Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi

di Rocco Boccadamo

Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.

Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.

Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.

Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.

I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.

Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.

Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.

Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.

Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.

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Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.

Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.

Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.

Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.

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I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi  su  grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.

Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.

Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.

Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.

I fichi secchi dei botanici greci e latini

Ficus si capisce, ma carica?

 

di Armando Polito

La tassonomia, si sa, è scienza relativamente recente e unanimemente ne è considerato il padre Linneo, naturalista svedese del XVIII secolo, inventore del metodo binomiale, basato cioè sull’attribuzione ad ogni pianta di un nome formato da due componenti, il primo riferentesi  al genere di appartenenza (comune alle specie che presentino alcune caratteristiche principali), il secondo alla specie. Era il superamento del sistema precedente, invalso fin dai tempi dei botanici greci e latini, basato su una descrizione più o meno dettagliata di ogni pianta (con una rozza applicazione del metodo comparativo in espressioni del tipo con le foglie simili a quelle della…) ma improntata, tutto sommato, a criteri arbitrari, vale a dire personali (il che rendeva operazione difficoltosa, anche per gli addetti ai lavori, la comparazione e il controllo). Anche se era fatale che alcune nuove denominazioni si sostituissero, aggiungessero o affiancassero a quelle di Linneo, non è un caso che il terzo componente più frequente in ogni nome scientifico è ancora oggi proprio l’abbreviazione del suo nome.

È il caso di un’essenza particolarmente diffusa nel mondo mediterraneo e che fino alla metà del secolo scorso ebbe una rilevante importanza economica nel nostro territorio: il fico.

Ficus carica L. è il suo nome scientifico e, tralasciando il primo componente già oggetto di ampia trattazione in più di un post su questo sito, soffermerò la mia attenzione su carica. La voce in latino ha il significato letterale di fico secco della Caria e quello traslato di fico secco in genere.

Plinio

Per il primo significato ecco la testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.): “La Siria oltre a questo ha altri alberi peculiari. Nel genere delle noci sono conosciuti i pistacchi. Si dice che giovino contro i morsi dei serpenti come cibo e bevanda, Poi nel genere dei fichi quelli di Caria e altri dello stesso genere più piccoli che chiamano cottani1”; “Appartengono a questo genere [i fichi], come dicemmo, i cottani,  quelli di Caria e quelli di Cauno che furono di presagio a Marco Crasso mentre si apprestava ad imbarcarsi per la campagna contro i Parti quando un venditore pronunziò il loro nome2. Lucio Vitellio, che poi fu censore, li introdusse nel suo podere di Alba dalla Siria, quando era ambasciatore in quella provincia, negli ultimi anni dell’impero di Tiberio3”; “I datteri piacciono per la carnosità, quelli di Tebe per il guscio, le uve e certi datteri per il succo, pere e mele per la callosità, le more per la polpa, i noccioli per la cartilagine, certe in Egitto per i chicchi, i fichi di caria per la pelle. Questa viene tolta ai fichi verdi come scorza e invece è massimamente gradita nei secchi4”.

 

Ovidio

La voce compare pure in Ovidio (I° secolo a. C.): “Dissi: -Che pretendono per loro il dattero e il rugoso fico di Caria?-5; “Qui c’è la noce, qui c’è il fico di Caria misto ai rugosi datteri6”. La scarsa considerazione per il fico di Caria manifestato da Ovidio nel primo dei due brani appena citati viene ribadita per i cottani da Giovenale (I°-II° secolo d. C.): ”Io non dovrei evitare la porpora di costoro? Che prima di me firmi un documento e si riposi disteso sul letto migliore uno venuto a Roma spinto dallo stesso vento che porta prugne e cottani?7”. E il contemporaneo Marziale lo ribadisce a più riprese: “Nulla mi hai fatto avere in cambio del mio piccolo dono, e già son trascorsi cinque giorni dei Saturnali. Dunque, neppure pochi grammi di argento settiziano8, né la tovaglia inviatati dal cliente lamentoso? Neppure un piatto che rosseggia del sangue di tonno di Antipoli9? Neppure uno che contenga piccoli cottani?10”; “Mi hai mandato, o Umbro, tutti i regali che ti hanno portato in cinque giorni per i Saturnali: dodici tavolette a tre fogli per scrivere e sette stuzzicadenti; a questi si aggiunsero come compagni una spugna, un tovagliolo, un bicchiere e mezzo moggio di fave con un cesto di olive del Piceno e un nero vaso di mosto cotto di Laletania11; e vennero piccoli cottano con biondeggianti prugne e un vaso pieno pieno di fichi della Libia. Credo che questi doni a me recapitati da otto imponenti (facchini) di Siria a stento valgano tutti trenta nummi. Con quanto minore sforzo un tuo garzone avrebbe potuto recapitarmi cinque once d’argento!12”; “Questi cottani che ti giunsero riposti a forma di ritorta colonnetta sarebbero stati fichi se fossero stati più grandi13”.

Lucio Anneo Seneca

Eppure, che tavolette da scrivere e cottani fossero tra i regali consueti in occasione di importanti festività è chiaro dalle parole di Seneca (I° secolo d. C.) : “Dal pranzo nulla potè esser tolto. Fu preparato in non più di un’ora, in nessun caso senza fichi di Caria, in nessun caso senza tavolette per scrivere. QuellI [i fichi] se ho il pane fungono da companatico, altrimenti, invece del pane, ogni giorno mi rinnovano il nuovo anno, che io rendo fausto e felice con i buoni pensieri e con la grandezza d’animo14”.

Lascio per ultima la testimonianza di Petronio (I° secolo d. C.) per la sua attualità estrema che da una parte, secondo me troppo sbrigativamente, può essere valutata come la solita laudatio temporis acti (nostalgia del tempo che fu) oppure, peggio, dall’altra  (non certo da quella dei poveracci e degli onesti…) come qualunquistica: “E così in quel tempo  approvvigionarsi era come raccogliere cicorie selvatiche. Se tu compravi un asse di pane non avresti potuto consumarlo interamente neppure con un altro. Ora ti tocca un panino che è più piccolo dell’occhio di un bue. Poveri noi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce in senso contrario, come la coda di un vitello. Ma perché abbiamo un edile che non vale tre fichi di Cauno, il quale darebbe la nostra vita in cambio di un asse? E così se la gode a casa sua e in un giorno guadagna più nummi di quanto riesca a guadagnarne un altro in tutta una vita15. So benissimo donde ha arraffato mille monete d’oro. Ma se noi avessimo i coglioni16 non se la godrebbe così. Il fatto è che il popolo in casa è un leone, fuori una volpe17”.

Non sono un giocattolo a molla e nemmeno un cavalleggero, ma la carica si è esaurita…

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1Traduco così il còttana del testo originale (Naturalis historia, XIII, 10: Syria praeter hanc peculiares habet arbores. In nucum generepistacis nota. Prodesse adversus serpentium traduntur morsus, et potu et cibo. In ficorum autem caricas et minores eius generis, quae cottana vocant).  La variante còctana potrebbe facilmente indurre a supporre che il nome sia forma aggettivale neutro plurale dalla radice (coct-) del supino (coctum) del  verbo còquere, con riferimento al fatto che si trattava di una varietà particolarmente adatta all’essiccazione se non, addirittura, alla successiva cottura nel forno; nulla di tutto questo perché in latino nel suffisso aggettivale –ànus/-àna/-ànum la a è sempre lunga, per cui avremmo dovuto avere cottàna e non còttana come nel nostro caso. In realtà la voce pliniana è trascrizione del plurale del greco kòttanon (in cui la a è breve, per cui in latino l’accento risulta sulla sillaba precedente) attestato in Ateneo di Naucrati (autore del II°-III° secolo d. C., ma la sua opera contiene citazioni di poeti perduti di molto più antichi), Deipnosofisti, IX, 34 (385°): “Dicendo un altro che era un piatto gradevolissimo anche la gallina in salsa di olio e aceto, Ulpiano che ha sempre da dire la sua, il solo che se ne stava disteso mangiando poco e tenendo d’occhio quelli che parlavano, disse: -Che è mai la salsa di olio e aceto se voi non nominerete i cottani e il lepidio, cibi caratteristici della mia patria?-“.

2 Ne aveva parlato Cicerone (I° secolo a. C.), De divinatione, II, 40: Cum M. Crassus exercitum Brundisii imponeret, quidam in portu caricas Cauno advectas vendens, -Cauneas- clamitabat. Dicamus, si placet, monitum ab eo Crassum caveret ne iret: non fuisse periturum si omini paruisset (Mentre Crasso imbarcava a brindisi l’esercito, un tale che vendeva nel porto fichi importati da Cauno [città della Caria] andava gridando: -Fichi di Cauno!-. Diciamolo pure, se vogliamo: ammonito da questo fatto, Crasso si sarebbe dovuto ben guardare dal partire; non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio). La predizione nefasta coinvolgerebbe i fichi di Cauno solo marginalmente perché sarebbe tutta imperniata su un gioco di parole in base al quale il Cauneas! gridato dal venditore non sarebbe altro che la contrazione della locuzione cave ne eas!=guardati bene dal partire!

Op. cit., XV, 21: Ex hoc genere sunt, ut diximus, cottana et caricae quaeque conscendendi navem adversus Parthos omen fecere M. Crasso venales praedicantes voce, Cauneae. Omnia haec in Albense rus e Syria intulit L. Vitellius, qui postea censor fuit, cum legatus in ea provincia esset, novissimis T. Caesaris temporibus.

4 Op. cit., XV, 34: Carne palmae placent, crusta Thebaicae, suco uvae et caryotae, callo pira ac mala, corpore mora, cartilagine nuclei, grano quaedam in Aegypto,  cute caricae. Detrahitur haec ficis virentibus ut putamen, eademque in siccis maxime placet.

5 Fasti, I, 185: -Quid volt palma sibi rugosaque carica?- dixi.

6 Metamorfosi, VIII, 674: Hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis.

7 Satire, III, 77-79: Horum ego non fugiam conchylia? Me prior ille/ signabit fultusque toro meliore recumbet,/advectus Romam quo pruna et cottana vento?

8 Di bassa lega, da saeptum=recinto, con riferimento al luogo dove i Romani contrattavano e vendevano a peso.

9 Oggi Antibes.

10 Epigrammi, IV, 88, vv. 1-6: Nulla remisisti parvo pro munere dona,/et iam Saturni quinque fuere dies./Ergo nec argenti sex scriptula Sepriniani,/missa nec a querulo mappa cliente fuit?/Antipolitani nec quae de sanguine thynni/testa rubet? Nec quae coctana parv gerit? Il motivo, però, era comparso un secolo prima in Stazio, Silvae, IV, 9, 27-28: Nusquam turbine conditus ruenti/prunorum globus atque coctanorum? (In nessun caso [hai da mandarmi] un ammasso informe di prugne e di cottani buttati giù da un vento rovinoso?).

11 Regione della Spagna.

12 Op. cit., VII, 53: Omnia misisti mihi saturnalibus, Umber,/munera, contulerant quae tibi quinque dies: bis senos triplices et dentiscalpis septem;/his comes accessit spongia, mappa, calix/semodiusque fabae cum vimine Picenarum,/et Laletanae nigra lagena sapae; parvaque cum canis venerunt coctana prunis,/et Libycae fici pondere testa gravis./Vix puto triginta nummorum tota fuisse/munera, quae grandes octo tulere Syri./Quanto commodius nullo mihi ferre labore/argenti potuit pondera quinque puer!

13 Op. cit., XIII, 29: Haec tibi quae torta venerunt condita meta,/si maiota forent coctana, ficus erant.

14 Epistole, 87: De prandio nihil detrahi potuit. Paratum fuit non magis hora, nusquam sine caricis, nusquam sine pugillaribus. Illae, si panem habeo, pro pulmentario sunt; si non, pro pane quotidie mihi annum novum faciunt, quel ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus  et animi magnitudine.

15 Si direbbe, tanto per fare un esempio già citato nel pregevole post di Gianni Ferraris Ahi Alessano, terra di Tonino Bello! del 13 gennaio u.s., il “trota” ante litteram. Vallo a spiegare all’interessato quello che ho appena finito di dire…; credo, però, che la spiegazione sarebbe complicata anche per i destinatari dei benefici di cui ci dà notizia Rocco Boccadamo nel suo contributo Pugni nello stomaco alla crisi del 14 gennaio u.s….

16 Mai traduzione dell’originale sed si nos coleos haberemus fu così doverosamente letterale.

17 Satyricon, 44: Itaque illo tempore annona pro luto erat. Asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare. Nunc oculum bublum vidi maiorem. Heu heu, quotidie peius! Haec colonia retroversus crescit tanquam coda vituli. Sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram? Itaque domi gaudet, plus in die nummorum accipit quam alter patrimonium habet. Iam scio unde acceperit denarios mille aureos. Sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. Nunc populus est domi leones, foras vulpes. Nel volpe (puntualmente, arbitrariamente e erroneamente, per quanto dirò, trasformato dai traduttori in pecora) contrapposto a leone, un’amara autocritica, con la citazione della favola di Esopo che così riassumo: La volpe la prima volta che vide il leone morì quasi dallo spavento, la seconda si spaventò di meno, la terza divenne così coraggiosa da attaccarci bottone. Morale: l’abitudine rende tollerabile ciò che prima ci turbava profondamente.

Alla ricerca dell’ anagrafe dei fichi del Salento

Investigazione sulla collezione Guglielmi

“Fichi del leccese” (Ficus carica L.)

 

di Antonio Bruno

fichi

Il fico era molto importante nel Salento leccese tanto che il segretario perpetuo della Società economica di Terra d’Otranto, signor Gaetano Stella, nel suo rapporto letto nella adunanza generale del 30 maggio dell’anno 1841 afferma: “ ….L’industria dei fichi secchi nella Provincia di Lecce è molto diffusa, ed è oggetto di esteso commercio, cosicché somma è la cura che dell’albero di fico bisogna avere. Laonde di molta utilità è stata una memoria dello stesso signor segretario perpetuo tendente a dimostrare, non esser necessaria la caprificazione, come volgarmente credesi, per molte varietà di fichi, imperocchè coloro i quali vorranno seguire i suoi precetti, conformi a quelli dei migliori agronomi di tutta Europa, otterranno non solamente risparmio di spese e fatica, ma innestando anche a fichi gentili il gran numero di caprifichi che il pregiudizio conserva, si verrebbe di molto a crescere la raccolta di questo frutto.

Che curiosità! A quale pratica si riferisce il segretario perpetuo della Società economica di Terra d’Otranto, signor Gaetano Stella?

Mi viene in soccorso il Rendiconto della adunanze e de’ lavori della Reale Accademia delle Scienze di Napoli di quatto anni dopo ovvero del 1845. In queste adunanze Vincenzo Semmola a proposito della maturazione del fico cita Teofrasto e Plinio i quali scrissero: “i fichi piantati accosto le vie non aver bisogno di caprificazione” E a questo proposito cita “la pratica tenuta da que’ di Lecce che spargono a bel proposito sopra i fichi immaturi la polvere delle strade ove sia passata la processione del Corpus Domini”.

Insomma la mia curiosità ha avuto soddisfazione perché la mia ricerca ha trovato dei documenti che contenevano una risposta.

Ma sempre a proposito di fichi ho una curiosità che non ha trovato soddisfazione perché rimasta senza risposta; riguarda la citazione da parte del prof. Giacinto Donno, degli studi di Giuseppe Guglielmi. Donno riferisce che il Guglielmi ha studiato il fico nel leccese e riporta i dati di produzione, che si presume facciano parte di una pubblicazione curata dallo stesso Guglielmi, e che riporto qui di seguito

 Produzione in Kg per ogni albero

Varietà           Produzioni annuali     5anni Kg      20 anni Kg     da 20 anni in poi Kg

Fico Nero     due per ogni albero       8                        50                      100

Fico Pazzo     una per ogni albero       9                        55                    75 – 80

Fico ottato     una per ogni albero       8                        45                       80

Fico peloso    una per ogni albero      10                      40                        80

 

Ho cercato nella Biblioteca Provinciale la pubblicazione succitata senza successo. Ma soprattutto ho cercato di sapere chi sia Giuseppe Guglielmi, perché avesse intrapreso lo studio del Fico nel leccese ma non ho trovato davvero nulla e, nessuno dei colleghi che ho interpellato ne ha mai sentito parlare, anche se una parziale risposta viene da un brano del prof. Donno riportato in un’altra pubblicazione. Il prof Donno a proposito di Giuseppe Guglielmi scrive: “Il Guglielmi, che si prefigge lo studio della coltivazione industriale (del fico n.d.r) del leccese, trascura di mettere in evidenza il biferismo delle varietà studiate”.

La parola biferismo deriva da bìfero che a sua volta deriva dal latino Biferum che è composto  dalla parola bis (due volte)  e dalla parola fèr-re (portare) . Dicesi di pianta che produce il frutto due volte l’anno come nel caso di alcune varietà di fico che oltre  alla produzione dei fichi ha anche quella dei fioroni.

Sempre continuando nella lettura delle note del prof. Donno in esse si trova scritto che Giuseppe Guglielmi ha studiato il Fico Fracazzano Bianco, il Fico Nero, il Fico Ottato, il Fico Albanega, il Fico Borsamele, il fico Coppa, il Fico dell’Abate e il Fico Fara. Ma lo stesso Donno non riporta gli studi del Guglielmi sul fico pazzo e sulla varietà fico peloso.

Ho fatto una ricerca e leggendo la pubblicazione Herbarium Porticense (Erbario della Facoltà di Portici Real Scuola Superiore di Agricoltura) redatta da Antonino De Natale, ho appreso che solo una parte della collezione Guglielmi, denominata Fichi del leccese e datata 1908, è a Portici, mi chiedo chi abbia la parte mancante, inoltre nella pubblicazione curata dalla facoltà di Agraria dell’università di Napoli si legge:

Della collezione di Giuseppe Guglielmi non si possiedono indicazioni, né riguardo alla data di acquisizione da parte della Regia Scuola di Agricoltura di Portici, né sull’autore delle erborizzazioni.

La collezione Guglielmi dovrebbe risalire agli inizi del 1900, a quel periodo risalgono anche altri studi condotti dai botanici di estrazione agronomica della Regia Scuola di Agricoltura, come lo studio sulla storia, la filogenesi e la sistematica delle razze del Fagiolo comune di Orazio Comes, i cotoni di Angelo Aliotta, le razze di olivo coltivate nel meridione d’Italia di Mario Marinucci, i fieni delle praterie naturali del Mezzogiorno d’Italia di Alfredo Pugliese, lo studio sul frumento e quello sulle varietà di mandorlo italiane di Vincenzo Barrese.

La collezione dei Fichi del leccese è sicuramente parte integrante di uno studio teso a definire le caratteristiche anatomiche delle varie cultivar di fico presenti nel territorio di Lecce. Per ogni campione, oltre all’essiccato, è riportato il disegno dei contorni di una foglia tipo e della sezione longitudinale del frutto con le relative misure, come ad esempio la larghezza massima della foglia e dei lobi fogliari. Il nome della pianta coltivata non segue le regole di nomenclatura scientifica, ma è espresso in italiano, come ad esempio Fico napoletano. D’altra parte in passato soprattutto per le piante coltivate, che non rappresentano delle entità specifiche, molto spesso si adoperava il nome italiano. Lo stesso Francesco Dehnhardt, capo-giardiniere del Real Orto Botanico di Napoli, direttore dei Reali Giardini di Capodimonte, della Villa Floridiana e del giardino botanico del Conte di Camaldoli al Vomero (Villa Ricciardi), nella stesura del catalogo delle piante che venivano coltivate nell’ Horti Camaldulensis riporta i nomi delle cultivar in italiano.

Orazio Comes annovera (1906) inoltre, tra le varie collezioni presenti nell’erbario, quella di Giuseppe Celi riguardante le varie cultivar di fichi coltivati nel meridione d’Italia. Attraverso un confronto tra i reperti della Collezione Guglielmi con il lavoro scientifico pubblicato dal Celi (1908) si è accertato che, il fascicolo custodito nell’Erbario Comes, costituisce una parte dei campioni che Celi esaminò ed utilizzò per la stesura della suddetta pubblicazione scientifica. La collezione Guglielmi è, quindi, l’unica porzione superstite dei reperti appartenenti alla ben più grande collezione delle razze dei fichi che si coltivavano nell’Italia meridionale.”

So che ci sono tanti scienziati che leggono le mie note e a cui chiedo umilmente di illuminarmi, lo faccio perché in questo modo la mia curiosità avrà finalmente soddisfazione. Se la mia curiosità è destinata a rimanere insoddisfatta è perché, così come l’autore Antonio De Natale, anche gli scienziati del Salento leccese e della Facoltà di Agraria di Bari non possiedono indicazioni, né riguardo alla Collezione Guglielmi delle Razze di fico del leccese visionabile presso la facoltà di Agraria di Portici, né sullo stesso Giuseppe Guglielmi autore delle erborizzazioni.

In quest’ultimo caso mi auguro che, l’aver messo nero su bianco le risultanze delle mie ricerche su Giuseppe Guglielmi, sia un incitamento agli studiosi per “andare a cercare laddove io non saprei dove andare a cercare” al fine di ottenere le risposte a tutte queste domande che sono sparse in questo mio scritto che definirei “investigativo”.

Ma come dicono i miei amici avvocati vi è di più. Ricordo a me stesso che la giunta regionale pugliese, su proposta dell’allora Assessore alle risorse agroalimentari, Dario Stefano, ha approvato  il disegno di legge “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario, forestale e zootecnico” che potrebbe dare agli scienziati dell’Università del Salento le risorse finanziarie necessarie per poter trovare e studiare la Collezione delle varietà di Fichi del Leccese fatta da Giuseppe Guglielmi nel 1908.

La riscoperta dell’ anagrafe dei fichi del Salento leccese fatta da Giuseppe Guglielmi costituirà un baluardo importante contro la progressiva erosione della biodiversità del fico e sarà uno strumento fondamentale per la ricostituzione di boschi di fico delle varietà autoctone del Salento leccese!

Sarebbe interessante il confronto tra la collezione Guglielmi e il lavoro svolto dall’Orto Botanico dell’Università del Salento che ha individuato 100 (cento) cultivar di Fico (Ficus carica L.).

A questo proposito ho un’altra curiosità che spero di soddisfare presto, che è quella di visionare il documentario “La via delle fiche” a cura di Carlo Cascione e Francesco Minonne, dove il termine fiche rinvia alla variante dialettale che il prelibato frutto del “fico” assume nella parlata salentina. Il film è la storia di un viaggio in bicicletta attraverso il Salento che parte da Casarano alla scoperta delle numerose varietà di fico presenti sul territorio. Ce n’è lavoro da fare, vero? E allora che aspettiamo? Rimbocchiamoci le maniche e ….cominciamo!

 

Bibliografia

Annali Civili del Regno delle Due Sicilie Fascicolo XLIX Gennaio e Febbraio 1841

Rendiconto della adunanze e de’ lavori della Reale accademia delle scienze di Napoli numero 24 del 1845

Giacinto Donno, Il Fico nel Salento

Giacinto Donno, Alcune varietà bifere di fico coltivate in Provincia di Lecce

Giacinto Donno, Alcune varietà unifere di fico coltivate in Provincia di Lecce

Antonino De Natale, I musei delle scienze agrarie – Herbarium Porticense (Erbario della Facoltà di Portici Real Scuola Superiore di Agricoltura)

Rita Accogli, Un Orto Botanico a Lecce per la difesa della biodiversità del Salento – Il Bollettino n. 9; 2 febbraio 2009

Alberto Nutricati,Tanti giovani filmano «la via delle fiche, Gazzetta del Mezzogiorno del 8/09/2009.

I fichi secchi dei botanici greci e latini

Ficus si capisce, ma carica?

 

di Armando Polito

La tassonomia, si sa, è scienza relativamente recente e unanimemente ne è considerato il padre Linneo, naturalista svedese del XVIII secolo, inventore del metodo binomiale, basato cioè sull’attribuzione ad ogni pianta di un nome formato da due componenti, il primo riferentesi  al genere di appartenenza (comune alle specie che presentino alcune caratteristiche principali), il secondo alla specie. Era il superamento del sistema precedente, invalso fin dai tempi dei botanici greci e latini, basato su una descrizione più o meno dettagliata di ogni pianta (con una rozza applicazione del metodo comparativo in espressioni del tipo con le foglie simili a quelle della…) ma improntata, tutto sommato, a criteri arbitrari, vale a dire personali (il che rendeva operazione difficoltosa, anche per gli addetti ai lavori, la comparazione e il controllo). Anche se era fatale che alcune nuove denominazioni si sostituissero, aggiungessero o affiancassero a quelle di Linneo, non è un caso che il terzo componente più frequente in ogni nome scientifico è ancora oggi proprio l’abbreviazione del suo nome.

È il caso di un’essenza particolarmente diffusa nel mondo mediterraneo e che fino alla metà del secolo scorso ebbe una rilevante importanza economica nel nostro territorio: il fico.

Ficus carica L. è il suo nome scientifico e, tralasciando il primo componente già oggetto di ampia trattazione in più di un post su questo sito, soffermerò la mia attenzione su carica. La voce in latino ha il significato letterale di fico secco della Caria e quello traslato di fico secco in genere.

Plinio

Per il primo significato ecco la testimonianza di Plinio (I° secolo d. C.): “La Siria oltre a questo ha altri alberi peculiari. Nel genere delle noci sono conosciuti i pistacchi. Si dice che giovino contro i morsi dei serpenti come cibo e bevanda, Poi nel genere dei fichi quelli di Caria e altri dello stesso genere più piccoli che chiamano cottani1”; “Appartengono a questo genere [i fichi], come dicemmo, i cottani,  quelli di Caria e quelli di Cauno che furono di presagio a Marco Crasso mentre si apprestava ad imbarcarsi per la campagna contro i Parti quando un venditore pronunziò il loro nome2. Lucio Vitellio, che poi fu censore, li introdusse nel suo podere di Alba dalla Siria, quando era ambasciatore in quella provincia, negli ultimi anni dell’impero di Tiberio3”; “I datteri piacciono per la carnosità, quelli di Tebe per il guscio, le uve e certi datteri per il succo, pere e mele per la callosità, le more per la polpa, i noccioli per la cartilagine, certe in Egitto per i chicchi, i fichi di caria per la pelle. Questa viene tolta ai fichi verdi come scorza e invece è massimamente gradita nei secchi4”.

 

Ovidio

La voce compare pure in Ovidio (I° secolo a. C.): “Dissi: -Che pretendono per loro il dattero e il rugoso fico di Caria?-5; “Qui c’è la noce, qui c’è il fico di Caria misto ai rugosi datteri6”. La scarsa considerazione per il fico di Caria manifestato da Ovidio nel primo dei due brani appena citati viene ribadita per i cottani da Giovenale (I°-II° secolo d. C.): ”Io non dovrei evitare la porpora di costoro? Che prima di me firmi un documento e si riposi disteso sul letto migliore uno venuto a Roma spinto dallo stesso vento che porta prugne e cottani?7”. E il contemporaneo Marziale lo ribadisce a più riprese: “Nulla mi hai fatto avere in cambio del mio piccolo dono, e già son trascorsi cinque giorni dei Saturnali. Dunque, neppure pochi grammi di argento settiziano8, né la tovaglia inviatati dal cliente lamentoso? Neppure un piatto che rosseggia del sangue di tonno di Antipoli9? Neppure uno che contenga piccoli cottani?10”; “Mi hai mandato, o Umbro, tutti i regali che ti hanno portato in cinque giorni per i Saturnali: dodici tavolette a tre fogli per scrivere e sette stuzzicadenti; a questi si aggiunsero come compagni una spugna, un tovagliolo, un bicchiere e mezzo moggio di fave con un cesto di olive del Piceno e un nero vaso di mosto cotto di Laletania11; e vennero piccoli cottano con biondeggianti prugne e un vaso pieno pieno di fichi della Libia. Credo che questi doni a me recapitati da otto imponenti (facchini) di Siria a stento valgano tutti trenta nummi. Con quanto minore sforzo un tuo garzone avrebbe potuto recapitarmi cinque once d’argento!12”; “Questi cottani che ti giunsero riposti a forma di ritorta colonnetta sarebbero stati fichi se fossero stati più grandi13”.

Lucio Anneo Seneca

Eppure, che tavolette da scrivere e cottani fossero tra i regali consueti in occasione di importanti festività è chiaro dalle parole di Seneca (I° secolo d. C.) : “Dal pranzo nulla potè esser tolto. Fu preparato in non più di un’ora, in nessun caso senza fichi di Caria, in nessun caso senza tavolette per scrivere. QuellI [i fichi] se ho il pane fungono da companatico, altrimenti, invece del pane, ogni giorno mi rinnovano il nuovo anno, che io rendo fausto e felice con i buoni pensieri e con la grandezza d’animo14”.

Lascio per ultima la testimonianza di Petronio (I° secolo d. C.) per la sua attualità estrema che da una parte, secondo me troppo sbrigativamente, può essere valutata come la solita laudatio temporis acti (nostalgia del tempo che fu) oppure, peggio, dall’altra  (non certo da quella dei poveracci e degli onesti…) come qualunquistica: “E così in quel tempo  approvvigionarsi era come raccogliere cicorie selvatiche. Se tu compravi un asse di pane non avresti potuto consumarlo interamente neppure con un altro. Ora ti tocca un panino che è più piccolo dell’occhio di un bue. Poveri noi, ogni giorno peggio! Questo paese cresce in senso contrario, come la coda di un vitello. Ma perché abbiamo un edile che non vale tre fichi di Cauno, il quale darebbe la nostra vita in cambio di un asse? E così se la gode a casa sua e in un giorno guadagna più nummi di quanto riesca a guadagnarne un altro in tutta una vita15. So benissimo donde ha arraffato mille monete d’oro. Ma se noi avessimo i coglioni16 non se la godrebbe così. Il fatto è che il popolo in casa è un leone, fuori una volpe17”.

Non sono un giocattolo a molla e nemmeno un cavalleggero, ma la carica si è esaurita…

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1Traduco così il còttana del testo originale (Naturalis historia, XIII, 10: Syria praeter hanc peculiares habet arbores. In nucum generepistacis nota. Prodesse adversus serpentium traduntur morsus, et potu et cibo. In ficorum autem caricas et minores eius generis, quae cottana vocant).  La variante còctana potrebbe facilmente indurre a supporre che il nome sia forma aggettivale neutro plurale dalla radice (coct-) del supino (coctum) del  verbo còquere, con riferimento al fatto che si trattava di una varietà particolarmente adatta all’essiccazione se non, addirittura, alla successiva cottura nel forno; nulla di tutto questo perché in latino nel suffisso aggettivale –ànus/-àna/-ànum la a è sempre lunga, per cui avremmo dovuto avere cottàna e non còttana come nel nostro caso. In realtà la voce pliniana è trascrizione del plurale del greco kòttanon (in cui la a è breve, per cui in latino l’accento risulta sulla sillaba precedente) attestato in Ateneo di Naucrati (autore del II°-III° secolo d. C., ma la sua opera contiene citazioni di poeti perduti di molto più antichi), Deipnosofisti, IX, 34 (385°): “Dicendo un altro che era un piatto gradevolissimo anche la gallina in salsa di olio e aceto, Ulpiano che ha sempre da dire la sua, il solo che se ne stava disteso mangiando poco e tenendo d’occhio quelli che parlavano, disse: -Che è mai la salsa di olio e aceto se voi non nominerete i cottani e il lepidio, cibi caratteristici della mia patria?-“.

2 Ne aveva parlato Cicerone (I° secolo a. C.), De divinatione, II, 40: Cum M. Crassus exercitum Brundisii imponeret, quidam in portu caricas Cauno advectas vendens, -Cauneas- clamitabat. Dicamus, si placet, monitum ab eo Crassum caveret ne iret: non fuisse periturum si omini paruisset (Mentre Crasso imbarcava a brindisi l’esercito, un tale che vendeva nel porto fichi importati da Cauno [città della Caria] andava gridando: -Fichi di Cauno!-. Diciamolo pure, se vogliamo: ammonito da questo fatto, Crasso si sarebbe dovuto ben guardare dal partire; non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio). La predizione nefasta coinvolgerebbe i fichi di Cauno solo marginalmente perché sarebbe tutta imperniata su un gioco di parole in base al quale il Cauneas! gridato dal venditore non sarebbe altro che la contrazione della locuzione cave ne eas!=guardati bene dal partire!

Op. cit., XV, 21: Ex hoc genere sunt, ut diximus, cottana et caricae quaeque conscendendi navem adversus Parthos omen fecere M. Crasso venales praedicantes voce, Cauneae. Omnia haec in Albense rus e Syria intulit L. Vitellius, qui postea censor fuit, cum legatus in ea provincia esset, novissimis T. Caesaris temporibus.

4 Op. cit., XV, 34: Carne palmae placent, crusta Thebaicae, suco uvae et caryotae, callo pira ac mala, corpore mora, cartilagine nuclei, grano quaedam in Aegypto,  cute caricae. Detrahitur haec ficis virentibus ut putamen, eademque in siccis maxime placet.

5 Fasti, I, 185: -Quid volt palma sibi rugosaque carica?- dixi.

6 Metamorfosi, VIII, 674: Hic nux, hic mixta est rugosis carica palmis.

7 Satire, III, 77-79: Horum ego non fugiam conchylia? Me prior ille/ signabit fultusque toro meliore recumbet,/advectus Romam quo pruna et cottana vento?

8 Di bassa lega, da saeptum=recinto, con riferimento al luogo dove i Romani contrattavano e vendevano a peso.

9 Oggi Antibes.

10 Epigrammi, IV, 88, vv. 1-6: Nulla remisisti parvo pro munere dona,/et iam Saturni quinque fuere dies./Ergo nec argenti sex scriptula Sepriniani,/missa nec a querulo mappa cliente fuit?/Antipolitani nec quae de sanguine thynni/testa rubet? Nec quae coctana parv gerit? Il motivo, però, era comparso un secolo prima in Stazio, Silvae, IV, 9, 27-28: Nusquam turbine conditus ruenti/prunorum globus atque coctanorum? (In nessun caso [hai da mandarmi] un ammasso informe di prugne e di cottani buttati giù da un vento rovinoso?).

11 Regione della Spagna.

12 Op. cit., VII, 53: Omnia misisti mihi saturnalibus, Umber,/munera, contulerant quae tibi quinque dies: bis senos triplices et dentiscalpis septem;/his comes accessit spongia, mappa, calix/semodiusque fabae cum vimine Picenarum,/et Laletanae nigra lagena sapae; parvaque cum canis venerunt coctana prunis,/et Libycae fici pondere testa gravis./Vix puto triginta nummorum tota fuisse/munera, quae grandes octo tulere Syri./Quanto commodius nullo mihi ferre labore/argenti potuit pondera quinque puer!

13 Op. cit., XIII, 29: Haec tibi quae torta venerunt condita meta,/si maiota forent coctana, ficus erant.

14 Epistole, 87: De prandio nihil detrahi potuit. Paratum fuit non magis hora, nusquam sine caricis, nusquam sine pugillaribus. Illae, si panem habeo, pro pulmentario sunt; si non, pro pane quotidie mihi annum novum faciunt, quel ego faustum et felicem reddo bonis cogitationibus  et animi magnitudine.

15 Si direbbe, tanto per fare un esempio già citato nel pregevole post di Gianni Ferraris Ahi Alessano, terra di Tonino Bello! del 13 gennaio u.s., il “trota” ante litteram. Vallo a spiegare all’interessato quello che ho appena finito di dire…; credo, però, che la spiegazione sarebbe complicata anche per i destinatari dei benefici di cui ci dà notizia Rocco Boccadamo nel suo contributo Pugni nello stomaco alla crisi del 14 gennaio u.s….

16 Mai traduzione dell’originale sed si nos coleos haberemus fu così doverosamente letterale.

17 Satyricon, 44: Itaque illo tempore annona pro luto erat. Asse panem quem emisses, non potuisses cum altero devorare. Nunc oculum bublum vidi maiorem. Heu heu, quotidie peius! Haec colonia retroversus crescit tanquam coda vituli. Sed quare nos habemus aedilem trium cauniarum, qui sibi mavult assem quam vitam nostram? Itaque domi gaudet, plus in die nummorum accipit quam alter patrimonium habet. Iam scio unde acceperit denarios mille aureos. Sed si nos coleos haberemus, non tantum sibi placeret. Nunc populus est domi leones, foras vulpes. Nel volpe (puntualmente, arbitrariamente e erroneamente, per quanto dirò, trasformato dai traduttori in pecora) contrapposto a leone, un’amara autocritica, con la citazione della favola di Esopo che così riassumo: La volpe la prima volta che vide il leone morì quasi dallo spavento, la seconda si spaventò di meno, la terza divenne così coraggiosa da attaccarci bottone. Morale: l’abitudine rende tollerabile ciò che prima ci turbava profondamente.

Frutti della terra nel Salento: oggi, parliamo di lupini, carrube e fichi

di Rocco Boccadamo

Sono frutti, prodotti, derrate, cui, adesso, si annette rilievo scarso, se non, addirittura nullo; si è quasi arrivati a ignorarne l’esistenza, la cura e l’uso.

Sulla scena delle risorse agricole locali, resistono appena, con alti e bassi, le granaglie, le olive, l’uva, gli agrumi, gli ortaggi e/o verdure.

Lupini, carrube e fichi sono, insomma, divenuti figli minori e spuri della terra, le relative coltivazioni appaiono rarefatte e, di conseguenza, i raccolti trascurati o abbandonati.

Mentre, sino alla metà del ventesimo secolo ma anche a tutto il 1960/1970, rappresentavano beni indicativi per i bilanci delle famiglie di agricoltori e contadini ed elementi di non poco conto per le stesse, dirette occorrenze alimentari.

I primi, della sottofamiglia delle Faboidee, al presente richiamati solo sulla carta e nelle enciclopedie come utili ai fini della decantata “dieta mediterranea”, si trovavano diffusi su vasta scala, specialmente nelle piccole proprietà contadine attigue alla costiera, fatte più di roccia che di terra rossa, si seminavano automaticamente e immancabilmente senza bisogno di soverchia preparazione del terreno, né necessità di cure durante il germoglio e la crescita delle piante, dapprima in unità filiformi, poi robuste e ben radicate sino all’altezza di metri 1 – 1,50, recanti, alla sommità, rudi baccelli contenenti frutti a forma discoidale, compatti, di colore fra il giallo e il beige – biancastro.

Al momento giusto, le piante erano divelte a forza di braccia e sotto la stretta di mani callose e affastellate in grosse fascine o sarcine. A spalla, i produttori trasportavano quindi tale raccolto nel giardino o campicello, con o senza aia agricola annessa, più prossimo alla casa di abitazione nel paese, lasciandolo lì, sparso, a essiccare completamente sotto il sole.

Dopo di che, avevano luogo le operazioni di separazione dei frutti dai baccelli e dalle piante, sottoforma di sonore battiture per mezzo di aste e forconi di legno. Diviso opportunamente il tutto, con i già accennati discoidi, si riempivano sacchi e sacchetti.

Il prodotto, in piccola parte, era conservato per le occorrenze, diciamo così, domestiche: previa bollitura e aggiuntivo ammorbidimento e addolcimento con i sacchetti tenuti immersi nell’acqua di mare, i lupini diventavano una sorta di companatico o fonte di nutrimento di riserva e, in più, servivano ad accompagnare i “complimenti”, consistenti in panini, olive, sarde salate, peperoni e vino, riservati, in occasione dei ricevimenti nuziali, agli invitati maschi.

Invece, l’eccedenza, ossia la maggior parte del raccolto, era venduta a commercianti terzi.

°   °   °

Le carrube sono i favolosi e bellissimi pendagli, color verde all’inizio e marrone sul far della maturazione, donatici dagli omonimi maestosi alberi, taluni di dimensioni monumentali, tutti affascinanti.

Anche riguardo alle carrube, non si pongono attenzioni particolari, salvo periodiche potature delle piante, i frutti si raccolgono, al momento, purtroppo, da parte di pochi, attraverso tocchi con aste di legno, un’operazione denominata abbacchiatura, come per le noci.

Il prodotto, copioso e abbondante ad annate alterne e riposto in sacchi di juta, oggi è indirizzato esclusivamente alla vendita a terzi; al contrario, in tempi passati ma non lontanissimi, le carrube, dopo l’essiccazione al sole, erano in parte abbrustolite nei forni pubblici del paese e, conservate in grossi pitali in terracotta, insieme con le friselle e i fichi secchi, componevano le colazioni e, in genere, i frugali pasti in campagna dei contadini.

Piccola nota particolare, d’inverno, poteva anche capitare di grattugiare le carrube e, mediante la graniglia così ottenuta mescolata con manciate di neve fresca (beninteso, nelle rare occasioni in cui ne cadeva), si realizzava un originale e gustoso dessert naturale e sano.

°   °   °

I fichi, al momento, purtroppo, lasciati, in prevalenza, cadere impietosamente ai piedi degli alberi, erano, una volta, oggetto di una vera e propria campagna di raccolta, ripetuta a brevi intervalli in genere sempre nelle prime ore del mattino, con immediato successivo sezionamento (spaccatura) dei frutti e disposizione dei medesimi  su  grandi stuoie di canne , “cannizzi”, e paziente fase di essiccazione sotto il sole.

Allo stesso modo delle carrube, in parte erano poi cotti nei forni e andavano a integrare le fonti dell’alimentazione famigliare, in parte erano somministrati agli animali domestici, in parte, infine, erano venduti.

Soprattutto, se non proprio, per i fichi, le famiglie avevano l’abitudine, in luglio e agosto, di spostarsi fisicamente dalle case di abitazione nel paese, nelle piccole caseddre di pietre situate nelle campagne, cosicché si risparmiavano le ore occorrenti per l’andata e il ritorno di ogni giorno a piedi e avevano, in pari tempo, agio di attendere direttamente e più comodamente a tutte le fasi della descritta raccolta.

Non c’è che dire, ieri, in un modello esistenziale più semplice, alla buona e intriso di spontanea connaturata operosità, si aveva interesse, e attenzione, anche per beni “poveri” ma, con ciò, non meno utili di altri; oggi, il concetto di valore si è in certo senso ripiegato su se stesso e finalizzato a obiettivi e orizzonti di tutt’altra stregua, fra cui miraggi a portata di mano.

Tosse? Fichi secchi e carrube

di Rocco Boccadamo

E’ la stagione, sindrome influenzale con fastidioso corollario di attacchi di
tosse – del genere e rumore di abbaiare di cane all’interno di un anfratto con
eco –  intervallati di appena 1 – 2 minuti.
Un medico, il quale, con candore e sincerità, ammette di non aver da
prescrivere alcunché di veramente idoneo a far passare il malessere: occorre solo armarsi di santa pazienza.

In seno all’indisposizione, anche una notte completamente in bianco, l’intero corpo ammaccato a furia delle incessanti sequenze compulsive che muovono dalle vie respiratorie se non da più dentro, lo sfogo, vano, di un paio d’ore in poltrona a leggere, con scarsissima concentrazione per via di un sussulto dietro l’altro.

Dal delirio della veglia forzata, l’idea di una lastra Rx toracica, risultata,
meno male, negativa.
Alla mente, la tosse degli anni delle elementari, la difficoltà, pure allora,
di prendere sonno. In quei tempi, tuttavia, soccorreva l’amorevole intervento materno, sottoforma di  una pozione di tisana da “papagna” (papavero), grazie alla quale gli occhi si chiudevano sino al mattino, anche se i sintomi e le manifestazioni della tosse  non sparivano.

tale ricordo e di fronte alla “impotenza” della scienza medica
moderna,  che fare, dunque, nel 2011? Un po’ di fichi secchi e di carrube lasciati bollire sino all’ottenimento di un decotto, di gusto piacevole, giusto come si era soliti regolarsi quando l’esistenza ruotava essenzialmente intorno alla semplicità e alla natura. Vale la pena di provare.

C’è anche la fica mandorlata di San Michele Salentino

SAN MICHELE SALENTINO – 36.000 bustine di zucchero per promuovere la nona edizione della Fiera del Fico Mandorlato con la scritta “I Love La Fica Mandorlata di San Michele Salentino”. Dopo la maglietta che ha diviso mezza Italia, questa è la nuova trovata promozionale del Comune di San Michele Salentino in collaborazione con uno storico Bar del centro e che, nei prossimi giorni, sarà estesa agli altri locali.

La bustina, da un lato riprende il “famoso” logo “I Love la Fica Mandorlata di San Michele Salentino” e dall’altro la scritta, “Fiera del Fico mandorlato e dei Prodotti Tipici: 27 – 28 – 29 agosto, Piazza Marconi e Centro Storico”.
“L’obiettivo anche quest’anno è quello di far conoscere il nostro paese attraverso l’unicità del Fico Secco Mandorlato, recentemente inserito dal Ministero delle Politiche Agricole nell’elenco dei prodotti tipici tradizionali. Per questo ho accolto con piacere l’iniziativa del Central Bar e che presto sarà estesa agli altri Bar di San Michele Salentino”, spiega il sindaco Alessandro Torroni.

La tradizionale “Festa del Fico” per l’edizione 2010 avrà come ospiti
delegazioni provenienti dall’isola di Malta e dalla Toscana e si avvarrà
della collaborazione tecnica e scientifica dell’Orto Botanico
dell’Università del Salento, dell’Associazione Nazionale per la Biodiversità
“Pomona” e del coordinamento di Ficusnet, la Rete Meditteranea delle Città
del Fico.

“Una bustina di zucchero con quella scritta, ne sono sicuro, renderà più dolce ogni caffè”, aggiunge divertito, il primo cittadino.

La notizie è stata pubblicata dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/GdM_dallapuglia_NOTIZIA_01.php?IDNotizia=333868&IDCategoria=11

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