facciata di santa Croce essa è presente, sempre come colonna-pilastro angolare, in un altro monumento cittadino: il cosiddetto Sedile, in piazza sant’Oronzo, e in questo caso si tratta non di un edificio religioso ma di una struttura di civile, probabilmente un antico comando militare. Si accennerà poi brevemente alle ipotesi che sono state avanzate riguardo alla simbologia sottesa alla colonna inglobata . L’inserimento della colonna inglobata nella facciata di Santa Croce, dunque, non è un episodio isolato ma ha riferimenti precedenti nei grandi studi e progetti rinascimentali. Questo dimostra che l’autore della facciata inferiore, Gabriele Riccardi, è un architetto ancora molto vicino alla pratica costruttiva cinquecentesca.

L’interno

Lo spazio interno è organizzato in tre navate che si caratterizzano per un accentuato verticalismo. Inizialmente la basilica era a cinque navate, due delle quali vennero utilizzate per la costruzione delle cappelle nel Settecento. Le due navate laterali sono sormontate da volte a crociera con festoni rettilinei, mentre quella centrale è chiusa superiormente da un soffitto ligneo a cassettoni dorati di forma esagonale, al centro del quale è incassato un dipinto della Trinità, sormontato dagli stemmi di san Pietro Celestino e dell’ordine dei celestini. La navata centrale contiene sedici colonne marmoree che arrivano fino al transetto, riccamente decorato da cordonature di melagrane, cespi d’acanto e spettacolari fioriture in pietra. Tra il transetto e la navata centrale si alza la cupola decorata con festoni di foglie d’acanto, angioletti e motivi floreali. Le sedici colonne hanno il fusto liscio con pulvini piumati e capitelli in stile corinzio, arricchiti dai volti dei 12 apostoli, mentre i capitelli delle colonne binate del transetto sono caratterizzati dai simboli degli Evangelisti.

Nel presbiterio si può ammirare l’abside polilobata e costolonata. Lungo le navate si aprono sette profonde cappelle per lato, al cui interno si trovano splendidi altari riccamente decorati. Un monumento importante di questa chiesa è l’altare con le storie di san Francesco da Paola, nel transetto sinistro, realizzato da Francesco Antonio Zimbalo tra il 1614 e il 1615. A questo si affianca l’altare della Croce, commissionato nel 1637 dalla famiglia Foscarini a Cesare Penna: qui la cosa più interessante da notare è la loggetta balaustrata alla sommità dell’altare che richiama la loggia con balaustra della facciata. Sono due altari significativi non solo per la loro ricchezza compositiva e decorativa, ma perché offrono l’opportunità di evidenziare il parallelismo tra altari barocchi e facciate. In pratica così come gli altari sono elementi e opere a sé stanti applicati alla parete interna della chiesa, così le facciate nelle chiese barocche sembrano dei giganteschi altari aggiunti a edifici precedentemente costruiti.

È proprio questa caratteristica di apparato effimero che rende unica la facciata di santa Croce, facendocela percepire come una continua e quotidiana festa religiosa. L’ornato e la decorazione ricca, con i loro messaggi, investono l’osservatore e rendono all’opera architettonica una netta frontalità. Ciò è molto diverso dall’effetto del classico rinascimentale; al contrario del barocco romano, che articola edifici e luoghi urbani immettendo lo spettatore in un percorso più complesso; invece la facciata leccese non cerca di includere lo spazio antistante.

Nel 1646 il barocco Leccese è ancora all’inizio, ma la facciata di Santa Croce fornisce già ampie porzioni di repertorio e di elementi che si svilupperanno in altri edifici anche più consapevolmente barocchi. Santa Croce resta un crocevia di storia, arte e cultura su cui tutto si ferma e da cui tutto riparte per la definizione di questa particolare tipologia di barocco .

 

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6.

Santa Croce in Lecce (II parte)

 

di Teodoro De Cesare

Tra il 1549 e il 1646 l’arte italiana cambia radicalmente: la fase del Manierismo è alla sua conclusione, Firenze perde la sua egemonia artistica a favore di Roma che, a sua volta nel corso del XVII secolo, accoglierà artisti da tutta la penisola e dall’estero; si susseguono, quindi, classicismo, naturalismo e barocco. Questa situazione ha i suoi riverberi anche a Lecce dove i ritardi dei modelli romani si uniscono a una forte tradizione culturale presente in loco. Si può affermare che il barocco leccese, che si vede nella facciata di santa Croce e che si rileverà in altre architetture della città, prende forma tra la seconda metà del Cinquecento e la fine del Settecento.

 

Il quadro storico nel quale si inserisce questo fenomeno artistico è quello della Controriforma e della nascita degli ordini religiosi riformati, un contesto che riguarda processi economici e culturali particolari a cui danno il loro contributo personalità politiche e artistiche diverse e dirompenti. I cambiamenti non sono semplicemente artistici ed estetici, ma si inseriscono in un insieme di idee che coinvolgono anche trasformazioni urbanistiche.

Quello di Lecce è un complesso di palazzi, ville e residenze nobiliari, chiese, conventi, scuole religiose, edifici assistenziali che testimoniano il rango politico attribuito alla città al di là dell’infelice quadro economico che gli storici delineano sulle vicende della Terra d’Otranto tra il Sei e il Settecento . Si può affermare che la facciata di santa Croce sia concepita come un grandioso altare e rappresenti un continuo rimando tra esterno ed interno, piccolo e grande, che è l’ossatura del significato dell’architettura barocca leccese. In qualche modo la facciata, come l’altare, in questo caso rappresenta una sovrastruttura decorativa su una parete preesistente e che, nel caso specifico della basilica di santa Croce, deve essere indagata anche per i suoi rimandi simbolici e figurativi. Un Barocco di facciata?

La conclusione della parte inferiore del prospetto della chiesa, come da iscrizione, risale al 1582. I tre portali sarebbero stati eseguiti su progetto di Francesco Antonio Zimbalo tra il 1606 e il 1607; prima della loro costruzione dovevano comunque esistere, sotto qualche altra forma, poiché corrispondono agli ingressi nelle tre navate. È molto probabile, allora, che una primitiva forma di portali possano essere di mano di Gabriele Riccardi, autore della parte inferiore della facciata. In particolare, il portale centrale si caratterizza per avere quattro colonne, abbinate a coppie, ed è plausibile che sia proprio questa l’aggiunta dello Zimbalo. Le coppie di colonne terminano con piedistalli ruotati di 45°: questa soluzione si può vedere all’interno della chiesa anche nell’altare di san Francesco di Paola, realizzato proprio da Francesco Antonio Zimbalo nel 1614. L’ordine ruotato di 45° non è qui isolato, lo si ritrova nella teoria architettonica del manierismo italiano .

Di Riccardi, forse, resta nel portale il motivo delle lesene a “foglie d’acqua” come si evince dal confronto con le foglie d’acanto poste sopra ai capitelli della navata di santa Croce. […] In questa porzione del prospetto entra in campo una terza figura di artista e scultore, Cesare Penna che la conclude entro il 1646. Questa data è riportata in un cartiglio retto da due figure di leoni e sancisce la consacrazione della chiesa.

La balaustra è sorretta da telamoni e figure zoomorfe alternati e che affondano le loro radici culturali in un passato lontano. Il riferimento è ai bestiari medievali, che nel Salento non è inusuale, e lega temi profani e religiosi: l’esempio più significativo è il mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, eseguito fra il 1163 e il 1165. In Santa Croce il tema potrebbe anche essere quello della Croce vittoriosa sui miti e sulla superbia dei pagani: «L’allusione si evidenzia nella serie dei tredici telamoni che fanno da mensola alla loggia del secondo piano: è, ingrandita nella magniloquenza barocca, l’antica simbologia dei leoni stilofori, che alludono alla bestialità e al male soggiogati: troviamo infatti tra le tredici mensole il leone, ma anche il grifone, l’aquila, il drago, immagini di orgoglio e di mostruosità, nonché la lupa romana, (…) Ercole con la pelle di leone, figure di legionari, di negri, di musulmani, pagani o infedeli antichi e moderni, con provabilissimo, anzi certo, riferimento ai pirati del Mediterraneo, i famigerati turchi sgominati di recente (…) nella battaglia di Lepanto» .

(continua…)

L’articolo è stato pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°6. Verrà riproposto su Spigolature Salentina in più fasi.

I parte: http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/03/30/santa-croce-in-lecce-emblema-del-barocco/

Santa Croce in Lecce, emblema del barocco

di Teodoro De Cesare

Santa Croce è il monumento simbolo del barocco leccese, è l’edificio che incarna lo spirito artistico dell’architettura nel Salento. La chiesa è famosa per la decorazione ricca e sfarzosa della sua facciata, in particolar modo nella parte superiore.

Non è una chiesa barocca edificata ex novo, essa è stata infatti edificata in epoche precedenti. Si pensa che la sua origine possa risalire addirittura al XIV secolo: i gigli intorno al rosone centrale dovrebbero rappresentare i gigli donati dalla corona di Francia alla popolazione e alla prosperità dei celestini. Quei gigli, dunque, sarebbero un richiamo alla prima fondazione, all’epoca in cui Gualtieri VI di Brienne era conte di Lecce, il quale richiese al vescovo, per conto dei padri celestini, di lasciar ad essi una chiesa di proprietà del vescovo stesso. Il conte volle che la chiesa fosse intitolata a “Santa Maria Annuntiata” e a “San Leonardo confessore”, ma poiché la chiesa era già conosciuta con il nome di Santa Croce, a livello popolare rimase questa titolazione . Gualtieri morì nel 1356 e i lavori furono interrotti; i documenti scarseggiano su una possibile prosecuzione del’opera.

È certo che la chiesa fu nuovamente sottoposta a lavori di costruzione a partire dal 1549 su sollecitazione dei padri celestini. Qui comincia la storia della chiesa che arriverà agli anni della conclusione barocca nella facciata. La ricostruzione della chiesa di santa Croce, dunque, ebbe luogo a partire dal 1549 grazie all’architetto Gabriele Riccardi che ne predispose il progetto. Egli creò la struttura della basilica e compì anche la parte inferiore della facciata, di equilibrio classico e con richiami all’architettura romanica nella cornice ad archetti ciechi. La parete è divisa da sei colonne con capitelli zoomorfi ed è sormontata da un fregio di ispirazione classica. Nel 1606, per opera di Francesco Antonio Zimbalo, si aggiunsero una sorta di protiro a colonne binate su plinti e i due portali laterali. La parte superiore fu eseguita da Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo intorno al 1646. Essa si poggia su una balconata sostenuta da cariatidi zoomorfe o simboliche, la balaustra è composta da 13 putti recanti emblemi. Il grande rosone centrale risente della tradizione romanica ed è circondato da una ricchissima cornice; quattro colonne hanno una decorazione fantasiosa; a queste si affianca il fregio, le cui lettere infrascate caratterizzano il nome dell’abate committente, don Matteo Napolitano ; due colonne sorreggono le statue di san Pietro Celestino e san Benedetto. Tutto è unito da una resa plastica di sfrenata fantasia e libertà inventiva, senza per questo risultare troppo ridondante ed eccessivamente abbondante, infatti la struttura risulta, nella sua ricchezza, semplice e chiara. Questa leggerezza nella ricchezza è dovuta sicuramente alla pietra leccese, facile da lavorare, di un colore chiaro che rende vivace la composizione. Queste brevi notizie ci fanno comprendere che solo la vicenda costruttiva della facciata occupa uno spazio temporale di circa cento anni.

 

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