Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).
Cumitàtiè una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.
Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio
La zèppola, è in Puglia e soprattutto nel Salento, il dolce tradizionale della festa di San Giuseppe; invero non si tratta propriamente di un dolce salentino, o perlomeno, non esclusivamente. Questo dolce, è infatti, ormai obiettivamente ascrivibile alla tradizione italiana. Si ritiene, comunque, che sia d’ origine napoletana.
Bartolomeo Scappi, (celebre autore della monumentale: Opera dell’arte del cucinare, Venezia 1570 ) che è primo a menzionarlo, lo descrive come una frittella di farina di ceci, zucchero e uva passa, molto simile alle zeppole chenello stesso secolo vengono attestate in uso a Napoli come dolce del carnevale. La voce zeppole, in seguito, ricorrerà in molti antichi testi partenopei e persino in un “Privilegio” del Viceré Conte di Ripacorsa.
Varie fonti scritte e persino delle inequivocabili stampe popolari, segnalano come,nellafestosa e pittoresca Napoli del Settecento, tale usanza fosse già di dominio pubblico, tanto, che nel giorno di San Giuseppe, i friggitori, per onorare il proprio Santo patrono, si cimentavano all’aperto, su improvvisati banchetti, ma con plateale maestria, alla preparazione delle zeppole. Altre fonti, inquadrano verso la fine del Settecento, attribuendola al famoso pasticcere napoletano Pintauro, l’idea di preparare questi dolci (ricordanti nell’aspetta vagamente i trucioli) nel giorno di San Giuseppe, quale simbolo del Santo falegname. Questi pare che avesse a sua volta attinto la ricetta dal“Cuoco galante” dell’oritano Vincenzo Corrado (1738-1836), nella cui versione però si presentavano senza crema e con della confettura di amarena al centro, avendoli appellati, tortanetti di pasta bugnè.
Probabilmente entrambe le ricostruzioni storiche sono attendibili e le zeppole erano già in auge a Napoli, ma nella versione più popolare; semplici ciambelle, fritte e dolcificate, ad uso, come si diceva al tempo,del popolo minuto.
Pintauro, quindi, si limitò semplicemente amigliorarle elevandole così di rango e facendole rivenire un prodotto di pasticceria degno anche dei palati più raffinati.
L’odierna zeppola, salentina, ha peculiarità sue che mantiene inalterate da diverse generazioni, da alcuni anni però il suo consumo non è più limitato esclusivamente alla ricorrenza di San Giuseppe, ma comune in ogni periodo dell’anno, e piegandosi alle ragioni della dieta, si va sempre più affermando l’uso di cuocere le zeppole anche in forno, orrore!!! Mi verrebbe da gridare, permettetemi di esprimere il mio disappunto, e perdonatemi la parafrasi con un noto slogan di caffè : la zeppola, è zeppola! E, se non è fritta, che zeppola è?
Si ritorni pure a mangiarla solo una volta all’anno, ma che non si continui a profanare questo semplice, gustosissimo storico capolavoro dell’ingegno italico.
La ricetta
Ingr. Farina 500 g , acqua ½ litro, uova 10, strutto 100 g ,zucchero semolato q.b. , sale un pizzico, olio per frittura, strutto, crema pasticcera q.b.
Mettete sul fuoco, in una casseruola, l’acqua, il sale, e lo strutto. Quando inizia a bollire, toglietela dalla fiammaora. Con un sacco a poche, con bocchetta a stella del diametro di circa tre centimetri, realizzate su dei fogli di carta oleata unti di strutto delle ciambelle toroidali di una decina dicentimetri di diametro. Per la frittura occorrono due padelle colme di olio o strutto a differenti temperature; passate le zeppole, prima nella padella con olio a temperatura tiepida, onde si gonfino e si rassodino, quindi passatele nella seconda padella, contenente olio a temperatura maggiore o preferibilmente strutto perché finiscano di cuocere e acquisiscano un’invitante colorazione bruno dorata.
Sgocciolatele, e quando si raffreddano cospargetele di zucchero semolato, e guarnitele, a mezzo della sacca, di crema pasticcera e spolverizzatele di cannella in polvere.
Lo strutto, consigliato nella ricetta, al contrario di quanto si possa pensare, è uno dei grassi più raccomandabili dal punto di vista nutrizionale, in quanto possedendo un punto di fumo notevolmente elevato, alle normali temperature di utilizzo non si altera, quindi non si ha la formazione della pericolosissima acroleina, una sostanza notoriamente epatotossica, nefrotossica, gastrolesiva e altamente cancerogena.
Le Tavole di San Giuseppe: una tradizione ancora viva a Minervino di Lecce
di Mino Presicce e Loredana Cocola De Matteis
Nella tradizione religiosa San Giuseppe sposo di Maria, è il santo tutelare della casa e della famiglia.
Un’antica tradizione salentina vuole che il 19 marzo le famiglie benestanti facessero il “banchetto di San Giuseppe” (la taula ti San Giseppu) al quale venivano invitate le famiglie bisognose.
Con questa usanza il popolo suscitava e manteneva nel cuore degli uomini il dovere della carità e del rispetto per gli umili.
Nel corso degli anni in alcuni paesi, forse perché è cambiato il legame sociale e il rapporto con gli altri, questa tradizione è andata un po’ scomparendo; in altri piccoli centri, invece, questa usanza è ancora viva e le famiglie devote a san Giuseppe la preparano tutti gli anni in segno di ringraziamento delle
Sgombriamo il campo, senza perdere tempo, da ogni possibile equivoco; i cumitàti, cioè gli oggetti di creta (dai vasi ai fischietti alle statuine del presepe), protagonisti, insieme con il santo, di una fiera un tempo attesissima da ogni famiglia per rinnovare soprattutto il corredo di stoviglie, non hanno niente a che fare con comitati, voce alla quale il pensiero subito vola in un paese (e ci riferiamo all’Italia) che prolifera di delegazioni, commissioni e chi più ne ha più ne metta, le quali, dopo aver proliferato, prolificano poco, anzi, il più delle volte abortiscono (e forse è un bene, visti, quando ci sono, i risultati…).
Cumitàtiè una di quelle parole che nel corso del tempo hanno subito un vero e proprio terremoto; e questo fenomeno, si sa, colpisce più violentemente le zone vicine all’epicentro, nel nostro caso Nardò.
Se paragoniamo la nostra voce ad un edificio lo troveremo perciò meno malridotto man mano che ce ne allontaniamo. Fuor di metafora, lo studio
Da queste parti, in occasione della festa di S. Giuseppe, il 19 marzo, vige la tradizione di servire a tavola, fra le altre rituali pietanze, anche i “lampasciuni”, ossia i bulbi globulosi dell’omonima pianta erbacea della famiglia delle Liliacee. I prodotti della terra in discorso crescono a 10 – 15 centimetri circa nel sottosuolo, si presentano simili a piccole cipolle dal sapore amarognolo e sono ricchi di sali minerali.
Nell’approssimarsi della ricorrenza, alcuni sono soliti portarsi in giro per campi, campicelli, colline e collinette, aree non sempre di proprietà, e con l’ausilio di una minuscola zappa scavano in corrispondenza dell’infiorescenza della pianta, per cercare i “lampasciuni” proprio all’origine, nella loro dimora naturale.
Il raccolto è poi ripulito e lavato, sottoposto a bollitura e conservato sott’aceto o sott’olio.
Qualcun altro, per così dire meno “Cincinnato”, al fine di levarsi lo sfizio della leccornia di S. Giuseppe, si limita a recarsi al supermercato dove trova i “lampasciuni” già cotti e in olio al modico prezzo di € 22 al chilogrammo.
Suvvia, cosa sarà mai, l’importante è rispettare la tradizione, o no?
Le Tavole di San Giuseppe: una tradizione ancora viva a Minervino di Lecce
di Mino Presicce e Loredana Cocola De Matteis
Nella tradizione religiosa San Giuseppe sposo di Maria, è il santo tutelare della casa e della famiglia.
Un’antica tradizione salentina vuole che il 19 marzo le famiglie benestanti facessero il “banchetto di San Giuseppe” (la taula ti San Giseppu) al quale venivano invitate le famiglie bisognose.
Con questa usanza il popolo suscitava e manteneva nel cuore degli uomini il dovere della carità e del rispetto per gli umili.
Nel corso degli anni in alcuni paesi, forse perché è cambiato il legame sociale e il rapporto con gli altri, questa tradizione è andata un po’ scomparendo; in altri piccoli centri, invece, questa usanza è ancora viva e le famiglie devote a san Giuseppe la preparano tutti gli anni in segno di ringraziamento delle
La chiesa di San Giuseppe, posta a metà strada fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo, costituiva un’antica tappa per i pellegrini che dai paesi dell’entroterra erano diretti al Santuario di Leuca.
I lavori di costruzione iniziarono nel 1617, interrotti con l’arrivo a Leuca degli algerini, tanto da rimanere in abbandono fino al 1630, quando furono completati dai cittadini di Castrignano e Salignano nel 1630. L’impianto assai semplice, ad unico ambiente, è caratterizzato da alcuni fregi e ornamenti lapidei sul portale d’ingresso e sulla finestra del prospetto.
La chiesa è immersa in una pineta recintata, aperta in occasione della festa di San Giuseppe, il 19 marzo.
La chiesa, posta sul confine tra il casale di Salignano e quello di Castrignano del Capo, fu per molti secoli contesa fra le due comunità, che per molti secoli ne rivendicarono la paternità della fiera del santo.
Una curiosa leggenda racconta dell’assegnazione dei diritti della fiera agli
19 marzo, antivigilia della primavera e, soprattutto, giorno in cui, per i cattolici, si celebra la festa di S. Giuseppe, sposo della Vergine Maria e padre putativo di Gesù.
Il culto e la venerazione verso il Santo Patriarca per eccellenza, capo terreno della Famiglia di Nazareth, sono diffusi in tutto il mondo e numerosi e capillari si contano gli edifici religiosi a lui espressamente dedicati.
A prescindere dalle anzidette notazioni sul piano della fede e di un credo specifico, vale la pena di ricordare che il 19 marzo, in Italia, è stato a lungo considerato “giorno festivo” anche agli effetti civili, una regola abolita con legge del 1977.
Nel Salento, la ricorrenza in discorso contiene e abbraccia pure peculiari usi, costumi e consuetudini d’altro genere, datati e rigorosamente tramandati fra generazioni. In concreto, siffatto capitolo verte sulla preparazione e l’allestimento, in omaggio al Santo, di un pasto, meglio dire un pranzo, conforme e fedele a un menù tanto ricco, quanto indicativo.
L’articolata gamma di piatti e pietanze, ivi compresi dessert e dolci, svaria non a caso, ponendosi anzi agli antipodi rispetto ai frugali e semplici pasti d’ogni giorno nella realtà e nella storia delle famiglie contadine, ma recando insieme, in pari tempo, un connotato morale, intriso e insaporito di generosità, considerazione, altruismo e rispetto nei confronti del prossimo, inteso specialmente nel senso dei più poveri. Presupposto basilare e di principio, è l’invito ad Ospiti, sempre in numero dispari, da un minimo di tre sino a tredici, insieme ai quali condividere il piacere e la gioia della mensa imbandita.
Il tavolo intorno a cui sedere ha la denominazione specifica, giustappunto, di Tavola di S. Giuseppe.
Al centro della “Tavola”, ornata con fiori e ricoperta da tovaglie finissime, campeggia un quadro del Santo e, intorno, sono allineate grosse pagnotte ad anello, impreziosite, al centro, da un’arancia.
Ritornando al tema degli Ospiti o Santi, i primi tre, secondo credenza, s’identificano con la Sacra Famiglia (Gesù, Giuseppe e Maria, quest’ultima deve essere una ragazza nubile).
Quanto al menù e ai piatti, le voci principali sono:
– la “massa” (tagliolini di farina di grano fatti in casa), cotta con ceci e teneri broccoletti di cavolo, servita dopo avervi sparso sopra i
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