Donne d’un tempo da maritare

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Cosa erano costrette a fare le giovani d’un tempo

Donne da maritare

di Emilio Rubino

Il sogno o il bisogno di avere un uomo tutto per sé inizia a essere avvertito dalle ragazze ancor prima di raggiungere l’età puberale. Infatti, già nella pre-pubertà, la bambina si pone il problema di sapere come nascono i bambini e non è raro che si metta a fare la mamma o la moglie. Quando, poi, l’adolescente comincia a “mpizzutare” (età puberale), quei primi larvati desideri si tramutano in bisogni concreti e assillanti alla ricerca dell’uomo della propria vita.

Ma come procurarselo?

Per arrivare a ciò ogni donna fa ricorso a mille e mille espedienti. D’altra parte, l’esempio della mela con cui Eva ammaliò e sedusse l’ingenuo Adamo è sufficiente a spiegare le armi della seduzione utilizzate dalle donne.

Oggi è molto facile “rimorchiare” un uomo: basta fare gli occhi languidi e vogliosi, una strizzatina d’occhio, un gesto inusuale ma mirato, per fare abboccare il “fiero” maschio. Basta mandare un semplice sms o una mail per arrivare subito al “quantum”. Ma, ieri, quando la società era prevalentemente contadina e involuta, tra maschio e femmina non vi era la possibilità di incontrarsi liberamente e di scambiarsi le rispettive emozioni, perché le ragazze vivevano da recluse le loro giornate entro le “quattro mura di casa”. Per tale motivo progettavano con rabbia propositi vendicativi verso i genitori, e, in modo particolare, verso la madre carceriera. Una simpatica poesiola neritina ne giustifica la portata.

Tegnu ‘na mamma tantu telicata

ca no’ mi lassa nu mumentu sola:

vae alla chiesia e mi tene sirrata

comu nu ceddhru chiusu alla caggiola,

ma ci quarche fiata

ccappa ca mi lassa sola

‘acante fazzu bbacchia la caggiola!

In questi versi si nota il deludente risultato di una rigida e assurda condizione di vita, in cui l’uomo, tra angherie e tabù, era considerato un “pericoloso cacciatore” di donne.

Da qui il bisogno di isolare i due sessi in casa: la stanza delle figlie era nella zona più lontana, a tutela degli sguardi e delle voglie dei maschi. Ciò, però, era possibile solo quando l’ambiente-casa lo poteva permettere, altrimenti bisognava rischiare eventuali incesti. Anche in chiesa gli uomini venivano sistemati da un lato della navata e le donne dall’altro con l’imperioso divieto di comunicare con gesti o anche sguardi. A scuola la situazione non cambiava, anzi peggiorava: vi erano classi maschili e classi femminili, situate rispettivamente in corridoi diversi e i cui insegnanti erano rigidamente dello stesso sesso degli alunni. Roba d’altro mondo!

E gli uomini, che facevano, cosa dicevano? Non è poi vero che siano stati tutti mascalzoni, da cui guardarsi e tenersi lontano. Al contrario, bisognava solo saperli prendere, plasmarli, curarli e amarli.

E le donne? Sempre in maggioranza numerica rispetto agli uomini, in tante rischiavano di restare zitelle e di sentirle cantare lamentosamente:

“E mo spiccia ca sole ristamu

senza mancu cu llu pruamu!”.

Stante questa assurda situazione, la fantasia popolare faceva ricorso a sistemi molto strani e bizzarri grazie ai quali una ragazza poteva prevedere il suo futuro. Ad esempio, il 23 giugno, vigilia del giorno dedicato a San Giovanni Battista, le ragazze, dopo aver raccolto in campagna un “cardunceddhru”, lo passavano velocemente tre volte sulla fiamma viva. Se all’indomani mattina il fiore non era “ammosciato” era un buon presagio, per cui la ragazza avrebbe trovato quanto prima marito, viceversa sarebbe rimasta nubile.

Nonostante questa e altre trovate folcloristiche e nonostante la bellezza di certe donne, spesso accadeva che dei tanto invocati spasimanti non si vedesse traccia, neanche a pagarli a peso d’oro. Erano proprio le belle donne a soffrire le pene dell’inferno e a essere anche schernite.

Beddhre, beddhre, piccete sta’ chiangiti?

mo ci li brutte sontu tutte mmaritate

s’onu pigghiatu li cchiù bbeddhri zziti

e b’onu lassatu li cchiù scartiddhrati!”.

Oltre a San Giovanni Battista, altri santi venivano supplicati per una fattiva intercessione nelle faccende d’amore.

“Sciati addhrà Santu Nicola

e scià chiangiti,

‘na cràzzia cu’ llu core li circati:

Santu Nicola, ci no’ ndi mmariti

paternosci ti nui no’ ndi spittare!”.

Più che un’invocazione era un avvertimento.

Ma l’uomo, il marito, il dispensatore di felicità, come sarà?

Ogni ragazza sognava a 360 gradi e si chiedeva: “Avrò un marito bello oppure brutto?… sarà ricco o povero?… sarà un contadino o un artigiano?… un impiegato o un carabiniere”. Insomma ogni ragazza non smetteva mai di sognare!

Il destino, a volte, riservava sorprese negative, come nel gioco della “pesca reale”. Le ragazze usavano lanciare un sasso in strada, augurandosi che il futuro marito svolgesse la stessa attività del primo uomo che passava dopo il lancio della pietra, accompagnato dalla preghiera:

“Pi’ San Piethru, pi’ San Po’

menu la petra a ci passa mo’”.

Un altro sistema per predire se nel proprio futuro ci fosse un marito, era quello di fondere del piombo e di versarlo in una bacinella piena d’acqua fredda. Solidificandosi, il piombo assumeva varie forme e con un po’ di fantasia si poteva intravvedere la forma di una zappa, di una falce o di un vomere, attrezzi tipici del contadino, oppure una forma di pialla, il che richiamava l’idea del falegname, o di un rasoio o di un pennello, per un marito barbiere, o infine una cattedra, per un marito professore, banchiere o notaio.

Un’altra bizzarra trovata era quella di mettere sotto il guanciale tre fave: una con la buccia, una sbucciata e la terza priva dell’occhio gemmario. Al risveglio la ragazza doveva “pescare” a caso una delle tre fave, senza ovviamente sollevare il cuscino. Se la ragazza avesse pescato quella con la buccia, il suo futuro marito sarebbe stato ricco e l’avrebbe ricoperta di ogni ben di Dio, se avesse prelevato la fava priva della gemma, il marito sarebbe stato così e così, mentre se avesse, ahilei, scelto quella senza buccia, il futuro sposo sarebbe stato un poveraccio, forse anche privo di… mutande.

Infine, un segnale inequivocabile lanciato dalle ragazze neritine era quello di fasciarsi, all’arrivo delle prime mestruazioni, la caviglia destra con una benda per indicare chiaramente di aver raggiunto lo stato di fertilità e quindi far sapere all’intera città di essere già pronta al matrimonio. Una specie di sms “gratuito” inviato a tutti i maschi, belli e brutti.

Oggi le ragazze in amore si comportano in modo molto diverso. Sono intraprendenti, sfacciate, protagoniste della propria vita, anticipano le mosse dei maschietti.

Tutto ciò a dimostrazione che è ormai è stata raggiunta la completa parità dei sessi, almeno in questo ambito. Però, in tutta onestà, è venuto meno quel gran rituale d’un tempo, quando il maschio ricorreva ad ogni mezzo, soffriva, scalpitava, si addolorava, piangeva per conquistare una donna. Lei, invece, forse perché diffidente e insicura, si concedeva a lui poco per volta, sino a costringerlo a dimostrare i propri sentimenti con una pubblica dichiarazione di amore. Ma quelli erano ben altri tempi, molto distanti da quelli attuali. Allora i sistemi di vita erano medievali e assurdi, anche se romantici e sentimentali;  oggi, in piena età moderna e futuristica, sono soltanto goderecci e consumistici.

 

La fidanzata di Marittima

ph Giorgio Cretì

di Giorgio Cretì

Ippaziantonio, questa volta, si era trovata una fidan­zata a Marittima e l’andava a trovare in bicicletta. Tutti, allora, andavano in bi­cicletta, soprattutto i giovani che si spostavano da un paese all’altro per i loro svaghi.

Esisteva una procedura particolare per trovarsi la fidanzata, che in certi ca­si diventava complessa, ma bisognava seguirla perché era la regola. Un giovane non si avvicinava ad una ragazza per strada né le si accostava in alcun luogo pubblico. Tutto sommato, però, l’ap­proccio non era difficile, nemmeno per i più timidi. Era necessario avere una in­termediaria, ecco! Bastava che il giova­ne manifestasse le proprie intenzioni al­la ruffiana, che in ge­nere era persona già conosciuta e si pre­stava a questo tipo di ambasciate, e le di­cesse che gli piaceva la Tizia. La ruffiana riferiva e poi portava la risposta, che di solito era di attesa: non lo conosco, bisogna che lo veda. Così il giovane faceva in modo di essere visto e se la ragazza gli mandava a dire che era interessata, la cosa era fatta. A questo punto la ruffia­na poteva anche togliersi di mezzo, ma spesso era lei stessa ad organizzare il primo incontro.

Diversamente, bisognava ritentare e, in tal caso, il ruolo della intermediatrice ed il suo prendersi più o meno a cuore il caso erano molto importanti.

Così Ippaziantonio si era trovata quel­la fidanzata ed ora era giunto il giorno, il due di luglio, del patrono di Marittima. Egli l’aveva atteso, non per San Vitale, a cavallo di un baio che sembrava un asi­no – altro era il cavallo bianco di San Giorgio –. Del santo ad Ippaziantonio non importava proprio nulla. Gli importava, invece, incontrare la fidanzata e “parla­re” un po’ con lei. Si diceva

Ziti e zite di ieri, fidanzati e … sfidanzate d’oggi

da “Come eravamo”


 di Rocco Boccadamo

 

Nello scorso secolo, più precisamente per tutta la sua prima metà, al paesello, la composizione classica dei nuclei famigliari era di otto unità, ossia marito, moglie e sei figli. In taluni casi, si arrivava a nove – dieci membri e, eccezionalmente, finanche oltre; rari, invece, i focolari meno affollati.

In linea con la tendenza generale, sei figli, fra maschi e femmine, avevano procreato pure i miei nonni materni.

Intorno al 1947, ben tre degli zii – zia R., zia V. e zio T. – erano impegnati con i rispettivi ”ziti” e “zita”. All’epoca, l’accezione fidanzato/fidanzata era pressoché sconosciuta, comunque non usata, si soleva dire, giustappunto, “tenere ‘u zitu” e “tenere ‘a zita”, mentre, parallelamente, l’espressione “fare l’amore” si traduceva in un concetto, o realtà, rigorosamente ideale, solo per immaginazione: nessun contatto, ragazzi e ragazze, giovanotti e signorine, ancorché promessi o promesse, si parlavano appena, scambiando parole misurate e contenute, effusioni, carezze, affettuosità anche innocenti si enumeravano unicamente nei sogni, nelle speranze e nelle aspettative.

Tuttavia, “tenere ‘u zitu” (o  “tenere ’a zita”) non voleva dire acqua fresca, contava eccome, c’era in gioco il buon rapporto tra famiglie e rispettive parentele allargate: in genere, i boccioli spuntati all’inizio del legame andavano crescendo, trasformandosi pian piano in rigogliosi cespugli fioriti, che esplodevano con letterale, autentico lancio e spargimento dei petali all’atto del matrimonio.

Cosicché, quando avvenivano intoppi, ostacoli, interruzioni o esiti in controtendenza, potevano instaurarsi risentimenti, problemi, si finiva, in certi casi, col guastare amicizie e buoni rapporti, non ci si parlava più, almeno per un certo tempo, fra le parentele dei mancati sposi.

In tale ambiente e dentro siffatta cornice generale, successe, purtroppo, che, in breve volgere di tempo, gli anzi richiamati miei tre zii si lasciarono e le relative notizie, ovviamente, si diffusero immediatamente nella piccola località. Fu soprattutto la rottura di zio T. con la sua zita (nome di battesimo P.) a produrre gli effetti maggiormente sonori, intrisi di vibrate reazioni non solo dialettiche, prese di posizione forti e, pur nei confini di determinati limiti, addirittura plateali.

In particolare la sorella grande della mancata nuova zia, già maritata e quindi in certo qual modo autorevole, si portò più volte, trafelata e accesa, all’indirizzo dell’abitazione dei miei nonni materni, con un rosario di parole infuocate, minacce e malauguri nei confronti dello zio T., reo di aver mandato all’aria il legame.

Fortunatamente, le zie R e V. si affrancarono dai rispettivi ziti, N. e A., senza strascichi né reazioni accentuate.

Vie più fortunatamente, il caso volle che, smaltiti i postumi non tranquilli dei precedenti legami,  l’ex zita di zio T. e l’ex zito di zia R. si trovassero e scambiare fra loro occhiate d’intesa e d’interesse, ponendo in tal modo le premesse per una vita di coppia, si sposassero e mettessero su una serena famiglia.

°   °   °

Ovviamente, completamente diverso è stato lo scenario intorno all’argomento nella seconda metà del 1900 e ancora più differente si pone al presente.

A  onor del vero, si registra tuttora un’analogia rispetto al lontano 1947, nel senso che adesso non si parla di fidanzati o fidanzate, bensì di amici, amiche, compagni, compagne, ragazzi, ragazze e altri appellativi vari.

Particolare conclusivo, che trovo carino, capita di sentire, specialmente a Roma, per opera di qualche donna con trascorsi sentimentali naufragati e/o relazioni complicate, lo sfogo o confidenza o simpatica dichiarazione di stato civile, “sono sfidanzata”.

Appena una S in aggiunta, ma, appare chiaro, tanti significati intrinseci, sottintesi e palesi.

 

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