Il porto di Brindisi: le tante favole inventate su Andrea Pigonati (I parte)

di Nazareno Valente

 

«Brindisi è inoltre fornita di un buon porto: entro un’unica imboccatura sono racchiusi diversi seni tutti dalla forma sinuosa che li pone perfettamente al riparo dai flutti e che li fa rassomigliare alle corna d’un cervo» («Καὶ εὐλίμενον δὲ μᾶλλον τὸ Βρεντέσιον: ἑνὶ γὰρ στόματι πολλοὶ κλείονται λιμένες ἄκλυστοι, κόλπων ἀπολαμβανομένων ἐντός, ὥστ᾽ ἐοικέναι κέρασιν ἐλάφου τὸ σχῆμα»)1.

Questa la più antica descrizione pervenutaci del porto di Brindisi dovuta a Strabone, uno storico e geografo vissuto tra il I secolo a.C. ed il I secolo d.C., che pone in evidenza come lo scalo consentisse molteplici approdi, quasi fosse costituito da più porti. In particolare il geografo di Amasea rappresenta quello che per noi è il porto interno, vale a dire solo una parte dell’attuale complesso portuale brindisino, costituito com’è noto anche dal porto medio e dal porto esterno. In antichità il bacino che contiene i moderni porti medio ed esterno non era considerato un porto vero e proprio ma dai Romani una «statio» e da parte dei Greci un «ὅρμος» (ormos), perché consentiva unicamente di attraccare, mentre una struttura portuale — identificata rispettivamente con i termini di «portus» e di «λιμήν» (limén) — doveva permettere, oltre al semplice ormeggio, pure un’adeguata protezione dai venti e dai flutti, come riportato nella caratterizzazione di Strabone che utilizza appunto nel passo citato il vocabolo «λιμήν». A quei tempi, quando si parlava del porto di brindisi s’intendeva quindi il solo porto interno; il porto medio e quello esterno facevano invece parte della cosiddetta rada.

Che Strabone si riferisca al porto interno è chiarito anche da quell’unica imboccatura che ne consente l’accesso2 e che racchiudeva le varie insenature protette dai venti e dal mare aperto, allora composte dagli attuali seni di Ponente e di Levante e, con ogni probabilità, anche dal canale navigabile che scorreva nello spazio ora occupato da corso Garibaldi e dagli inizi di corso Roma.

I Greci caratterizzavano un porto di prestigio, in cui le navi trovavano un sicuro rifugio, con il termine «εὐλίμενος» (eulìmenos, buon porto), che è appunto la voce usata da Strabone per caratterizzare il porto brindisino che rimase di alto livello per secoli, almeno sino a “Lo Compasso de navegare”, un portolano del Duecento, ritenuto il più antico tra quelli conosciuti, dove viene presentato come «bom porto», per evidenziarne gli indubbi pregi ancora posseduti. Tuttavia, finiti i tempi in cui i grandi imperi (romano e bizantino) e le grandi monarchie (normanna, sveva, angioina, aragonese) presidiavano le rotte dell’Adriatico e ne proteggevano le coste, arrivarono periodi bui per Brindisi. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento s’incomincia ad aver timore ad allontanarsi dalla costa. Ed i motivi sono presto detti, ormai l’Adriatico è uno spazio governato da altre nazioni e «perciò i marinai, pescatori e legni, che usano in questo mare, escono quasi tutti dal dominio Veneziano»3 e, soprattutto, essendo Terra d’Otranto, la provincia in cui è inserita Brindisi, quella più prossima «allo stato del Turco, sta in maggior pericolo di ricever danno da lui che tutto il restante Regno»4. Non a caso le sue coste sono disseminate di fortezze e di torri; protette stabilmente da ben 2.543 fanti locali e presidiate «in tempo di sospizione di armata Turchesca» da armigeri reali5. Il mare non è più una finestra aperta sul mondo, ma un varco da tenere sbarrato perché da lì possono arrivare terrore e morte.

 

Brindisi, pertanto, non è più la porta d’accesso al ricco Oriente, quanto piuttosto un possibile cavallo di Troia di cui il «Saracino» potrà nella bisogna avvalersi per compiere le sue scorrerie. Il suo porto non è più una risorsa, ma un pericolo costante, e va pertanto interdetto. Così, sebbene ci siano già il Castello Alfonsino e Forte a Mare a vigilare sugli ingressi, a scanso di equivoci, si gettano sassi e terra nel canale di comunicazione con il porto interno perché sia «dal terreno in alcuna parte diminuito» e non consenta così l’ingresso delle grosse navi6.

Proprio a questa difesa passiva, seguita da una totale incuria, si devono i motivi principali del dilagare dell’ostruzione della foce del canale di comunicazione tra porto e rada che resero i due seni interni di fatto interdetti alla navigazione. Limitazione per lo scalo brindisino destinata a perdurare sino alla seconda metà dell’Ottocento tanto da farla diventare una caratteristica tipica della città, di cui si ricordava appunto il porto interno «ciccato» o «guasto».

Il mancato rinnovo delle acque del bacino interno creava in più degli stagni maleodoranti e un conseguente ambiente insalubre alimentato pure dalle paludi che, per colpa del mancato controllo del territorio e dei frequenti terremoti che ne avevano sconvolto l’assetto idrico, si andavano dilatando alle estremità dei seni dalle parti di Ponte Grande a ponente e di Ponte Piccolo a levante, e per l’appunto chiamate palude di Ponte Grande e palude di Ponte Piccolo o di Porta Lecce. Anche in questo caso, erano finiti i tempi in cui i Romani compivano una manutenzione maniacale dei corsi d’acqua. Quando i lavori di pulitura di porti e fiumi venivano fatti a regola d’arte, in modo che alvei e rive fossero resi liberi da qualsiasi pianta che potesse costituire causa d’impedimento o di pericolo per le navi che vi transitavano («ne quid aut morae aut periculi navibus in ea virgulta incidentibus fieret»7). Nell’ottica poi di «attenuare i danni di un’aria malsana» («quibus mitigetur pestifera lues»8), analoga attenzione si dava alla difesa dal paludismo ed al controllo delle acque reflue facendovi fronte con un corretto mantenimento e con regolari opere di bonifica.

Manutenzione e gestione del territorio che invece vennero a mancare con la caduta dell’impero romano con conseguente impaludamento dei canali — il Cillarese e il Palmarini-Patri, nelle vecchie mappe indicati rispettivamente con i nomi di Patrica e di Masina — che si riversavano nelle acque del porto interno nelle anse estreme di ponente e di levante. Un’altra palude, detta delle Torrette, s’era formata nella curva di entrata  del canale, dove si depositavano le alghe e vi stagnavano le acque piovane trattenute dal terriccio e dai cespugli che, soprattutto d’estate, producevano «orribile fetore»9. In più di fronte, dalle parti del molo di Porta Reale, si riversavano in mare gli scoli che confluivano nella depressione posta tra le collinette a nord e  a sud della città (di fatto l’attuale corso Garibaldi). Questo avvallamento che, come detto, in antichità era stato un terzo piccolo ramo del porto interno, diventava con l’aiuto dell’acqua piovana esso stesso un veicolo costante di trasporto di detriti, privo com’era di pavimentazione. Anche qui l’odore era così acre che la zona, pur centrale, era sgombra di abitazioni ed ospitava solo sparuti negozi collegati con le attività portuali. In definitiva contribuivano all’interrimento, alle paludi ed alla conseguente aria insalubre, balzane strategia di difesa, cause del tutto naturali ed una marcata inefficienza di fondo nella manutenzione e nella gestione del territorio.

Con il tempo i problemi si andarono accentuando, sicché i servizi portuali furono spostati prevalentemente sulla costa Guacina e nei presi di Forte a Mare, nell’attuale porto medio, e la rada incominciò ad essere chiamata «porto esteriore» mentre il porto storico, ormai ridotto alla semplice navigazione di barchette, assunse quello di «porto interiore» ed in molti portolani neppure più considerato un porto. All’arrivo della dinastia Borbone, la foce era più melma che mare ed i seni interni erano in una situazione precaria per altro non molto dissimile da tutti gli altri scali meridionali. C’era però un ritrovato interesse per i porti, diretta conseguenza questa della ripresa economica d’inizio Settecento che aveva impresso nuovi stimoli pure alle attività commerciali marittime. Non a caso sin dal 1734, anno di insediamento dell’amministrazione borbonica, il nuovo governo puntò subito a rinnovare le strutture portuali per adeguarle alle nuove esigenze.

Uno dei primi atti riguardanti Brindisi fu la decisione di costruirvi un lazzaretto — collocato a nord sull’isola di Sant’Andrea — che rendeva per certi versi evidente l’intenzione di Carlo di Borbone di riportare la città nella sua antica configurazione di porta per l’Oriente. Infatti la presenza del lazzaretto era allora condizione indispensabile per divenire uno dei possibili scali nei viaggi diretti a levante. Con ogni probabilità, in quell’occasione, la città si avvalse per la prima volta di una novità introdotta in campo finanziario dal regime borbonico. Riguardo alle spese concernenti le infrastrutture portuali, le comunità locali potevano infatti concorrere sia con propri fondi, sia istituendo delle apposite casse con fondi provenienti dalle rendite comunali, dai dazi e dalle gabelle derivanti dall’abolizione delle franchigie ecclesiastiche. E questo rendeva più agevole la possibilità di reperire liquidità per l’esecuzione di lavori d’interesse locale, senza intaccare quelli a bilancio. In pratica era un modo come un altro per la città di autotassarsi, qualora l’avesse ritenuto funzionale ai propri scopi.

Si iniziò pure nel concreto a pensare al restauro del porto. Ed è proprio di quegli anni un’accorata lettera dell’arcivescovo di Brindisi, Domenico Rovegno, indirizzata nel 1762 al re Ferdinando IV, che dà il segno della dolorosa condizione in cui versava la città di Brindisi.

Su ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte»10. Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi»11. Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati»12. E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi da passati sovrani di questo regno», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone13.

Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose al punto di partenza.

Per fortuna i tempi erano maturi per tentare di riportare a nuova vita il porto interno, e a non lasciarlo più ostaggio della poltiglia e degli odori nauseabondi. Anche se si dovette aspettare un’altra decina d’anni sopratutto a causa della grave crisi economica innescata dalla carestia del 1764. Era così il luglio del 1775 quando l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare incaricato di progettare la riapertura del porto interiore, mise per la prima volta piede sul suolo brindisino. Fu il primo dei tanti tentativi non riusciti compiuti dai Borbone per risolvere i problemi d’una foce che, non appena ripulita, tornava senza scampo ad insabbiarsi nuovamente ma che, rispetto a tutti i successivi fallimenti, ha ottenuto gli onori della cronaca per il fatto che  sui lavori compiuti si sono addensate le spietate ed arbitrarie critiche degli storici e dei cronisti locali.

In sintesi, il progetto14 con cui l’ingegnere siracusano cercò di ridare funzionalità alla struttura portuale di Brindisi prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interiore col porto esteriore, e la bonifica delle principali paludi, vale a dire quella delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità nel seno di Levante. In questo modo Pigonati riteneva di rendere navigabile il porto interno e di risanare le condizioni ambientali della città. Quindi tutta una serie di lavori che l’ingegnere siracusano condusse con molto zelo tanto che, in poco più di due anni d’intensa attività, riuscì a far scavare un nuovo canale di collegamento (di fatto quello poi a lui intitolato); a colmare le principali paludi; a risanare il molo di porta Reale e, quel che più conta, ad aprire il cuore dei Brindisini alla speranza. Speranze che, come ben sappiamo, andarono ben presto deluse, ma, a differenza di quanto narrato nelle ricostruzioni approssimative di buona parte della cronachistica locale, non tutta la colpa dei successivi guasti è da ascriversi all’ingegnere borbonico, verificato che nei fatti concorse in maniera non banale la mancata manutenzione ordinaria da parte delle autorità locali15. Comunque sia, dopo nemmeno un decennio, il porto interno ripiombò nei suoi soliti problemi.

Il primo a lanciare specifiche accuse sull’operato di Pigonati fu Ferrando Ascoli che, riprendendo una critica fatta dall’ingegnere Tironi quando peraltro era già ritenuta priva di ogni fondamento, affermava in maniera categorica che Pigonati aveva commesso un errore colossale nell’orientare l’imboccatura del canale da lui scavato verso greco-levante, mentre avrebbe dovuto disporla nella direzione di greco «per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento»16. Il che era in parte corretto per quanto riguarda le traversie, ma del tutto fantasioso riguardo all’interrimento che si era nel frattempo appurato non dipendeva dalla direzione del canale ma da cause del tutto naturali. Tuttavia, poiché questa storiella, diffusasi acriticamente da un cronista all’altro, passa ancora per buona, è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad incolpare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse proprio a causa dell’orientamento che lui gli aveva impresso. Per questo il buon Pigonati passa ancora adesso per un povero sprovveduto, mentre era un tecnico che gli stessi Brindisini, che avevano avuto modo di conoscerlo, apprezzavano soprattutto per la sua onestà17.

 

Nella realtà, era l’approccio al problema ad essere sbagliato, e quantomeno l’ingegnere siracusano, essendo il primo ad averlo affrontato, non poté contare su esperienze pregresse, a differenza di tutti gli altri che, sino a quando nel 1861 non si trovò la soluzione, perseverarono nel commettere gli stessi errori e non ottennero certo risultati migliori dei suoi. Ciò nonostante, Pigonati viene sempre presentato come l’unico responsabile di ottant’anni di insuccessi che, invece, accomunarono molti tecnici borbonici e non. Sarà magari stato per questa consuetudine a crederlo capace dei più banali errori che non c’è nefandezza, perpetrata in quel torno di tempo, che non gli venga inevitabilmente addossata.

Oltre all’errore della direzione del canale, di cui il lettore interessato potrà trovare tutti i dettagli in un mio precedente intervento18, Pigonati è accusato della demolizione di antiche costruzioni e di disastri ambientali.

Per quanto concerne i beni architettonici, in quegli anni sparirono infatti dallo scenario cittadino due antiche costruzioni: Porta Reale, che si trovava non molto lontana dai Giardinetti, e la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte, che era dalle parti di Porta Lecce. Ebbene i più raccontano che Pigonati, avendo bisogno di pietre per mandare avanti i suoi lavori, se l’era procurate demolendo entrambi i monumenti. Non solo, sempre per lo stesso motivo, si dice avesse fatto abbattere una delle due torrette angioine, alle cui fondamenta si attribuisce la fantasiosa origine della secca, chiamata anch’essa angioina, che solo le mine riuscirono in seguito a distruggere; in questo caso, oltre a depauperare la città d’un bene artistico, Pigonati avrebbe causato anche un dissesto ambientale. Di malefatta in malefatta qualcuno è stato capace di narrare che persino ponte Grande, ancora in piedi quando l’ingegnere faceva da decenni parte del mondo dei più, fosse stato da lui demolito, quasi che anche da morto vagasse per le strade di Brindisi alla ricerca di pietre per il suo canale. Il che rientra nel nostro radicato vezzo di trovare un capro espiatorio a tutti i costi: capitò lo scorso secolo negli anni Cinquanta per la demolizione del parco della Rimembranza e del teatro Verdi (colpevole il “ciclone” che, in effetti, arrivò solo a proposito); negli anni Sessanta per gli scompensi edilizi e la mancata edificazione del nuovo teatro (colpevole un costruttore che i sussurri malevoli dicono abbia goduto di presunti privilegi per aver portato la locale squadra di calcio in serie B); in maniera simile, a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, l’Attila di turno fu appunto Pigonati. Eppure ci vorrà poco per dimostrare tutte queste accuse destituite di fondamento e scagionare così Pigonati dall’aver compiuto i disastri di cui lo si biasima senza ragione.

Iniziamo da porta Reale che, in effetti, scomparve in modo misterioso dallo scenario del porto brindisino insieme al suo molo proprio in quel periodo, tuttavia, i dati in nostro possesso discolpano del tutto l’ingegnere dell’amministrazione borbonica. L’ultima volta che un documento cita la famosa porta è nel riepilogo contenuto nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” sui lavori fatti da Pigonati specificatamente su quelli realizzati sul canale e sui suoi argini, a conclusione di tutto l’intervento di ripristino del porto. Viene infatti riportato che i lavori, terminati con la posa dell’ultima pietra il 26 novembre 1778, erano stati iniziati sui moli del canale in maggio dello stesso anno con materiale (pietre) ricavato dalle case «della Corte, vicino la porta Reale»19. Quindi non solo qui è precisato dove Pigonati si era rifornito delle pietre necessarie «per il fabbrico del gran canale»20 ma è anche espressamente indicato che porta Reale era ancora bella e in piedi alla fine dei suoi lavori.

 

D’altra parte c’è il famoso dipinto di Jakob Philipp Hackert, “Baja e porto di Brindisi”del 1789 (figura n. 3), a confermarlo ritraendo il molo di porta Reale in piena attività, mentre le botti di olio vengono caricate sulle barche per poi essere trasportate sino alla Cala delle Navi nel porto esteriore dov’erano infine trasbordate sui bastimenti. La porta era così ancora in piedi ad oltre dieci anni dal compimento dei lavori di Pigonati. Da quel momento in poi della porta Reale non si ha più notizia ed è dalla mappa, ”Pianta della città, porto e rada di Brindisi” (figura n. 4), disegnata nel 1811 da Vincenzo Tironi, che il monumento ed il suo molo non vengono più citati. La demolizione avviene quindi tra il 1879 ed il 1811. Quando e perché, è difficile dirlo con precisione, non essendoci riscontri oggettivi. È però ugualmente possibile formulare un’ipotesi del tutto verosimile e coerente con il successivo svolgimento dei fatti.

 

Il tentativo di Pigonati non aveva sortito gli effetti sperati e già circa dieci anni dopo, mentre Hackert lavorava al dipinto, se ne  avviò uno nuovo di cui fu incaricato l’ingegnere Carlo Pollio. Ebbene, tra le opere realizzate da Pollio ci furono, nei pressi di porta Reale, la costruzione «della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto»; il riadattamento della strada del canale di scolo della Mena, poi rialzata sul livello delle acque del porto e che diede origine alla strada Carolina, poi divenuta corso Garibaldi, e l’edificazione d’un tratto di banchina «a cominciare dalla Sanità o lazzaretto verso ponte Grande per una lunghezza di canne 250»21. Con ogni probabilità il rialzamento del piano stradale della Mena, congiunto alla banchina costruita dalla Sanità verso ponente per più di 500 metri, dovette costare il sacrificio della porta Reale che si trovava appunto lungo le direttrici dei lavori. In merito, non ho potuto trovare documenti che l’attestino, tuttavia è questa l’ipotesi più plausibile, visto che è certo che porta Reale scompare tra il ritratto di Hackert e la mappa di Tironi e che, in quel ventennio, le uniche opere di rilievo effettuate su quella zona del porto sono quelle realizzate dal Pollio.

Secondo la cronachistica bene informata, nel corso del risanamento della palude che si trovava nell’estremo ramo di levante, sempre per penuria di materiale da costruzione, Pigonati abbatté poi attorno al 1777 la pregevole chiesa di Santa Maria de Parvo ponte. Questa  chiesa, che si trovava sulla strada che da porta Lecce conduceva fuori le mura della città a quello che era appunto il Ponte Piccolo (Parvo ponte), era stata edificata nel XII secolo grazie alle sovvenzioni del famoso ammiraglio Margarito da Brindisi. Già «diruta» ai tempi dei lavori dell’ingegnere siracusano è citata anch’essa nella “Cronaca dei Sindaci di Brindisi” quando si descrivono gli effetti benefici dei lavori di sanificazione compiuti nella zona dal «direttore del porto, d. Andrea Pigonati… fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città»22. Quindi anche in questo caso è certificato che la struttura esisteva ancora, una volta colmata la palude che l’ospitava. In aggiunta la chiesa compare, sempre “diruta” circa trent’anni dopo nella mappa del Tironi (figura n. 5) e quindi non è stata certo smantellata da Pigonati.

 

Con ogni probabilità, la chiesa di Santa Maria de Parvo ponte fu demolita un poco alla volta, come avveniva a quei tempi per tutti gli edifici in rovina. Si deve infatti considerare che allora era usuale adoperare nelle costruzioni materiali di risulta, e che chi ne aveva bisogno faceva man bassa di pietre dalle costruzioni abbandonate perché in disfacimento.

 

Allo stesso modo, Pigonati è del tutto incolpevole anche per la distruzione di ponte Grande, non fosse altro perché in quella zona non ebbe neppure modo di operare. D’altra parte Ponte Grande risulta ancora in funzione nella mappa del Tironi e nella cartografia anche successiva, quantomeno sino alla carta di Benedetto Marzolla (figura n. 6) — redatta forse nei primi anni Quaranta dell’Ottocento — e rimase con ogni probabilità in piedi finché usato per superare la vallata omonima. Quando le acque e la palude di quella zona furono canalizzate (all’incirca tra il 1858 ed il 1862) e fu successivamente creato un nuovo invaso, non servendo più, il ponte fu con ogni probabilità demolito. Difficile poter dire con esattezza però quando e ad opera di chi. Dubito per altro che la sua struttura fosse, come taluni dicono, di epoca romana. In ogni caso sopravvisse molti decenni all’ingegnere siracusano.

Ai tempi dell’intervento di Pigonati, sulle opposte sponde del vecchio canale Angioino, si trovavano i resti delle due torrette costruite dagli Angioini nel lontano 1279 per impedire che la città fosse attaccata con truppe da sbarco dalla parte del mare. La più grande, fabbricata sulla riva di ponente, era originariamente collegata all’altra torretta con una catena che, in caso di bisogno, un congegno tendeva in modo da precludere l’accesso al porto interno. Con il passare del tempo simili metodi di difesa divennero anacronistici e le due torri subirono successivi riadattamenti, tant’è che Pigonati, all’iniziò dei suoi lavori, attesta ancora l’esistenza della maggiore — risistemata però per alloggiare le guardie della dogana — ed i soli «avanzi»23 di quella edificata a levante. Il dipinto di Hackert evidenzia l’integrità della torretta adattata a dogana e, sulla riva opposta, la presenza dei resti dell’altra torretta, ben un decennio dopo la conclusione delle opere del Pigonati. Questa testimonianza grafica può quindi essere usata per confutare una surreale ipotesi avanzata da Ferrando Ascoli, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Afferma appunto l’Ascoli che Pigonati, nel fabbricare il molo a ponente del canale, trovatosi in difficoltà per la penuria di materiale, «impiegò le pietre estratte dalla diruta casa della Torretta fabbricata dagli Angioini»24. E poi prosegue: «Di questa torretta rimasero le fondamenta che aperto il canale, furono intieramente ricoperte dalle acque, formarono col tempo una secca abbastanza estesa, chiamata secca Angioina»25. In definitiva, a detta dell’Ascoli, la secca, che sarebbe divenuta in effetti fonte di gravi alterazioni per l’agibilità del porto brindisino, era diretta conseguenza di uno dei tanti errori compiuti dal Pigonati, a cui doveva quindi addebitarsi anche questo ulteriore guasto.

Già lo stesso interessato aveva precisato d’aver sopperito alla mancanza di materiale con il «cavar pietre dall’isoletta»26, vale a dire dall’isola Angioina, ma le affermazioni dell’Ascoli sono come visto palesemente smentite pure dal dipinto di Hackert. La cosa ancor più curiosa è che tutti i successivi autori, ritenendo la supposizione dell’Ascoli credibile, l’hanno propagata sino a farla passare per una delle tante verità incontrovertibili.

Eppure, dovrebbe essere noto agli addetti ai lavori che il canale Angioino fu preservato da Pigonati non per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6, figura 2) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. Se poi si tiene conto che era il luogo più soggetto ad insabbiarsi, gli allagamenti erano in effetti un evento quasi del tutto impossibile. In ogni caso, il dipinto di Hackert smentirebbe già di per sé le supposizioni fantasiose dell’Ascoli ma, in merito, ancora più eloquente appare la documentazione disponibile.

 

La cartografia della seconda metà del XIX secolo ha infatti rappresentato in maniera chiara la situazione che s’era creata nel porto brindisino ed è pertanto sufficiente esaminare una qualsiasi pianta dell’epoca per ricavare che la secca Angioina, oltre ad essere molto estesa, si trovava proprio nel punto in cui sino a poco tempo prima era posizionata l’isola Angioina ed i suoi estesi bassi fondali (n. 7 della mappa di Tironi). È quanto emerge in tutta la sua evidenza in un particolare del “Piano generale del porto di Brindisi” del 1866 (figura n. 7): la secca ha due lati ampi più di cento metri ciascuno ed è disegnata proprio dove una volta c’era l’isoletta omonima. Appare a questo punto ovvio che le fondamenta di una torretta alta pochi metri non avrebbero mai potuto generare una secca di simile sviluppo, la cui origine era molto più semplicemente dovuta ai lavori per l’abbassamento dell’isola Angioina iniziati formalmente nel 184227 e conclusisi ben oltre il 1860. È infatti nelle mappe di quegli anni che nello scenario del porto brindisino la secca incominciò a prendere il posto dell’isoletta. Non fu quindi la mania demolitrice del Pigonati a crearla, per il semplice motivo che questa preesisteva, come si evidenzia pure dal disegno di Tironi, e fu in seguito ampliata dal «profondamento dell’isola Angioina», come si desume con precisione da una relazione di metà Ottocento28. Scavata quindi sino a restare poco al di sotto della superficie del mare, l’isola Angioina ed i bassi fondali vicini non potevano che trasformarsi in secca. Con buona pace della bizzarra versione dell’Ascoli che, anche in tempi recenti, trova numerose adesioni.

(1 – continua)

 

 

 

 

 

 

 

Note

1 Strabone (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Geografia, VI 3, 6.

2 Sino ad i lavori iniziati tra il 1863 ed il 1864, la rada aveva tre possibili ingressi: la Bocca di Puglia, spazio ora occupato dalla diga che congiunge la cala Materdomini all’isola di Sant’Andrea; lo spazio tra Forte a Mare e le Pedagne e il passaggio dei Trapanelli, anch’esso ora occupato da una diga.

3 C. Porzio, Relazione del regno di Napoli al marchese di Mondesciar, viceré di Napoli, tra il 1577 e 1579,  in Collezione di opere inedite o rare di storia napoletana, Officina tipografica, Napoli 1839,  pp. 17 e 18.

4 Ibidem, p. 18.

5 Ibidem, p. 19.

6 Ibidem, p. 19.

7 Gellio (II secolo d.C), Notti attiche, XI 17.

8 Columella (I secolo d.C), Res Rustica, I 4.

9 A. Pigonati, Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV, Michele Morelli, Napoli 1781, p. 12.

10  D. Rovegno, Rappresentanza dell’Arcivescovo di Brindisi al Re per l’apertura del porto, Manoscritto ms_L1, Miscellanearum Tomus I, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi, 193v.

11 Ibidem, 193r.

12 Ibidem, 194r.

13 Ibidem.

14 N. Valente, Quando Pigonati scavò il canale nel porto di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 254, pp. 36-39.

15 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, pp. 30 e 31.

16 F. Ascoli, La storia di Brindisi, Forni editore, Sala Bolognese 1981, p. 371.

17 Anonimo, Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo, Brindisi s.d. In questo pamphlet dell’Ottocento, redatto da Brindisini inviperiti contro i tecnici borbonici per le ruberie da loro perpetrate, Pigonati viene presentato come uno dei pochi funzionari onesti.

18 N. Valente, Il porto di Brindisi: la favola di come il canale andava orientato, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 255, p. 33; N. Valente, La lunga agonia del porto interno di Brindisi, “Il7 Magazine”, Brindisi 2022, n. 256, p. 34.

19 P. Cagnes – N. Scalese, Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787), A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”, Brindisi 1978, p. 460.

20 Ibidem.

 21 F. Ascoli, Cit., p. 373.

22 P. Cagnes – N. Scalese, Cit., pp. 459 e 460.

23 A. Pigonati, Cit, p. 12.

 24  F. Ascoli, Cit., p. 367.

25 Ibidem.

26 A. Pigonati, Cit, p. 72.

27 S. Morelli, Brindisi e Ferdinando II o il passato, il presente e l’avvenire di Brindisi, Del Vecchio, Lecce 1848, p. 118.

28 l. Giordano, Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bar”, Fratelli Cannone, Bari 1853, p. 26.

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (seconda parte)

di Nazareno Valente

 

  1. La polemica su cosa fare del porto interno di Brindisi

 

Inizialmente, oberato dai debiti contratti per riconquistare il regno, Ferdinando IV, divenuto poi Ferdinando I con la costituzione nel 1816 del regno delle Due Sicilie, non era certo nelle condizioni economiche per poter varare nuove iniziative per i porti. La situazione si aggravò anche a causa della carestia del 1817 e delle incertezze politiche che fecero seguito ai moti del 1820-21. Solo al tempo di Francesco I ci fu la possibilità di avviare quantomeno l’attività progettuale che interessò però altri porti pugliesi, quelli di Bari e di Gallipoli. Brindisi ripiombò così nelle tragiche condizioni del periodo antecedente i lavori di Pigonati, quando solo le barchette riuscivano a fatica a superare il canale e l’aria insalubre mieteva vittime a decine. Per lenire le difficoltà del momento, fu mandato nel 1828 l’ingegnere Lorenzo Turco con l’incarico di progettare un intervento di spurgo generale del bacino. Come ebbe però poi a lamentarsi Francesco Antonio Monticelli, nella “Terza memoria in difesa della città e del porto di Brindisi”, l’operazione fu fatta parzialmente tant’è che nel 1833, a cinque anni dall’inizio, erano stati spesi solo 5.600 ducati dei 13.000 promessi. Ciò nonostante si era potuto scavare in parte il canale — che il Monticelli, forse riprendendo una consuetudine popolare, chiamava ormai canale Pigonati — portandolo ad una profondità di 10-12 palmi (tra 2,65 e 3,15 metri circa) «onde vi passano i legni di 100 a 120 tonnellate; e prima non dava passaggio che a piccole barche». Il finanziamento infatti era stato con ogni probabilità bloccato su consiglio di Giuliano de Fazio, ispettore generale del Corpo di Ponti e Strade, il quale riteneva che l’aria malsana fosse una componente ineliminabile e congenita della città e che era quindi inutile compiervi lavori di ogni tipo. A sostegno di questa sua strana tesi riportava brani di Cesare e di Cicerone che s’erano soffermati brevemente a parlare del clima brindisino. In effetti, de Fazio era tanto innamorato delle proprie idee — o forse era solo malafede — da forzare quello che i due illustri personaggi dell’antica Roma avevano nella realtà riferito in merito. Per questo, si dichiarava in definitiva apertamente contrario a sprecare del denaro per risanare il porto di Brindisi in quanto, qualsiasi lavoro fosse stato compiuto, non avrebbe comunque potuto risolvere i problemi cronici della città. In questa mistificazione dei fatti, volta a mandare avanti il suo progetto su Gallipoli e ad affossare quello alternativo su Brindisi, l’ispettore generale trovava buon gioco sia all’interno della deputazione provinciale, che come lui riteneva più conveniente appoggiare la posizione del porto di Gallipoli che gestiva un fiorente traffico dell’olio, sia all’interno del Corpo di Ponti e Strade il cui direttore, Carlo Afan de Rivera, condivideva nella sostanza le sue idee. Certo Afan de Rivera era meno categorico, tuttavia riteneva che per il bene di Brindisi era meglio spostare tutte le principali attività portuali nel porto esterno, rendendo disponibile il porto interno alla navigazione di piccolo cabotaggio.

Contro questa soluzione si schierarono i Brindisini Giovanni Monticelli, sostenuto dallo zio Teodoro Monticelli insigne vulcanologo, Benedetto Marzolla e, con particolare verve, il barone Francesco Antonio Monticelli, appoggiati in ciò da liberi studiosi e, per certi versi, dagli ingegneri del Genio militare che si opponevano in linea di principio alle idee innovative di de Fazio ritenendole a giusta ragione poco sicure. Occorre ricordare che il progetto su Brindisi fu il classico compromesso ideato su due piedi da Afan de Rivera tra la posizione estrema di chi voleva che Brindisi fosse abbandonata — si narra che i suoi residenti avrebbero dovuto trasferirsi a Mesagne, anche se non ho trovato alcun documento ufficiale che avvalori una simile ipotesi — e quella dei Brindisini che volevano rimanere a Brindisi e vedere riaperti i seni interni alla navigazione di tutti i tipi di bastimenti. Per cui, da un punto di vista teorico, soprattutto Francesco Antonio Monticelli ne mise facilmente a nudo tutte le pecche. Ciò nonostante l’ascendente di cui godevano i due dirigenti del Corpo di Ponti e Strade e la posizione contraria a Brindisi assunta dalla deputazione provinciale sembrava rendere la partita quasi dagli esiti scontati. Quando la disputa diventò particolarmente accesa e le parti in campo si scambiavano reciproche accuse ed offese, rasentando lo scontro fisico, fortuna volle che l’astro del de Fazio si eclissasse dall’oggi al domani. Aveva infatti voluto fare di testa sua nella sistemazione della Riviera di Chiaia, contravvenendo a precise disposizioni del sovrano che, venutolo a sapere, lo destituì sui due piedi da ogni incarico. S’aggiunse che incominciava a girare il progetto dell’apertura del canale di Suez, che avrebbe posto il porto di Brindisi in una posizione di privilegio nei commerci con l’Oriente. Questi eventi fecero forse pendere la bilancia a favore dei nostri concittadini e la Consulta generale «riconobbe — a detta di Ascoli — fondato e giusto l’allarme dei Brindisini». Poco dopo, il 10 novembre 1834, con rescritto reale, Ferdinando II nominava una commissione incaricata di recarsi a Brindisi, di valutare la situazione e di redigere un progetto definitivo «il più utile sotto il triplice aspetto politico, militare e commerciale».

Occorre a questo punto ricordare che, dopo il ritorno dei Borbone, l’onere delle spese riguardanti le principali opere pubbliche non erano più a carico del tesoro statale ma delle casse provinciali e del comune interessato. La decisione di Ferdinando II sollevò pertanto vibrate proteste, non solo da parte di Afan de Rivera e dei principali dirigenti del Corpo di Ponti e Strade, ma pure della deputazione provinciale che, invece, avrebbe voluto avviare i lavori per il porto di Gallipoli la cui richiesta era stata avanzata sin dal 1831. Per questo, Ferdinando II stesso nell’aprile del 1835 si recò a Brindisi per convincere l’intendente e i dirigenti provinciali e locali dell’importanza dell’operazione che avrebbe avuto favorevoli riscontri commerciali per tutta la provincia. A quanto racconta Ascoli i Brindisini «lo accolsero trionfalmente» e «con la città addobbata a festa»; non è, invece, dato di conoscere quale fu l’atteggiamento dei dirigenti provinciali che, però, con ogni probabilità cercarono in tutti i modi di bloccare l’iniziativa. Non a caso, la commissione presentò il progetto al re il 15 marzo 1836 ma il Consiglio di Stato l’approvò solo dopo ben sei anni nel luglio del 1842 ed il re con decreto reale del 27 agosto 1842.

 

  1. Il grande progetto fallito nel nulla

 

Il progetto conteneva un programma ben articolato che interveniva su tutti gli aspetti nevralgici del porto di Brindisi: orientamento del canale e sua profondità, da portare a 32 palmi (8,50 metri); eliminazione dell’isola Angioina dandole, insieme al canale Angioino, una profondità di 18 palmi; escavazione dei Seni di Ponente e di Levante, in cui avrebbero dovuto trovare posto rispettivamente il porto militare e quello commerciale, bonifica di Ponte Grande e di Ponte Piccolo e dei luoghi paludosi; costruzione di una scogliera per garantire dalle frane la parte più esposta della costa Guacina e di tre fari nel porto. Un progetto quindi imponente, come la spesa prevista di 336.000 ducati a totale carico della Provincia di Terra d’Otranto e del Comune di Brindisi, così ripartita: porto 287.000 ducati; bonifiche 31.000 ducati; spese varie 18.000 ducati.

Per quanto riguarda l’orientamento del canale, Ascoli ci fa sapere che la commissione prevedeva «un angolo di  11° 15’ verso nord con quello di Pigonati» e quindi in direzione “quarto di greco verso levante”, come dire con un angolo verso nord di circa 51°, considerato che quello scavato da Pigonati, diretto verso greco-levante, formava con ogni probabilità un angolo con il nord di circa 62°.

I lavori ebbero effettivo inizio nel dicembre del 1842 sotto la direzione di Albino Mayo, tenente colonnello del Corpo del Genio. Sebbene non lo si sottolinei mai, fu questa la peggiore esperienza tra tutti i tentativi fatti di restaurare il porto brindisino: i lavori andarono avanti a rilento, le spese lievitarono in maniera esponenziale e non si approdò praticamente a nulla. Uno dei limito più ricorrente fu che si iniziassero tanti diversi lavori senza però portarli mai a termine. Avvenne così anche per i primi due impegni a cui Mayo si dedicò, vale a dire scavare il canale dandogli maggiore profondità ed un diverso orientamento e procedere all’abbassamento dell’isola Angioina che creava difficoltà al deflusso delle acque ed al transito delle imbarcazioni.

L’isola fu fatta sparire dalla vista dei Brindisini ma, lasciata non si sa bene perché a pelo d’acqua, creò la secca Angioina che dava problemi di navigazione all’ingresso del porto interno ancora nel 1867, quando fu finalmente distrutta. Contestualmente si iniziò a scavare il canale dandogli una diversa direzione. Su quest’ultimo aspetto non sapremmo nulla, se non fosse per la testimonianza di Domenico Cervati, capitano del Corpo del Genio Idraulico, che cita l’evento nel suo “Per la stabile ristaurazione del porto di Brindisi” del 1843, in quanto convinto che per superare il problema dell’insabbiamento bisognasse intervenire sulla forma del canale e non sulla sua direzione. Per questo, per evidenziarne l’inutilità, riferiva sul nuovo orientamento dato al canale da Mayo che differiva da quello adottato da Pigonati di 9° verso nord. Come dire che formava un angolo di circa 53° gradi con il nord e che quindi era indirizzato all’incirca verso greco, direzione che a detta dei presunti consigli dei marini e dei pescatori brindisini richiamati dall’Ascoli, avrebbe dovuto proteggere il canale, oltre che dalle traversie, anche dall’insabbiamento. A cose fatte, si appurò invece che, variato l’orientamento, il canale continuava ugualmente ad insabbiarsi. Né più, né meno, di prima.

Quindi divenne un fatto accertato che l’interrimento della foce non aveva nulla a che fare con l’orientamento scelto da Pigonati nel tracciare il canale. Da quel che Cervati lascia intendere,  mentre lui scrive — siamo con ogni probabilità agli inizi del 1843, nel momento stesso in cui Mayo variava l’orientamento del canale — si era ormai tutti convinti che le cause dell’interrimento andavano ricercate altrove.

In senso generale, il progetto diretto da Albino Mayo era talmente imponente che c’erano tutte le condizioni per credere che il porto di Brindisi sarebbe stato restituito ai suoi antichi splendori. L’euforia però si tramutò presto in delusione, quando ci si accorse che i lavori venivano fatti in maniera disordinata, aprendo tanti fronti e senza arrivare a concludere mai niente. Insoddisfazione del tutto scontata, se si pensa che in quel “grande” progetto i Brindisini avevano riposto le loro migliori speranze per un futuro meno problematico e impegnato parte dei loro risparmi, autotassandosi per raccogliere i 2.000 ducati all’anno necessari per finanziarlo. E senza contare che i negozianti della città si erano sottoposti ad una sovraimposta «di carlini due a soma sulla estrazione degli olii» raccogliendo nel corso degli anni «una somma di circa 130 mila ducati».  Lo scontento divenne acredine quando con il passare del tempo fu evidente che, sebbene fosse stata costituita la “Deputazione speciale del porto e della bonifica di Brindisi”, incaricata di vigilare sull’esecuzione dell’opera, i lavori erano del tutto fuori controllo. Una, o più mani anonime, mandarono così alle stampe un pamphlet dal titolo chilometrico, “Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo”, in cui si accusava senza mezzi termini il direttore dei lavori e gran parte di coloro che erano impegnati nell’opera di fare la cresta, ed anche di peggio.

Lasciando da parte le accuse dei Brindisini, vediamo cosa raccontava la documentazione dell’epoca. Almeno sino al 1847, le fonti ufficiali si mantengono sul generico e negli Annali civili del regno delle Due Sicilie di quegli anni non ci si dilunga più di tanto sulle opere fatte a Brindisi. In quello del 1844 si riporta che le opere «procedono innanzi senza interruzione» preannunciando con troppo ottimismo che la città a breve «potrà riacquistare maggiore importanza e maggior lustro di quella che godeva per lo passato». Anche nel 1845 ci si mantiene sul vago, ma sempre improntato alla visione rosea, e si riferisce che le opere sono «condotte con alacrità, essendosi adoprati nel medesimo tempo a nettarlo tre cavafanghi a vapore e due sandali, oltre un quarto battello a vapore addetto a trasportare le sabbie raccolte fuori le Petagne». L’alacrità è tale che, pur essendosi a metà anno, sono già stati spesi le tre rate annuali della provincia (complessivi 128.000 ducati) e le tre annualità  del finanziamento del comune di Brindisi (in totale 6.000 ducati), tanto che la Deputazione speciale del porto di Brindisi suggeriva, in attesa delle successive rate e per mantenere la stessa celerità, di chiedere addirittura un prestito alla «cassa di sconto». Sempre sulla stessa linea il commento del 1846 in cui si annota che «ferve l’opera», in maniera talmente ardente che, nei primi quattro mesi di quell’anno, sono già stati spesi circa 20.000 ducati e complessivamente nei tre anni 160.000 ducati. Forse, essendosi esauriti gli aggettivi per indicare la velocità con cui le opere avanzavano, nessuna menzione è fatta nel 1847, quando la pubblicazione degli “Annali” viene sospesa insieme ai lavori a causa dei moti del 1848.

Di là dell’enfasi — con ogni probabilità era lo stesso Mayo a redigere questi brevi e generici sunti — in tutto questo tempo non si ha riscontro di nessun lavoro completato, sebbene risulti a consuntivo che, a fine 1847, siano stati già spesi 300.000 ducati dei 336.000 concessi. Il caso a questo punto vuole che Mayo muoia all’improvviso nel maggio del 1848 e che il sottintendente del distretto di Brindisi, Benedetto Stragazzi, sia incaricato, con ogni probabilità su richiesta della direzione subentrante, preoccupata di dover essere chiamata a rispondere delle malefatte sin lì compiute, di verificare lo stato dei lavori. A Stragazzi basta poco per constatare la gravità della situazione e di riferire nel 1849 all’intendente le innumerevoli irregolarità di vario genere commesse. Contestualmente il sottintendente trasmette copia dell’anzidetta relazione a Napoli accompagnandola da una nota in cui si comprende che, subito dopo la morte di Mayo, era stato mandato a Brindisi con il compito specifico di esaminare l’andamento dei lavori. Per questo manifesta senza nessuna titubanza il suo giudizio: «L’opera della bonifica di questo porto è grandiosa e forma la gloria del nostro sovrano che tante generose cure vi ha prodigato; ma, schiettamente posso assicurarvi, ch’è stata malamente eseguita, e perciò han tradito la sua augusta fiducia. Credetemi, me ne piange il cuore nel vedere tanto denaro e tempo malamente barattato con poco risultato, e ciò per poco accorgimento degli agenti a cui è stata affidata». Nel proseguo della lettera il sottintendente consigliava la formazione di una commissione incaricata di valutare se proseguire con il progetto in atto e, in ogni caso, lasciava trasparire che non intendeva seguire più la questione, perché aveva preso una piega difficilmente modificabile. Non a caso, un anno dopo, come richiesto, Stragazzi fu nominato sottintendente a Gerace e, poco prima di lui, fu trasferito anche l’ingegnere Vincenzo Fergola che era subentrato nella direzione dei lavori a Mayo.

Nel frattempo le spese calcolate ad agosto del 1848 erano pari a 415.056 ducati, quindi già superiori al finanziamento inizialmente previsto e, molto benignamente, anche le fonti ufficiali lamentavano che non era stato completato nemmeno un terzo dei lavori programmati. Di finito «il solo fuoco di porto sul Forte di mare», quindi un faro, acceso il 20 gennaio 1844, neppure basato sulle più recenti tecniche ma sull’antico sistema dei riverberi a lume fisso, la cui installazione rese necessario l’acquisto di due lampade di supporto per renderlo maggiormente visibile e del rinnovo del cupolino, spese queste ultime non preventivate e che comportarono una spesa aggiuntiva di 1.297 ducati. Per il resto erano stati iniziati, senza portarli a termine i seguenti lavori: scavo dei rami interni, solo parzialmente e senza aver raggiunto in nessuna zona la profondità fissata; riduzione ad imbuto con modifica dell’orientamento del canale di comunicazione, senza però aver raggiunto la profondità fissata e senza aver ottenuto nessun risultato per evitare che s’insabbiasse; abbassamento solo a pelo d’acqua dell’isola Angioina; edificazione parziale della scogliera a protezione della costa Guacina; bonifica di alcune paludi dei due rami del porto interno e di una piccolissima parte di Fiume Piccolo; edificazione di parte della banchina del porto interno. In più si annotava che molte delle opere non erano state neppure fatte nel migliore dei modi.

Vista la situazione, il suggerimento del sottintendente non poteva che essere accolto e nello stesso 1849 fu nominata una commissione la quale valutò che, per completare il progetto condotto sino ad allora in maniera deficitaria, sarebbero stati necessari altri 820.000 ducati. Considerato l’elevato importo, la commissione proponeva in alternativa di completare solo i lavori che consentivano di non rendere del tutto inutile quanto già fatto, conseguendo nel contempo risultati sufficientemente apprezzabili. Proponeva pertanto di scavare: il canale sino a raggiungere i 32 palmi di profondità previsti nel progetto; la secca creata dall’isola Angioina sino ad una profondità di 8 palmi;  il seno di Levante sino ad una profondità di 6 palmi. Di proseguire poi nella bonifica dei due seni interni e di Fiume Piccolo e nella edificazione di alcune banchine e della scogliera a protezione della costa Guacina. In questo modo si sarebbe potuto rendere navigabile il canale a tutti i tipi di bastimenti, riunendo il porto mercantile a quello militare nel seno di Ponente, ed ottenere migliori condizioni ambientali a seguito della bonifica delle valli e dei seni interni. In questo modo la spesa si riduceva a 222.000 ducati.

La proposta alternativa della commissione fu accolta con una novità riguardante le quote a carico dei fondi della deputazione provinciale e del comune, le quali risultarono pari rispettivamente a 15.000 e a 1.200 ducati annui, mentre il completamento annuale di 15.280 ducati gravava ora sulla Tesoreria generale. In pratica l’insuccesso del tenente colonnello Mayo aveva posto le autorità provinciali in una posizione sempre più critica riguardo al progetto, mentre permaneva l’interesse del governo che, pur di proseguire la restaurazione del porto di Brindisi, aveva deciso straordinariamente di farsi carico di parte della spesa, sempre nella certezza di sfruttare le possibilità commerciali derivanti in futuro dall’apertura del canale di Suez. Tuttavia per un certo tempo, furono fatti solo interventi di routine, in attesa che la direzione generale di Ponti e Strade redigesse i progetti esecutivi. Concluso questo iter ci si accorse che la spesa in realtà era di gran lunga superiore a quella preventivata dalla commissione e che necessitavano invece 396.519 ducati. In seguito, la spesa lievitò ancor più, sia perché a quelle cifre gli appalti  andarono deserti, sia per altri non precisati motivi, sino a superare il mezzo milione di ducati. Per l’approvazione dei progetti definitivi ci vollero pertanto ulteriori passaggi — tre ministeriali e quattro rescritti tra il 1854 ed 1857 — così solo al 17 gennaio 1856 furono ripresi «i nuovi e grandiosi lavori… con molta pompa», come sottolineavano con ironia le stesse fonti ufficiali, con l’obiettivo di bonificare del tutto «l’aere di Brindisi, spurgato il minor seno orientale, e ridotto per ora l’altro di ponente a porto militare e mercantile».

Nel frattempo però anche l’interesse del sovrano s’era affievolito. Parallelamente alla restaurazione del porto era infatti andato avanti il progetto per la strada ferrata che avrebbe dovuto unire Napoli a Brindisi, per accelerare il trasporto delle merci del regno sino al terminale di comunicazione con l’Oriente. Ed in tal senso c’era già stato nel 1852 un accordo di massima con i Rothschild per la linea ferroviaria Napoli-Brindisi, che saltò proprio al momento della stipula per un diverbio sul miglio da adottarsi nel contratto: i Rothschild ritenevano si parlasse del miglio inglese, mentre il ministro dei Borbone si riferiva a quello napoletano. In seguito, la concessione della costruzione e dell’esercizio della stessa linea ferroviaria fu accordata a Melisurgo ma, dopo l’inaugurazione dei lavori del marzo del 1856, il progetto abortì malamente. Nella visione dei Borbone le ferrovie dovevano unire la capitale Napoli alle altre città del regno e non entrare in un sistema “aperto” al mondo, come desiderato dai maggiori investitori che, quindi, non sottoscrissero le azioni emesse da Melisurgo per la ferrovia delle Puglie, che rimase di conseguenza a corto di finanziamenti e dovette interrompere i lavori. Il blocco della costruzione della linea ferroviaria rese inutile una celere restaurazione del porto Brindisino che, quindi, dal 1857 rimase in una specie di limbo.

Sicché nel 1858, per quanto il barone Carlo Sozi Carafa, intendente della provincia di Terra d’Otranto, magnificasse gli effetti delle opere compiute per il porto di Brindisi, l’aspetto sostanziale era, come lui stesso riconosceva, che «i legni di grossa portata» non potevano tuttora entrare nel porto interno perché poco profondo «e dovendo rimanersi nello esterno, soggiacciono a molti disaggî, e dispendî pei caricamenti e scaricamenti». Quindi, ancora a quella data, il porto interno era usato solo per il piccolo cabotaggio e le navi mercantili dovevano ormeggiare ed essere caricati tuttora nel porto esterno. Sino alla caduta della dinastia Borbone, la situazione non si modificò più, rimanendo di fatto congelata. Lo testimonia un prezioso documento in cui il ministro dei Lavori pubblici del regno, Raffaele Carrascosa, evidenzia come i ritardi nell’esecuzione delle opere nei porti fossero diretta conseguenza del meccanismo di ripartizione di spesa adottato: «Imperocché facendoseli il Comune a sue spese, gli è facile ispirarsi a’ soli consigli del proprio vantaggio, e non a quelli dell’universale». In definitiva il ministro, nel sottolineare che la gestione decentrata dei lavori, affidata  a deputazioni speciali sotto la superiore vigilanza degli intendenti e delle deputazioni provinciali, soggiaceva a forme di pressione locale che potevano ritardare «il libero e spedito corso delle opere medesime», ne chiedeva la centralizzazione. Negli esempi dei ritardi e dei disservizi che un simile sistema comportava, il ministro elencava anche il caso del porto di Brindisi le cui opere, bloccate da tempo, solo «ora appunto cominciano ad eseguirsi», lasciando così trasparire che si era ancora in alto mare.

Naturalmente, si fosse potuta sentire la campana delle intendenze e delle deputazioni provinciali, si sarebbero ascoltate lamentele di segno opposto, che avrebbero attribuito l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi ai lacci e laccioli imposti dall’apparato centrale. In definita, i soliti palleggiamenti che bisogna sorbirsi anche ai nostri giorni, che lasciano però trasparire che, chiunque avesse più o meno responsabilità dell’accaduto, erano le norme amministrative con cui venivano gestite le opere a condizionare in maniera prevalente i risultati, in aggiunta ad un difficile rapporto tra apparato centrale e periferico,

Comunque stessero davvero le cose, siamo ormai nel 1859 inoltrato e, chi di competenza, non ritenne neppure fosse il caso di inoltrare la relazione del ministro al sovrano, la cui attenzione non poteva essere distolta dagli avvenimenti, ben più pressanti ed importanti, ormai all’orizzonte.

Ed è questo, in epoca borbonica, l’ultimo importante appunto ufficiale sul porto di Brindisi che, oltre a chiarire che permanevano le ormai croniche disfunzioni, fornisce anche una possibile chiave di lettura  per comprendere i motivi degli innumerevoli fallimenti collezionati dai vari tentativi compiuti in quasi un secolo: non erano mancati i buoni progetti o le idee, era l’esecuzione che difettava sia per le lungaggini burocratiche, sia per gli interessi di parte che condizionavano ogni aspetto della questione. In effetti, la deputazione provinciale di Terra d’Otranto non era mai stata molto convinta della necessità della restaurazione del porto brindisino e più volta aveva espresso la sua preferenza per il porto di Gallipoli. Come al solito, interessavano più i vantaggi conseguibili a breve di quelli ottenibili nel lungo periodo: usando una frase trita si preferiva un uovo oggi piuttosto che una gallina in futuro. In definitiva, il fervore delle proposte non aveva mai trovato riscontro nelle esecuzioni. Naufragò così anche l’ultimo tentativo della dinastia Borbone di dare nuova vita al porto brindisino. Di tutto l’imponente progetto si riuscì a completare solo le torri dove ospitare i fari di Punta Penne e delle Pedagne, ed il faro di Forte a Mare. Un bilancio davvero mortificante per diciotto anni di lavori costati in aggiunta un patrimonio che, oltre a lasciare il canale con un fondale per lo più inferiore a quelli scavati da Pigonati e Pollio, non aveva nemmeno risolto i problemi principali, tra i quali quello, sempre più impellente, dell’interrimento. Pertanto, perché il canale non s’insabbiasse del tutto venivano fatte pulizie periodiche con cavafanghi a vapore, ciò malgrado il porto interno era interdetto alla navigazione. Sicché, ancora nel 1861, le imbarcazioni ormeggiavano nel porto esterno perché il canale ed i fondali limitrofi erano talmente interriti da «non permettere il passaggio che di piccole barche». Una commissione parlamentare istituita in quegli anni, riferiva in aggiunta che sempre nel 1861 il canale aveva una profondità dai 3 ai 4 metri, però decrescenti verso la foce, pertanto il canale lasciato in eredità dall’amministrazione borbonica aveva un fondale inferiore a quello scavato da Pigonati. Tenuto conto che, nei quasi novant’anni intercorsi tra il primo e l’ultimo progetti dei Borbone, la stazza dei navigli era decisamente aumentata, si può ricavare che Pigonati aveva fatto decisamente meglio. E con una spesa  di più di dieci volte inferiore.

 

  1. Una storia raccontata in maniera diversa.

 

Malgrado l’intendente provinciale di Terra d’Otranto ed il ministro dei Lavori pubblici del regno di Napoli dichiaravano che l’ultimo progetto condotto dalla loro amministrazione non aveva restituito al porto interno di Brindisi neppure una accettabile funzionalità, visto che i problemi dell’interrimento della foce permanevano, ci sono narrazioni che rappresentano uno scenario del tutto differente.

Ad esempio Giacomo Carito, parlando dei lavori avviati inizialmente sotto la direzione di Albino Mayo e proseguiti fino alle soglie dell’unità d’Italia, afferma che «di fatto i Savoia  troveranno il porto di Brindisi già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea». Peccato che lo storico non avvalori in nessun modo questa sua  affermazione che contrasta anche con la documentazione di parte borbonica che, pur avendone tutto l’interesse, fornisce un quadro molto meno roseo delle condizioni dello scalo brindisino nel momento del passaggio da un regno all’altro. In effetti anche in un altro intervento lo stesso storico  aveva dato per scontato che le attività portuali si fossero da tempo normalizzate  affermando che «i grandi piroscafi del Lloyd austriaco entrano in porto già negli anni Quaranta dell’Ottocento con i lavori di Albino Mayo, diretti da Albino Mayo,… già nel 46-47 i piroscafi del Lloyd, che erano grandi unità navali, riescono ad entrare nel porto interno». Quindi, secondo Carito, che anche in questa occasione non supporta la notizia data con nessun riferimento documentale, già dal 1846 o dal 1847, grazie ai lavori di Albino Mayo, il porto interno era accessibile. Eppure il sottintendente del distretto di Brindisi, Benedetto Stragazzi,  nel 1849 raccontava tutt’altra realtà al sovrano e, così, gli stessi rapporti della commissione di nomina regia oppure quello dell’ingegnere Giordano del 1853 presentavano uno scenario del tutto opposto, senza contare le già richiamate relazioni dell’intendente di Terra d’Otranto del 1858 e del ministro dei Lavori pubblici del 1859.

Vero, come narra Carito, che le navi del Lloyd austriaco erano grandi unità navali e che in quegli anni era stato istituito un servizio che, partendo da Trieste, transitava da Brindisi un paio di volte al mese, prima di raggiungere le città del Mediterraneo orientale. La documentazione disponibile, però, non consente in nessun modo di ipotizzare che tali navi gettassero l’ancora nel porto interno, anzi, all’opposto, chiarisce che, come tutti gli altri bastimenti, erano obbligate ad ancorare in quello esterno — per la precisione nella zona dell’attuale porto medio — visto il limitato fondale del canale di comunicazione e la secca angioina che non permetteva l’ingresso se non ai soli piccoli natanti. D’altra parte questa circostanza è avvalorata dalle testimonianze dei viaggiatori. Ad esempio, Wilhelm Vischer, un docente svizzero di lingua e letteratura greca, di passaggio da Brindisi il 16 marzo 1853 con un vapore del Lloyd austriaco, annota: «Alle cinque della sera ci ancorammo vicino Brindisi», quindi non a Brindisi ma “vicino” Brindisi. Poi, dopo aver decantato l’antica Brundusium, precisa: «Il porto interno, spazioso e ben protetto, è infatti ora insabbiato (ist versandet) e accessibile soltanto ad alcune piccole imbarcazioni. Quelle più grandi devono rimanere in quello esterno, più esposto al vento, sul cui lato nord si trova una fortezza con il faro e il telegrafo». Per quanto riguarda l’affermazione di Carito più di carattere generale che i Savoia avevano trovato «il porto di Brindisi già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea», oltre ai documenti ufficiali in precedenza già riportati, serve anche dare un’occhiata ad una testimonianza locale.

Nel 1861 un gruppo di “Cittadini di Brindisi”, in risposta alla circolare del consigliere del dicastero dei Lavori Pubblici che invitava le autorità, ed anche i privati cittadini, «a dar notizie delle opere pubbliche fatte o a farsi nelle provincie», richiede proprio che siano una volta per tutte completati i lavori sul porto di Brindisi. I Brindisini, con ogni probabilità negozianti ed imprenditori, in quanto approfondisco spesso gli aspetti finanziari delle questioni trattate, lamentano infatti come il porto di Brindisi sia ben lontano dall’essere «completamente restaurato», come giudicato da  Carito. Anzi c’è ancora tanto da fare:  «è una di quelle opere cominciate sin dal 1842, e che sin ora non sapremmo dire se a metà o anche a terza parte condotta». Per quanto poi riguarda gli aspetti specifici, il documento indugia sui vari problemi ancora rimasti irrisolti, in particolare il porto interno che «è quello in cui son da praticare i restauri in massima parte progettati» e, soprattutto il canale «scopo vitale di quell’impresa» in cui l’intervento è miseramente fallito in quanto non si è «risoluto il gran problema di non farne più interrire il canale». Dal momento che questo ormai «sembra problema troppo arduo e di difficile soluzione», i cittadini chiedevano quantomeno che «finalmente si stabilisca rigorosamente l’annuo mantenimento, e propriamente lo sfangamento di quel “piccolo” deposito di materiali trasportati, che annualmente si forma nel canale, e che si accumula di anno in anno in guisa da chiudere nuovamente l’entrata». Quindi non solo non si era risolto il problema dell’interrimento — che i Brindisini non ardivano neanche più a sperare che fosse risolto — ma non era stata neppure fatta una normale manutenzione. Per cui, salvo che i Brindisini dell’epoca non siano stati degli autolesionisti visionari che chiedevano d’intervenire lì dove non ce n’era nessun bisogno, occorre convenire che, al momento dell’annessione del regno di Napoli, il porto di Brindisi era tutto fuorché l’essere «già completamente restaurato ed abile ad ospitare grandi navi di linea».

In conclusione, a differenza di quanto affermato da Carito, quando i Savoia si sostituirono ai Borbone, il porto brindisino era ancora in balia dei soliti difetti e non risultava neppure lontanamente attrezzato per affrontare la competizione che l’apertura del canale di Suez avrebbe innescato. Difetti, in aggiunta, dai più ritenuti ormai cronici e impossibili da risolvere. Certo il canale non era una palude quasi solidificata d’una volta, e almeno le barchette lo attraversavano in agilità. Nemmeno l’aria era quella mefitica dell’epoca di metà XVIII secolo, o del primo trentennio del secolo successivo, ma non era ancora a livelli sufficientemente buoni, e chi poteva si teneva lontano da Brindisi.

Come fece anche l’ingegnere che risolse alfine il problema dell’interrimento del canale, il quale pose come condizione per accettare la destinazione brindisina, di non dovervi risiedere. Preoccupato di mettere a repentaglio la salute dei suoi familiari e la propria, preferì piuttosto stare a Lecce e destinarsi ogni santo giorno alla vita del pendolare.

Cosa  disagevole pure ai giorni nostri.

Figuriamoci con le ferrovie appena nate di centocinquanta e più anni fa.

                                                             (2 – continua)

 

Riferimenti bibliografici

 

  1. La polemica su cosa fare del porto interno di Brindisi

F.A. MONTICELLI, “Terza memoria della città e de’ porti di Brindisi, Gabinetto bibliografico e tipografico”, Napoli 1833.

  1. ASCOLI, op. cit.
  2. Il grande progetto fallito nel nulla
  3. ASCOLI, op. cit.
  4. CERVATI,“Per la stabile ristaurazione del porto di Brindisi”, Tipografia del Filiatre-Sebezio, Napoli 1843.

Alcuni cittadini di Brindisi, “Opere nel porto di Brindisi”, Brindisi 1861.

ANONIMO, “Sulle opere del porto di Brindisi eseguite sotto la direzione del tenente colonnello Albino Mayo”, Brindisi s.d.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XXXV, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1844.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XXXVIII, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1845.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume XLI, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1846.

L. GIORDANO, “Intorno alla struttura di un nuovo porto in Bari: memoria premessa al progetto di arte”, Tipografia Cannone, Bari 1853.

A cura di R. JURLARO, “Cronaca dei sindaci di Brindisi (vol. II, 1787 – 1860)”, Edizioni Amici della “A. de Leo”, Brindisi 2001.

Annali civili del regno delle Due Sicilie, volume LX, Real ministero di stato degli affari interni, Napoli 1857.

C. SOZI CARAFA, “Discorso per inaugurare le sessioni del consiglio provinciale nel dì 1° maggio 1852”, Lecce 1852.

Ministero e Real Segreteria di Stato de’ Lavori Pubblici,  “Relazione sullo stato dei porti e dei fari del regno di Napoli”, in a cura di G. SIMONCINI, “Sopra i porti di mare (Regno di Napoli)”, volume II, L.S. Olschki,  Firenze 1994.

F. MERCURIO, “Le ferrovie e il Mezzogiorno: i vincoli ‘morali’ e le gerarchie territoriali (1839-1905)”, In “Meridiana”, n. 19, Nobiltà, gennaio 1994.

C. SOZI CARAFA, “Discorso per inaugurare le sessioni del consiglio provinciale nel dì 6 maggio 1858”, Lecce 1858.

A cura di R. SALVESTRINI, “Lo zibaldone di casa Mati”, Montaione.net.

Camera dei Deputati, “Relazione della commissione relativa alla ristorazione del porto di Brindisi”, sessione 1861-62.

 

8. Una storia raccontata in maniera diversa.

G. CARITO, “Gli interventi sul porto: pillole di storia”, History Digital Library https://www.youtube.com/watch?v=r9-vy1ZvTRQ

Brindisi, s.d.

W. VISCHER, “Erinnerungen und Eindrücke aus Griechenland”, Schweighauser, Basel 1857.

A cura di R. JURLARO, op. cit.

Alcuni cittadini di Brindisi, op. cit.

 

Per la prima parte clicca qui:

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte) – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

 

Il porto di Brindisi: una storia sconosciuta (prima parte)

di Nazareno Valente

 

  1. La supplica dell’arcivescovo al sovrano

 

«Sono già tre anni che per volontà dell’Augusto Genitore della M.V. Monarca delle Spagne che Dio sempre feliciti, essendomi stato concesso il governo della Chiesa Metropolitana di Brindisi, quando nella medesima mi condussi per quanto le forze mie debolmente il permettevano la Pastorale cura del Mio gregge intrapresi».

Questo l’incipit della lettera con cui nel 1762 Domenico Rovegno, arcivescovo di Brindisi, si rivolge a Ferdinando IV re di Napoli per chiedergli di intervenire e porre rimedio alla drammatica situazione in cui versavano a quel tempo il porto e la città di Brindisi. Per ordine dei medici, l’arcivescovo si trova in convalescenza a Napoli, tuttavia il suo desiderio è di ritornare dal suo  «gregge» e per questo comunica che sta per ripartire per Brindisi con la consapevolezza, però, di «andare incontro alla morte». Il motivo della sua malattia «altro non è stato, che l’aere infetto della stessa città» che, «per la divisata cagione», è destinata alla rovina «se dalla M.V. non saranno presi gli opportuni rimedi». Gli abitanti sono infatti «oppressi da pericolose infermità, ed atterriti dalle mortalità continue, rilevandosi chiaramente da’ libri parrocchiali, che il numero dei morti in ogni anno è doppio di quello dei nati». E sarebbe già spopolata da tempo se, «mantenendo la città de’ singolari privilegi», non avesse potuto accogliere abitanti provenienti da altre zone. Il privilegio citato dall’arcivescovo riguardava l’esonero da qualunque gravame o vincolo feudale accordato a chi risiedeva a Brindisi per almeno cinque anni. Era questo il marchingegno utilizzato da secoli per mantenere in vita le zone depresse: piuttosto che intervenire sulla causa, si  concedevano bonus che, come al solito, erano un modo come un altro per rendersi graditi e lasciare però le cose inalterate.

L’arcivescovo passa poi a parlare della causa di questa tragica condizione: «la materia» che si è andata addensando nella «bocca del porto interiore» per cui «le acque del medesimo son ridotte a segno, che il necessario flusso gli manca» e questo aveva originato estese paludi nei seni interni che disseminavano puzza e morte. Il che creava problemi anche di carattere economico: «La negoziazione del mare poi è oltremodo difficile, poiché alla bocca del porto interiore non possono accostare i legni grossi da carico, e l’imbarco dell’oglio, e d’altre derrate non può farsi che in due miglia di distanza dalla città, caricandosi prima su piccole barchette, che incagliando talora nello stretto, bisogna con grande stento tirar fuori con le funi, e per tal motivo un porto tanto rinomato si vede oggi abbandonato da tutti».

A questo punto l’arcivescovo faceva poi presente che questa condizione difficile vissuta dalla città di Brindisi avrebbe sollecitato le attenzioni de «l’Augusto Genitore Vostro», che sicuramente sarebbe intervenuto per aggiustare le cose, come aveva fatto per i porti di Taranto e Crotone, «se ei non fosse andato a dimostrare la sua paterna Pietà a’ regni più ampî»1. Per questo si rivolgeva a lui: «animato dalla clemenza della M.V. in nome del mio povero gregge umilmente la supplico ordinare gli espedienti più propri per l’apertura del porto predetto».

Per meglio comprendere la supplica di Rovegno — ma pure per inquadrare nel miglior modo possibile gli argomenti che saranno in seguito trattati — è il caso di vedere a questo punto la struttura del porto di Brindisi, aiutandoci con una carta del Settecento (figura n. 1).

Carte particulière de la rade et du port de Brindisy avec les plans de la ville et chateaux situez dans le golfe de Venize au sud entre Berlette et Osrante Settecento

 

Come si può notare il porto si snoda in un golfo nel cui punto più interno, su un basso promontorio, si erge la città, la quale è quasi del tutto abbracciata dal porto interno che rappresenta il luogo storico dove avvenivano in antichità le principali attività portuali. Il porto interno ha due seni, quello di Ponente, molto più esteso, e quello di Levante, e, tramite un canale, si trova in comunicazione con la rada, o porto esterno2, la quale risulta a sua volta protetta dall’Isola di Sant’Andrea e dal piccolo arcipelago delle Pedagne.

In pratica, l’arcivescovo, considerato che l’ostruzione del canale  non consentiva il ricambio delle acque ed ai navigli di accedere al porto interno, chiedeva al sovrano d’intervenire per ovviare a questo grosso inconveniente che causava danni ambientali e finanziari di ampia portata, in quanto creava malaria e disagio alle attività commerciali. E, per quanto lo riguardava, fu facile profeta: ritornato a Brindisi il 22 dicembre 1762, si riammalò e di lì a poco, entrato in agonia, morì nell’ottobre del 1763. Seguiva così la sorte del suo predecessore, Giovanni Angelo de Ciocchis, cui l’aria malsana aveva provocato una paralisi del lato sinistro del corpo che l’aveva costretto a dimettersi e, dopo breve tempo, a morire. Per le stesse cause epidemiche, i reggimenti Virz e Giudi di stanza a Brindisi subirono delle vere e proprie falcidie e parecchi dei loro soldati morirono nelle estati del 1763, 1764, 1766 e 1767; manifestazioni evidenti di condizioni ambientali davvero devastanti.

Nel versante economico-commerciale era quello un periodo di profondi cambiamenti, dovuti alla cosiddetta prima rivoluzione industriale, che coinvolgevano pure il settore dei trasporti. Sicché, dopo essere rimasti per tempo immemorabile in ombra, i porti del Mediterraneo stavano riassumendo nuovamente grande importanza. Da un punto di vista tecnologico, il ritorno di fiamma lo si doveva in particolare alle innovazioni navali già intervenute ed a quelle che ormai si preannunciavano nei rudimentali esperimenti che si stavano conducendo sulle macchine a vapore. Per quanto la vela non fosse stata ancora soppiantata dalla propulsione a vapore, i vascelli avevano sostituito dal Seicento i galeoni e con la scoperta dell’America lo sviluppo, che sino ad allora era sempre passato per il Mediterraneo, aveva spostato il suo asse nel Nord Europa. L’importanza dei porti mediterranei era divenuta sempre più marginale ed anche questo aspetto aveva concorso all’incuria in cui tutti i porti del regno erano stati abbandonati. Grazie al declino dell’impero ottomano e della potenza navale veneziana, s’era modificato pure lo scenario politico, sicché il mare Adriatico tornava ad essere controllabile da chi ne deteneva le coste ed il Mediterraneo si riapriva ai traffici. Ed una prima avvisaglia del vuoto di potere creatosi fu dato da Ragusa, importante città mercantile della Dalmazia, che, lasciato il patronato veneziano, richiese di porsi sotto il protettorato del regno di Napoli, accentuando così le mire del sovrano Borbone di subentrare alla Serenissima nel dominio delle rotte dell’Adriatico. C’erano pertanto interessi di varia natura: sanitari, commerciali e, sia pure sorti per ultimi, ma non ultimi, politici che invogliarono ad accelerare i tempi per sfruttare il momento propizio per un rilancio in grande stile del regno.

Di là dai propositi di rinnovamento, però, i porti del regno erano in condizioni per lo più vicini al collasso e risultavano in generale inadatti alle nuove necessità mercantili e militari, privi com’erano delle più essenziali infrastrutture e delle condizioni ambientali adeguate. Bisognava pertanto sopperire ad un periodo di abbandono, che s’era prolungato troppo nel tempo, ed imporre un cambio di passo e di mentalità non sempre facili da acquisire in tempi brevi.

Brindisi, insieme a Taranto, era uno dei pochi porti naturali la cui collocazione strategica andava sfruttata se si desiderava assumere una posizione di rilievo nel Mediterraneo. Per questo l’amministrazione borbonica ritenne di giocare molte delle sue carte sullo scalo brindisino nell’intento di riportarlo agli antichi splendori. Sicché, dopo aver per un certo tempo tergiversato alla richiesta dell’arcivescovo, nel 1775 il sovrano incaricò l’ingegnere Andrea Pigonati, direttore del Genio militare, di progettare la riapertura del porto interno brindisino.

Fu questo il primo di tre vani tentativi compiuti in quasi novant’anni dal governo borbonico, finché il regno di Napoli non fu annesso al regno d’Italia. Dopo Pigonati, toccò all’architetto idraulico Carlo Pollio e, successivamente, al tenente colonnello del Corpo del Genio, Albino Mayo, di non riuscire ad evitare che il canale, ripulito,  non si insabbiasse di nuovo. In pratica, malgrado si sprecarono ingenti risorse, non si ovviò all’interrimento del canale che continuò a creare problemi di malaria e di navigabilità.

La soluzione così fu trovata solo ad unità d’Italia avvenuta anche se, a sentire i cronisti e gli storici soprattutto brindisini, le cose sono andate diversamente da come io ora sto qui a raccontarvi. Sicché, nei resoconti storici su questo specifico punto, è raccontata invece una felice conclusione, collocandola sia pure in maniera vaga tra il 1845 ed il 1856, variando l’anno a seconda delle intuizioni e della fantasia dei singoli autori. In ogni caso, tuttavia, a dar credito alle anzidette versioni, l’epilogo e la soluzione all’interrimento del canale si ebbe sempre prima dell’avvento dei Savoia, e quindi nel periodo di amministrazione borbonica. Mentre la documentazione ufficiale non lascia dubbi in merito e chiarisce, in maniera inequivocabile, che il problema fu risolto solo dopo il 1861, grazie al progetto presentato in quell’anno da un ingegnere aretino, di cui già è tanto se si ha consapevolezza della sua esistenza.

Quindi quello che sarebbe potuto diventare un eroe, in quanto nella mia trasposizione dei fatti fu in grado con la sua trovata di dare un consistente impulso al futuro della città di Brindisi, è rimasto sino ad oggi un perfetto sconosciuto agli stessi Brindisini.

Per questo, la storia di come si riuscì a superare l’interrimento del canale e della foce del porto brindisino merita d’essere trattata una volta di più perché, per come è stata raccontata sinora, non pare che si siano ben compresi i motivi che causavano un simile fenomeno.

 

  1. Il tentativo di Pigonati

 

Parlando del tentativo fatto dall’ingegnere siracusano, una premessa è d’obbligo. La cronachistica brindisina ha fatto di lui il tipico capro espiatorio, tant’è che non c’è colpa consumata in quel periodo che non gli sia stata con faciloneria attribuita. C’entrasse o no con i successivi problemi cui andò incontro il porto, poco importava; tutto fu riversato nella direzione di Pigonati, scelto appunto come vittima espiatoria dei peccati commessi in città, anche per questioni che niente avevano a che fare con il canale e lo scalo. Tra i tanti difetti che gli vengono addossati non si può, però, certo includere l’indolenza, per il semplice motivo che i fatti testimoniano, almeno su questo aspetto, un dinamismo apprezzabile o, quanto meno, insolito per un dirigente statale. Ricevuto l’incarico l’8 luglio 1775, il 13 dello stesso mese si pose in viaggio per Brindisi che raggiunge dopo quattro giorni e notti di viaggio; quindi in un tempo notevole per le strade ed i mezzi di trasporto d’allora. Compiuto un meticoloso ed approfondito sopralluogo, il 20 luglio ripartì per la volta di Napoli, giungendovi dopo un’altra veloce scarpinata il 24 dello stesso mese e, nemmeno dopo un mese, il 15 agosto, fu in grado di consegnare il progetto dettagliato, comprensivo di disegni, fabbisogni e analisi delle spese. L’assenso del re arrivò invece con la dovuta calma cinque mesi appresso, il 27 gennaio 1776, dopo essere transitato nei vari uffici della burocrazia borbonica, insieme all’invito ad iniziare i lavori. Questi, incominciati a tamburo battente, si conclusero il 26 novembre 1778 con la cerimonia di consegna ufficiale del porto a «l’ingegnere del dettaglio, Pietro Galdo, alfiere del corpo del Genio», vale a dire al funzionario che seguiva l’esecuzione puntuale dei lavori. In definitiva, in meno di tre anni Pigonati portò a termine tutte le opere programmate. Cosa questa di non poco conto, se si considera che il suo fu il primo progetto sui porti dell’epoca borbonica ad essere completato senza interruzioni o rallentamenti in corso d’opera, senza modifiche e senza aumento di spesa: un vero e proprio record, conseguito lavorando, se occorreva, anche nelle feste comandate.

La proposta accolta dal re prevedeva la realizzazione di un canale, che mettesse in comunicazione il porto interno, ridotto ad un «lago stagnante, al mare del porto esteriore», arginandolo con strutture di sostegno realizzate con pali lignei a sezione rotonda, dotati di un’estremità a punta per l’infissione in profondità nel terreno, e fascine.  Il canale sarebbe stato prolungato con due moli della stessa materia protesi verso il porto esterno in modo da formare «angoli acuti colle spiaggie, acciò trattenuto avessero le arene, ed alghe, che per costa entrar potevano nella bocca del canale». In succinto, contemplava l’apertura di un nuovo canale e la costruzione in esso di due moli diretti verso la rada, con lo scopo di limitare l’ingresso di alghe e terra e, di conseguenza, di prevenire l’insabbiamento.

Il progetto prevedeva inoltre la bonifica della palude delle Torrette, che era nei pressi della foce del canale, e di quella di Porta Lecce o di Ponte Piccolo, che si trovava all’estremità del seno di Levante,  mentre non era nel preventivo la bonifica della  palude di Ponte Grande, collocata nell’estremità del seno di Ponente. Così, ciò «che doveva farsi» per il «riaprimento del porto», fu fatto: «un canale, che ha unito il porto interiore, col porto esteriore»; «due moli nella direzione del canale stesso», oltre a colmare «le paludi laterali al luogo dove si è formato il gran canale, non meno che la palude detta Porta di Lecce».

Nelle sue “memorie”, Pigonati si dilunga, su un aspetto interessante, vale a dire la profondità massima da dare al canale, chiarendo sin da subito che non era stata una sua scelta. Il canale doveva infatti essere progettato per garantire il passaggio di bastimenti mercantili «che pescano al più palmi 16 di acqua, che era il fondo maggiore che il re voleva si desse» al canale. Quindi la profondità del canale, non troppo superiore ai 16 palmi (poco più di 4 metri, considerato che il palmo napoletano allora era pari a 0,2636 metri), derivava da un’esplicita volontà del re e, in quanto tale, dettata da motivi non indagabili «da’ laici della ragion di stato». Come dire che essendo lui un tecnico non voleva discutere le scelte politiche o quantomeno non poteva opporsi. Si adeguava, ma con poca convinzione, ed il suo disaccordo, sia pure velato da frasi di circostanza, traspare in più di un’occasione: avesse potuto, avrebbe portato la profondità a 30 palmi (circa 8 metri). In ogni caso, a lavori ultimati la profondità era, per questioni tecniche, di 19 palmi, ovvero poco più di 5 metri.

 

Il particolare del disegno “Prospetto orientale della città di Brindisi” (figura n. 2), allegato alla memoria redatta da Pigonati, consente di vedere qual era la situazione al termine dei lavori. Come si può rilevare dalla figura, il nuovo canale tracciato da Pigonati (n. 1) e ciò che rimaneva del preesistente canale (n. 2) conferivano al bacino di collegamento una caratteristica forma ad Y con la creazione di un’isoletta (n. 5), che rimase nello scenario del porto interno per una settantina d’anni. Il nuovo canale, a cui fu assegnato il nome di Borbonico, incrociava il vecchio, chiamato Angioino, all’altezza di dove iniziavano i due moli che, nelle intenzioni, avrebbero dovuto preservarlo dall’interrimento e perpetuare al tempo stesso la memoria dei sovrani. Infatti anche ai moli Pigonati attribuì un nome: Carolino, quello di ponente (n. 3) — ricordiamo che la moglie del re si chiamava Maria Carolina — lungo 210 metri; Ferdinando, quello di levante (n. 4) lungo 148 metri, che però furono poi modificati, non si sa da chi e perché, in molo di san Carlo e di san Vito. La preservazione del canale Angioino non era stata prevista da Pigonati per il transito ma al solo fine di agevolare lo scorrimento delle acque e non sconvolgere il naturale flusso delle correnti. In pratica era stato solo ripulito ed aveva quindi un fondale basso per altro intervallato, dove cambiava direzione, da un rialto (n. 6) che lo rendeva impraticabile anche alle barchette. In quel canale, Pigonati aveva anche accarezzato l’idea di coltivarvi le «chiocciole nere», vale a dire le cozze di Taranto. A tale scopo, aveva fatto pure venire da Taranto un esperto, certo Diego Portolano, il quale aveva fissato «quattro luoghi addetti per piantare i pali di Pino selvaggio, acciò ivi, come è di natura delle Chiocciole, si attaccasse d’intorno il seme». Uno dei posti prestabiliti era appunto nei bassi fondali del canale Angioino; gli altri in punti imprecisati del porto interno. Il progetto del vivaio, che aveva pure ottenuto l’assenso del sovrano, non doveva tuttavia essere visto di buon occhio «per causa dell’odio, che  molti conservano per le novità», considerò amaramente il nostro ingegnere.

I lavori suscitarono dapprima apprensione in parte della cittadinanza la quale — a detta di Pigonati — temeva che «il riaprimento del porto, ed il coprimento della palude dovesse cagionare l’ultimo loro sterminio per la ragione, che le acque richiamate dall’esteriore del porto per comunicazione di canale, tutta dovessero sommergere la città, come in un nuovo diluvio». Poi, con l’andar del tempo, attirarono una sempre crescente curiosità ed aspettativa e, nell’ultimo anno dei lavori, il 18 giugno 1778, i Brindisini poterono fare la processione del «Cavallo bianco» passando per la marina tra gli spari «di vari legni ch’erano già approdati nel porto interiore». Qui, allo stupore dei nostri concittadini, si unì quello del Pigonati per l’originalità della cerimonia che apprezzò senza riserve: «o è l’unica, eccettuando Roma, o è la più distinta nel mondo». Pochi giorni dopo, il 26 giugno, una nave olandese, la Giovane Andriana, arrivò sino al molo per caricare olio. A memoria non se n’era vista una così grande neppure nel porto esterno, sicché «così osservata sull’ultima riva del porto interiore, cagionò a tutti un sorprendente piacere, giacché sino a tal punto li lontri erano stati i legni maggiori».

Certo sono parole del Pigonati il quale, raccontando della meraviglia dei Brindisini di fronte al nuovo canale, l’avrà pure accentuata per magnificare ancor più la sua creatura, come un qualsiasi oste è portato a fare con il vino che ha prodotto. Tuttavia, in questo caso, la soddisfazione per i risultati raggiunti la si coglie anche dal versante del cliente, vale a dire da una fonte brindisina, la “Cronaca dei sindaci di Brindisi”. Dalla “Cronaca” si ricava infatti che «Alla fine di marzo 1778, han principiato a caricare sul molo della porta Reale i bastimenti l’oglio, ed il primo fu padrone Francesco Alloj con gran risparmî de’ negozianti, frutto dell’apertura del canale». Ma risultati apprezzabili si evidenziano, oltre che dall’apertura del canale, anche dai lavori di bonifica. Infatti, «dal signor direttore del porto, d. Andrea Pigonati, furo fatte otturare di terre tutte quelli paludi fuori la porta di Lecce, e la chiesa nominata del Ponte, avendone avuto grande utile per l’aria la città, e specialmente quelli padri domenicani del Crocifisso, che non hanno avuto più nell’està malatie secondo il solito, ma sono stati sempre bene». L’euforia è quindi tale che, quando «il capo mastro muratore Giuseppe di Simone… metté l’ultima pietra al fabbrico» sono presenti i Brindisini di maggior prestigio e «gran popolo» e la conclusione dei lavori si svolge «con gran rumore e strepito de voci che gridavano tutti, viva il re». Così pure la partenza del Pigonati è per la “Cronaca” un avvenimento da ricordare: «il giorno 30 [novembre] se ne partì il direttore d. Andrea Pigonati per la volta di Napoli, portando le piante del gran canale alla maestà del re». Nell’inverno successivo, particolarmente rigido e con frequenti nevicate, il porto attira ancora l’attenzione della “Cronaca” che annota con compiacimento e soddisfazione: «per le gran tempeste sortite nel mese di febbraro, e marzo si è veduto il porto interiore pieno di bastimenti grossi sino al numero di ventiquattro; cosa veramente da vedersi». Pure i maggiori detrattori di Pigonati dovettero riconoscere che i miglioramenti dovuti alla sua opera erano tangibili: la mortalità era diminuita e le attività commerciali avevano ripreso vigore. Anche la vita materiale evidenziava indiscutibili sviluppi positivi. In breve, il “gran canale”, lungo 492 metri e largo all’imboccatura esterna 48,80 metri ed a quella interna 42,75 metri, aveva aperto il cuore dei Brindisini alla speranza.

Gli odori pestilenziali, le paludi, le malattie sembravano preoccupazioni tutte superate e ormai lasciate dietro le spalle.

Invece erano dietro l’angolo.

Pronte a rifare capolino.

 

  1. Il tentativo di Pollio.

 

Per quel che è dato di sapere, al 10 agosto 1781, quindi a quasi due anni dalla conclusione dei lavori, la creatura del Pigonati continuava a funzionare com’era nelle aspettative di tutti. Poi una serie di circostanze sfortunate fece sì che non si svolgesse nessun lavoro di manutenzione sul canale e questo ritornò ad ostruirsi. Sicché nel giro di pochi anni si ricrearono le tragiche condizioni d’una volta, come sottolineò  Carlo Ulisse De Salis Marschlins, viaggiatore di passaggio da Brindisi nel 1789, avendo trovato il porto interno «inaccessibile e l’aria così mefitica come lo erano prima dei lavori» di Pigonati.

Con la situazione che precipitava, la cittadinanza si appellò di nuovo al re, il quale doveva essere davvero interessato alle sorti della nostra città, se intervenne ancora una volta prontamente, incaricando di un secondo radicale intervento l’architetto idraulico Carlo Pollio, «determinato — come ebbe modo di precisare nelle sue “Determinazioni per lo porto di Brindisi” — a procurare per ogni verso la conservazione del celebre porto di Brindisi, e a facilitare in quella guisa all’industria, ed al commercio nazionale una nuova, e molto apprezzabile risorsa.

I più importanti interventi assegnati al coordinamento di Pollio riguardavano: l’allargamento del canale da portarsi nella parte esterna sino a 200 palmi (53 metri) e a 160 palmi (poco più di 42 metri) nella parte interna; l’aumento della profondità del canale sino a 25 palmi (6,60 metri); il prolungamento di altri 200 palmi dei due moli di san Carlo e di san Vito; la bonifica di entrambe le due paludi di Ponte Grande e di Ponte Piccolo, e non di una sola di esse come avvenuto per il progetto di Pigonati; la costruzione di grandi fossi per la sistemazione delle «materie più consistenti», provenienti dai «corsi immondi» e dagli «scoli della città», da rimuovere periodicamente in modo che non finissero in mare; la riapertura dei canali di collegamento con il mare delle «due lagune, denominate ora Fiume grande e Fiume piccolo» facendo in modo di deviare altrove gli scoli ed i «torrenti più torbidi che v’imboccano».

Non esiste una solida documentazione ufficiale sui lavori effettivamente fatti dal Pollio, che ricevette l’incarico verso il 1789 e dovette chiuderli all’incirca nove anni dopo, probabilmente per ragioni di forza maggiore, quando le tensioni del regno con la Francia erano ormai al culmine e non perché s’erano conclusi. Se ne hanno così notizie sparse per lo più da fonti diverse da quelle borboniche.

La principale, di fattura francese databile tra il 1806 ed il 1810, non è altro che il rifacimento dei disegni, “Topografia della città e porti di Brindisi” e “Prospetto della città di Brindisi”, predisposti da Pigonati per la sua “memoria”, aggiornati con l’indicazione dei lavori eseguiti da Pollio sino al 1794 circa. Dalla “Topografia” (Figura n. 3) si deduce che Pollio scavò il canale Borbonico negli anni 1791 e 1792, dilatandolo per cento palmi napoletani, e che pulì quello angioino nel 1793, munendolo forse di due «scogliere». Dal Prospetto si ricava che la profondità del canale era stata riportata nel 1791 tra i 16 ed i 17 palmi — accanto a questa informazione venne però annotato : «Adesso il Canale Borbonico è diverso ma di 11 palmi al più» — e la collocazione degli edifici della Sanità, «il nuovo lazzaretto principiato al 1791 [e] terminato da poco» e dell’Arsenale, «fatto al 1791», strutture queste posizionate dalle parti dell’ex stazione marittima e dei Giardinetti. Pollio aveva infatti operato molto per dotare il porto delle necessarie infrastrutture, quali appunto gli uffici della deputazione di sanità, che volle chiamare lazzaretto, e l’arsenale.

Dal resoconto fatto dal “Giornale letterario di Napoli”, in occasione del passaggio a Brindisi del re Ferdinando IV nella primavera del 1797, si ricava inoltre che il canale aveva una larghezza di 200 palmi ed una lunghezza di 1.800 palmi (475 metri); che erano stati «asciugati gli stagni e colmati i bassi fondi» di Ponte Grande e Ponte Piccolo, dove era stata tracciata una strada «di un miglio e più» dalla Porta di Lecce sino a quella di «Napoli» (vale a dire Porta Mesagne); che era stata edificata «l’altra grande strada della Mena [l’attuale corso Garibaldi e corso Roma sino all’incrocio con via Conserva], che prima era ingombra di tutte le acque di scolo della città, e che oggi per canali sotterranei, laterali all’istessa strada, vanno a deporsi in ampi recipienti». Queste vasche depuratrici anche delle acque piovane erano state piazzate una «innanzi al palazzo Montenegro» e l’altra accanto alla salita che «dalla strada della Marina porta alla piazza delle Colonne».

In definitiva un bel po’ di lavori, alcuni anche criticati dallo stesso re, ad esempio l’edificio della Sanità, che tuttavia non risolvevano il problema principale  dell’insabbiamento del canale.

Quasi certamente — almeno questa è la mia opinione — Pollio non poté completare tutti gli interventi che aveva in mente di fare per la situazione politica che s’andava maturando. Lo sconcerto provocato dalla rivoluzione francese e, in particolare, dall’esecuzione di Maria Antonietta, sorella della regina Maria Carolina, i timori per le evidenti mire espansionistiche dei Francesi e, non ultima, la mancanza di liquidità conseguente alle notevoli spese per il riarmo, resero necessaria l’interruzione di ogni attività di ammodernamento dei porti, delle vie marittime più in generale, e della rete stradale.

 

  1. I Francesi pensano di riattivare il porto interno

 

Abbandonato nuovamente a sé stesso, il canale ricominciò ad insabbiarsi ed il suo stato, insieme a quello del porto interno a cui avrebbe dovuto dare accesso, fu valutato una decina di anni dopo dai Francesi, subentrati momentaneamente alla dinastia borbonica. Gli intendimenti dei nuovi dominatori erano di utilizzare il porto di Brindisi per scopi militari più che commerciali, visto il blocco continentale imposto dall’Inghilterra alla Francia proprio nel 1806, anno del loro insediamento a Napoli.

Dopo un’analisi preliminare incentrata sulla sussistenza delle condizioni adeguate per riattivare lo scalo di Brindisi — la cui documentazione s’è appena utilizzata per avere più dettagli sulle opere realizzate dal Pollio — nel 1810 il generale Campredon affidò al tenente colonnello del Genio Vincenzo Tironi (o Tirone, come appare in altri documenti) il compito di redigere una relazione anche «sul bonificamento del Porto della Città di Brindisi» nell’ottica di un suo possibile utilizzo per scopi militari.

Nel dettagliato rapporto presentato, Tironi dichiarò la configurazione dello scalo idonea ad accogliere in piena sicurezza bastimenti di ogni tipo. Riscontrava però i soliti limiti: insalubrità dell’aria, periodico ammasso di alghe e di sabbia, presenza di paludi, accentuate nelle estremità dei seni di Ponente e di Levante che rendevano la zona economicamente depressa. Forniva poi alcuni particolari sulla situazione del porto, da lui ritenuto ormai in stato di totale abbandono dal 1799: il canale di comunicazione con la rada era profondo all’imboccatura solo sette palmi ed era destinato ad insabbiarsi sempre più, tanto che, nel giro di due anni, prevedeva avrebbe nuovamente precluso l’accesso a qualsiasi bastimento; molte banchine laterali dovevano essere aggiustate e le paludi s’erano riformate in molte zone del bacino interno. Il seno di Ponente aveva ancora acque in buona parte «sempre vive» e profonde, mentre in quello di Levante il fondo era diminuito e le alghe venivano imputridite dai raggi del sole.

Tironi esaminò pure i lavori fatti in precedenza da Pigonati e Pollio, mostrandosi molto critico per le due banchine, giudicate mal edificate e, soprattutto, per i moli di prolungamento che, costruiti per  preservare il canale da ostruzioni, avevano finito per modificare la linea costiera accentuando il ristagno di alghe e sabbia e dando così origine a nuove formazioni paludose. Dava invece un giudizio decisamente positivo al sopraelevamento della strada Carolina e alla edificazione di una fogna sotterranea, compiute da Pollio. Anche se, secondo lui, sarebbe stato meglio se la strada fosse stata lastricata e se non fossero stati adottati i recipienti per bloccare e depurare le acque torbide della città, poco pratici ad essere gestiti oltre che costosi.

In particolare sui lavori svolti da Pigonati, Tironi riconosce un difetto di fondo nelle scarse risorse finanziare poste a sua disposizione ma pure suoi significativi errori commessi in sede di progettazione, tra i quali quello di maggior peso per il risultato finale era a suo dire costituito dall’orientamento “greco-levante” dato al canale, che di fatto facilitava l’interrimento, a differenza della direzione “greco” che lui riteneva più favorevole. A tal proposito, occorre precisare che questo presunto errore di Pigonati sarebbe tutto da provare, non essendo per niente pacifico che la direzione greco-levante favorisse l’interrimento rispetto a quella verso greco, come affermava Tironi, e, ancor più da provare, che l’orientamento del canale fosse in sé tanto influente da essere la causa scatenante dell’insabbiamento. Pur tuttavia questo concetto è divenuto un tema caro alla cronachistica che ne ha fatto la bandiera delle sue argomentazioni per screditare le capacità dell’ingegnere siracusano e, più in generale, l’intervento da lui compiuto per la riapertura del porto interno brindisino.

Ma soprattutto, come si vedrà, per cambiare la storia ed individuare quale causa dell’interrimento l’orientamento dato al canale.

 

  1. Come si depista la realtà

 

Il primo a ricamarci su fu Ferrando Ascoli che, in forza dell’essersi proclamato un “marino”, fu molto categorico nell’affermare che «Pigonati commetteva uno sbaglio tecnicamente grosso nel fare l’imboccatura del canale rivolta a greco-levante». Avrebbe dovuto invece orientarla nella direzione «di greco, cioè nella direzione di Forte a Mare, per metterla al riparo da ogni traversia e da ogni interrimento». E, per avvalorare  la sua tesi, l’Ascoli introduce un argomento divenuto con il passare del tempo un must, asserendo in maniera perentoria che, se Pigonati «avesse interrogato i marini e i pescatori locali», si sarebbe convinto che «i tempi cattivi da greco-levante costituiscono la “traversia”,  l’unica traversia del porto esterno» e, di conseguenza, non sarebbe incorso — sempre a suo parere — nel grave errore di scegliere proprio quell’orientamento per il canale.

In effetti parecchi cronisti e storici locali hanno modificato sostanzialmente la sparata del “marino”: quella che per l’Ascoli era una mancanza di umiltà, nel non aver voluto sentire l’opinione di chi aveva una solida conoscenza pratica, per loro s‘è tramutata in vera e propria arroganza, in quanto nei loro racconti i Brindisini avevano cercato più e più volte di avvertire Pigonati dell’errore che stava compiendo a scegliere la direzione greco-levante in luogo di quella verso greco, ma invano, lui aveva fatto con alterigia spallucce perseverando nell’abbaglio.

Ora dubito che i marini ed i pescatori brindisini del tempo si siano messi a pontificare sulle direzioni più utili per evitare l’insabbiamento, ma, a parte questo, il ritenere che il fenomeno dell’interrimento potesse essere risolto con la pratica esperienza della navigazione e della pesca, o analizzando soltanto la direzione delle traversie, come fatto dall’Ascoli, appare una banalizzazione eccessiva d’un problema all’opposto molto complesso su cui in genere pesano ben altri fattori, quali, solo per citare i più evidenti, l’effetto dei venti sulle coste e la composizione delle coste stesse.

Certo, in linea teorica aveva ragione Tironi, se il canale di comunicazione con il porto esterno avesse avuto la direzione nord-est (greco), avrebbe potuto fruire della protezione dalle correnti dall’isola di Sant’Andrea, cosa che non avveniva avendolo Pigonati indirizzato verso est-nord-est (greco-levante). Una diversa angolazione volta a greco avrebbe quindi di certo salvaguardato il canale dalle correnti ma non era del tutto scontato, come affermava Ascoli, che l’avrebbe tutelato anche dall’insabbiamento, in quanto, all’atto pratico, non era per niente conseguente che i detriti e la sabbia, responsabili dell’interrimento del canale, seguissero la stessa direzione delle traversie. Ed in effetti, scopriremo che l’insabbiamento del canale del porto di Brindisi era dovuto a ben altri fattori. La stranezza è che quando Ferrando Ascoli riprende la critica fatta da Tironi a Pigonati essa era ormai da una ventina di anni destituita di ogni fondamento, visto che nel frattempo il problema era stato risolto, e non certo perché il canale era stato diversamente orientato ma agendo appunto su altri  aspetti del problema. E stranezza ancor maggior che è tuttora convinzione comune che Ascoli avesse tutte le ragione del mondo ad accusare Pigonati d’aver sbagliato i calcoli e che il canale s’insabbiasse a causa dell’orientamento che lui gli aveva dato3.

Radicalizzando tale discorso, c’è chi arriva addirittura ad affermare che l’insabbiamento abbia avuto origine proprio dagli errori commessi da Pigonati e che, prima dei suoi lavori, nel porto interno arrivavano navigli d’ogni tipo perché non era interrito4. Vedremo, ma in un altro intervento, che non fu Pigonati, con i suoi errori, a far insabbiare la foce del porto interno per il semplice motivo che l’interrimento era dovuto a cause naturali, e non allo scavare il canale in un modo piuttosto che in un altro. Senza contare che vi sono documenti e testimonianze a iosa che attestano che l’interrimento era preesistente a Pigonati, almeno dal Seicento.

In realtà Pigonati fallì, al pari di tutti gli altri che realizzarono analoghi tentativi nel periodo borbonico per non aver capito quali erano le ragioni che creavano l’interrimento della foce che, come vedremo in seguito, erano dovute appunto a cause del tutto naturali che prescindevano da possibili errori di carattere tecnico. Rispetto a tutti gli altri interventi preunitari, quello di Pigonati, ebbe piuttosto il pregio quantomeno di indicare la via: in fondo fece scavare lui quel canale che, per quanto parecchio criticato, rappresentò l’embrione del definitivo canale Pigonati e che fece in aggiunta comprendere che, con i dovuti aggiustamenti, la città avrebbe potuto sconfiggere la malaria ed avere un futuro migliore. In aggiunta il suo progetto fu quello del periodo borbonico di gran lunga meno oneroso e l’unico ad essere stato almeno completato.

Comunque sia, dopo Pigonati, anche Pollio fallì nell’intento e nemmeno con Tironi, almeno a considerare la sua dettagliata relazione, sussistevano i presupposti per risolvere alla fonte i problemi d’insabbiamento del canale. Era quindi destinato a fallire pure il tentativo francese, se la mancanza di tempo non ne avesse tarpato le ali sin dall’inizio, e, come si vedrà,  naufragò ancor più miseramente pure quello attuato dopo il ritorno della dinastia Borbone, che pure era sostenuto da un impiego ingente di risorse.

(1 – continua)

 

 Note

1 Carlo di Borbone abdicò nel 1759 a favore del figlio Ferdinando per succedere sul trono di Spagna.

 2 Attualmente c’è un porto interno che è lo stesso di quello indicato nella mappa di riferimento, un porto medio dove si svolgono le principali attività portuali ed un porto esterno. Gli attuali porto medio e porto esterno costituivano in antichità la rada e successivamente, quando il porto interno non consentiva più l’accesso ai bastimenti, incominciò ad essere chiamato anche porto “esteriore” (esterno).

3 In tal senso, ad esempio, G. PERRI, “Brindisi nel contesto della storia”, Lulu.com, 2019, p. 106: «Pigonati, agendo con buona dose d’ignoranza nonché di arroganza, aveva commesso il grossolano errore di orientare l’imboccatura del canale a greco-levante e quel grave errore d’ingegneria finì per vanificare l’ingente sforzo» e G. MEMBOLA, “Le vicende del canale d’ingresso al porto interno“, Tutto Brindisi n. 39, marzo 2012: «Ma l’evidente errore di calcolo commesso dell’ingegnere nel progettare l’imbocco del porto, orientandolo a greco-levante proprio a direzione delle correnti marine predominanti, causò nel giro di pochi anni il progressivo intasamento dell’apertura e la conseguente ricomparsa delle malattie malariche».

4 G. CARITO, intervento nel webinar della presentazione del libro di G. PERRI: “Pagine di storia brindisina”, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI

 

Riferimenti bibliografici

  1. La supplica dell’arcivescovo al sovrano

Manoscritto ms_L1, “Miscellanearum Tomus I”, Biblioteca pubblica arcivescovile “A. de Leo”, Brindisi.

  1. Il tentativo di Pigonati
  2. PIGONATI, “Memoria del riaprimento del porto di Brindisi sotto il Regno di Ferdinando IV”, Michele Morelli, Napoli 1781.
  3. CAGNES – N. SCALESE, “Cronaca dei sindaci di Brindisi (1529 – 1787)”, A cura di R. Jurlaro, Amici della “A. De Leo”,

Brindisi, 1978.

  1. Il tentativo di Pollio

Dispaccio inviato da G. Acton al sotto intendente di Brindisi, Nicola Vivenzio, il 20 ottobre 1789, riportato in “Determinazioni di Sua Maestà il Re Nostro Signore per lo porto di Brindisi”, Napoli, 1790 (Biblioteca Nazionale di Napoli).

Giornale letterario di Napoli”, volume LXXVI, giugno 1797, Michele Morelli, Napoli 1797, p. 98.

ASCOLI, “La storia di Brindisi”, Forni editore, Sala Bolognese 1981.

4. I Francesi pensano di riattivare il porto interno

Rapporto del Tenente Colonnello del Genio Tirone al Sig. Generale di Divisione Campredon, Comandante in Capo il Corpo del Genio, sul “Bonificamento del Porto della Città di Brindisi, dei terreni che l’avvicinano, e su di uno Stabilimento in questa Città di un Bagno per custodia di duemila Condannati”, Brindisi, 17 marzo 1811, BNN, Manoscritti, Biblioteca Provinciale, n. 19.

5. Come si depista la realtà

F. ASCOLI, op. cit.

G. PERRI, “Brindisi nel contesto della storia”, Lulu.com, 2019.

G. MEMBOLA, “Le vicende del canale d’ingresso al porto interno“, Tutto Brindisi n. 39, marzo 2012.

G. CARITO, intervento webinar della presentazione del libro di G. PERRI: “Pagine di storia brindisina”, vol. II, Ottobre 2021, https://www.youtube.com/watch?v=sLyVzlJvPVI

Libri/ Napoli, fine di un regno antico

Alcuni passi dell’ultimo lavoro di Enzo Parabita: NAPOLI, FINE DI UN REGNO ANTICO. LA CRONACA, L’ECONOMIA, LA POLITICA, LA SOCIETÀ ED IL COSTUME NEGLI ULTIMI ANNI PRIMA DEL CROLLO DEL REGNO DELLE DUE SICILIE (Edizioni Youcaprint).

Ricerche storiche, cronistoria e commenti sugli ultimi anni del regno dei Borbone a Napoli, ricostruiti sulla base delle “Memorie di Raffaele DE CESARE – La fine di un Regno (Napoli e Sicilia) e Ferdinando II”

Ferdinando IV

La rivoluzione siciliana avvenuta nel 1848 era stata una delle tante rivolte popolari poi denominate “la primavera dei popoli”. La rivoluzione siciliana di quell’anno rivestì per l’Isola e per il Regno di Napoli un significato molto più ampio per varie ragioni. Era cominciata ai primi di gennaio 1848 e fu quindi la prima in assoluto dei moti rivoluzionari europei di quell’anno. Sarà di esempio e modello per le altre rivolte che poi scoppiarono in tutta Italia ed in Europa. Da aggiungere che questa rivolta seguiva le tante altre che si erano succedute nel lontano e nel recente passato sull’Isola. Infatti solo nel secolo XIX furono almeno quattro le rivolte degne di nota, specie contro il regno dei Borbone.

La rivolta del 1848 fu l’ultima, ma fu quella che lasciò i maggiori effetti in Sicilia, riuscendo a sconfiggere l’esercito borbonico ed a cacciare i Borbone dall’isola. In particolare la rivoluzione diede vita ad uno Stato indipendente liberal-democratico con un parlamento rappresentativo che poi sopravvisse 16 mesi, dandosi anche una carta costituzionale decisamente progressista. Quest’ultima rivoluzione siciliana produsse anche effetti di catalizzatore per la caduta finale del regno dei Borbone, avviando un processo che porterà all’unificazione al regno d’Italia nel 1860/1861. Dopo il terremoto dell’epoca napoleonica e la soppressione dei principi e dei diritti fissati con la rivoluzione francese, nel 1815 il Congresso di Vienna, indetto dalle nazioni vincitrici per restaurare l’assetto politico dell’Europa e ridefinire i confini geografici delle nazioni, aveva decretato, tra l’altro, la riunificazione dei regni di Napoli e di Sicilia, separati sin dal medioevo.

La denominazione “Regno delle Due Sicilie” aveva origini antiche e fu ereditata dagli eventi storici legati alla rivolta detta dei “Vespri Siciliani” del 1282.

Il Congresso di Vienna impose di riunire terre separate da una antica rivoluzione e poi sviluppate in un proprio percorso storico-sociale. Il Congresso, cancellando gli effetti della vecchia rivoluzione medioevale,sembrò volesse dare anche un chiaro messaggio: nulla di buono potrà nascere da una rivolta ed i cui avvelenati frutti potranno sempre essere annullati. Venne così imposto il regno unitario delle Due Sicilie sotto la restaurazione della dinastia dei Borbone rimesso sul trono di Napoli.

Tale nuovo regno comprendeva gli antichi domini normanni e quelli svevi della Sicilia.

C’è inoltre da evidenziare che i semi della rivoluzione del 1848 erano in effetti molto più antichi ed erano stati gettati in Sicilia già prima del Congresso di Vienna, ovvero nell’anno 1812. Durante il tumultuoso periodo di Napoleone Bonaparte, la Corte ed i componenti della famiglia reale dei Borbone erano stati costretti a lasciare Napoli ed a rifugiarsi a Palermo, rincorsi dalle truppe francesi dopo la conquista di tutto il Regno di Napoli. La famiglia reale e tutta la corte, traghettata nell’isola delle navi inglesi, furono alloggiati a Palermo, dove rimasero sotto la protezione della marina militare britannica, che rimase molto tempo al largo di Palermo in funzione antifrancese ed a protezione dei Borbone. In tale situazione di incertezza politica, l’aristocrazia siciliana fu molto abile a sfruttare la vicinanza del Re e forzare l’impaurito Borbone a promulgare una nuova costituzione, basata sul modello rappresentativo francese. Fu ratificato un parlamento dell’isola ed una struttura di governo per la Sicilia.

Appena il Congresso di Vienna ebbe restaurato l’antico ordine monarchico europeo, Ferdinando IV Re di Napoli e III del Regno di Sicilia, reinsediato alla corte di Napoli come Sovrano del Regno delle due Sicilie, si affrettò ad abolire la costituzione siciliana concessa forzatamente tre anni prima, pur se garantita da un solenne giuramento pubblico sui vangeli. Questo atto, con cui il Re si rimangiava la parola data, determinò un aumento considerevole della diffidenza e dell’avversione dei siciliani verso la corte napoletana ed in particolare verso la dinastia dei Borbone. La sfiducia verso il Re spergiuro divenne totale e la disaffezione verso un regno considerato distante e totalmente avulso dalla realtà siciliana portarono, già prima del 1848, a ripetute sommosse, moti e rivolte, estese spesso alle altre provincie, specie in Calabria. Anche nelle terre di Puglia sopravviveva una radicata avversione al dominio napoletano, con rivolte sanguinose che si ripetevano sin dal medioevo. Avversione radicata in particolare nella nobiltà e nei ceti più colti della società civile, specie nelle province salentine, che mai avevano accettato passivamente le vessazioni e le imposizioni di una corte corrotta ed un Re distante.

Si ricordano nei secoli 1200, 1300, 1400 le ripetute e lunghe ribellioni e vane guerre dei conti di Lecce e di Nardò contro i regnanti napoletani. Ribellioni sempre soffocate nel sangue. Le rivolte nelle terre pugliesi si ripetevano da secoli con moti e sommosse, sempre scatenate delle tasse su prodotti agricoli, in particolare del grano e degli olii e per le cicliche vessazioni dei notabili napoletani inviati dalla lontana Corte di Napoli. Caratteristica fu la tassa sulla calce del XV secolo, che portò alla creazione dei trulli.

La disaffezione ed avversione verso tale Stato era totale e portò quindi ai moti ed alla rivoluzione del 1848 e poi lo sfaldamento di tutto il regno nel 1860 (Capitolo I. Il prologo della caduta. La Rivoluzione siciliana).

 

Alle otto della mattina del 27, da Lecce partirono i tre principi, con una parte del seguito.

Alle nove, Re Ferdinando e Maria Teresa, ascoltata la messa all’Intendenza, ammisero al baciamano le autorità, riunite nella sala del palazzo. La cerimonia riuscì piuttosto fredda. Il Re non rivolse parola a nessuno e si temette che fosse rimasto poco soddisfatto delle accoglienze, ma non si sentiva bene e aveva solo fretta di partire. Ringraziò il dottor Leone e gli fece dire dal colonnello Severino,che si riservava di manifestargli la propria soddisfazione, appena giunto a Napoli.

Leone restò a Lecce e Ramaglia, con l’assistente Capozzi, accompagnò il Re, che scese lentamente lo scalone, appoggiandosi al braccio del generale Daspuro, a cui disse triste: Ricevitò, so ruinat..sent’a capa comm’a nu trommone.

Circa alle 10, i Reali lasciarono Lecce, fra gli applausi della folla che li accompagnò sin fuori le mura. I cocchi reali furono poi seguiti, per alcune miglia, dalle carrozze della nobiltà leccese. La via da Lecce a Bari fu un cammino trionfale. Campi, Trepuzzi, Squinzano, San Pier Vernotico, Campi Salentina e i paesi vicini avevano innalzati i soliti archi di trionfo con iscrizioni più o meno gonfie. Accanto ad ogni arco si trovavano le rappresentanze municipali e le guardie urbane con bandiere. Dimostrazioni più clamorose aveva preparate Brindisi. I brindisini erano tutti fuori dell’abitato, con il sindaco Pietro  Consiglio, col sottointendente Mastroserio, che, zoppo per cronica infermità, aveva fama di zelantissimo ed era temuto persino dal Sozi Carafa.

……………………….

Non c’era biancheria sufficiente. Egli, che aveva sempre avuto un pauroso terrore per i morbi infettivi e specie per la tisi, si vedeva condannato a morire di un morbo, che a lui stesso faceva ribrezzo. Il male procedeva inesorabile e le sofferenze dell’infermo divenivano sempre più strazianti. Fino al 12 aprile, i medici non credettero necessario pubblicare alcun bollettino e più che i medici, non lo ritenne opportuno la Regina, per non allarmare il pubblico.

A Napoli ormai tutti conoscevano la gravità del caso e se ne parlava liberamente, non prestandosi fede alle pietose notizie ufficiose. Il primo Bollettino della salute di S. M. il Re N. S. apparve nel Giornale Ufficiale il 12 aprile, quando la gravità non si potè più nascondere perchè il Re in quella mattina volle ricevere il viatico. ….

Vedendo il corteo religioso, il Re si levò con grande sforzo e si mise a sedere sul letto. Chi lo vide rimase esterrefatto e sconvolto, era l’ombra di Re Ferdinando II. La cerimonia fu commovente. Erano presenti anche i fratelli del Re. L’infermo li fece avvicinare al letto ed a ciascuno rivolse speciali preghiere. Raccomandò al conte d’Aquila di curare l’armata e al conte di Trapani rivolse le stesse raccomandazioni per l’esercito. Solo al conte di Siracusa non disse nulla; abbracciò il fratello e lo tenne qualche minuto stretto al petto e continuava a baciarlo ripetutamente, piangendo senza ritegno. Dal principe di Satriano e dal generale Ischitella, tutti e due presenti, volle la promessa che avrebbero assistito e consigliata negli affari il nuovo Re. Era chiaro che non si faceva più illusioni, preparandosi alla morte con rassegnata dignità e fede religiosa. Il primo bollettino, redatto alle nove e mezzo di quel giorno, diceva: “La recrudescenza della malattia annunciata ieri, è molto aumentata nel corso del giorno e della notte, sino ad esser stato bisogno questa mattina di prescrivere la somministrazione del Santissimo Viatico„ Portava le firme di tutti e sei i medici e chirurgi curanti, in questo ordine: Rosati, Ramaglia, Trincherà, De Renzis, Leone, Capone. In segno di lutto, dal 12 aprile rimasero chiusi tutti i teatri. I bollettini continuarono a pubblicarsi, ogni giorno, sino al 27 aprile nella stessa forma nebulosa.

Anche nei giorni di maggiori sofferenze, che furono dal 26 aprile fino alla morte, con brevi interruzioni, il Re si interessava sempre degli affari di Stato, ma soprattutto e ansiosamente, chiedeva informazioni delle cose della guerra. Lo preoccupava la conferenza sfumata ed il Piemonte.

Napoleone III intanto faceva partire per l’Italia i tre primi corpi d’armata e si preparava a scendervi lui stesso, per prendere il comando di tutto l’esercito. Ferdinando II confidava nell’Austria, che credeva sarebbe stata aiutata da Russia e dalla Prussia. Sperava ancora nell’intangibilità dello Stato della Chiesa. Allarmante fu il bollettino del 13. La mattina del 16, i medici e i chirurgi, a scanso di responsabilità, al principe ereditario consegnarono una relazione scritta della malattia e di tutti i particolari…

L’infermo si riebbe ad un tratto, riaprì gli occhi e balbettò: Perchè piangete?. Io non vi dimenticherò e alla Regina: Pregherò per te, pei figli, pel paese, pel Papa, pei sudditi amici e nemici e pei peccatori. Poi perdette la parola, stese una mano sul crocifisso del confessore, l’altra alla Regina in segno d’addio, reclinò il capo sul lato destro e spirò. L’orologio segnava l’una e mezza dopo il mezzogiorno. Era domenica. La famiglia reale si ritirò subito negli appartamenti. Il cadavere fu lasciato nel letto, guardato dai marinai e da altri familiari, con l’assoluto divieto di farlo toccare (Capitolo XXXI. La salute del re peggiora).

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