Per la storia feudale di Alliste e Felline

di Luciano Antonazzo

 

Le vicende feudali di Alliste e Felline sono andate quasi sempre di pari passo, essendo stati i loro territori assoggettati molto spesso ad uno stesso Signore fino all’eversione del feudalesimo.

La cronologia della successione dei loro feudatari risulta chiara e lineare fino a quando entrambi i feudi pervennero in testa di Don Francesco Pignatelli[1]. A questi succedette, nella seconda metà del XVII secolo, Bartolomeo de Capua, Principe della Riccia e Gran Conte di Altavilla, ma non era chiaro come ciò fosse avvenuto. I successivi passaggi attraverso i quali le stesse terre passarono poi in possesso degli Scategni che le detennero fino all’eversione del feudalesimo, sono a loro volta abbastanza confusi e non chiaramente delineati nei tempi e nei modi.

A fare chiarezza su come il passaggio del loro possesso pervenne a Don Bartolomeo de Capua e da questi al marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, avvenuto nel 1691, contribuisce un atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis di Napoli concernente una convenzione stipulata il 30 ottobre 1702 tra Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, contessa di Conversano[2], e Don Paolo Serafini, procuratore del marchese di Ugento Don Nicola d’Amore. Per i passaggi successivi si riporta quanto esposto ne La saga dei d’Amore, marchesi di Ugento, principi di Ruffano, marchesi di S. Mango[3].

Nel suddetto documento del notaio de Conciliis, Donna Dorotea Acquaviva d’Aragona, vedova del conte Don Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona sr. († 2 gennaio 1691)[4] e balia e tutrice del figlio Giulio Antonio jr. nato postumo al padre, riferisce che nei capitoli matrimoniali per il matrimonio da contrarsi con Don Cosimo Acquaviva d’Aragona, alla suocera Donna Maria Caterina de Capua[5], contessa di Noci, da Don Bartolomeo de Capua erano stati assegnati in dote 40.000 ducati e per essi la tenuta del feudo di Nicotera[6].

Proseguì Donna Dorotea dicendo che “qualmente gli anni passati essendono dedotte nel S. R. C. le Terre d’Alliste, e Fellino, una con li feudi di Tariano, Verito, e Sinisgalli esecute ad instanza de creditori contro D. Francesco Pignatello Cugnetti Duca d’Alliste, e le medesime Terre, e feudi apprezzate dal Tavolario eletto, et esposte come venali[7], prima che si trovasse un compratore, tra Donna Maria de Capua e don Bartolomeo, mediante albarano (del 1668) si era convenuto che questi dovesse in nome e per conto di lei, comprare i due feudi per 36.000 ducati e che tale somma (quantunque il principe avesse sborsato di più o di meno) sarebbe stata scomputata dai 40.000 dovutile per dote. Conseguentemente, promise Donna Maria che gli avrebbe rilasciato il possesso di Nicotera.

In osservanza dell’albarano, il principe Bartolomeo, mediante il duca di Mignano (Ce), suo parente[8], comprò i due feudi e ne fu immesso nel possesso in attesa del Regio Assenso. Donna Maria però ritornò sulla sua decisione e rifiutò di prendersi i due feudi e restituire la tenuta di Nicotera, sicché Don Bartolomeo fu costretto qualche anno dopo ad adire le vie legali. I giudici sentenziarono che Donna Maria era obbligata al rispetto di quanto contenuto nell’albarano, ma ella fece ricorso opponendo diverse “proposte di nullità”. Pendente la discussione sulle pretese cause di nullità dell’albarano, Donna Maria decedette nominando suo erede universale il figlio Giulio Antonio Acquaviva sr., anche in virtù della rinuncia fatta in favore di quest’ultimo dal fratello Don Domenico.

Fra Don Bartolomeo e Don Giulio Antonio, per dirimere la questione inerente ai due feudi, fu stipulato un atto di concordia col quale si demandò il tutto alla valutazione e decisione degli avvocati Don Serafino Biscardi e Don Nicolò Caravita, da entrambi scelti come “amichevoli compositori”. Fu deciso che Don Giulio dovesse riprendersi i feudi di Alliste e Felline e restituire Nicotera a Don Bartolomeo.

Don Giulio Antonio restituì Nicotera e prese possesso di Alliste e Felline insieme ai suffeudi, ma si trovò ad essere molestato dai creditori della sua famiglia, a cominciare dal cognato Don Giovanni Geronimo Acquaviva d’Aragona duca d’Atri e dagli eredi di Geronimo e Vincenzo Barra. Questi erano ricorsi al S. R. C. ed avevano ottenuto che in danno di Don Giulio Antonio si vendesse il ducato di Nardò e che nel frattempo lo stesso venisse affittato. Il conte di Conversano allora ricorse all’“espediente” di mettere a disposizione dei creditori i feudi di Alliste e Felline coi suoi suffeudi, ed al loro acquisto rese disponibile il marchese di Ugento Don Nicola d’Amore.

Stemma ducale della Casata Acquaviva

 

Intervenne però la morte dello stesso conte Don Giulio Antonio e fu dichiarato suo erede il figlio postumo Don Giulio Antonio jr.  al quale furono assegnati come tutori e balii la madre Donna Dorotea e suo fratello Don Giovanni Geronimo (1663-1709). Questi, per evitarsi nuove liti, spese e dispendi di denaro, in specie per evitarsi un nuovo apprezzo che si sarebbe dovuto fare per i due feudi, con l’intervento “del Sig. Commissario, Avvocati, Procuratori, Tabulario, Mastro d’Atti, Scrivano, Soldati et altre subastazioni e deritti stimorno con la loro matura prudenza essere utile, et espediente all’interesse del minore vendere dette terre, e feudi volontariamente, precedente decreto di expedit”, al  marchese di Ugento Don Nicola d’Amore, “una con tutti loro Corpi, Intrate, giurisdizioni, gagii, emolumenti et Intiero Stato, e dell’istesso modo, e forma, e con quelli medesimi corpi che sub verbo Signater se descriveano, contenevano et erano stati apprezzati primo loco, e venduti dal detto S. C. al detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo per l’intermezza persona del detto Duca di Migniano, e che dal detto quondam Ill. Principe Don Bartolomeo dell’istesso modo, e forma, et sub verbo Signater erano stati ceduti al detto quondam Illustre Conte Don Giulio seniore”.

E questo per il prezzo di 33.000 ducati dei quali subito se ne dovessero dare 3.000 a Don Felice Basurto, duca di Alliste (come somma dovutagli a complimento del credito vantato sull’eredità e sui beni dei precedenti conti di Conversano)[9] ed altri 25.000 da pagarsi ai tutori per far fronte ai creditori dopo aver ottenuto dal S. R. C. il decreto d’ expedit alla loro vendita. Dalla sua immissione nel possesso dei due feudi e fino all’ottenimento di detto decreto, Don Nicola era tenuto a pagare sui 25.000 ducati l’interesse del 4,5 %. I restanti ducati 5.000 a complemento del prezzo si convenne che sarebbero stati pagati all’ottenimento del Regio Assenso e che nel frattempo Don Nicola era tenuto a corrispondere lo stesso interesse del 4,5 %.

Fu stabilito ancora che “la spesa del Reale Assenso impetrando la dovesse pagare, e sborsare tutta intiera, e di suo proprio denaro esso Ill. odierno Sig. Conte, et à riguardo all’altra spesa, e deritti occorrendi qui in Napoli per l’esecutoria al detto Reale Assenso accapato[10] se dovesse fare à spese comuni”. Fu inoltre precisato che se nel frattempo fosse stato costretto Don Nicola a pagare qualche relevio, o qualsiasi altra nuova tassa pretesa dalla Regia Camera, tale somma l’avrebbe scomputata dai 5.000 ducati.

Dallo stesso atto notarile risulta che Don Nicola prese possesso dei feudi nel 1693[11] e che adempì ai suoi obblighi versando per intero i 28.000 ducati e nel 1694 ducati 606.3 a complimento dei ducati 900 maturati complessivamente fino a quella data per interessi. Don Nicola per potersi intestare i due feudi rimase in attesa che i curatori di Don Giulio Antonio Acquaviva jr. chiedessero per quest’ultimo il regio Assenso alla successione al padre nei due feudi e conseguentemente quello per la loro vendita in suo favore, ma sorsero degli ostacoli imprevisti. Dato che si trattava di feudi nuovi acquistati e pervenuti al piccolo conte nato postumo al padre, sorse il dubbio se nei beni feudali poteva aversi successione in favore di questi e non piuttosto dello zio Don Domenico come più prossimo in grado di Don Giulio Antonio sr. defunto senza successori legittimi.

Accanto a questi dubbi si valutò anche il caso di un eventuale diniego dell’Assenso Regio, evento per cui “sarebbero rimaste dette Terre, e feudi sottoposte all’articolo di caducità, e devolutione à prò del Regio Fisco”, con la conseguenza che il piccolo conte sarebbe stato costretto a risarcire col suo patrimonio Don Nicola per il prezzo dei feudi già quasi interamente pagato, per tutte le spese e i per tutti i danni patiti, assieme agli interessi.

Per scongiurare questi rischi, gli avvocati e i procuratori delle parti escogitarono l’escamotage per cui si sarebbe dovuto far figurare l’acquisto all’asta dei due feudi non in testa del Principe Don Bartolomeo, ma del di lui primogenito ed erede Don Giovan Battista de Capua, “con stipularne le dovute cautele con il Regio Incantatore, e sopra di quelle ottenersi il Regio Assenso, e che poi dal medesimo Principe Don Giovanni Battista si dovessero vendere le dette terre al detto Ill. marchese, e delegarsi il prezzo a beneficio di detto odierno Sig. Contino in soddisfattione di parte delli ducati 40.000 dotali della detta quondam Ill. Duchessa Donna Maria”. Così avvenne con l’avallo del Regio Commissario Don Pietro Fusco ed il Regio Incantatore del S. C. potette ratificare il tutto e procedere ad una nuova vendita di dette terre in favore del marchese di Ugento per atto dello stesso notaio de Conciliis[12].

Ma necessitava ancora il Regio Assenso in favore del principe Giovanni Battista che però non potette ottenerlo in quanto, per sopravvenuta condanna in qualche altro giudizio, fu “dichiarato foriudicato, e come tale reputato morto civile”. Ragion per cui venne dichiarato suo erede universale e nei beni feudali suo figlio primogenito Don Bartolomeo. La vendita dei due feudi fu quindi fatta figurare in testa di Don Brtolomeo jr.  ed il 3 aprile 1702 fu finalmente concesso il Regio Assenso che dalla Regia Camera fu notificato a Don Nicola assieme all’elenco di alcune pendenze fiscali poste a carico del compratore e specificatamente:

 

  • Che per il jus delle piazze e della bagliva dei due feudi non vi era concessione, “ma come usurpati si doveva à prò del Regio Fisco il prezzo, una con la tassa de preterito[13] decorsa e tassarsi per l’avvenire
  • Che si doveva costringere il possessore a restituire gli annui ducati dieci percepiti per ciascun feudo come strenna, o offerta, e che se ne dovesse astenere per il futuro.
  • Che per le decime dovute al barone nemmeno vi era concessione, e che come usurpate se ne dovesse pagare il prezzo al Regio Fisco assieme a quanto percepito dai precedenti possessori.
  • Che il relevio presentato da Giovanni Luigi Coppola per le entrate feudali “iuxta la significatoria spedita nell’anno 1608” non era stato soddisfatto per intero e che il nuovo barone era tenuto a sanare assieme agli interessi.
  • Che per la morte di Don Francesco Pignatelli, nel possesso dei due feudi era succeduta la sorella Donna Anna Maria, contessa di Mesagne, ma che questa non aveva pagato il relevio, “che si doveva duplicato, ò sempio[14] con l’interesse ad elettione del Regio Fisco”.
  • Che si dovevano “anco doppi, ò sempji con l’interesse ad elettione del Regio Fisco” tutti gli altri relevii per morte dei successori alla contessa Donna Anna Maria, come dal mandato dell’Attuario della Regia Camera Don Giuseppe Nicolò Fiore.

 

Don Nicola con i suoi avvocati e procuratori, dopo aver prodotto “alcuni discarichi adverso detti corpi di resulda fiscale” per transigere tutte dette pretese somme offrì al Regio Fisco 1.000 ducati e per il diritto di piazza e bagliva si disse disposto a pagare per il futuro 4 ducati annui, offerta che fu complessivamente accettata dai funzionari del Regio Fisco.

Dallo stesso atto notarile risulta che a conclusione di detta transazione sorsero nuovi contrasti con gli eredi Barra che pretendevano il pagamento dei restanti 5.000 ducati a loro assegnati dal tribunale; Don Nicola produsse allora documentazione di tutte le spese da lui sopportate, anche di quelle per ottenere il Regio Assenso che sarebbero dovute ricadere in testa del conte di Conversano e che erano da defalcarsi dai 5.000 ducati residuo del prezzo dei due feudi. Alla fine tutti i contrasti furono sopiti con ulteriori accordi tra le parti, compreso quello per cui Don Nicola si impegnò a consegnare altri 1000 ducati a Don Felice Basurto per il suo credito verso i precedenti conti di Conversano, per cui il prezzo effettivamente pagato per i due feudi fu di 34.000 ducati[15].

L’atto di convenzione e transazione in questione necessitava ovviamente della ratifica di Don Nicola, ratifica che era da farsi con altro atto di pubblico notaio entro due mesi.  Don Nicola però non fece in tempo a ratificarlo perché improvvisamente decedette il 24 novembre del 1702.  A ratificarlo fu allora la sua vedova, Donna Camilla d’Amore, con atto del notaio Francesco Carida del 5 febbraio successivo.

Donna Camilla d’Amore era figlia del secondo marchese di Ugento, Don Giuseppe, e di Donna Anna Maria Basurto (nata in Felline nel 1659 da Don Francesco Basurto, duca di Alliste, e Donna Antonia Beltrano dei conti di Mesagne). Aveva sposato nel 1697 Don Nicola in seguito ad accordi di famiglia tesi alla ricomposizione degli aspri contrasti sorti dal fatto che Don Giuseppe, per ottemperare al fedecommesso disposto dal capostipite Don Pietro Giacomo, aveva nominato suo erede lo stesso Don Nicola, suo cugino[16].

Donna Camilla, che quando il marito decedette fu nominata curatrice e balia del figlio Domenico nato il 28 marzo del 1702[17], ebbe per sorella Donna Antonia e ad entrambe, allora in età pupillare, Don Giuseppe nel suo testamento del dicembre del 1690 aveva assegnato 22.000 ducati, ignaro che la moglie fosse nuovamente gravida. La piccola Antonia però decedette qualche mese dopo il padre e nel luglio del 1691 Donna Anna Basurto diede alla luce la sua terzogenita alla quale fu posto il nome della sfortunata sorella defunta. I 22.000 ducati destinati a questa vennero quindi assegnati all’ultima nata che a sua volta sposò il congiunto marchese di S. Mango, Don Giacomo d’Amore, discendente da Don Giovanni Battista d’Amore, fratello del primo marchese di Ugento Don Carlo. Donna Camilla s’apprestò quindi ad amministrare i beni del figlio dichiarato dalla Gran Corte della Vicaria erede ab intestato del padre.  Lo fece in piena autonomia, senza curarsi dei vincoli e dei gravami che insistevano sull’eredità del marito in virtù del fedecommesso e del moltiplico.

La sua gestione però procurò al figlio notevoli danni finanziari che portarono ad uno strepitoso processo che vide la sua conclusione solo con un laudo, o arbitrato, nel 1729.

Per quanto concerne specificamente i feudi di Alliste e Felline, Donna Camilla nel 1715, di propria iniziativa, alla sorella Donna Antonia, come sua quota sull’eredità paterna assegnò ben 50.000 ducati al posto dei 22.000 spettantile e per essi 2.250 ducati l’anno. Non disponendo di denaro le assegnò per 1.700 ducati annui la tenuta dei due feudi; ed altrettanti ducati assegnò nel 1716 a sé stessa in occasione del suo secondo matrimonio col principe di Pado, Andrea Serra[18]. Don Domenico per mantenere fede all’impegno della madre confermò alla zia la tenuta di detti feudi anche se non facevano parte dell’eredità di Don Giuseppe essendo stati comprati dal padre Don Nicola.

Don Domenico premorì alla madre nel 1754 e la zia Antonia due anni dopo chiese che le venissero intestati i feudi di Alliste e Felline, ma non essendosi rinvenuto nei Regi Quinternioni l’assenso all’accordo tra lei e il defunto marchese, la sua richiesta trovò l’opposizione del Regio Fisco.

Don Domenico alla sua morte nominò per testamento sua erede la madre, ma la stessa, per le conseguenze dell’esito del laudo del 1729[19] e in ottemperanza del fedecommesso primogeniale, fu costretta a cedere il feudo di Ugento assieme al titolo al congiunto Don Domenico d’Amore, solo nominalmente principe di Ruffano. Il nuovo marchese di Ugento, avanzò legittime pretese anche sui due feudi di Alliste e Felline in quanto il loro valore doveva reintegrare i beni vincolati al fedecommesso ma che erano stati venduti da Donna Camilla. Ma poiché il marchese di S. Mango aveva a sua volta avanzato aspettative sullo stesso fedecommesso, la questione fu concordemente accantonata ed i due feudi rimasero in godimento di Donna Antonia. Poco tempo dopo ella, con atto del notaio napoletano Don Giovanni Pisacane, donò al figlio Francesco il suo credito sull’eredità paterna, e per quello la tenuta dei due feudi, con la facoltà di chiudere le pendenze esistenti col Regio Fisco.

Questa cessione-donazione ottenne il Regio Assenso il 28 aprile del 1763, previo pagamento di 2.500 ducati di relevio ed in conseguenza di ciò, il 10 luglio del 1772, i due feudi dal Regio Fisco vennero intestati a Don Francesco d’Amore, marchese di S. Mango[20]. Questi poi, il 2 gennaio 1777, con atto del notaio Andrea Cavaliere, per 59.000 ducati si disfece dei due feudi cedendoli ai fratelli Nicola e Domenico Oliva di Monasterace (RC) che non ebbero un buon rapporto con gli abitanti di Alliste e Felline, soprattutto per via della loro pretesa “di decimare su tutto[21], ragion per cui decisero di rivendere i due feudi ed acquistarne altri in Calabria.

Li vendettero a Don Francesco Maria d’Amore, fratello di Don Domenico per conto del quale amministrava il feudo di Ugento. Acquistò i due feudi con atto del notaio Pasquale Cerrito di Torre Paduli del 2 dicembre 1778[22], subentrando ai fratelli Oliva alle stesse condizioni per cui questi avevano comprato i due feudi il cui prezzo non era stato ancora interamente pagato.  Don Francesco Maria però non fu in grado di far fronte agli impegni presi ed i fratelli Oliva, col consenso del marchese di S. Mango, gli fecero subentrare Lorenzo e Onofrio Scategni che acquistarono i due feudi il 13 dicembre del 1779 e ne mantennero il possesso fino all’eversione del feudalesimo.

 

Note

[1] Francesco Pignatelli era figlio di Camillo e di una non meglio precisata dama della famiglia Cognetti. Sposò Giulia Beltrano, figlia di Ferdinando conte di Mesagne e di Donna Camilla Acquaviva dei duchi di Nardò. Nel 1648 ottenne il titolo di duca di Alliste, titolo che alla propria morte (1660) senza figli passò alla sorella Anna Maria e ai suoi discendenti. Anna Maria Pignatelli nel 1613 aveva sposato Alfonso Basurto († 1624) e in seconde nozze sposò Don Ferdinando Beltrane, conte di Mesagne e vedovo di Camilla Acquaviva.

[2] Dorotea Acquaviva d’Aragona (7/1/1666? – † 3/12/1714) era figlia di Giosia (1631-1679) e Francesca Caracciolo (1646-1715) unitisi in matrimonio nel 1662. Nel 1686 sposò Giulio Antonio Acquaviva d’Aragona.

[3] L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore – Marchesi di Ugento, Principi di Ruffano, Marchesi di S. Mango, Congedo Editore, Galatina 2011.

[4] Giulio Antonio era figlio di Cosimo († a Ostuni il 6/7/1665 in un duello contro Petraccone Caracciolo, duca di Martina) e Maria Caterina de Capua (29/5/1626 – † 2/2/1691). Nel 1690, essendo scoppiata la peste a Conversano, cercò riparo a Napoli. Venne posto in quarantena nell’isola di Nisida dove morì.

[5] Donna Maria Caterina de Capua era figlia di Giovanni Fabrizio (1604-1645) principe della Riccia e di Margherita Ruffo (26/6/1607- ?) dei conti di Sinopoli.

[6]Don Bartolomeo era fratello minore di Donna Maria Caterina e fu lui a dotarla quando si sposò nel 1646, un anno dopo la morte del padre. Nei capitoli matrimoniali egli assegnò alla sorella 50.000 ducati, 10.000 dei quali “dovevano provenire dal Monte dei Giunti”, fondato nel 1585 da venticinque famiglie nobile napoletane (De Capua, Pignatelli, Caetani d’Aragona, ecc.) al fine di fornire di dote le figlie degli stessi fondatori e dei loro discendenti maschi. Per i restanti 40.000 ducati si impegnò a versarle fino alla loro liquidazione 2.300 ducati l’anno e per quelli la tenuta del feudo di Nicotera. [V.: G. SODANO, Da baroni del Regno a Grandi di Spagna – Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche (secoli XV-XVIII)], Alfredo Guida Editore, Napoli 2012, pp. 157-158.

[7] I feudi di Alliste e Felline, coi suffeudi di Tariano, Verito e Sinisgallo furono apprezzati nel 1665 dal Regio Tavolario Pietro Apuzzo (o d’Apuzzo). Nella sentenza n. 90 del 18 luglio 1810 emanata dalla Commissione Feudale si trova che lo stesso Tavolario per Alliste e Felline aveva redatto altri due apprezzi, rispettivamente il 24 agosto 1661 e l’11 luglio 1663 (v.: Commissione feudale, Napoli 1810, p. 682).

[8] Si trattava di Giovan Battista di Capua, figlio di Francesco Antonio (1619-1676) e Anna di Capua (1620-1686) e marito di Beatrice Muscettola.

[9] Don Felice Basurto (1653-ca. 1727) era nipote di Alfonso e figlio di Francesco e di Antonia Beltrano dei duchi di Mesagne. Sposò Candida Brancaccio figlia di Carlo, principe di Ruffano, e Teresa d’Amore (zia di Don Nicola d’Amore) e risulta che nel 1691, dopo un lungo processo, gli venne riconosciuta la titolarità su una quota del feudo di Alliste. Non si conoscono i termini di questo processo, ma in questo documento del notaio Biagio Domenico de Conciliis è precisato che il suo credito era stato riconosciuto dai balii e tutori di Don Giulio Cesare jr. con atto del notaio Aversana di Napoli. Per quanto concerne il pagamento da farsi in favore di Don Felice Basurto, verosimilmente vi fu una compensazione col credito che Don Nicola vantava verso lo stesso duca, come risulta da un atto del notaio Francesco Carida di Ugento del 30 aprile 1704. In questo atto Donna Candida Brancaccio afferma che quando nel 1694 (leggi 1695) il marito Don Felice acquistò sub asta il feudo di Racale per ducati 53.390,9 utilizzò i 20.000 ducati che gli erano stati dati a mutuo al 4% nel 1692 da Don Nicola nel d’Amore con atto del notaio Biagio Domenico de Conciliis.

[10] Da accapare = condurre a termine, conseguire.

[11] L’atto di acquisto fu stipulato con Don Bartolomeo sr. il 6 novembre 1693 presso il notaio Biagio de Conciliis di Napoli.

[12] L’atto di vendita (fittizio) tra Don Giovanni Battista e Don Nicola fu stipulato il 9 maggio 1699 (v.: L. ANTONAZZO, La saga dei d’Amore …, cit. p. 46).

[13] Per l’addietro.

[14] Semplice. Quando nella successione nel feudo non si provvedeva a pagare il dovuto relevio, dal Regio Fisco veniva spedita lettera di significatoria con la quale si imponeva al nuovo titolare del feudo di pagare a breve quanto dovuto sotto pena di essere costretto a pagare il doppio.

[15] Agli eredi Barra fu riconosciuto un credito verso Don Nicola di ducati 1.350, somma che Donna Camilla pagò mediante un censo acceso con tale Don Luciano Silverio (v.: ARCHIVIO di STATO DI LECCE, Scritture delle Università e feudi (poi Comuni) di Terra d’Otranto – Alliste, fascc. 4/1 [1735]), 4/2 [1736]).

[16] Don Pietro Giacomo aveva fondato un fedecommesso primogeniale stabilendo che le sue sostanze (ascendenti a ca. 150.000 ducati) dovessero essere investite per 20 anni in acquisto di altre entrate e che dopo tale periodo al moltiplico così prodotto dovessero subentrare i suoi discendenti maschi, di primogenito in primogenito. In caso di mancanza di discendenza per linea maschile della linea del suo erede primogenito Don Carlo (1o marchese di Ugento) dovessero subentrare i primogeniti maschi della linea collaterale. Solo in caso di assoluta mancanza di discendenti maschi dispose che subentrassero le femmine. L’interruzione della linea maschile dell’erede si ebbe proprio con Don Giuseppe che procreò e gli sopravvissero due figlie.

[17] Fu nominata anche curatrice e balia della figlia Elena nata postuma al padre e che divenne monaca col nome di suor Vittoria nel convento dei Santi Pietro e Sebastiano di Napoli.

[18] ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI, Processi antichi, Pandetta corrente n. 5217, vol. XVI, fasc.926, Post compromissum patrimonij Ill. Marchionis Uxenti, cc. 28v-29r.

[19] Nel laudo Donna Camilla era stata riconosciuta erede del padre, ma per entrare in possesso del feudo di Ugento avrebbe dovuto risarcire il figlio pagandogli oltre 57.000 ducati, cosa che non fu in grado di fare per cui Ugento rimase in testa a Don Domenico.

[20] E. RICCA, La nobiltà delle due Sicilie, Napoli 1869, vol. IV, parte prima, pp. 354-355.

[21] ASLe, Sez. Not., not. G. V. Arnò, 105/8, Taviano 30 dicembre 1783.

[22] ASLe, Sez. Not., not. P. Cerrito, 107/3, Torrepaduli 2 gennaio 1777.

Bottino di una razzia di pirati turchi sulla costa di Felline nel Salento

di Luciano Antonazzo

È tristemente nota la ferocia e la crudeltà manifestate dai turchi durante le loro scorribande lungo le coste e nell’entroterra salentino per saccheggiare e depredare, senza alcuna remora nell’uccidere chi contrastava le loro mire.

La loro efferatezza è crudamente documentata finanche nel primo libro dei morti della parrocchia di S. Francesco di Assisi di Gemini, dove si legge che il 4 agosto del 1674 fu celebrato il funerale del soldato “mastro scarparo di Alessano” ammazzato nella marina dai turchi e trasportato dai compagni nella chiesa di Gemini “con la testa separata dal busto”.

Obiettivo privilegiato delle loro scorribande erano le masserie prive di strutture di difesa ed è del saccheggio e razzia di due di queste che riporto quanto riferito in una declaratio fatta al notaio Francesco Carida, di Morciano e residente in Ugento.

Declaratio fatta per Angelum Venneri et Franciscum Venneri di Alliste

In Dei nomine amen

Die octava mensis februaris 15ae  Inditionis, Anno Domini millesimo, sexcentesimo, septuagesimo septimo

In Terra felline, et proprie in Castro dictae Terrae, Regnante …, In nostri presentia constituiti Angelus Venneri dè Alliste dicens esser massaro della massaria nominata la gisternella seù del monte, et Franciscus Venneri similiter dè Alliste dicens esser massaro nella massaria del Ninfeo feudo di felline, qui sponte, non vi, dolo, sed omni meliori modo , sponte ut supra coram Nobis asseruerunt, declararunt, et attestati sunt, pro ut predicto die declarant et attestant  in vulgari sermone pro faciliori facti intelligentia, √ʖ

Qualmente l’anno passato e propriamente nel mese di luglio et à di 17 di detto mese nel luscere il 18 di detto mese  la notte calò alla marina di felline alla cala nominata li fiumicelli seù la guardiola un fuste di Turchi, e sbarcorno una quantità di quelli e calorno per il feudo di felline e scorsero alla detta massaria nominata la Cisternella seù il Monte, e fecero preda in quella di un caccavo di Rame grande che valeva ducati diciotto, e più et anche se ne portorno tre vombri, quattro zappe et una cetta, che potevano valere da otto ducati incirca, e più se ne portorno un sacco grande di grano de trè tomoli, che col sacco valeva carlini venti, e più quattro pese de formaggio tardivo, che poteva valere ducati cinque incirca, e più uno vestito di lana del massaro e scarpe, che potevano valere ducati quatro né toccorno in detta massaria bestie minute, che stavano in quella e questo è quanto s n portorno da detta massaria; et essendono poi scorsi alla massaria nominata lo Ninfeo in quella fecero presa similmente di un caccavo, che valeva ducati venti, due vombri, trè zappe strette, et un larga, che potevano valere ducati sei, e più se ne portorno pese cinque incirca di formaggio similmente tardivo, che poteva valere ducati sei, e mezzo, e più se ne portotno un fariolo novo, e scarpe del massaro di valuta di ducati quatro, e più se ne portorno un paro di Bovi di carretta di valuta di ducati sessanta, et arrivati alla massaria, e poco distante di quella ammazzorno detti Bovi, e se li portorno ammazzati dentro il loro fuste  à vista di tutti, seù di molte genti, che dopo fatto giorno all’avviso e nova ricevuta de Turchi calorno alla marina et essi costituenti stevano nascosti dentro le fratte per non essere fatti schiavi et sic declaraverunt …..

L’indizio e la prova: nuova luce sulla leggenda petrina di Bevagna

di Nicola Morrone

In uno dei nostri articoli più recenti ci siamo occupati di verificare se la nota leggenda del passaggio di San Pietro Apostolo per le nostre contrade, che la tradizione colloca intorno al 44 d.C., presentasse qualche elemento di verosimiglianza. Abbiamo pubblicato i risultati dell’indagine, conclusa nel 2015, su questo stesso sito.

Nel nostro studio sul narrato leggendario (che è riportato nel manoscritto di P. Domenico Saracino o.p.)[1], abbiamo integrato il quadro storico di riferimento con elementi di ordine archeologico, onomastico e toponomastico, concludendo che la leggenda dello sbarco di San Pietro a Bevagna, e della conversione al cristianesimo di Fellone, signore di Felline, poteva essere verosimile.

Il villaggio rurale di Felline e’ infatti storicamente esistito; Fellone, con ogni probabilità uno schiavo (o forse un liberto) gestiva il fundus di Felline e probabilmente l’industria fittile (figlina) e la fattoria (villa rustica) ad esso collegata, per conto del padrone; l’Apostolo fece con ogni probabilità naufragio nei pressi della rada di Bevagna, che conserva ancora tracce materiali di antichi naufragi. In attesa che l’area in cui sorge il Santuario di Bevagna sia oggetto di scavi archeologici che possano fare luce sul mito di fondazione petrino, offriamo in questa sede al lettore qualche ulteriore spunto di riflessione sul tema.

Anfora brindisina (Giancola)

Felline

La leggenda riportata dal Saracino colloca i fatti nel I sec.d.C. .Non si hanno molte notizie circa la configurazione del territorio di Manduria nell’epoca di riferimento .Le ricerche archeologiche di superficie permettono comunque di ipotizzare, con buon fondamento, l’esistenza di una “costellazione” di villae rustiche (fattorie) sorte intorno all’oppidum di Manduria, in un momento storico particolarmente favorevole, conseguente alla pax augustea. Si segnalano evidenze materiali nelle contrade Santa Maria di Bagnolo, Terragna, Scorcora, ecc.[2]

Tali villae erano inserite all’interno di fundi più o meno vasti, gestiti dai dipendenti dei padroni, tutti di condizione servile, e la gran parte di origine grecanica. I proprietari terrieri risiedevano per lo più a Brindisi, Taranto, o in centri cittadini minori. Talora , all’interno del fundus era collocata una figlina , cioè un’industria fittile (per la produzione di anfore, tegole, ecc) che in provincia si articolava su modelli organizzativi piuttosto semplici.

Oltre che sull’industria figula, l’economia delle villae rustiche del nostro territorio si basava essenzialmente sul pascolo, l’allevamento e la produzione cerealicola, vinicola e olearia[3]. Il villaggio rurale di Felline, sorto alla base della collinetta de Li Castelli, si configurò verosimilmente come un piccolo centro in cui dovette essere attiva una figlina, che al centro diede il nome e che si ricollegava, attraverso antichi tratturi, alla rete commerciale marittima. I principali scali per il traffico delle merci nel territorio di riferimento erano le rade di Punta Presuti (ancor oggi ricca di reperti fittili), Torre Columena e San Pietro in Bevagna. La tradizione ci ha consegnato perfino il nome del conduttore del fundus di Felline: si tratta di Fellone, l’uomo convertito da San Pietro.

Fellone

Nell’economia del discorso finora sviluppato, si può agevolmente inserire appunto la figura di Fellone, conduttore del fundus di Felline, che può essere storicamente esistito. Abbiamo verificato, alla luce delle più recenti ricerche epigrafiche, se il suo nome compare tra quelli documentati nel Salento in età romana. Nei cataloghi, redatti da C.Marangio e aggiornati a tutto il 2008, compaiono in effetti alcuni nomi che potrebbero essere ricondotti al nostro personaggio.

Nello studio pubblicato nel 2015 abbiamo ipotizzato, su base onomastica, che Fellone potesse avere qualche relazione con la gens dei Philonii, documentata a Brindisi in età repubblicana. Nella stessa città è attestata l’esistenza di tal Philonicus Appullei, conduttore di una figlina

In un’epigrafe rinvenuta a Latiano è documentata la presenza di tal Philonius. Potrebbe forse esserci qualche relazione tra il personaggio della leggenda petrina e tal Philogene, conduttore di una figlina di cui resta testimonianza in un bollo anforario rinvenuto ad Oria [4].

Alcune anfore greco-italiche recano pure il nome di tal φιλων, altro schiavo impegnato in una figlina. Il nome in oggetto sembra comunque avere , alla stregua di buona parte di quelli dei servi conduttori di fundi romani del Salento, origini greche, o grecaniche.

I ricchi proprietari romani, dopo la conquista del Salento, si appoggiarono infatti a manodopera servile locale, presente in abbondanza nei territori annessi[5].

Bollo Philonicus
Bollo Philonicus

 

Lo sbarco di San Pietro a Bevagna

La leggenda riportata dal Saracino vuole che San Pietro, proveniente dalla Palestina, sia sbarcato fortunosamente sul lido di Bevagna intorno al 44 d.C., incontrandovi Fellone, guarendolo dalla lebbra e convertendolo al cristianesimo. La tradizione ritiene che nell’area in cui sorge il santuario l’Apostolo abbia celebrato la messa, cristianizzando forse un antico luogo di culto pagano. Il Lopiccoli era certo che la parte più antica del santuario (il cosiddetto sacello) sorgesse su un’ area sepolcrale pagana, poi cristianizzata da San Pietro. Tale congettura non è del tutto priva di fondamento, come dimostrato dall’Errico, il quale, ai primi del ‘900, ebbe modo di osservare i resti di un’epigrafe funeraria inglobata sul fronte occidentale del sacello, recante le lettere D.M.VIX, cioè “Diis Manibus vixit[6].

L’epigrafe è oggi scomparsa. Essa comunque proverebbe la presenza di un sepolcro pagano nella zona in cui sorge attualmente il santuario petrino. Si tratta forse della sepoltura del servo conduttore del vicino fundus di Felline (o di un suo discendente) da ricollegare al passaggio dell’Apostolo?

L’ipotesi è suggestiva, e andrebbe verificata con saggi di scavo, estesi all’area adiacente alla chiesa-torre. A questo proposito, ricordiamo che non sono ancora stati pubblicati i risultati dei saggi effettuati nella stessa area, conclusi nel 2004. In ogni caso, la vicenda esposta non è del tutto isolata: presso Oria, in contrada Gallana, è stata recentemente rinvenuta un’epigrafe sepolcrale romana, inglobata nel muro di una chiesa campestre. L’epigrafe è pertinente alla gens Gerellana , proprietaria del fundus,che avrebbe dato il nome alla contrada e alla chiesa.

Conclusioni

Con queste brevi note terminano, per il momento, le nostre ricerche sulla leggenda petrina di Bevagna, durate un decennio e fondate sulla consultazione di pressochè tutte le fonti bibliografiche relative alla tradizione petrina regionale.

Le nostre congetture, che, come già detto, integrano il quadro storico con elementi di toponomastica, onomastica e archeologia, vanno naturalmente verificate in concreto. Il nostro auspicio è che nelle aree segnalate (Felline, Bevagna) si effettuino al più presto ulteriori saggi di scavo, che possano sostenere, o eventualmente confutare, la ricostruzione proposta.

 

[1] Cfr. D.Saracino o.p.,Brieve descrizione dell’Antica città di Manduria, oggi detta Casalnovo (1741).

[2] CfrR.Scionti-P.Tarentini, Emergenze archeologiche: Manduria-Taranto-Eraclea, (Manduria 1990), pp.286-289.

[3] Cfr. C.Marangio, Problemi storici di “Uria” Calabra in età romana, in “Archivio Storico Pugliese”, 42 (1989) pp. 113-134.

[4] Cfr. C.Santoro, Una nuova stele di Caracalla ed altre epigrafi latine inedite della Regio II Apulia et Calabria”, in “La Zagaglia”, a. XIII, n.49, p.20.

[5] Cfr. G.Susini, Fonti per la storia greca e romana del Salento (Bologna 1962), pp.19-21 e 60-61.

[6] Cfr. F.A.Errico, Cenni storici della città di Oria e del suo insigne vescovado (Napoli 1905), p. 140.

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (V ed ultima parte)

???????????????????????????????di Nicola Morrone

 

LE ANTICHE ROTTE COMMERCIALI E LA RADA DI BEVAGNA

Come già detto, la tradizione del passaggio di San Pietro in Puglia  è considerata da alcuni storici come sostanzialmente  leggendaria. Eppure , il grande archeologo M.Cagiano de Azevedo ribadiva che “le molte tradizioni , salentine in specie e pugliesi in genere, che vogliono di età apostolica o subapostolica la introduzione del cristianesimo in Puglia non possono venire accantonate troppo semplicemente “.Lo stesso studioso, nel ribadire che “la vivacità dei commerci con l’Oriente e la leggenda dello sbarco di San Pietro in Puglia indicano come vi fossero molte e buone possibilità che il Vangelo venisse direttamente dall’Oriente”, sottolinea l’importanza decisiva dell’elemento portuale come luogo di contatto e scambio di uomini, merci e idee[1]. La Puglia, in epoca romana, era caratterizzata da una fitta rete di realtà portuali, di piccole, medie e grandi dimensioni. I porti erano collocati a breve distanza l’uno dall’altro: tra due grossi porti era collocata una serie di porti più piccoli., dei quali, nella gran parte dei casi, non conosciamo il nome. Nel mondo antico “si cura il più piccolo attracco, purchè sia vicino al luogo di produzione”[2]. Ed uno di questi piccoli attracchi doveva certamente essere quello di Bevagna, le cui dimensioni ci sono sconosciute, per mancanza di dati archeologici .Si trattava, come sostenuto da alcuni, di un semplice approdo di fortuna, oppure è lecito pensare ad una realtà meglio organizzata? Per ricostruire la geografia dei porti , occorre comunque tenere conto anche dei naufragi, poichè “i relitti marini sono significativi anche per i commerci di transito, ossia per l’appoggio che i porti locali potevano offrire alle navi dirette in altri porti. I naufragi, nel loro aspetto negativo, indicano che si tentava, in caso di necessità, di ripararsi in questi porti minori. Così la nave (…..) naufragata dinnanzi a Torre San Pietro a 300 metri dalla foce del Chidro, contenente sarcofagi sbozzati destinati ad essere rifiniti nel luogo terminale del viaggio”[3].

 

il manoscritto Saracino di cui si è fatto cenno nel testo
il manoscritto Saracino di cui si è fatto cenno nel testo

A Bevagna esisteva dunque una realtà portuale, che verosimilmente accolse l’imbarcazione che trasportava Pietro, ma a cui non fece in tempo ad appoggiarsi il naviglio che recava  con sè il carico di sarcofagi, ancora inabissato davanti alla foce del Chidro. Pietro era comunque un viaggiatore del tutto particolare: non era un “turista” ,ma uno straniero, e un cristiano che si recava ad evangelizzare una terra sconosciuta. Egli si mosse  probabilmente in una condizione di semi-clandestinità, ben consapevole di essere inviso alle autorità romane. Non è improbabile che, per giungere in Italia, abbia utilizzato una nave deputata al trasporto di derrate e merci varie. Navigando lentamente e sottocosta, l’Apostolo  giunse dunque a Bevagna , come vuole la tradizione, nell’Aprile del 44 D.C. La data cronica del suo arrivo trova un riscontro positivo nella logica della navigazione antica , che suggeriva di mettersi in mare , soprattutto per i viaggi lunghi, in un periodo climaticamente favorevole, evitando di muoversi in periodo di “mare clausum” (da Novembre ai primi di Marzo)

 

Dipinto con San Pietro, da collezione privata
Dipinto con San Pietro, da collezione privata

CONCLUSIONI

Focalizzando la nostra attenzione su tre elementi salienti della leggenda petrina di Bevagna, abbiamo voluto verificare quanto può esservi di verosimile nel narrato riportato da padre Domenico Saracino. Abbiamo dunque proceduto su base congetturale, fornendo al lettore tre indizi, che però a noi paiono, per usare un’espressione del linguaggio giuridico, “gravi , univoci e concordanti”. Tre indizi che, quindi, potrebbero costituire una prova, quella del reale passaggio di San Pietro per le nostre contrade. Concludiamo le nostre note con un auspicio: che nell’area in cui sorge il santuario di San Pietro in Bevagna  si possano avviare, finalmente, scavi archeologici organici ed approfonditi, al fine di poter comprendere cosa è realmente successo in quel luogo così carico di valenze mitiche. Quanto alla leggenda petrina, è certo che nessuno di noi possiede il filmato del delitto di cui cerca l’autore, ma grande deve essere stata la sorpresa di quello studioso  che, dando credito al racconto di un indigeno, scavò un giorno su un’isola lontana, scoprendo che tutto, di quel racconto, corrispondeva al vero.

 

[1] Cfr. M.Cagiano  De Azevedo, Quesiti su Gallipoli tardoantica e paleocristiana, in “Vetera Christianorum”, 15 (1978), pp.363-364.

[2] Cfr. V.A. Sirago, cit., p.310.

[3] Cfr. M. Cagiano de Azevedo, cit., p.366.

 

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (III parte)

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di Nicola Morrone

 

FELLINE

Ricordato  nella leggenda come “Castello vicino all’antica Manduria, distante dal Fiume tre miglia chiamato Fellini, oggi però i Castelli”, il villaggio rurale di Felline è storicamente esistito.Lo studioso E.Dimitri vi ha dedicato un interessante saggio[1], sostenendo che l’identificazione del sito in cui esso sorgeva presenta problemi di non facile soluzione, definendo la questione come un vero e proprio “ mistero archeologico”, meritevole di approfondimento. In realtà, al di là del cosiddetto “mistero”, esistono alcuni elementi  storici, archeologici e topografici per ricostruire le origini  della  piccola comunità rurale. I primi elementi di chiarificazione sono forniti dal toponimo stesso. Alcuni storici locali sostengono che il toponimo derivi dal greco, e significhi  “canneto” o  “luogo paludoso”. Questa congettura ha permesso a qualcuno di credere che il villaggio sorgesse nei pressi del litorale manduriano, caratterizzata effettivamente, prima delle recenti bonifiche, da impaludamenti e da fitti canneti, alcuni dei quali ancora visibili. In realtà, il toponimo “Felline” deriva con ogni probabilità dal latino, ed ha tutt’altro significato. Come per l’altra Felline, quella ubicata in provincia di Lecce, il nome centro demico deriva da “figlinae”, con il significato di “luogo deputato alla produzione di ceramica”, caratterizzato  dunque dalla presenza di fornaci per la produzione di manufatti fittili. Gli scavi del Prof. Cosimo Pagliara dell’Università di Lecce, effettuati nel 1967,hanno appunto appurato che a Felline (Le) il nucleo abitato si strutturò in epoca romana proprio intorno alle fornaci , finalizzate alla produzione di anfore per il commercio delle derrate alimentari rivenienti dallo sfruttamento del “latifundium” circostante. Anche nel piccolo villaggio di Felline presso Manduria, che dall’impianto delle fornaci prese il nome, vigeva la  stessa dinamica economica, basata essenzialmente sull’agricoltura, sul pascolo, sulla caccia, e sull’industria fittile. Si trattava di un’economia diversificata, e, come accadeva negli altri “pagi” dell’Italia romana, le anfore prodotte servivano a inserire nella rete dei commerci il surplus della produzione agricola. Come vedremo, la posizione particolare del villaggio di Felline, a poca distanza dalla costa, facilitava queste operazioni di scambio. C’è poi il problema dell’esatta ubicazione del villaggio rurale. Non concordiamo, in questo senso, con quanto sostenuto dallo studioso R. Jurlaro, il quale afferma che il centro abitato di Felline era collocato “presso la costa , alle spalle di Torre Columena, là dove ancora resiste il toponimo rurale “Feddicchie”[2]. Tra “Felline” e “Feddicchie” non esiste probabilmente alcuna relazione, derivando il primo , come già detto , dal latino “figlinae”, ed il secondo quasi certamente dal latino “feliciae”. La contrada che attualmente prende il nome di “Feddicchie”, infatti , è indicata con l’appellativo di “ Fielici” in una vecchia carta topografica del sec. XVII, ora in proprietà privata. La maggior parte degli studiosi ritiene che il villaggio di Felline fosse ubicato  , sin dalla sua fondazione nei pressi della collinetta de “Li Castelli”, sita a metà strada tra Manduria e il mare. In effetti, vi sono indizi significativi che il piccolo “pagus” romano si sia strutturato nei pressi della collinetta, in particolare alla base occidentale dell’altura. Tutta l’area della collinetta de “Li Castelli” presenta infatti tracce di prolungata frequentazione umana, dal Neolitico, all’età messapica, romana e medievale. Le ricognizioni di superficie hanno rilevato la presenza di materiale ceramico in riferimento a tutte le epoche segnalate[3]. Ed in effetti, dopo le originarie frequentazioni di sparuti nuclei di capannicoli, cui segui, in età storica, la colonizzazione della collina di Castelli ad opera dei Messapi, che vi fondarono una città anonima, in età romana sorse il villaggio di Felline, che recuperò certamente strutture abitative preesistenti. Felline era uno dei tanti “pagi” inserito all’interno di un più vasto “latifundium”, la cui proprietà era detenuta, come era tipico dell’Italia romana, da un ricco patrizio, forse un romano stabilitosi in provincia. E fu di certo il proprietario del “pagus” ad incentivare la realizzazione di quella industria figula che avrebbe contrassegnato  il nome del borgo , distinguendolo dai villaggi vicini, caratterizzati da un’economia esclusivamente agricola. Il “pagus “ di Felline, che sorgeva nei pressi di una via di comunicazione (l’antichissimo tratturo Manduria-mare, oggi strada comunale Manduria-San Pietro) ed era collocato a non molta distanza dalla costa. Perciò, esso si poteva agevolmente inserire nella rete commerciale destinata a smaltire il surplus agricolo. Ciò che distingueva il villaggio era, come detto, la presenza delle “figlinae”, cioè delle fornaci per la cottura delle anfore. L’impresario dell’industria figula  “era sempre un grande proprietario terriero, che impiantava la sede dell’opificio nelle sue terre (….) In genere gli affari erano appannaggio dei proprietari, i quali però spesso demandavano le incombenze ai loro schiavi o liberti capaci, dividendo gli utili”[4]. Spesso , il proprietario terriero si recava di persona nel luogo di produzione e controllava tutta l’attività. Non di rado, infine, il padrone, che spesso era anche “mercator”(mercante) deteneva una carica politica, la cui importanza era direttamente proporzionata al censo. I nomi di questi personaggi eminenti dell’Italia romana non ci sono tutti pervenuti. Ci è però pervenuto il nome del padrone del “pagus” di Felline, che si chiamava Fellone: su questo nome faremo alcune considerazioni.

 

[1] Cfr. Guida-Annuario di Manduria (1984-85), pp.69-78.

[2] Cfr. R. Jurlaro, San Pietro in Bevagna(TA). Il sacello e la chiesa altomedievale nel quadro dell’architettura salentina , in “Studi  in memoria di Padre Adiuto Putignani” (Cassano Murge 1975), p.64.

[3] Cfr. R.Scionti – P.Tarentini, Emergenze e problemi archeologici. Manduria-Taranto-Heraclea (Manduria 1990), p.204 e ss.

[4] Cfr.V.A. Sirago, Puglia Antica (Bari 1999), p.305.

Le radici di un mito: Felline, Fellone e lo sbarco di San Pietro a Bevagna (I parte)

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di Nicola Morrone

 

L’evento fondativo del cristianesimo nel Salento, come è noto, è fatto risalire dalla tradizione alla evangelizzazione delle nostre terra da parte dell’apostolo Pietro, svoltasi a partire dal 42-44 d.C., cioè nel periodo immediatamente successivo alla partenza del santo da Antiochia, prima chiesa cristiana d’Oriente da lui stesso istituita. Tutte le narrazioni riguardanti la presenza dell’apostolo in terra d’Italia, Salento compreso, costituiscono l’ampio corpus letterario noto come “tradizione petrina”: si tratta di una cospicua mole di racconti, considerati spesso leggendari, ma in cui è in realtà difficile distinguere il vero dal falso, anche in considerazione dell’epoca lontanissima in cui sono collocati i fatti narrati.

Le  leggende costituiscono per definizione un misto di elementi autentici e fittizi, spesso strettamente intrecciati : occorre capire se al loro interno si cela un nucleo di verosimiglianza. In questo senso, ci pare utile richiamare l’assunto del Croce, il quale considerava le leggende alla stregua di documenti storici, e sosteneva che “il primo dovere è di rispettarle come documenti”[1]. Lo storico locale A.P. Coco, dal canto suo, sosteneva che “è vero che ci sono delle leggende ovvie, puerili, piene di anacronismi, per questo, però, c’è bisogno di molta circospezione e accortezza nel ritenerle, e anche nel rigettarle”(….) e che” tante volte si perviene finanche a scoprire il nucleo delle leggende, attestanti verità fondamentali”[2].

Con ogni probabilità, il racconto più avvincente che la tradizione ha consegnato ai manduriani, e di cui ogni concittadino, devoto e non, conosce le linee fondamentali , è la leggenda dello sbarco di San Pietro Apostolo sul lido di Bevagna nell’anno 44 D.C., a seguito di un naufragio indotto da un forte vento di scirocco. La leggenda racconta che egli avrebbe convertito al cristianesimo Fellone, il signore del vicino villaggio di Felline, permettendogli, dopo il battesimo avvenuto nelle acque del fiume Chidro, di guarire all’istante dalla lebbra che lo aveva colpito. In seguito, il santo avrebbe convertito, battezzato e guarito dalla malattia le genti vicine, fino a Oria e a tutto il Salento, per poi proseguire il suo viaggio fino a Roma.

La leggenda di Bevagna si inserisce nel più ampio problema storico dell’effettiva attività evangelizzatrice di San Pietro sul suolo pugliese, ancora dibattuto tra gli studiosi. In questo senso, si distinguono due posizioni: v’è chi sostiene che la tradizione petrina (di Bevagna, di Taranto, di Brindisi, ecc.) documentata da fonti altomedievali, “è da ritenere pur sempre leggendaria, perchè non è possibile desumere da queste narrazioni alcun dato storico certo”[3]. Altri ritengono , invece, che “quando esistono in una tradizione una serie di elementi concomitanti di natura storica e geografica che la possono rendere probabile almeno in parte , non è corretto continuare a ritenerla del tutto fabulosa e assurda (almeno fino a quando non saranno stati realizzati studi più approfonditi sull’argomento e sistematiche ricerche archeologiche) e annullare qualsiasi valore alla tradizione orale”[4].

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Più di recente, si è sostenuto che “pur essendo una realtà inconfutabile l’inquietante silenzio delle fonti scritte nei primi secoli del cristianesimo, tuttavia, la Storia dovrebbe fare i conti con una così diffusa e radicata tradizione , vantata in maniera insistente anche nel tarantino e a Manduria”, e che , dunque, “torna utile, in tal senso, un atteggiamento di cauta sospensione del giudizio su questa vexata quaestio , non negare in maniera ottusa e non avallare con qualunquismo, in attesa che la voce dei secoli possa parlare, in un verso o nell’altro”[5]. Infine, non si può tacere l’autorevole parere di C.P. Thiede, il quale ha sottolineato che ”non è possibile scartare la possibilità geografica, pratica e storica di questa tradizione, anche se le sue più antiche tracce documentarie risalgono al Medioevo”[6].

Della “vexata questio” petrina ci siamo occupati per la prima volta in occasione della stesura della nostra tesi di laurea in Agiografia, discussa nel 2005 presso l’Università degli studi di Perugia , intitolata “La tradizione dello sbarco di San Pietro in Puglia. Aspetti e problemi”(Relatrice la chiar.ma Prof.ssa Giuliana Italiani). Dopo aver esaminato tutta la  bibliografia prodotta fino ad allora sull’argomento, concludemmo che quella del passaggio dell’Apostolo in terra pugliese restava  semplicemente un’ipotesi, che andava vagliata con attenzione. In realtà, ci eravamo  convinti che sarebbe stato preferibile  relegare la vicenda , per dirla con il Lenormant, “dans le domaine des fables”. Ma il desiderio di fare luce su una vicenda  dai contorni ancora nebulosi rimaneva: le ricerche personali dell’ultimo decennio, condotte  tenendo conto degli studi più aggiornati, ci portavano allora , inaspettatamente, a ribaltare il nostro vecchio convincimento, aprendoci uno scenario del tutto nuovo, che in questa sede vogliamo proporre al lettore.

 

[1] Cfr. B.Croce, Curiosità Storiche (Napoli 1919), p.159.

[2] Cfr. A.P. Coco, Francavilla Fontana nella luce della storia (Taranto 1941), p.69.

[3] Cfr. C. D’Angela, La chiesa di Taranto, vol.1 (Galatina 1977), p.30.

[4] Cfr. V. Farella, La cripta del Redentore di Taranto, in “Le aree omogenee della civiltà rupestre nell’ambito dell’impero bizantino: la Serbia” (Galatina 1979), p.231.

[5] Cfr. V. Musardo Talò, San Pietro in Bevagna. Un bene culturale da salvare (Manduria 2011), pp.11-12.

[6] Cfr. C.P. Thiede, Simon Pietro dalla Galilea a Roma (Milano 1999), pp.17-18.

Vestigia di due insediamenti scomparsi tra Felline e Ugento

di Stefano Cortese

Chi dalla marina di Posto Rosso si reca a Felline, non può fare a meno di visitare quei ruderi di un’antica chiesetta intitolata alla Vergine “Santa Potenza”. Tanti misteri cela questo antico edificio sacro, già a partire dall’attributo alla Vergine, misterioso quanto insolito nelle nostre aree. Nella monografia di Felline (Cartanì 1990) viene detto che risalirebbe al 1481, per via un beneficio ecclesiastico in onore della Natività della Vergine voluto da Rosa de Nicola da Cutrofiano, ma già nella visita pastorale del 1452 del mons. De Epiphanis si hanno diverse attestazioni del “loco Santa Mariae Potenciae” (Cortese 2010, 95): la sfortuna ha voluto che tale chiesa, insieme ad altre di Felline, Melissano e Casarano parvum, fossero state censite nel foglio poi smarrito, perdendo cosi tutto il suo inventario “bonorum mobilium et stabilium”. La primitiva chiesetta potrebbe anche essere stata di culto italo-greco, come sembrano confermare i non certamente probanti indizi dell’orientamento est-ovest e di una croce greca incisa in un blocco di reimpiego.

Una volta ricostruita nella seconda metà del XV secolo, subì diverse modifiche tra cui l’abbattimento dell’altare della Purificazione nel 1580 e soprattutto l’edificazione di alcuni locali adiacenti dove doveva vivere l’oblato. Nel 1640 fu dipinta, nel muro di recinto del giardino, una Vergine in trono con Bambino, mentre ai primi anni del ‘700 risale la pittura, oggi in evoluto stato di degrado (si nota ancora la sinopia), del “Riposo durante la fuga in Egitto”, sita a destra entrando nella chiesetta. Sul muro frontale, dove doveva esistere l’altare della SS. Trinità, non rimane che una nicchia, invasa sia dalla vegetazione affiorante, sia dai conci del soffitto crollato.

Pochissimo è rimasto anche delle sale adiacenti, edificate a differenza del sacro edificio, in pietre informi misto a bolo, mentre resiste ancora oggi il muro a secco con nervature in conci che recinta il giardino.

Si teneva una festa il giorno della Natività della Vergine (8 settembre) e la prima antifona vespertina era celebrata dall’arciprete di Ugento, la seconda dall’arciprete di Felline (AVU 1819), essendo lo stesso complesso situato metà nel feudo fellinese (il giardino), metà nel feudo ugentino (la stessa chiesa). Nella visita del 1878 del mons. Masella viene detta “in ristaurazione” (AVU 1878).

In alcune fonti la chiesa viene ubicata nel cuore di Cesite, un casale ricordato nel 1278 quando era infeudato a Raynaldo de Hugot e che verrà poco dopo accorpato a Felline essendo spopolato. A personale avviso l’insediamento di Cesite, come confortato dalle ricognizioni, era situato ancora più ad est, ai piedi della serra, nella zona Acquare/Santi Viti (Cortese 2007): è qui infatti che è stata rinvenuta ceramica imperiale e frammenti sporadici di età bizantina, confortata inoltre dalla presenza della chiesetta intitolata a San Vito, diruta già nel XVII secolo. La chiesa di Santa Potenza era a metà tra l’insediamento medievale di Felline (anch’esso leggermente più ad est) e quello di Cesite, quest’ultimo abbandonato già in età medievale e non come citano le fonti (Corvaglia 1987), soltanto dopo la scorreria turca del 1547.

Un altro insediamento, distante un chilometro circa, è quello di Fracagnone (Cortese 2010, 27-28). Questo insediamento è ben più difficile da intercettare, ma dovrebbe essere sito in prossimità del fondo Gorgoni o Palombaro; toponimo, quest’ultimo, che ci indica la presenza di un bene, cioè una colombaia in avanzato stato di degrado. Probabilmente fu edificata nel ‘500, quando l’insediamento era già da qualche secolo spopolato, e presenta profonde lesioni che minacciano un crollo imminente. E’ una colombaia a pianta circolare, inframmezzata da un toro e con una graziosa merlatura in parte preservata.

 

BIBLIOGRAFIA

-AVU 1819, Visita pastorale mons. Alleva

-AVU 1878, Visita pastorale mons. Masella

-G. Cartanì (1990), Felline. Storia tradizione costume, Grafo 7, Taviano pp. 316-20

-E. Ciriolo (1999), “Gli affreschi della chiesa di S. Maria della Potenza in Felline” in Lu Lampiune n° 2 anno XV, edizioni del Grifo, Lecce pp. 127-128

-S. Cortese (2007), Il paesaggio medievale tra Felline e Ugento, tesi di laurea in topografia medievale a. a. 2006/07 relatore prof. Paul Arthur

-S. Cortese (2010), Nei borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei borghi antichi di Racale, Alliste e Felline, C.R.S.E.C. Le/46 Casarano, Parabita pp. 95-97

-F. Corvaglia (1987), Ugento e il suo territorio, Galatina pp. 153-155

-P. Scarlino (1899), Memoria giuridica pel comune di Alliste e frazione Felline contro Vitali, ed eredi Basurto fu Luigi da Racale, Gallipoli, Tipografia gallipolina

Diario del Salento – I pomodori secchi

 

di Tommaso Esposito

Tommaso Esposito gira il Salento. Ecco le sue suggestioni


E’ un miope incapace di stupore chi nel cibo scorge oggi solo il frutto della tecnica che ha sostituito antichi attrezzi da lavoro o della scienza che ha inventato mutazioni genetiche.”
E. Bianchi, Il pane di ieri, p.37.

Ritorno da Gemini frazione di Ugento dove incontro un amico.
Un gelato non degno di nota.
Rientro e mi trovo lungo la strada per Alliste, l’antica Kallistos, “La Bellissima” in griko.
E se passo per Felline? No, sarò al “Mulino di Alcantara” un’altra sera.
Bene. La rossa campagna argillosa mi fa compagnia.
Cosa fanno laggiù?
Nooo, son pomodori stesi al sole.

Uno sconosciuto insediamento rurale tardo antico tra Melissano e Racale

 di Stefano Cortese

Tra i tanti racconti che mio nonno Paolo mi tramandò ha sempre suscitato nel sottoscritto una certa curiosità la scoperta di alcune tombe e reperti in ceramica che lo stesso, insieme a suo fratello Antonio, ebbero modo di rinvenire lavorando il terreno di “donna Rosa Panico”, al fine di impiantare alcuni uliveti negli anni ’50.

Si tratta di una contrada sita tra le masserie Cuntinazzi e Cutura, tagliata dalla provinciale Melissano-Felline, sul confine amministrativo tra la stessa Melissano e Racale.

Ebbi modo di segnalare l’episodio sulla personale tesi di laurea magistrale (Cortese 2009, 22-23) in quanto questa contrada, a personale avviso, doveva essere lambita dal  percorso che da Ugento portava al monastero italo-greco di santa Maria del Civo, per poi proseguire in direzione Alezio.

L’amico Fernando Scozzi (2009, 10), in un suo contributo inerente la masseria Cutura, accenna inizialmente alla storia della masseria e del suo passaggio di proprietà alla famiglia Panico (con istrumento del 12 febbraio 1896), poi ha modo di riportare una fonte orale, quella di Giuseppe Cortese, il quale ricorda che in questa contrada, denominata Spagnuli, furono scoperchiate delle tombe che si diceva facessero parte di una necropoli di un non meglio precisato convento degli “Spagnuli”.

Grazie alle sue ricerche, il professore Scozzi segnala che il toponimo Spagnuli era già presente nel catasto onciario dell’università di Racale del 1754, tra i possedimenti del duca Basurto, segnalando come sulla stessa contrada insistesse il toponimo monte d’Ercole e quello di calcara di Cola, a causa appunto di una calcara ancora viva nella memoria degli anziani.

In vista della pubblicazione “Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri storici di Racale, Alliste e Felline” (Cortese 2010), ho avuto modo di compiere un sopralluogo in zona per poter meglio delineare le caratteristiche di questo insediamento. Nel fondo dove furono trovate delle tombe è presente oggi una piccola cava e molto probabilmente, se le tombe non erano terragne, almeno parte della necropoli è andata distrutta; dall’altro lato della strada, in un terreno adibito a giovane oliveto, i fondi sono cosparsi una grande quantità di ceramica di datazione tardo antica, a partire soprattutto dal II-III secolo d. C.

Tra la ceramica rinvenuta, laterizi, ceramica anforaria e da mensa (in particolare sigillata africana C). Poca, ma presente, la ceramica bizantina (non si esclude una residualità d’uso di ceramica romana imperiale nell’età bizantina), mentre è assente la ceramica invetriata.

La vocazione agricola del piccolo insediamento rurale romano viene corroborata dalla testimonianza orale fornitami da Giuseppe Cortese, il quale ricorda di aver visto il negativo, nel terreno, di due grandi contenitori, probabilmente due grandi pithoi o dolia. Non sappiamo il toponimo del sito, ma la vicina toponimo prediale Ruggiano e la presenza a poco meno di un centinaio di metri di distanza di almeno 3 tracce di centuriazione romana (direzione sud-sudest), testimoniano l’antropizzazione della contrada.

Infine, ci fu mai una comunità monastica sul sito? Il toponimo Spagnuli, a personale avviso, è da riferirsi alla caratteristica erba selvatica conosciuta nel volgo con tale nome, oppure alla origine spagnola dei proprietari della contrada, cioè i Basurto. Nessuna fonte, purtroppo, ci autorizza a pensare la presenza di un’antica comunità monastica in zona, anche se in un vicino sito analogo già frequentato, leggermente più ampio (un probabile vicus), si insediò la comunità italo-greca di Civo, reimpiegando, come accadeva spesso, i conci dagli edifici romani.

E’ grazie all’archeologia del ricordo che è emerso l’ennesimo insediamento rurale romano (fattoria?) che costellavano il nostro territorio in epoca imperiale, scoperta il cui input va tributato al  mio compianto nonno.

BIBLIOGRAFIA

-Cortese S. 2009, L’insediamento monastico di Santa Maria del Civo fra indagine storica ed archeologica, tesi di laurea magistrale in topografia medievale, relatore prof. Paul Arthur, a. a. 2008/09

-Cortese S. 2010, Nei Borghi dei Tolomei. Formazione e caratteristiche dei centri antichi di Racale, Alliste e Felline, edito dal CRSEC Le/46 Casarano, tip. Martignano, Parabita

-Scozzi F. 2009, “La masseria “Cutura” note di storia e di archeologia” in Rosso di sera, a cura della Pro Loco, Melissano gennaio 2009, p. 10

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