di Massimo Vaglio
L’allevamento della capra ha sempre avuto i suoi fautori e i suoi detrattori. Basta scorrere un po’ della letteratura che la riguarda per scoprire che sono stati molti coloro che hanno visto in questo animale principalmente un nemico dei boschi. Nel Salento, visti gli indirizzi produttivi agricoli, caratterizzati da coltivazioni arboree, principalmente oliveti, vigneti e ficheti, suscettibili delle golose e non innocue attenzioni di questo vispo ruminante, è stata, ogni volta che la si è nominata, bollata addirittura come flagello dell’agricoltura. Un ostracismo generale, atavico e consolidato che storicamente ha sempre remato contro la sua diffusione, nonostante che la sua nota produttività e la non comune frugalità ne facessero un animale perfetto a rendere produttive le zone più difficili: aride, rocciose e impervie.
La capra il cui nome scientifico è: Capra aegagrus hircus L., è un ruminante appartenente appartenente alla famiglia dei Bovidi e alla sottofamiglia dei Caprini, derivato dall’addomesticamento dell’egagro dell’Asia Minore, avvenuto, stando ai reperti rinvenuti in Iran, tra il 9000 e il 10000 a. C.
La sua natura vagabonda, la sua rusticità, il suo non comune senso dell’equilibrio, associato alle ammirevoli doti di scalatrice, hanno contribuito ad adattarla ai climi e agli ambienti più disparati delle più lontane regioni, ove, grazie alla selezione di diverse razze, prospera e produce spesso in vece delle più esigenti e delicate pecore.
Le origini dell’allevamento caprino nel Salento sono piuttosto datate, come dimostrato da diversi scavi archelogici e rimandano alle capre, anche i toponimi di due cittadine: Caprarica di Lecce e Caprarica del Capo e di diverse