Libri| L’anima poetica di Pierfranco Bruni – Antropologo del sentimento

 

di Floriano Cartanì

“L’antropologo del sentimento”, così l’autrice Stefania Romito definisce magistralmente la poetica di Pierfranco Bruni, attraverso un recente libro dedicato interamente a lui.

Si tratta di una primizia scritta dalla Romito, per la Passerino Editore, assai profonda quanto interiore per quel che concerne l’analisi poetica di Pierfranco Bruni. Un  testo che nasce da un vero e proprio studio operato dalla scrittrice, sull’arte della poesia del noto scrittore e saggista internazionale, calabrese di nascita e tarantino d’adozione.

Due alleanze di pensiero che appaiono camminare all’unisono nella reciproca vicinanza letteraria in essere da tempo, a ragione della scrittura di libri e nel corso di eventi che li hanno visti molto spesso protagonisti insieme: lei giornalista professionista e Responsabile letteraria del Centro Leonardo da Vinci di Milano lui, Piefranco Bruni, già candidato al Nobel per la Letteratura e di nota rilevanza nel panorama editoriale italiano ed estero. I grandi autori come appunto Pierfranco Bruni, non si distinguono e si elevano sugli altri scrittori per il proprio lungo pubblicare libri. Le differenze risiedono anzitutto nella propria intrinseca capacità di trasmettere, attraverso la scrittura di libri ma anche convegni e simposi letterari, sensazioni vere, contenuti profondi, innovativi e creativi come avviene, appunto, in Pierfranco Bruni. Ma il nostro, se volete, si distingue ancora di più perché riesce pure a creare nei fatti un alone d’influenza letteraria in chi lo frequenta o lo legge assiduamente. Forse proprio per questo Stefania Romito nel suo “L’anima poetica di Piefranco Bruni”, è riuscita probabilmente come nessuno mai finora, ad  approfondire anche quei contenuti poetici più cari espressi da Piefranco Bruni: ora classici ora innovativi, ma sempre componimenti dotati di una grandissima raffinatezza e ricercatezza stilistica. Ciò nondimeno l’osservazione poetica di Stefania Romito non si è fermata solamente ad accogliere e raccogliere per iscritto tutto ciò che di più prezioso emanano i bruniani temi ispirati, è infatti andata oltre. Per l’autrice questo suo lavoro letterario su Piefranco Bruni, ha rappresentato alla fine persino un’esperienza di vita e, appunto, una specie di palpabile antropologia dell’anima (come spesso ama dire lo stesso Bruni), che si assapora e si interiorizza come tutte le più stupefacenti esperienze che rendono sublime la nostra stessa esistenza. “Versi che si vivono leggendoli e che si leggono vivendoli”, ha avuto modo di sottolineare a riguardo la stessa Stefania Romito la quale, tra l’altro, oltre a essere anche conduttrice radiofonica e televisiva, fondatrice dell’associazione “Ophelia’s Friends cultural projects, è responsabile per la Lombardia del sindacato Libero Scrittori Italiani.

Tra le diverse pubblicazioni di Stefania Romito, ricordiamo il romanzo d’esordio “Attraverso gli occhi di Emma”, i thrillers della serie “Ophelia, le vite di una ghost writer” e la raccolta di poesie “Nadir e Najeli” in collaborazione proprio con Pierfranco Bruni.

 

Libri| I Santi protettori – Tra storia e racconti

Sbarca nelle librerie una nuova uscita editoriale fresca di questi giorni, si tratta de “I Santi Protettori – Tra Storia e Racconti”, per le edizioni Comunic@re.
Con questo lavoro che vede, tra l’altro, l’esordio del sopra indicato centro culturale jonico come editore, siamo in presenza di un connubio tra due scrittori Arcangelo Conzo e Floriano Cartanì.
Entrambi poliedrici, i due autori si sono incontrati in questa spontanea quanto interessante collaborazione che, alla fine, ha portato a concretizzare nei fatti un loro progetto iniziale.
Nel testo del libro, che vede la cura di Salvatore Conte, è possibile rivivere vari racconti romanzati su alcuni santi, di cui vi è traccia devozionale nel complesso parrocchiale di Carosino. Nell’occasione, inoltre, si è dovuto dare necessariamente spazio anche a una leggere agiografia sulle memorie storiche di tali santi. Quest’ultime, in definitiva, vengono a loro volta usate come prologo ai racconti di che trattasi, insieme a interessanti fotografie di statue che li ritraggono.
Cultura, Scrittura e Arte, si sono quindi unite a rappresentare  non un mero devozionismo  ma una sincera forma di religiosità popolare. E’ infatti noto come dalle parti del Meridione d’Italia e soprattutto della nostra Terra d’Otranto, la venerazione verso i santi è stata spesso accompagnata, oltre che dalla loro memoria classica, anche da racconti popolari e persino da proverbi o piatti di cucina, tanto per fare alcuni esempi.
Insomma, a dirla veramente tutta, la tradizione storica sulla vita dei santi e soprattutto sul loro agire nel quotidiano delle persone, appare quasi sempre essere seguita da una miriade di racconti non sempre effettivamente prodigiosi, ma agli stessi in qualche modo collegati dalla “semplicità” popolare.
Vicende, come si può ben notare nel libro “I Santi Protettori – Tra Storia e Racconti”, che finiscono comunque e inevitabilmente per alimentare la sempreverde cosiddetta vox populi la quale, in certi casi giustifica in altri esalta addirittura, un qualsivoglia evento apparentemente inspiegabile che sembra avere del “soprannaturale”. La Chiesa, da questo punto di vista, continua ad essere assai vigilante.
Inoltre, come suggeriscono metaforicamente gli stessi autori, le persone in generale hanno sempre avuto sete d’infinito nel proprio animo. Ad alcuni è stata fornita un’illuminazione laica ad altri una fede profonda e matura. In entrambi i casi nel testo di questo libro, è stato convenuto alla fine di recuperare la solidarietà tra le persone, molto spesso attraversata da una dimensione religiosa e comunitaria allo stesso tempo.
Sono proprio queste le circostanze prese in considerazione da Arcangelo Conzo e Floriano Cartanì nell’elaborazione del libro “I Santi Protettori – Tra Storia e Racconti” il quale, come sottolineano gli stessi autori, tutto è tranne un mini trattato storico-agiografico né, tantomeno, teologico.

Libri| 174517 – Deportato: Primo Levi

di Floriano Cartanì

E’ uscito in questi giorni, a ridosso quasi dalla Giornata della Memoria, il libro “174517 – Deportato: Primo Levi”, molto opportunamente editato dalle Edizioni La Meridiana. L’impaginazione del libro, pubblicato dalla casa molfettese, appare subito alquanto accattivante e diversa dai soliti testi che trattano simili generi di argomento. Merito soprattutto dei due autori Franco Portinari e Giovanna Carbone, che hanno saputo creare questo splendido lavoro, fruibile sotto forma di una vera e propria graphic novel. Tutta l’opera si ispira spontaneamente ai libri “Se questo è un uomo” e “La tregua”, stesi entrambi da Primo Levi, il quale ebbe a scrivere due successi non solo letterari ma di testimonianza sulla tragedia dell’olocausto vissuta in prima persona. Entrambi gli autori del libro di che trattasi, molto conosciuti tra le pagine del Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport, come illustratore il primo e graphic designer la seconda, tratteggiano in questa sorta di story-board illustrata a fumetti, le vicende accorse a Primo Levi e a migliaia di altre persone che, come lui, furono deportate dai nazisti nel terrificante campo di concentramento di Auschwitz. La modalità stessa con cui si usufruisce della vicenda narrata, è appannaggio indubbiamente delle nuove generazioni di ragazzi e ragazze, apparsi negli ultimi anni particolarmente interessati a questo specifico argomento, così come a tutti i genocidi passati.

Negli ultimi tempi, poi, si è ritornato a parlare fortemente soprattutto di questa immane tragedia, forse perché ampiamente documentata, che si consumò nel corso della seconda guerra mondiale e che vide, insieme agli ebrei, centinaia di migliaia di “diversi” in religione, nascita e etnia, essere perseguitati e annientati nei campi di sterminio nazisti. 174517, numero di matricola tatuato sul braccio sinistro del prigioniero Levi, la dice tutta sulla volontà di quel regime di annientamento della persona stessa, ridotta non solo in totale asservimento ma completamente brutalizzata nella propria umana essenza e trattata, com’è stato, peggio degli animali.

Le immagini e i testi che accompagnano i contenuti del libro, sono entrambi molto diretti e saltano subito all’attenzione degli occhi, attraverso una visione veloce e quanto mai concreta del quadro narrato. Una tecnica sviluppata dagli autori, che è essa stessa una esposizione di arte figurativa nel contesto della storia, capace di accattivare fortemente non solo il giovane lettore ma anche l’adulto più esigente, portandoli entrambi a soffermarsi lungamente sulla pagina, per interiorizzare a dovere la strip illustrata.

Un libro particolarmente consigliato proprio in questi giorni che, come si può facilmente capire, non solo è da leggere ma da guardare anche, come ulteriore testimonianza di ciò che è stato e per ricordare. Il tutto per non ricadere negli stessi errori che videro, a partire dal ’43 nei diversi campi di sterminio, quel silenzio non solo dei tanti che “passarono per il camino” ma anche di chi attraversò quei cancelli della morte e vi fece rocambolescamente ritorno.

174517 Deportato: Primo Levi, Franco Portinari e Giovanna Carbone, 2019 la Meridiana, euro 15,00.

 

Monteparano (Taranto). Tavolate e fucarazzi per la festa di San Giuseppe

di Floriano Cartanì

Da tempo immemorabile il 19 marzo costituisce per Monteparano, in provincia di Taranto, un appuntamento da non mancare, per godersi i tradizionali festeggiamenti che si svolgono in onore di San Giuseppe e che culminano nei tipici “altarini” e “tavolate”, oltre i classici “fucarazzi”.

Ma a Monteparano c’è molto di più. La ricorrenza, infatti, nei contenuti essenziali, è riuscita a mantenere ancora intatta sino ai nostri giorni le passate usanze di questo antico casale albanese le quali, a loro volta, rappresentano con molta probabilità un vero e proprio crogiolo delle culture paleo-cristiane (il cenacolo, le tavolate) e di  vecchi riti pagani (festeggiare col fuoco l’arrivo della primavera).

Tutto questo, insomma, rende testimonianza ad un momento locale impregnato di devozione ma anche di tradizione, che esprimono meglio di ogni parola il senso di appartenenza alla realtà monteparanese.

L’arrivo della festa di San Giuseppe mette in moto tutta una serie di preparativi che coinvolgono l’intero paese. Quest’anno c’è da dire che l’aria è sembrata ancora più elettrizzata delle altre volte. Chi è passato in questi giorni per le stradine del paese, si è certamente imbattuto in un via vai di donne, intente a preparare gli ingredienti delle tavole devozionali. La cosiddetta “massa”, i “virmicieddi” e le immancabili “carteddate”, tutte pietanze che vengono preparate con appositi riti e lasciate poi stese ad essiccare su “cannizzi”, “tavulieri” e “spunlatore” nei giorni che precedono la festa. Gli uomini, invece, dal canto loro, sono impegnati a preparare la struttura degli altarini (una specie di scalinata rivestita di lenzuola o teli di finissima fattura).

Con l’avvento dei tempi moderni, poche famiglie di devoti avevano in tutti questi anni con umiltà e sacrificio, “mantenuto” questa fascinosa

Carosino e il suo patrono san Biagio

reliquia di San Biagio venerata a Carosino

di Floriano Cartanì

Febbraio si conferma un mese ricco di appuntamenti religiosi alquanto significativi per tutta la comunità carosinese, a cominciare da quello di oggi  3 febbraio, nel quale si celebra la festa  in onore di San Biagio patrono della città.

La solennità rappresenta ancora una volta la possibilità per l’intera cittadinanza di  offrire un segnale forte di unità, nella testimonianza del martire armeno, contribuendo a sottolineare quei momenti di profonda e vera fede religiosa che stanno caratterizzando sempre di più l’intera comunità negli ultimi tempi. A rafforzare questi propositi giunge, a poche settimane dall’insediamento in diocesi, la visita pastorale dell’Arcivescovo di Taranto S.E. Mons. Filippo Santoro, il cui incontro vuol rappresentare per l’intera collettività un dono di grazia ed un momento di accoglienza veramente speciali.

Come di consueto questa ricorrenza invernale della festa patronale di San Biagio privilegia la parte religiosa rispetto a quella prettamente civile, tant’è che dagli abitanti locali viene usualmente chiamata “San Biagio piccolo”, per distinguerla da quella più fastosa che si celebra nel mese di ottobre (“San Biagio grande”). Non va dimenticato, inoltre, che finalmente vi è la possibilità

Il dodicesimo quaderno. Gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz

dodicesimo quaderno

di Floriano Cartanì

Pare che si conosca oramai quasi tutto del genocidio nazista perpetratosi nei confronti degli ebrei nei campi di sterminio. Pur tuttavia è veramente difficile, ancora oggi a distanza di oltre mezzo secolo, riuscire a tacitare la propria coscienza per quanto è stato. Se da un lato le storie riportate dai sopravvissuti si equivalgono in termini di terrore, paura ed odore di morte, dall’altro si è andato sempre più scoprendo, quel raccapriccio dell’anima, quell’annientamento identitario della stessa umanità i quali, oseremmo quasi dire, arrivarono prima di quelli fisici e della stessa morte. Le miriade di vicende e di vite di questi malcapitati, testimoniate soprattutto nel corso dell’ultimo ventennio, sono stati un crescendo.

Solcando questa scia, che dalla vicenda storica prende lo spunto più vitale e fondamentale, si inserisce a pieno titolo ”Il dodicesimo quaderno. Gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz”, pubblicato dalle edizioni la Meridiana nella collana Passaggi, (pp. 72, Euro 12,00), scritto da Giuseppe Bovo, che ne ha tratto anche un meravoglioso testo teatrale portato in scena col titolo de: “La ragazza Olandese”.

Si tratta di una sorta di testimonianza su Etty Hillesum, fatta rivivere dall’autore attraverso questo libro, che ne rievoca la vicenda drammatica consumatasi in meno di tre mesi ad  Auschwitz, dal 9 settembre 1943 fino alla sua morte avvenuta il 30 novembre dello stesso anno.

Circa novanta giorni di vita dall’arrivo nel campo di sterminio, era non la regola ma l’eccezione di questi perseguitati. Infatti solo il 25% di loro, soprattutto uomini sani ed abili al lavoro, una volta scesi dai vagoni prendevano la strada dell’orrore e della sofferenza. Per il restante 75% (quasi tutte donne, bambini, anziani, madri con figli) rimaneva invece appena il tempo strettamente necessario a consumarsi nelle camere a gas. Tra questi ultimi ricedettero anche i genitori di Etty, arrivati con lei nel campo, insieme ad altri 986 ebrei olandesi, provenienti da Westerbork. Per Etty, molto giovane e ritenuta abile al lavoro, si spalancarono invece le porte di Birkenau, succursale femminile di Auschwitz. L’autore, in questo racconto, fa leva su una particolare caratteristica di Etty, che l’aveva accompagnata nei due anni precedenti, nei quali la protagonista aveva raccontato la sua vita in undici quaderni. A questi Giuseppe Bovo aggiunge un inesistente quanto veritiero dodicesimo quaderno, nella cui redazione la penna appare quasi guidata dal cuore più profondo di Etty.

Di certo lei, se avesse potuto e  nonostante tutto, in quei fatidici 83 giorni avrebbe sicuramente trascritto le proprie riflessioni giornaliere, come aveva fatto fino ad allora con i suo libretti. Un testo “biografico” e “autobiografico” insieme, come ha avuto modo di commentare lo stesso Giuseppe Bovo che fa dello scritto “un diario e una follia” o “una ricerca e un’ossessione”, se si vuole, che si dipana su questi immensi quanto inesplorati dualismi i quali, nello stesso tempo, respirano un tenace attaccamento alla vita. ”Il dodicesimo quaderno.

Gli 83 giorni di Etty Hillesum ad Auschwitz”, è sicuramente un libro utile da leggere in occasione del Giorno della Memoria per le vittime degli olocausti, non solo in quanto veramente appassionante e lacerante, ma perché riesce a far emergere dalle sue pagine quella sofferenza tanto immane quanto inconcepibile, che ti sconcerta e, allo stesso tempo, quasi ti consola. La linea guida che emerge al di la della trama, è infatti quella densità spiritualità che è un continuo affidarsi principalmente a Dio e in fondo in fondo, anche agli uomini, nella speranza di un mondo migliore. Il libro è corredato anche di una rappresentazione grafica del campo di Birkenau, oltre alla prefazione e postfazione curata da Nadia Neri.

 

 

La Festa di Primavera e la fucarazza a Carosino

di Floriano  Cartanì

Carosino torna a festeggiare nella serata del prossimo 24 marzo la Festa di Primavera, una manifestazione che vedrà riunirsi attorno all’antico rito del falò, canti, musica, danze, e l’immancabile sorso di vino simbolo di convivialità. L’iniziativa sarà curata da un apposito comitato che vede in questa antica usanza pagana, un vero e proprio rito di socialità, il quale non consiste solamente nell’accensione del falò, ma considera lo stesso come atto finale di un lungo percorso, che si fa tradizione radicata nel territorio.

La costruzione della maestosa pila per il falò, composta di legnami vari, ha  contagiato la comunità richiamando ragazzi e ragazze attorno ai riti della preparazione e della raccolta collettiva di materiali. Il progetto ha contribuito anche a recuperare il rapporto con i luoghi campestri ed i suoi tempi lenti, fatti di suoni e di racconti orali, che hanno ancora la fragranza della bellezza della semplicità. Tutto è avvenuto con massima naturalezza ed è stato possibile reperire il materiale nei diversi agri (resti di potature di viti, ulivi, ecc.) grazie alla collaborazione di alcuni contadini.

Sono state confezionate diverse fascine utili per la fucarazza e lo stesso  “saramiento” è diventato praticamente il simbolo della Festa di Primavera 2012. Il rito collettivo, cominciato mesi orsono, si concluderà appunto la sera del 24 marzo  in fondo a via De Gasperi a Carosino, dove sarà dato fuoco alla fucarazza. Nell’occasione gli appartenenti al comitato, riconoscibili dalle apposite magliette, distribuiranno ai presenti alcune t-shirt che richiamano la manifestazione, per condividere con la comunità l’evento e ricordarlo nel tempo.

Usanze e cultura dell’antica civiltà rurale, si mescolano mirabilmente ancora oggi a Carosino grazie alla Festa di Primavera. Un magico rito agreste, sospeso  tra passato e futuro, tradizione e modernità, che si consuma tra la notte e il giorno, come il fuoco in cenere. Al limitar della campagna col centro urbano.

Carosino/ La Madonna “Ti lu ‘racanu” (dell’uragano)

edicola votiva mariana (ph Marcello Gaballo)

di Floriano Cartanì

Non c’è nel mondo cristiano un paese, una città, un villaggio, che non abbia un tempio o una cappella dedicata a Maria, nelle sue innumerevoli denominazioni. E Carosino non è da meno, forte della memoria e della fede dei carosinesi per la Madonna, a cui è intitolata persino la Chiesa Madre.  Ma la stessa fede si intride di forte religiosità quando il sentire del popolo oltrepassa la stessa devozione per farsi testimonianza dell’accaduto. Ed è così che la vox populi ci ha tramandato a modo suo certo, ma in maniere molto forte ed assai intellegibile, una sorta di vicinanza miracolosa di Maria al suo popolo ed a quello carosinese in particolare.

Correva l’anno 1864 esattamente il 26 novembre quando l’allora piccolo centro di Carosino, composto per lo più da contadini, fu attraversato da una terribile tempesta di vento e pioggia che distrusse gran parte dell’abitato. Il credo popolare aveva pensato ad una vera e propria ecatombe di morti, quando si riebbe dalla furia della natura. Ma, come si legge nel libro del compianto Tonino Cinque “Carosino – Sopravvivenze storiche di una comunità“, Mandese editore, l’uragano benché molto violento, provocò solamente un paio di vittime, risparmiando gli altri abitanti dopo aver distrutto i due terzi del centro abitato, lasciato gran parte della popolazione senza tetto ed in uno stato di comprensibile sconforto (deliberazione del Consiglio Comunale del 27 novembre 1864, urgentemente convocato per l’occasione).

Il “miracolo” di così tante vite risparmiate alla furia della tempesta, fu subito attribuito all’intervento taumaturgico della Madonna che da allora, in questa ricorrenza, prese anche il nome di “Matonna ti lu ‘Racano” (Madonna dell’Uragano). Il prodigio fu ricordato persino con un particolare testo tramandato prima oralmente e poi trascritto, forse anche per comodità di chi doveva recitarlo nel corso dell’apposita funzione religiosa. A questo proposito appare veramente stupenda ed intrisa di fede l’immagine della pietà popolare ricordata in un testo nel quale la figura della Madonna appare stendente il suo mantello sulla cittadina (“Spanni lu mantu sobbra alla genti”), per salvaguardarla dalla forza irruente della natura. Una sottigliezza testuale dalla quale tuttavia si intravede tutto l’attaccamento dei carosinesi per la Madonna, e che porta dritti dritti alla prima cosa che gli abitanti di Carosino fanno nelle occasioni di passato pericolo: vanno in Chiesa per ringraziare la Madonna a cui sono particolarmente devoti.

Ora, quanto possa esserci di veramente “miracoloso” in una avvenimento del genere, non spetta a noi dirlo. Certo è che ancora oggi Carosino ricorda  quei momenti sicuramente terribili e disastrosi in maniera assai devota e recitando, alla fine della S. Messa vespertina di ogni 26 di novembre, parte del testo de  “L’urracanu a Carusino”.

Carosino. Ricorrenza dell’Immacolata: tra fede, storia e tradizione

La statua dell’Immacolata dell’antica cappella di Carosino

di Floriano Cartanì

Da sempre l’inizio dell’Avvento viene vissuto a Carosino, in provincia di Taranto, come un preciso segnale che annunzia l’imminente nascita del Signore e, nel contempo, dà il via ai preparativi  per i festeggiamenti natalizi.

La festa dell’Immacolata Concezione per esempio, che rappresenta appunto una sorta di giornata d’apertura delle memorie di questo periodo, qui a Carosino vanta una consuetudine addirittura secolare, come ricorda l’ultra centenario monumento eretto in suo onore in Piazza Dante, nei pressi della Chiesa Madre.

Una devozione mariana che ha precisi riscontri storici, se è vero com’è vero che mons. Capecelatro già nella sua relazione del 1790, evidenziava la presenza di una cappella dedicata alla Vergine nel borgo carosinese.

Questa venerazione religiosa di tutto rispetto appare legata  agli antichi nobili locali del tempo, i cui discendenti provvidero ad ufficializzarla attraverso un vero e proprio atto formale datato 8 ottobre 1829. In quel documento, l’allora Principessa di Sant’Angelo e Faggiano, nonché Duchessa di Carosino, proprietaria della suddetta cappella, cedette il manufatto alla Municipalità di Carosino, proprio per il culto della Vergine Immacolata.

In segno di gratitudine per questo gesto, la cittadinanza decise allora di istituire un’apposita festa in ricordo di quella ricorrenza, da solennizzarsi al pari dei festeggiamenti più importanti, come quelli dei Santi protettori per intenderci.

Che i Carosinesi fossero molto attaccati a questo ricordo, lo si può facilmente intuire allorquando nel giugno del 1856 si decise di aggiungere altri tre incaricati alla deputazione già esistente, in modo che la festa fosse celebrata nel migliore dei modi possibile.

Fino a tutta la seconda metà dell’800 i festeggiamenti furono eseguiti nell’ultima domenica di luglio. Solo verso la fine del secolo scorso si decise di spostare la solennità al 7 e 8 dicembre, mantenendo tuttavia una peculiarità nello svolgimento della processione.

Tutto aveva inizio il pomeriggio del 7 dicembre quando la maggior parte della popolazione carosinese,  col parroco  in testa, si recava in processione alle porte del cimitero, a prelevare il simulacro della Madonna Immacolata dall’antica cappella. Dopo alcune preghiere di rito, la statua era trasferita nella  Chiesa Madre, ove rimaneva esposta alla venerazione dei fedeli  fino al pomeriggio dell’8 dicembre. Da qui, dopo una breve sosta presso la chiesa di San Francesco, veniva riportata nell’antica cappella, il luogo dove aveva avuto origine la tradizione.

Dell’antica usanza processionale, gloriosamente trascinatasi fino all’inizio del secolo scorso, oggigiorno esiste purtroppo solamente la fiaccolata cerimoniale che si tiene la sera dell’8 dicembre dopo la messa vespertina. A questa pratica, tuttavia, viene tutt’ora affiancata l’antica consuetudine, conservatasi grazie ad un gruppo di volenterosi, che vede nella notte fra il 7 e 8 dicembre una banda musicale percorre le vie del paese suonando classici motivi natalizi.

Erano ed in alcuni casi sono ancora oggi questi, i segni che ci ripropongono, anno dopo anno, la caratteristica atmosfera di questa festa e l’immutata devozione mariana dei Carosinesi. Ci piace immaginare che ancora oggi, come allora, si dormiveglia un pò tutti in questa fatidica notte dell’Immacolata, nel tentativo di percepire dapprima in lontananza e poi sempre più vicini qui magici suoni musicali i quali, come nel più classico dei copioni di questo periodo, riscaldano oltremodo il cuore di ognuno di noi.

Libri/ Don Angelo Marzia: un uomo innamorato di Dio

 

“Don Angelo Marzia: un uomo innamorato di Dio”

di Floriano Cartanì, 2011 AlbusEdizioni

 Se la religiosità di un paese si avvale anche della presenza dei simboli e se i suoi camminamenti di fede traspaiono anche dalle parole di chi li ha vissuti, con questo libro ci troviamo di fronte ad elementi di una antropologia umana che formano il tessuto stesso di una comunità.

 Si abita un paese, è stato detto, come si può abitare la propria anima. Dentro cioè una realtà in cui la fisicità può andare trascesa dall’intimità del proprio essere. E un paese respira pure di volti, di sguardi, di strette di mano e di silenzi. Camminare tra le pagine di questo libro scritto da Floriano Cartanì è un ricercare e un ritrovare quei solchi veri, tracciati nel tempo da una comunità attraversata dalla figura di un uomo-prete, don Angelo Marzia, che ne ha caratterizzato a lungo il suo humus, spiegando le vele della fede, per andare oltre.

Grazie all’autore, in “Don Angelo Marzia: un uomo innamorato di Dio”, è possibile riconoscere non solo la storia di un sacerdote ma, soprattutto, il vissuto di un camminare nelle vicende di una comunità, quella carosinese, che lo ha accolto per oltre trent’anni, sino alla sua prematura scomparsa.

Il testo steso da Cartanì, che si avvale di una pregiata prefazione di Pierfranco Bruni, attinge a testimonianze vere e dirette ed è arricchito con fotografie di

Libri/ Repertorio del dialetto carosinese

di Floriano Cartanì 

Ha visto le stampe di recente ed è stato già presentato in ambito locale presso lo stupendo scorcio dell’Antica Cantina Sociale di Carosino, un egregio lavoro di Antonio Sapio: “Repertorio del Dialetto Carosinese”.

Nativo di Carosino, l’opera dell’ex docente di Italiano e Latino e preside di istituti superiori, s’interseca in quegli ambiti locali altamente suggestivi per la sonorità dei vocaboli usati e per la ricerca etimo-glottologica di indubbia rarità.

Più che di un libro nel classico senso del termine, il testo del prof. Sapio è una sorta di testimonianza viva del passato in alcuni casi ancora recente, resa attraverso la raccolta e repertazione della maggior parte dei vocaboli gergali, molti dei quali oramai in disuso o impolverati dalla storia del tempo.

L’opera si presenta sostanzialmente come un vero e proprio lemmario, con tanto di traduzione in lingua italiana della parola e frase che ne spiega il significato. Pur nella impostazione divulgativa del testo, va dato atto all’autore ed alla stesse Edizioni PiazzaVittorio, di aver compiuto un enorme sforzo di ricerca “archeoespressiva” del termine.

Un progetto dal quale, al di là della semplice curiosità con cui si evince la

Libri/ Tonino Bello. Danza la vita

di Floriano Cartanì

A chi si interessa veramente alla figura di don Tonino Bello, in questi ultimi anni analizzato ed approfondito in diverse pubblicazioni,  non può certamente sfuggire uno degli ultimi volumi dati alle stampe, che affronta l’operato del grande arcivescovo di Molfetta in una chiave del tutto nuova.

Si tratta di “Tonino Bello. Danza la vita”, a cura di Maria Gabriella Carlino e Maria Occhinegro, pag. 150, euro 18.00, Lupo Editore. L’antologia che raccoglie scritti, omelie e lettere di Don Tonino, si avvale di una singolare prefazione esperenziale resocontata da Nichi Vendola e nasce, prende forma e si sostanzia, sotto una preziosa quanto inusuale  veste didattica. Vuoi per il substrato professionale degli stessi autori, vuoi anche per il progetto perseguito da una casa editrice come la “Lupo”, la quale affida a queste pagine anche una

Madonna delle Grazie di Carosino: storia di un’antica devozione

Floriano Cartanì

Non c’è nel mondo cristiano, città o un villaggio, che non abbia un tempio o una cappella dedicata alla Vergine Maria, nelle sue innumerevoli denominazioni.  Anche Carosino, in provincia di Taranto, s’innesta a pieno titolo in questa consuetudine religiosa, certamente la  più remota sentita dai Carosinesi.

Il culto mariano carosinese ha radici antichissime anche se, storiograficamente, viene ricollegato alle tragiche vicende occorse all’antico casale proprio il giorno di Pasqua dell’anno 1462.  Fu la stessa comunità locale di allora, già da tempo profondamente legata alla Madonna, ad attribuire la scampata distruzione dei propri casamenti all’intervento prodigioso della Vergine Maria. La tradizione popolare racconta invece come, ancor prima di quella data, esattamente nel mese di febbraio, la Madonna apparve ad un pastorello sordomuto esprimendo la volontà  di far edificare su quella zona (l’attuale chiesa Madre di Carosino) un edificio sacro in Suo onore, che divenne in poco tempo meta obbligata degli abitanti del circondario e dei viandanti, per le numerose grazie che si ricevevano.

Oggigiorno degli antichi fasti di questo importantissimo sito religioso locale, rimangono purtroppo solo poche vestigia storiche, racchiuse essenzialmente nel prezioso e, a quanto si dice, miracoloso dipinto della Vergine. Gli elementi iconici dell’opera, fanno ascrivere il soggetto pittorico tra le matrici con chiaro influsso dell’arte bizantina. Esse sono costituiti dall’atteggiamento materno, dai lineamenti del volto e dal disegno delle mani della Vergine Maria istoriata, che emanano ancora oggi una  spiritualità molto intensa, così come testimoniano fotograficamente anche le piccole figure racchiuse in quadretti devozionali che attorniano l’altare maggiore.

Se di questo profondo culto locale appare sbiadita dal tempo la “traccia” storica, non è così per quanto attiene la devozione popolare, che risulta invece essere ancora viva nella fede mariana testimoniata dai cittadini locali.  Un apposito Comitato per la celebrazione della ricorrenza continua ancora oggi, a sollecitare e far sopravvivere questo ricordo dai forti sapori religiosi, che continua ad interrogare sulle motivazioni della fede nella tradizione popolare. A questo proposito un grandissimo slancio ad abbandonare per sempre la sterile pratica devozionale fine a se stessa ed abbracciare invece la vera forza che Maria porta con sè, racchiusa nel condurre al figlio Gesù Risorto, è stata sollecitata dalla presenza in loco del nuovo parroco. Si tratta di ripulire totalmente la becera superficialità che potrebbe accompagnare talvolta l’esteriorità del devozionismo, per dedicarsi invece a quello che più conta e cioè, nel nostro caso, amare la madre celeste alla quale lo stesso Gesù sul Golgota ci ha affidati. Significativo, a questo proposito, il messaggio di don Lucangelo, il quale ha più volte sottolineato come nell’avere bisogno di Gesù dobbiamo necessariamente rivolgerci proprio alla Madonna, in quanto nessuno come lei può raccontarcelo. Ma la fede, si diceva prima, si esprime anche attraverso la forma della festa religiosa e, per la Madonna delle Grazie Patrona di Carosino, come al solito il tradizionale cerimoniale prevede una parte prettamente religiosa, con la Santa Messa solenne, panegirico e processione del Lunedì di Pasqua; mentre per il giorno successivo, martedì, dopo la Messa Vespertina, è previsto il caratteristico corteo religioso serale di ringraziamento.

La parte civile, invece, come di consueto sarà curata con la presenza nel giorno di Pasqua e Pasquetta di ben due complessi bandistici ai quali, nella serata di martedì, si affiancheranno rinomati fuochi pirotecnici che concluderanno i festeggiamenti.

 

17 febbraio. Madonna delle Grazie di Carosino

La “Lourdes” di Carosino

 

di Floriano Cartanì

Parafrasando la celeberrima cittadina francese e fatti i dovuti paragoni, potremmo definire certamente così la venerazione e, quindi, i festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie di Carosino, che da tempo immemorabile si tengono il 17 di febbraio in questa cittadina jonica.

Le memorie, che narrano  dell’apparizione della Vergine nel luogo dove attualmente si erge la Chiesa Madre, si perdono nella notte dei secoli (pare tra il 900 e l’anno 1000). Invece dell’esistenza di un luogo di culto dedicato alla Madonna delle Grazie, si hanno i primi riferimenti certi a partire dalla prima metà del 1500,quando mons. Brancaccio venne in visita pastorale all’arcipretura di Carosino,  ed annotò l’esistenza di una vecchia cappella in onore della Madonna.  Che il luogo dell’apparizione fosse inoltre miracoloso assai, lo si intuisce facilmente anche dal resoconto tramandataci dell’evento.

La tradizione più accreditata vuole che quando ancora il casale di Carosino non esisteva, la Madonne sia apparsa ad un pastorello sordomuto dalla nascita di nome Fortunato, richiedendogli appositamente di far edificare in quel luogo una chiesa in suo onore. Il ritorno precipitoso del giovane e,

Libri/ Il Cristo degli uomini liberi

di Floriano Cartanì

“Il Cristo degli uomini liberi” di Felice Scalia – Edizioni La Meridiana 

Apri questo librettino (così lo chiama l’autore Felice Scalia) di appena 57 pagine e ti sembra di entrare in una sorta di contenitore dei giorni nostri e dei suoi fatti principali, dove si accendono speranze che lasciano l’illusorietà dietro la porta. Il Dio di cui ci parla Scalia, vero e proprio assunto di questo gesuita che è anche, teologo e filosofo, è molto più “fruibile” di quanto non si pensi ed ha una connotazione primaria che non solo è al di sopra di ogni cosa, ma è univocamente acquisibile da ogni essere umano. Lui è di tutti, ribadisce padre Felice, senza distinzione alcuna. Partendo da questo porto sicuro, l’autore leva l’ancora per affrontare in mare aperto e con inusuale chiarezza i problemi e le situazioni che avvinghiano l’uomo moderno, focalizzandole ed analizzandole alla luce delle sue esperienze personali sia di individuo che di uomo di chiesa. Scalia, attraverso un metodo di scrittura lineare e facilmente accessibile, guida il lettore anche meno accorto a considerare un’altra maniera di società contemporanea, svecchiandola dei suoi stupidi pregiudizi e fornendo, alla luce della “Parola”, spiegazioni salde

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