25 luglio 1943, caduta del fascismo e riflessi nel Salento

di Salvatore Coppola

Ricorre quest’anno l’80° Anniversario della caduta del fascismo, che la Storia fa coincidere con l’approvazione dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi nella seduta del Gran Consiglio (iniziata nella tarda serata di sabato 24 luglio) e con il successivo arresto di Mussolini nel pomeriggio del giorno successivo. Questa la nuda cronaca dei fatti.

Una fonte (inedita) dell’Archivio Vaticano ci informa che Monsignor Luigi Maglione,  segretario di Stato di Pio XII, appresa la notizia dell’arresto di Mussolini, si adoperò per chiedere garanzie sull’incolumità del prigioniero e della sua famiglia. Il potente segretario di Stato, interessato a conoscere lo stato d’animo dell’uomo che per più di vent’anni aveva guidato il paese, riuscì a sapere qualcosa grazie alle informazioni “riservate” del medico che, nella tarda serata del 25 luglio e nella mattina del 26, visitò Mussolini in una cella della Caserma degli Allievi Carabinieri di Prati.

Seppe così che egli aveva chiesto di far pervenire al nuovo capo del governo Pietro Badoglio l’augurio di «riuscire nel gravissimo compito affidatogli».

Mussolini (che era «molto pallido, affaticato, lo sguardo morto, che di tanto in tanto diventava fisso») chiese al medico se nella città di Roma fosse accaduto qualcosa dopo la notizia del suo arresto («accade niente in città»?). Alla risposta negativa, Mussolini si lasciò andare ad alcune riflessioni sulla natura del popolo italiano che il medico riferì puntualmente a monsignor Maglione («è un popolo superficiale in tutte le sue manifestazioni anche quelle religiose, crede al santo solo quando gli faccia la grazia che chiede, applica il do ut des, si copre di una vernice che non approfonda e che non lascia nessuna traccia. Non è ancora un popolo maturo e unito, su questo ha avuto la sua azione negativa lo Stato Pontificio che è stato come un tumore maligno nel corpo dell’Italia; nel 1919 ho cercato di isolare il neoplasma. Anche ora col pretesto del bombardamento di Roma, centro del mondo cattolico, il clero ha cercato di gettare il seme di una ricostituzione del potere temporale che potrà dare il suo frutto a distanza di 20-30 anni»). Se Mussolini avesse chiesto «accade niente in Italia?», con riferimento a reazioni, da parte fascista, alla notizia della sua destituzione, la risposta negativa sarebbe stata uguale per tutte le città e tutti i borghi d’Italia.

Nel Salento, delle decine di migliaia di fascisti iscritti alle diverse organizzazioni che facevano capo alla Federazione provinciale non ci fu un solo segretario politico, una sola fiduciaria dei Fasci femminili, un solo presidente dei Dopolavoro o delle sezioni comunali della Gioventù Italiana del Littorio, non ci fu un milite, un capomanipolo, un centurione, un seniore, un console della Milizia a scendere nelle piazze per manifestare la propria solidarietà al duce.

Una sola voce, fuori dal coro, si materializzò con un editoriale che doveva essere pubblicato su Vedetta Mediterranea (settimanale politico e culturale della Federazione provinciale dei Fasci di Combattimento) del 26 luglio. Il direttore Ernesto Alvino, che, la sera di domenica 25, aveva appreso per radio la notizia dell’arresto di Mussolini, nell’articolo che preparò per il numero che, come ogni lunedì, sarebbe stato distribuito nelle edicole e spedito agli abbonati, espresse i sentimenti di sgomento, ma anche di orgoglio, dei fascisti della prima ora, ovvero di coloro che – come lui – i Fasci li avevano fondati nel 1919/1920 e che nel regime avevano creduto fino in fondo («Vogliamo ignorare gli “uomini furbi” che si sono arricchiti in questi tre anni di guerra e adesso sputano nel piatto ove hanno mangiato. Vogliamo non accorgerci di quanti oggi cercano un istituto di bellezza che rifaccia la loro verginità politica perduta. Ce ne freghiamo, infine, di quanti avranno già fissate, sulla nostra testa di fascisti che non vogliono pentirsi, taglie e ipoteche. Noi siamo sempre quelli di prima. Quelli della passione del 1919-1922. Quelli che dal partito non hanno ricevuto altro che dispiaceri e mai un sorriso. Che dal 1922 al 1943 si sono dilaniati a vicenda per una smania di perfezione ideale ed hanno per ciò solo permesso a quello che oggi tradisce, d’inserirsi come il proverbiale “terzo che gode” fra i due litiganti. Noi ci manteniamo fedeli a noi stessi e non ci aspettiamo né il primo, né il secondo e nemmeno il terzo canto del gallo per tradire Benito Mussolini. Ora sarai tu, popolo italiano, disposto a farti “liberare”? E allora arrenditi, ma non eviterai di veder continuare la guerra a tue spese e sul tuo suolo, fra tedeschi e loro e tuoi avversari»).

A Lecce, nel pomeriggio del 26 luglio scesero in piazza per festeggiare la ritrovata libertà gruppi di antifascisti che sventolavano il tricolore inneggiando alla pace. Non si registrarono plateali forme di vendetta contro elementi del cessato regime (a parte qualche lieve “incidente”) ad opera di antifascisti che avevano pagato con il carcere, il confino e altre misure repressive la propria fedeltà agli ideali democratici. Il vescovo di Lecce monsignor Alberto Costa, considerato – per le sue prese di posizione ufficiali – uno dei più prestigiosi punti di riferimento del fascismo salentino, attese qualche giorno prima di far conoscere ai fedeli, dalle pagine del settimanale L’Ordine, la propria posizione. Egli lanciò un appello a far prevalere «l’ordine, la concordia, la disciplina» e ad assecondare «le tappe della nuova era della Patria». Nella prima pastorale pubblicata dopo il crollo del regime, il vescovo Costa rivolse ai fedeli l’invito ad essere «ossequienti e ubbidienti all’Autorità, che doveva essere considerata un’emanazione del potere di Dio».

I funzionari pubblici (prefetto e questore) si premurarono, nei giorni seguenti, di comunicare al Ministero dell’Interno che la popolazione del Salento dimostrava di avere «piena fiducia nel Nuovo Ordine Nazionale», segnalando, al contempo, che non si era registrato alcun episodio di vendetta o ritorsione nei confronti dei gerarchi che avevano fino ad allora spadroneggiato in ogni paese della provincia, essendo invece prevalso in tutti «un certo desiderio di pace». Quanto agli elementi del disciolto Partito Nazionale Fascista, gli stessi funzionari statali (mantenuti tutti al loro posto), assicurarono che nessuno di loro voleva «contrastare il nuovo ordine». Nel breve volgere di pochi mesi, infatti, la stragrande maggioranza dei fascisti si sarebbe riciclata all’interno dei ricostituiti partiti democratici.

 

Achille Starace: il lato tragicomico del fascismo

da: http://www.larchivio.org/xoom/starace.htm
da: http://www.larchivio.org/xoom/starace.htm

 

di Alessio Palumbo 

La storia degli esordi (e non solo) del fascismo italiano si lega all’operato di alcuni leader fortemente radicati sul territorio, i cosiddetti ras. Balbo fece di Ferrara la propria roccaforte, il proprio staterello feudale, Farinacci poté sempre contare sugli squadristi di Cremona, Caradonna su quelli di Bari e così via per i vari Ciano (padre), Grandi, ecc. Il Salento non ebbe un ras vero e proprio, nonostante Gallipoli avesse dato i natali ad una delle figure più influenti dell’intero regime: Achille Starace.

Nato a Sannicola (allora non ancora separata da Gallipoli) nel 1889, trascorse l’infanzia più in strada che nel ricco palazzo del padre o tra i banchi di scuola. Per come viene descritto nella principale biografia a lui dedicata, (A. Spinosa, Starace. L’uomo che inventò lo stile fascista, Milano, Mondadori, 2002), sin da ragazzino si distinse per forza, spirito atletico e la sfrenata voglia di menar le mani. Scoppiata la Grande Guerra vi partecipò con entusiasmo, ricevendo numerose decorazioni. Dopo il conflitto aderì al fascismo, non tanto per motivi ideologici, quanto perché affascinato dalla personalità di Mussolini: una vera e propria idolatria, che non verrà meno neanche quando lo stesso capo del fascismo lo farà arrestare e rinchiudere in un campo di concentramento.

Come detto, a differenza di altri ras, non ebbe mai una vera e propria base territoriale. Nel Salento non fu particolarmente amato e non rare furono le manifestazioni di ostilità nei suoi confronti, anche in pieno regime. Tra i vari aneddoti, motti ed episodi che gli si attribuiscono, c’è ad esempio quello relativo ad una frase fattagli ritrovare dai leccesi di fronte alle finestre di un albergo cittadino durante una sua visita all’indomani della scissione di Taranto dal vecchio capoluogo: “Respira Roma quando Starace parte, esulta Taranto quando Starace arriva. Lecce città dell’arte se ne frega quando arriva e quando parte” (A. SPINOSA, cit., p. 42)

Il gerarca di Sannicola non sembrò, tuttavia, risentire della mancanza di questa base territoriale. La sua carriera si basò esclusivamente sulla fedeltà e dedizione al duce, che lo ripagò nominandolo nel 1926 luogotenente generale della Milizia, oltre che vicesegretario del partito. Sin da subito palesò un carattere da “mastino”: cercò di imporre agli uomini della Milizia lo “stile fascista” fatto di vigoria fisica, pratica sportiva, sprezzo del pericolo, virilità, ecc. A tale stile vanno ricondotte dichiarazioni del tipo: “Mi piace cavalcare. Per questo amo i cavalli e le donne” (A. SPINOSA, cit., p. 139) oppure “Tutti gli organi del partito funzionano: devono perciò funzionare anche gli organi genitali” (A. SPINOSA, cit., p. 277).

Sul piano più strettamente politico non smise mai di tramare contro i gerarchi a lui invisi. Nel corso delle non rare crisi interne al partito, queste doti gli valsero la nomina a segretario del PNF nel 1931, carica che mantenne fino al 1939. In tale posizione scatenò il suo “genio creativo”, dando vita a quello che Spinosa definisce lo stile fascista. Inventò il “saluto al duce”, grido che introduceva ogni apparizione pubblica di Mussolini, organizzò nei dettagli il sabato fascista, estese un controllo capillare sulla gioventù, stabilì le modalità del saluto romano vietando la stretta di mano, impose l’uso del “voi”, definì nei minimi dettagli l’abbigliamento fascista, ecc. Per circa dieci anni i gerarchi a lui ostili cercarono di scalzarlo dalla segreteria del partito sfruttando i ripetuti scandali che lo videro coinvolto, soprattutto a causa delle sue relazioni con donne, attricette e soubrette, che protesse e frequentò, mentre la moglie Ines rimaneva segregata a Sannicola. Tuttavia Starace non cadde, nonostante i tanti grattacapi e seccature creati a Mussolini e al partito.

Non cadde perché, per quanto buffonesche potessero essere le sue trovate, per quanto risultassero ridicole certe manifestazioni imposte agli stessi gerarchi, come il salto nel cerchio di fuoco o sopra una siepe di baionette, dietro questo “stile fascista” in realtà c’era lo stesso Mussolini. Starace era il perfetto esecutore delle volontà di Palazzo Venezia e per questo fu a lungo amato dal capo che non lo stimava, ma lo riteneva “un cretino ubbidiente”. Il gerarca di Gallipoli fu dunque il megafono di Mussolini e, nel caso di critiche, il suo parafulmine.

Nel paese fu uno dei gerarchi più odiati e derisi perché, come ben intuì Galeazzo Ciano, gli italiani “mentre sono disposti a perdonare persino chi ha loro fatto del male, non perdonano chi li ha scocciati”. Partecipò alla guerra d’Etiopia, riuscì a far attribuire al duce ed al re il titolo di Primo Maresciallo, che di fatto li equiparava. Sotto la sua ala nacquero le leggi razziali (e del resto non perse mai occasione per palesare il suo arrogante antisemitismo, come quando commentò il suicidio dell’editore Formiggini dicendo “E’ morto proprio come un ebreo: si è buttato da una torre per risparmiare un colpo di pistola” (A. SPINOSA, cit., p. 201))

Qualcosa però, alla fine degli anni ’30, si incrinò. Donna Rachele non lo sopportava, molti gerarchi continuavano a manovrare contro di lui e, nell’ottobre 1939, lo stesso Mussolini lo escluse dalla segreteria del PNF, indirizzandolo nuovamente al comando della Milizia. Durante la guerra i rapporti tra i due peggiorarono. Fu vittima di nuovi complotti, mentre si cercò di demolirne anche la famiglia: i fratelli rimasti nel Salento furono accusati di affarismo, come del resto il figlio Luigi, avvocato a Milano.

Dal maggio 1941, escluso da qualsiasi carica, iniziò il periodo più nero della sua vita. Disoccupato, visse con i pochi risparmi e con i prodotti della campagna salentina che la figlia Fanny gli inviava periodicamente. Fino alla fine non rinunciò però a correre, a cavalcare e a dedicarsi a svariate pratiche sportive. Continuò a scrivere al duce che ancora venerava, ma Mussolini non gli rispose mai e anzi lo fece arrestare, prima nel carcere di Verona (novembre 1943 – aprile 1944) e poi addirittura nel campo di concentramento di Lumezzane. Uscitone, visse gli ultimi mesi di guerra a Milano, povero ed errabondo. Il 28 aprile 1945 venne catturato dai partigiani, durante la solita corsetta quotidiana. Processato presso il Politecnico, fu fucilato in piazzale Loreto, dove morì inneggiando al duce.

Fedele fino alla fine, come un mastino, non gli erano bastati i calci ricevuti (la defenestrazione, gli arresti, le inchieste, le umiliazioni) per potere odiare il proprio padrone. Moriva in quel modo uno tra i gerarchi più detestati dell’intero regime. Lo avevano disprezzato gli italiani, gli antifascisti e gli stessi fascisti. Neanche Lecce lo aveva mai amato. La famiglia, a parte la figlia Fanny, lo aveva abbandonato.

Il figlio Luigi tornò a vivere nel paese natio, mentre i nipoti Achille e Luisa rinnegarono persino il cognome Starace. Un’ultima nota di colore, in questo scarno profilo, la si può associare a suo nipote, il celebre omosessuale Giò Stajano, il quale in un’intervista rilasciata in età avanzata al giornalista Francesco Caridi, alla domanda “Chissà che direbbe tuo nonno Achille Starace se ti vedesse, lui che voleva tutti gli italiani maschi e forti…” senza scomporsi rispose: “Direbbe che dopo tanta virilità in famiglia, un po’ di relax ci vuole”.

Da Profico a Caputo: l’avvento del fascismo nel Salento

 

di Alessio Palumbo

 

Nel giungo di novanta anni fa, esattamente il 15 di giugno, Cosimo Profico, un contadino, ex combattente, vicino alle posizioni del neonato partito popolare e attivo fautore delle leghe contadine organizzate da don Vito Marinuzzi e mons. Vito De Razza, incontra in piazza Colonna, ad Ugento, Luigi Ancora.

Ancora è un procaccia postale, un fascista facinoroso, distintosi per gli attacchi ai popolari e per alcune scritte minacciose ed offensive sull’abitazione del De Razza. In piazza Colonna gli animi si surriscaldano facilmente: tra i due scoppia una lite ed il procaccia estrae la pistola. Profico tenta allora di darsi alla fuga, ma quattro colpi di pistola lo raggiungono alla nuca, uccidendolo. Ancora fu arrestato ma, a distanza di due anni quasi esatti (24 giugno) “beneficiando di un decreto di amnistia emanato dal governo Mussolini nel dicembre del 1922, era stato assolto dalla Corte d’Assise di Lecce in quanto l’omicidio di Cosimo Profico (iscritto al Partito Popolare) era stato qualificato come omicidio politico” (S.Coppola, Politica e violenza nel Capo di Leuca all’avvento del fascismo, Lecce, Grafiche Giorgiani, 1999, pp.10-11).

L’omicidio Profico non era certo il primo in ordine di tempo. Il quattro novembre dell’anno precedente degli squadristi di Galatone avevano ucciso Giuseppe Manta, contadino di Sogliano. Tre mesi dopo fu la volta di Salvatore Giuppa

La Fondazione Terra d'Otranto, senza fini di lucro, si è costituita il 4 aprile 2011, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia - con relativa iscrizione al Registro delle Persone Giuridiche, al n° 330 - in data 15 marzo 2012 ai sensi dell'art. 4 del DPR 10 febbraio 2000, n° 361.

C.F. 91024610759
Conto corrente postale 1003008339
IBAN: IT30G0760116000001003008339

Webdesigner: Andrea Greco

www.fondazioneterradotranto.it è un sito web con aggiornamenti periodici, non a scopo di lucro, non rientrante nella categoria di Prodotto Editoriale secondo la Legge n.62 del 7 marzo 2001. Tutti i contenuti appartengono ai relativi proprietari. Qualora voleste richiedere la rimozione di un contenuto a voi appartenente siete pregati di contattarci: fondazionetdo@gmail.com.

Dati personali raccolti per le seguenti finalità ed utilizzando i seguenti servizi:
Gestione contatti e invio di messaggi
MailChimp
Dati Personali: cognome, email e nome
Interazione con social network e piattaforme esterne
Pulsante Mi Piace e widget sociali di Facebook
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Servizi di piattaforma e hosting
WordPress.com
Dati Personali: varie tipologie di Dati secondo quanto specificato dalla privacy policy del servizio
Statistica
Wordpress Stat
Dati Personali: Cookie e Dati di utilizzo
Informazioni di contatto
Titolare del Trattamento dei Dati
Marcello Gaballo
Indirizzo email del Titolare: marcellogaballo@gmail.com

error: Contenuto protetto!