Il Galateo e i brucolachi

di Armando Polito

Il Galateo del titolo non è l’opera di monsignor Giovanni Della Casa (1503-1556) e neppure quel complesso di norme di buone maniere che, come nome comune, da esso trae origine. Si tratta, invece, dello pseudonimo, tratto dal centro (Galatone) in cui nacque, del più famoso umanista salentino: Antonio De Ferrariis (1444-1517).

La parte finale del De situ Iapygiae, pubblicato postumo per i tipi di Pietro Perna a Berna nel 1558, Antonio rivolge la sua attenzione al territorio neretino e da par suo dà un colpo decisivo a a quella che ritiene  interpretazione superstiziosa e fasulla dei due fenomeni dei Fuochi fatui1 e della Fata Morgana2 osservati frequentemente nel territorio del Salento.

Riproduco di seguito dell’editio princeps il frontespizio e la parte che ci interessa di p. 117 evidenziata dalla sottolineatura, certo di fare cosa gradita ai bibliofili, ai quali segnalo che l’opera è integralmente scaricabile da http://www.internetculturale.it/jmms/objdownload?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ABVEE003363&teca=MagTeca%20-%20ICCU&resource=img&mode=all.

Prima di procedere alla traduzione è d’obbligo una nota di natura filologica relativa proprio alla strana parola (brucolachi) che compare nel titolo di questo post. In questa prima edizione compare Brocolarum, come si può leggere più chiaramente nel dettaglio che segue.

non nativo, cioè dell’autore, ma di trascrizione da manoscritto più che di stampa) per Brocolacum, genitivo plurale, che, come vedremo, appare come trascrizione dal greco. L’errore si perpetuò per lungo tempo nelle edizioni successive, di seguito documentate.

Maccarani, Napoli, 1624

p. 90

 

Chiriatti, Lecce, 1727

Di questa edizione curata dal neretino Giovanni Bernardino Tafuri non posso fornire il dettaglio che ci interessa, ma posso assicurare che continua il Brocolarum delle precedenti edizioni, perché esso permane nell’edizione, a cura dello stesso Tafuri, inserita nella collana curata da Angelo Calogerà appresso indicata.

Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, tomo VII, Zane, Venezia, 1722

  1. 194

 

Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, Ricciardi, Napoli, 1735

 

colonna 620

 

Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Giovanni Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò ristampate ed annotate da Michele Tafuri, v. II, Stamperia dell’Iride, Napoli, 1851

p. 89

A p. IV dello stesso volume Michele Tafuri così si esprime sull’edizione leccese del 1727 curata dall’antenato.

Da notare l’errata indicazione del tomo della raccolta del Calogerà (VII e non IX).

 

La Giapigia e varii opuscoli di Antonio De Ferrariis detto il Galateo, Tipografia Garibaldi di Flascassovitti e Simone, Lecce, 1867

p. 93

 

Abbiamo la conferma che il Brocolarum sopravvisse fino al 1867. Non so a quale editore è da ascrivere il merito di averlo corretto per primo in Brocolacum. Bisognerebbe passare in rassegna tutte le edizioni del De situ Iapygiae successive al 1851, ricerca, purtroppo, non fattibile, com’è noto,  in rete con testi anche relativamente recenti, ferma restando la mia impressione che in questi ultimi anni il processo di digitalizzazione del patrimonio librario ha subito un rallentamento, probabilmente per motivi di ordine non solo burocratico ma anche finanziario.

Dopo questa lunga parentesi, che lascio volentieri aperta ad ogni integrazione altrui, ecco la traduzione del brano da cui tutto è partito.

Simile è la favola dei brucolachi, che invase tutto l’oriente. Dicono che le anime di coloro che vissero scelleratamente di  notte come globi di fiamme sono solite sorvolare i sepolcri, apparire a persone note ed amici, nutrirsi di animali, succhiare il sangue ai fanciulli ed ucciderli, tornare poi nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture, squarto il cadavere, ne estrae il cuore e lobrucia e getta la cenere ai quattro venti, cioè verso le quattro regioni del mondo e crede che così la maledizione cessi. E se la favola è quella, tuttavia ci offre l’esempio di quanto invisi ed esecrabili siano a tutti coloro che vissero malamente, e vivendo e da morti. Simile è anche la favola di Ermontino di Clazomene citata da Plinioe da Seneca sul sepolcro incantato. Nè mancarono nei tempi antichi simili sciocchezze e illusioni dei sensi umani.

Stando alla descrizione, a parte il tratto iniziale che sembra riguardare i fuochi fatui, il resto evoca il vampirismo, per cui il brucolachi della traduzione è sinonimo di vampiri, voce con cui è reso in tutte le traduzioni meno e più recenti.

Un comune destino sembra unire dal punto di vista etimologico la voce vampiro e quella relativa al suo antenato, il brucolaco. La loro origine, infatti, è incerta. In particolare per la prima l’ipotesi più accreditata è che derivi dal serbo-croato vampir. E per brucolaco? L’attestazione più antica che sono riuscito a trovare è in una relazione di viaggio del 1717..

Alle p. 131-133 si legge quanto di seguito riproduco.

(Vedemmo una scena ben differente e ben tragica nella stessa isola in occasione di uno di questi morti che si crede ritornino in vita dopo il loro seppellimento. Colui del quale mi accingo a raccontare la storia era un cittadino di Micono5 per natura di cattivo umore e lamentoso; questo è un dettaglio da sottolineare in rapporto a pari soggetti. Fu ucciso in campagna, non si sa da chi e come. Due giorni dopo che era stato sepolto in una cappella della città, corse la voce che lo si vedeva la notte passeggiare a gran passi, che veniva nelle case a rovesciare mobili, spegnere lampade, abbracciare le persone alle spalle e fare mille piccoli tipi di dispetti. Lì per lì successe che se ne rise ma l’affare divenne serio quando le persone più sensibili cominciarono ad avere compassione: i papi stessi convenivano sul fatto e senza dubbio che essi avessero le loro ragioni. Non si mancò di far dire delle messe: nel frattempo il cittadino continuava la sua piccola vita senza correggersi. Dopo parecchie assemblee degli ottimati della città, dei preti e dei religiosi giunsero alla conclusione che bisognava, seguendo un non so quale antico cerimoniale, attendere nove giorni dopo il seppellimento. Il decimo giorno si disse una messa nella cappella dov’era il corpo al fine di scacciare il demonio che si credeva esservisi rinserrato. Il suo corpo fu riesumato dopo la messa e si decise di dovergli strappare il cuore. Il macellaio della città, assai vecchio e poco esperto, cominciò ad aprire il ventre invece del petto: frugò a lungo tra le interiora senza trovarvi ciò che cercava; alla fine qualcuno l’avvertì che doveva bucare il diaframma. Il cuore fu strappato tra l’ammirazione di tutti i presenti. Il cadavere nel frattempo puzzava tanto che si fu obbligati a bruciare dell’incenso; ma il fumo misto alle esalazioni del cadavere non fece che aumentarne la puzza e cominciò a riscaldare il cervello di questa povera gente. La loro immaginazione colpita dallo spettacolo si riempì di visioni. Ci si azzardò a dire che il fumo denso usciva da quel corpo: noi non osiamo dire che era quello dell’incenso. Non si credeva esserci che brucolachi nella cappella e nella piazza che è sul davanti: è questo il nome che si da a questi pretesi resuscitanti. La voce si diffuse nelle strade come attraverso ululati e questo nome sembrava essere fatto per far tremare la volta della cappella. Parecchi dei presenti assicuravano che il sangue di questo malvagio era molto vermiglio, il macellaio giurava che il corpo era ancora tutto caldo; da questo si concludeva che il morto aveva il gran torto di non esser morto bene o, per meglio dire, di essersi lasciato rianimare dal diavolo; è precisamente l’idea che hanno di un brucolaco. Si faceva allora risuonare questo nome in maniera incredibile. Entrò in quel tempo una folla di persone che affermavano ad alta voce che essi non erano ben sicuri che quel corpo fosse diventato rigido quando lo si portò dalla campagna in chiesa per seppellirlo e che di conseguenza era un vero brucolaco; questo era lì il ritornello.)

In margine a p. 131  si legge la nota che riproduco ingrandita.

 

Al Vroucolacas iniziale seguono le varianti greche, cioè Βρουκόλακος (leggi Breucòlacos), Βρουκόλακας (leggi Brucòlacas), Βουρκολάκας (leggi Burcolàcas. Subito dopo vien ripetuto Βρουκόλακας per introdurre la definizione: Spettro composto da un corpo morto e da un demone. C’è chi crede che  Βρουκόλακος significa carogna. Βρούκος (leggi Brucos) o Βοῦρκος (leggi Burcos) è questo limo così puzzolente che marcisce sul fondo dei vecchi pozzi, poiché Λάκκος (leggi Laccos) significa fossa.

La nota mi appare preziosa almeno quanto il testo principale  perché costituisce, a quanto ne so, il primo ed ultimo tentativo di ricostruire l’etimo di questa voce misteriosa. L’ipotesi del De Tournefort trova conforto, ma secondo me trae pure origine dalla conoscenza e consultazione del Glossarium ad scriptores mediae et infimae Graecitatis di Charles Du Cange uscito per i tipi di Anissonios, Joan. Posuel & Cl. Rigaud a Lione nel 168 (due volumi)..

Di seguito la parte iniziale delle schede relative rispettivamente dalle olonne 222 e  783 del primo volume.

(Βορκα, βορκος limo, non qualsiasi ma quello che macerato  in acqua già putrescente e mana una pessima fetore. Così l’Allacci nel libro sulle opinioni dei Greci al numero 12)

(Λάκκος [leggi lakkos], per i Greci è la fossa. Presso i medici però viene inteso come la parte del collo che chiamano σφαγλώ [leggi sfaglò), i Latini iugulum. Ipato in un manoscritto sulle parti del corpo umano: σφαγή, ὁ λάκκος τοῦ τραχήλου [gola, la fossa del collo]. Presso lo stesso ἰνίον [leggi inìon; significa nuca] viene spiegato come ὀπισθόλακκος [leggi opistòlaccos; alla lettera fossa che sta dietro], occipite. Λάκκος è pure il pozzo. Glosse manoscritte ai racconti di Gabria: πρός φρέαρ, εἱς λάκκον [verso il pozzo, verso la fossa])

Sembrebbe che l’etimo del nome della spaventosa creatura sia stato trovato, per cui brucolaco alla lettera significherebbe limo della fossa. Sarebbe così privilegiato il dettaglio del fetore che domina alla fine del racconto del Tournefort.

Faccio notare che il primo significato medico di Λάκκος (gola) riportato dal Du Cange evoca suggestivamente il dettaglio del corpo delle vittime dei vampiri ma mal si accorda (anzi, non si accorda proprio) con la prima parte Βορκα (limo puzzolente) e che le altre due varianti registrate nella relazione di viaggio (Βρουκόλακος e Βρουκόλακας) presentano rispetto a Βορκα la metatesi di –ρ-. Non crea, invece, problemi lo scempiamento dell’originario  -κκ- di Λάκκος dal momento che lo stesso glossario registra il derivato λακάζω (leggi lacazo) col significato di seppellire.

Fermo restanto il fatto che la nostra parola appare senz’ombra di dubbio composta, quali potrebbero essere le voci componenti alternative?. Per la prima parte metterei in campo la radice del verbo βρὐκω (leggi briùco), che siggnifica mordere e per la seconda la radice del verbo λακίζω (leggi lachìzo) che significa lacerare, uccidere.

 

Pur nell’incetezza delle sue componenti, credo di poter affermare che il brocolacum del Galateo è la trascrizione del greco  Βρουκολάκων (leggi brucolàcon) genitivo plurale di Βρουκόλακος, con conservazione dunque, della desinenza del genitivo greco

Rimane (per chi ci crede …) il fascino misterioso di questa creatura, ma anche la certezza che più di due secoli prima del De Tournefort del brucolaco aveva scritto il  salentino Galateo e che lo scetticismo da umanista del salentino (dopo tanta fatica mi si perdoni un pizzico di campanilismo …) anticipava quello da illuminista del francese.

__________

1  Per Fuoco fatuo s’intende il fenomeno costituito da fugaci fiammelle, per lo più bluastre che un tempo si potevano osservare nei cimiteri e in luoghi paludosi. Le mutate condizioni ambientali ed igieniche lo hanno fatto pressochè scomparire, come, con  il cambiamento di quelle culturali e più specificamente sociali, è avvenuto per il tarantismo.

2 il fenomeno della Fata Morgana, volgarmente detto miraggio, è un’illusione ottica dovuta alla rifrazione di immagini lontane in particolari condizioni atmosferiche. Non escluderei, visti i cambiamenti climatici in corso, la loro scomparsa o evoluzione …

3 Plinio, Naturalis historia, VII, 73: Reperimus inter exempla Hermontini Clazomenii animam relicto corpore errare solitam, vagamque e longiquo multa annuntiare, reperimus inter exempla hermotimi clazomenii animam relicto corpore errare solitam vagamque e longinquo multa adnuntiare, quae nisi a praesente nosci non possent, corpore interim semianimi, donec cremato eo inimici, qui Cantharidae vocabantur, remeanti animae veluti vaginam ademerint.  (Troviamo tra gli esempi che l’anima di Ermontino di Clazomene, lasciato il corpo, era solita errare e dopo aver reduce da paesi lontani dare molte notizie che non potevano essere conosciute se non da chi era tato presente, mentre il corpo frattanto restava semianimato, finchè i nemici, che si chiamavano Cantaridi, dopo averlo cremato, non sottrassero come una sorta di guaina all’anima che tornava)

Faccio notare un altro errore, anche questo perdurante nelle edizioni successive documentate per Brocolarum,  presente nell’editio pronceps, dove si legge Hermotini per Hermontini. Per quanto riguarda Seneca al momento non sono in grado di dire a quale sua opera il Galateo si riferisce. Anche per questo non dispero dell’aiuto di qualche volenteroso lettore.

Girolamo Marciano e la Fata Morgana

di Fabrizio Suppressa

 

Acquitrini, laghi, lame e paludi erano fino ai primi del Novecento elemento caratterizzante del paesaggio salentino. Luoghi scarsamente popolati a causa della diffusione del morbo malarico ma posti occasionalmente frequentati dalle genti locali che vi traevano importanti prodotti naturali utili all’artigianato e al sostentamento alimentare. Aree anche cariche di mistero e magia, patria di “magiare” streghe o fattucchiere che con le zone isolate e con i miasmi degli acquitrini trovavano il luogo ideale per praticare i loro intrugli.

Se non è plagio ditemi voi cos’é…

di Armando Polito

Nel post a firma di Fabrizio Suppressa dal titolo Il Marciano e la “Fata Morgana” si dava particolare rilievo al razionalismo con cui il leveranese Girolamo Marciano (1571-1628) in un suo scritto pubblicato postumo per la prima volta a Napoli nel 1855 affrontava il fenomeno del miraggio che va sotto il nome di Fata Morgana.

Il mio intervento non è ispirato da una sorta di campanilismo dovuto al fatto che, essendo di Nardò, sono terrritorialmente più vicino a Galatone che a Leverano, ma solo dalla doverosa necessità di dare a Cesare quel che è di Cesare.

Il brano che riproduco in basso è del galatonese Antonio De Ferrariis detto, proprio per il luogo di nascita, il Galateo; esso fa parte del De situ Japigiae scritto tra il 1506 e il 1511 e pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1558. Lascio al lettore trarre le conclusioni dopo la lettura comparata del suo brano (la traduzione, in corsivo, dall’originale latino è mia) e di quello del Marciano citato nel post all’inizio ricordato, non trascurando, naturalmente, la scarna cronologia che dei due autori ho riportato:

Neritini agri paludes noxiae non sunt; nullas enim, aut paucas, et innoxias tollunt auras. Aestate omnia sicca sunt, nihil limosi et gravis, aut palustris humoris relinquitur; sed tantum, quantum campos reddat pinguiores. in his paludibus, ut et in campis Mandurii, et Galesi, et Cupertini phasmata quaedam videntur, quas mutationes, aut mutata dicunt vulgus, nescio, quas striges, aut lamias, aut, ut Neapoli, Ianarias, et (ut Graeci dicunt) Nereides, fabulantur. Mirum est, totum orbem invasit, et in miseras erravit fabula gentes; nullo certo auctore, nulla ratione, nullo experimento unusquisque credit quae neque vidit, neque vera sunt, stamus alienis, et indoctissimorum hominum testimoniis; puerilibus larvis, anilibus credimus commentis, et plus fidei auribus, quam oculis adhibemus; nemo oculatus testis est, omnes ab aliis se audisse fatentur. Quantis tenebris involvitur humanum genus ad mendacia natum, cui semper invisa est veritas! Quanta caligo detinet humanos animos, alioqui rationales, et divinos, ut non ab re quis credere possit, omnia humana simillima esse, his quae dicemus phantasmatis! Sunt qui credunt mulieres quasdam maleficas, seu potius veneficas medicamentis delibutas, noctu in varias animalium formas verti, et vagari, seu potius volare per longinquas regiones, ac nuntiare quae ibi agantur, choreas per paludes ducere, et daemonibus congredi; ingredi, et egredi per clausa ostia, et foramina, pueros necare, et nescio, quae alia deliramenta, et quod maxime mireris sunt in hac re gravissimae Pontificum censurae. Similis est Brocolarum fabula, quae totum Orientem cepit. Aiunt eorum, qui scelestem vitam egerunt, animas, tamquam flammarum globos noctu e sepulcris evolare solitas, notis, et amicis apparere, animalibus vesci, pueros sugere, ac necare, deinde in sepulcra reverti. Superstitiosa gens sepulcra effodit, ac scisso cadavere, detractum cor exurit, atque in quatuor ventos, hoc est in quatuor mundi plagas cinerem projicit; sic cessare pestem credit; et si fabula ea sit, exemplum tamen praebet nobis, quam invisi sint, et execrabiles omnibus ii, qui male vixerunt, et viventes, et mortui. Similis est et Hermontini Clazomenii apud Plinium fabula, et apud Senecam, de sepulcro incantato. Nec defuerunt antiquis temporibus hae vanitates, et illusiones sensuum humanorum; cum semel mens decepta fuerit, et mendaciis persuasa, sensus quoque falli necesse est; quibus deceptis, mens quoque delirat. Magna est inter sensus, mentemque affinitas; quandoque ipsa sola mens, seu (ut dicunt) solae virtutes interiores operibus exteriorum sensuum funguntur. Exemplum est somniantium, qui opera exercent vigilantium. Et Galeno teste, delirus quidam tibicinas videbat in angulo domus; et baculus in aqua videtur fractus, et cancellatis digitis et elevato altero oculo una res, duae apparent, et duae lineae parallelae videntur sensui concurrere, cum nunquam concurrant. Ipse etiam Lactantius, qui plus elocutioni, quam eruditioni studuit, negavit terram ubique posse habitari. Hunc vulgaris et Lactantium error apparentia decepit. Sicut negare sensum propter rationem, rationis est indigere; sic et ratione non persuaderi propter aliquam apparentiam stultum est. Tunc enim res bene cedit, cum ratio apparentibus attestatur, et apparentia ratione; cum haec duo sibi invicem non consentiunt, omnia falsa, omnia erronea sunt. Sed nos ad eadem Phantasmata revertamur. Videbis quandoque urbes, et castella, et turres, quandoque pecudes, et boves versicolores, et aliarum rerum species, seu idola, ubi nulla est urbs, nullum pecus, ne dumi quidem. Mihi voluptati interdum fuit videre haec ludicra, hos lusus naturae. Haec non diu permanent sed ut vapores, in quibus apparent, de uno in alim locum, et de una forma in aliam permutantur, unde fortasse mutata nominantur; aut quoniam his apparentibus, caelum de serenitate in pluviam mutari solet. Hoc accidit mane, coelo silente, incipiente ac leviter spirante (ut solet) Austro. Nam ut in fine est vehementissimus Auster, sic in principio levissimus, et cum calidus sit, elevat tenues nebulas, quae, ut speculum, referunt imagines urbium, pecorum, et aliarum rerum; et ut vapores, sic et species illae moventur: ut est videre in speculis motis, atque agitatis, in quibus, res ipsae moveri videntur. Et quoniam res recte occurrunt vaporibus, recte videntur, ut et umbra, quae opponitur corpori luminoso. Quae vero transverse, ac reflexe rerum species suscipiunt, in his res quoque ipsas reflexas videmus. Sic et in aqua videmus culmina montium, et tectorum in inferiori parte; fit enim ut quae aquae suoperficiei propinquiora sunt, ut fundamenta a nostris visibus sint longinqua; culminum vero tectorum, quae ab aqua sunt remotiora, imagines ad nos magis accedunt; ideo, et inferiora videntur. Sic etiam et nobis in clausa domo existentibus, parvo per rimulas ingrediente lumine, omnia transverse videntur, ut hominum capita deorsum, pedes sursum; lineae enim umbrarum non recte procedunt, sed transponuntur, atque in medio intersecantur. Hoc idem in speculis concavis accidit ut superior pars speculi infimam partem rei visae, inferior superiorem reddat. Haec, quae dixi, phasmata deludunt saepe obtutum viatorum, qui dum se prope urbemesse existimant, longissime absunt. Visae sunt etiam in hoc tractu in aere species hominum equis insidentium, et pedibus ambulantium. Sic et Scriptores litteris mandavere, visas fuisse in caelo armatas acies, et hae, ut puto, species erant earum rerum, quae longe aberant, atque ab eo loco, in quo species visae sunt, videri minime poterant. Sic et denarium in fundo vasis non videmus, at si idem vas aqua impleatur, videmus non denarium, sed illius imaginem in summo aquae, quod aeri contiguum est; superficies enim aquae, superficiei aeris proportionatur. Sed an illa imagines subiectae sint in speculo, an in aeris extrema parte, alia quaestio est. Ait Aristoteles: color est extremitas perspicui in corpore terminato. Quandoque figurae nubium sunt quae navium, et velorum simulacra reddunt, ubi nulla est classis. Haec phantasmata non solum inexpertos fefellerunt. Non diu est quo tota ora, quae est ab Hydrunto ad Garganum montem, una et eadem hora ante ortum solis vidit classem ab Orientis parte velificantem; creditum est Turcarum illam fuisse, et antequam phasma, seu illa delusio albicante aurora detegeretur, variae huc atque illuc literae scriptae sunt, ac missi nuntii de adventuingentis classis. Hoc fortasse modo, aut altero, quem diximus, ut credo, a Lilybaeo vidit, nescio quis, classem e portu Carthaginis exeuntem.

Le paludi dell’agro neritino sono innocue; infatti non emanano esalazioni se non poche e non dannose. In estate tutto è asciutto, nulla resta di limaccioso, di fastidioso, di palustre, ma solo quel poco che basta a rendere più fertili i campi. In queste paludi, come nei campi di Manduria, di galeso e di Copertino si vedono certi fantasmi che il popolo chiama mutazioni o mutate; non so di quali streghe parli o lamie o, come a Napoli, scianare, e (come dicono i Greci) Nereidi. È strano, la favola ha invaso tutto il mondo e si è diffusa tra le povere popolazioni. Senza alcun autore, senza nessun motivo,  senza averlo sperimentato ciascuno crede a ciò che non ha visto e che non è vero, restiamo ancorati alle testimonianze di estranei e di persone ignorantissime, crediamo a larve puerili, a storie da vecchie, e diamo più fiducia agli orecchi che agli occhi. Nessuno è testimone oculare, tutti dicono di averlo sentito da altri. Da quante tenebre è avviluppato il genere umano, nato per la menzogna, al quale la verità è sempre odiosa! Quanta nebbia opprime gli animi umani, pur dotati di ragione e divini, sicché non partendo dalla realtà qualcuno potrebbe credere che tutti i fatti umani sono molto simili a questi fantasmi dei quali parleremo! C’è chi crede che certe donne malefiche, o, piuttosto, venefiche, untesi di certi medicamenti, di notte assumono vari aspetti di animali e vagano, o, piuttosto, volano per regioni lontane, e riferiscono ciò che si fa e che improvvisano danze per le paludi e si accoppiano con i demoni; entrano ed escono attraverso le porte chiuse e i pertugi, ammazzano bambini e non so quali altre follie; e parrà strano che questo accada nonostante le pesantissime censure dei Pontefici. Simile è la favola dei vampiri, che invase tutto l’Oriente. Dicono che le anime di coloro che condussero una vita scellerata sono solite di notte volar via dai sepolcri come globi di fiamme, appaiono a persone conoscioute e ad amici, si cibano di animali, succhiano il sangue dei fanciulli e li uccidono, poi ritornano nei sepolcri. La gente superstiziosa scava le sepolture e dopo aver squarciato il cadavere ne estrae il cuore, lo bruciae ne getta la cenere ai quattro venti, cioè alle quattro regioni del mondo. Crede che in questo modo cessi quel flagello; e se quella è una favola, ci dà tuttavia un esempio di come siano a tutti odiosi ed esecrabili coloro che hanno vissuto male, da vivi e da morti. Simile è presso Plinio e Seneca la favola del sepolcro incantato di Ermotino di Clazomene. Nè mancarono in tempi antichi questi vaneggiamenti e illusioni dei sensi umani. Quando una sola volta la mente sia stata ingannata e persusa dalle menzogne, è fatale che anche i sensi siano ingannati; dopo che essi sono stati ingannati anche la mente delira. Grande è l’affinità tra i sensi e la mente; talora la sola mente o (come dicono) le sole virtà interiori assolvono alle funzioni dei sensi esterni. Un esempio è quello dei sonnambuli che compiono le azioni degli svegli. E secondo la testimonianza di Galeno uno in delirio vedeva delle flautiste in un angolo della casa; e un bastone in acqua sembra spezzato e, disposte le dita a grata, sollevato un occhio, appaiono due cose invece di una e due linee parallele sembrano alla vista convergere pur non incontrandosi mai. Lo stesso Lattanzio che si imprgnò più nell’elocuzione che nell’erudizione negò che la terra potesse essere abitata ovunque. Un errore comune e da lattanti lo ingannò con l’apparenza. Come negare l’esperieza sensoriale a causa della ragione è mancare di ragione, così è da stolti non credere alla ragione a causa di un’apparenza.  Allora le cose vanno bene, quando la ragione è comprovata dalle cose che appaiono e l’apparenza dalla ragione; quando loro due non vanno reciprocamente d’accordo tutto è erroneo. Ma torniamo ai medesimi fantasmi. Vedai talora città e castelli e torri, talora armenti e buoi variopinti, e parvenze di altre cose, o immagini, dove non c’è nessuna città, nessun armento, neppure cespugli. Per me fu un divertimento vedere talora questi spettacoli, questi giochi della natura. Essi non durano a lungo e, come i vapori nei quali appaiono, mutano da un posto all’altro, da una forma all’altra, perciò forse sono detti mutate, oppure poiché quando essi appaiono il cielo da sereno suole mutare in piovoso. Ciò succede di mattina, quando l’aria è calma, mentre inizia a spirare leggermente  (come suole) l’Austro. Infatti esso come alla fine è violentissimo così all’inizio è leggerisiimo,  ed essendo caldo solleva tenui nubi che, come uno specchio, riproducono le immagini di città, di animali e di altre cose; e come i vapori così anche quelle immagini si muovono come è possibile vedere  in specchi mossi e agitati, nei quali le stesse cose sembrano muoversi. E poiché gli oggetti si presentano diritti ai vapori, appaiono diritti, come pure l’ombra che si oppone ad un corpo luminoso. Quelli che di traverso e di riflesso assumono l’aspetto delle cose, in essi vediamo pure le stesse cose riflesse. Così anche in acqua vediamo le cime dei monti e dei tetti nella parte inferiore: succede infatti che quelle cose che sono più vicine alla superficie dell’acqua, come le fodamenta, sono lontanre alla nostra vista. Le immagini delle cime dei tetti, che sono più lontani dall’acqua, si avvicinano di più a noi, sicché appaiono come più basse. Così pure le cose ci appaiono di traversi quando ci troviamo in una casa chiusa con una piccola luce che entra attraverso le fessure, come le teste deglu uomini in giù, i piedi in sù; infatti le linee delle ombre non procedono diritte ma deviano e s’intersecano in mezzo. La stessa cosa succede negli specchi concavi, sicché la parte superiore dello specchio riproduce la parte più bassa della cosa vista, l’inferiore quella più bassa. I fantasmi di cui ho detto spesso ingannano la vista dei viandanti, i quali mentre credono di esssere vicino alla città ne sono lontanissimi. Furono visti anche in questo tratto in aria immagini di uomini a cavallo e procedenti a piedi. Così anche gli scrittori tramandarono che si videro in cielo schiere armate e queste, come credo, erano immagini di quelle cose che erano molto distanti e che non potevano minimamente essere scorte da quel luogo in cui le loro parvenze furono viste. Così anche non vediamo una moneta sul fondo di un vaso, ma se riempiamo lo stesso vaso di acqua vediamo non la moneta ma la sua immagine sulla superficie dell’acqua che è vicina all’aria; infatti la superficie dell’acqua si equilibria con quella dell’aria.  Ma se quelle immagini abbiano origine in uno specchio o nella parte estrema dell’aria è un’altra questione. Dice Aristotele: il colore è l’estremità di ciò che si vede in un corpo che abbia dei confini. Talora forme di nubi sono quelle che mostrano sembianze di navi e di vele dove non c’è nessuna flotta. Questi fantasmi non hanno ingannato solo gli inesperti. Non è da molto tempo che tutta la costa che va da Otranto fino al monte Gargano vide nella sola e medesima ora prima del sorgere del sole una flotta che procedeva a vele spiegate dalla parte dell’Oriente; si credette che fosse una di quelle turche e prima che il fantasma o quell’illusione si dileguasse sul far dell’aurora furono scritte qua e là varie lettere e furono mandati messaggeri per annunziare l’arrivo di una grande flotta. Forse in questo modo o nell’altro che abbiamo detto, come credo, non so chi vide dal Lilibeo una flotta che usciva dal porto di Cartagine.

E, dopo aver parafrasato (per usare un eufemismo…) il testo del Galateo, il nostro filosofo leveranese ha pure la spudoratezza di citarlo (riporto da pag. 202 dell’edizione citata in testa): “Onde Antonio Galateo nel suo libretto De situ Japygiae dice che nel suo tempo in una medesima ora si vede qui ed in Levante, o per tutto quel tratto c’è tra Otranto ed il monte Gargano, velificare un’armata che fu creduta del Turco”.

Con particolare piacere noto, perciò, che Pompeo Sarnelli, già al seguito del cardinale Orsini (poi papa col nome di Benedetto XIII), vescovo di Bisceglie dal 1692 al 1724, nell’epistola 9 (in Lettere ecclesiastiche di Monsignor Pompeo Sarnelli vescovo di Biseglia, tomo VIII, Bortoli, Venezia, 1716, pagg. 19-21) indirizzata ad un interlocutore certamente importante ma di difficile identificazione, dal momento che tutte le lettere sono indirizzate ad una S. V. senza altra indicazione, per metterlo al corrente di certe credenze popolari riporta per intero, correttamente citandone l’autore, il brano del Galateo.

Il fenomeno che ho stigmatizzato è, come si vede, antico. La mia speranza è che esso, frequentissimo anche ai giorni nostri, venga ridimensionato dalle fantastiche possibilità, che la rete offre, di un controllo relativamente rapido. Certo, bisogna avere tempo e, soprattutto, voglia; ma questa è un’altra questione…

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