Libri| Arte barocca nella chiesa del Rosario di Copertino

 

ARTE BAROCCA NELLA CHIESA DEL ROSARIO DI COPERTINO

di Marcello Gaballo, Giovanni Greco e Alessandra Marulli, per la collana Analecta Nerito Gallipolitana,  Grenzi Editore, Foggia (pagine 115, copertina cartonata, riccamente illustrato a colori con foto di Lino Rosponi e rilievi di Fabrizio Suppressa)

 

Questa sera 12 dicembre 2022 alle ore 19, nella chiesa del Rosario di Copertino, Via Cosimo Mariano, si terrà la presentazione del volume che illustra la scultura barocca dei due maestosi altari realizzati tra metà 600 e inizi ‘700 da Ambrogio Martinelli e Giuseppe Longo. Nel volume, dopo le vicende storico-artistiche dell’edificio anticamente officiato dai padri Domenicani, si illustrano anche le coeve emergenze pittoriche, tra le quali l’imponente tela della Madonna del Rosario dipinta dal celebre pittore Gian Domenico Catalano.

particolare di uno degli altari esaminati nel volume (foto Lino Rosponi)

 

L’iniziativa editoriale, corredata di una mostra didattica curata da Alessandra Marulli, è stata promossa dal parroco don Antonio Pinto, che nella prefazione scrive come dal lavoro, ricco di rimandi archivistici e nuove fonti documentarie, siano “emerse inaspettate e inusuali immagini e simbologie recondite che incantano per la loro resa plastica e per la delicata e incisiva policromia… Solo ora si può finalmente godere del tripudio di angeli e angioletti festanti, nelle loro mutevoli pose, che si inerpicano in ogni dove delle due barocche macchine d’altare, a solennizzare incredibile sequenza di santi e sante che proiettano efficacemente l’uomo nello spazio divino”.

Santa Caterina da Siena, particolare della tela della Madonna del Rosario dipinta da Gian Domenico Catalano (foto Lino Rosponi)

 

L’odierna presentazione del volume, sarà preceduta dai saluti istituzionali del vescovo della diocesi di Nardò-Gallipoli, mons. Fernando Filograna, dal sindaco Sandrina Schito, dal presidente della provincia di Lecce Stefano Minerva e dall’assessore regionale all’Istruzione e alla Formazione Sebastiano Leo.

Particolare della tela di San Domenico, dipinta dal Carella, nell’altare di Ambrogio Martinelli (foto Lino Rosponi)

 

Gli interventi sono affidati a mons. Giuliano Santantonio, vicario generale e direttore dell’ufficio Beni culturali della Diocesi; Luigi De Luca, funzionario della Regione Puglia e direttore del polo Bibliomuseale di Lecce; Aldo Patruno direttore generale del Dipartimento Turismo, economia della cultura  e valorizzazione del territorio. Modera il parroco don Antonio Pinto, mentre gli intermezzi musicali sono a cura del M° Maurizio Coppini.

Libri| In Terra d’Otranto tra ‘800 e ‘900

Davide Elia, In Terra d’Otranto tra ‘800 e ‘900. Vicende, personaggi, strade e luoghi da non dimenticare, Roma, 2022, ISBN 979-12-210-0186-0.

 

di Fabrizio Suppressa

Fresco di stampa è il libro di Davide Elia, ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF) di Roma ed appassionato storico salentino, con cui l’autore presenta al pubblico le sue ricerche condotte, oltre che minuziosamente presso i vari archivi storici locali, anche direttamente sul “campo” in sella alla sua fedele bicicletta.

Il libro è composto da quattro episodi sconosciuti di microstoria salentina, avvenuti tra Otto e Novecento, accomunati da una metodologia di ricerca scientifica ed una esposizione, che seppur tecnica, è ampiamente comprensibile a tutti i lettori, grazie anche alle esaustive note a piè di pagina.

Nel primo capitolo l’autore illustra le sue tesi atte a smentire due curiosi falsi storici riportati in molti libri di storia locale e poi rimbalzati sul web: una battaglia risorgimentale combattuta tra Copertino e Nardò e il passaggio in incognito di Giuseppe Garibaldi che avrebbe contribuito ad assegnare il nome ad una remota contrada tra Copertino e Lequile.

Nel secondo capitolo il ricercatore ripercorre il “giallo” del “delitto Corina”, avvenuto a Martano nel 1815, che portò alla sommaria fucilazione di undici persone su ordine del generale inglese Richard Church, già inviato dalla corte di Napoli con il compito di debellare il diffuso fenomeno del brigantaggio in Terra d’Otranto. L’autore ha qui il merito di aver rettificato nomi e circostanze, riportati erroneamente dallo storico Pietro Palumbo nel 1911 nel celebre e corposo libro “Risorgimento Salentino”, poi riedito acriticamente nel 1968.

Prosegue il testo con l’approfondimento di uno sconosciuto “monumento trigonometrico”, ben conservato tra le campagne di Copertino e Galatina e che costituiva uno dei due estremi della cosiddetta “Base di Lecce”, una linea immaginaria ad altissima precisione, propedeutica alla redazione della Carta Topografica del Regno d’Italia pubblicata a partire del 1875.

Infine, nell’ultimo capitolo l’autore, per dovere civico e come promessa a un caro amico, riporta alla luce l’episodio dimenticato della strage ferroviaria del 1944 avvenuta nella sua Copertino, dove il deragliamento del treno proveniente da Nardò causò la morte di otto persone. Un terribile frammento di storia cittadina, purtroppo già rimosso dalla memoria collettiva, avvenuto mentre il resto della Penisola è allo sbando per la guerra civile. Il triste epilogo di questa vicenda, complice il periodo di estrema povertà causato dalla Seconda Guerra Mondiale, è sicuramente il seppellimento completamente nudo di uno dei deceduti, in quanto gli abiti, di buona fattura, furono sottratti furtivamente alla salma. Un episodio, forse già “neorealista”, ma che può essere da stimolo o l’occasione per le Autorità Cittadine per il collocamento di una lapide commemorativa nella locale stazione ferroviaria a memoria delle otto innocenti vittime.

Un libro che pertanto raccoglie un lungo lavoro di ricerca, che pur riassumendo “il frutto di quattro o cinque” curiosità dell’Autore, non rimane confinato nel cassetto, ma è offerto da Davide a tutti gli appassionati di storia del Salento.

 

Il libro è acquistabile contattando l’autore o presso la libreria Trono di Copertino.

La chiesa di S. Michele Arcangelo a Neviano

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa[1]

L’attuale chiesa matrice intitolata a San Michele Arcangelo fu edificata ab imis fundamentis tra gli anni 1859-1875 in sostituzione dell’antico sacello cinquecentesco costruito, secondo alcune fonti, per volontà del barone Gio. Lorenzo Brayda con il concorso di tutta la popolazione[2].

La volontà della comunità di ingrandire la parrocchiale si attesta già nel 1730, laddove in un documento di “introiti ed esiti” redatto dalla locale Universitas è annotata la voce di 140 ducati riscossi “da sindaci passati pertinenti i medesimi per rifare e ingrandire la Chiesa Madre”[3]. Comunità che, stante il desiderio d’ampliamento, non rinunciava tuttavia ad ornare il tempio, dacché nello stesso documento è registrata la spesa di 50 ducati “per la statua di S. Michele Arcangelo Protettore, fatta venire da Napoli” e 12 ducati per “due fonti di marmo”, provenienti sempre dalla capitale partenopea[4], i quali par di riconoscere in quelli ancora esistenti nell’ingresso laterale dell’attuale parrocchiale.

In ogni caso, le esigue risorse della collettività furono da sempre un problema rilevante per i fedeli, dato che qualche anno prima, durante la visita pastorale di mons. Sanfelice del 1719, il sindaco in carica dovette scusarsi col presule per l’irrisoria offerta di “sei scudi” a motivo della “povertà delle casse comunali”[5].

Simile ristrettezza si riscontrava anche nelle casse della parrocchiale e del locale Capitolo, dato che nel Catasto Onciario del 1743 sono annotati per entrambi i soggetti giuridici la dicitura che le “uscite superano le entrate”.

Le esosità baronali furono per la popolazione un pesante fardello per lo sviluppo del casale, ma con l’abolizione della feudalità decretata tra il 1806 e il 1808 da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, tutte le giurisdizioni baronali e le relative proventi passarono alla sovranità nazionale. Fu istituita una magistratura particolare, la Commissione Feudale, per dirimere il contezioso tra i baroni e le università (comuni). Infatti, nel corso dei secoli i baroni del Regno di Napoli si erano attribuiti illecitamente il diritto di esigere la decima, oltre che sui prodotti agricoli, anche su attività o consuetudini produttive.

Finalmente con la sentenza del 3 ottobre 1809[6] l’ex barone di Neviano, il principe Cicinelli, fu obbligato tra i vari patti stabiliti dal tribunale ad astenersi nella decima della calce, nel richiedere “6 ducati e 20 grana” a titolo dell’emungimento dell’acqua nei pozzi, a pretendere la prestazione a titolo di erbatica (tassa per gli animali da pascolo). Tuttavia venne assolto dalla restituzione dell’indebito riscosso fino ad allora, e fu stabilita la divisione dei demani tra il principe e il comune, il quale finalmente poté lottizzare i terreni per esser concessi agli abitanti poveri che ne facevano richiesta.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, vista laterale (ph. F. Suppressa)

 

Ed infatti nell’Ottocento, con le rinnovate condizioni giuridiche ed economiche, si assistette ad un rapido aumento della popolazione dai 700 di inizio XIX secolo ai circa 1800 abitanti registrati all’Unità d’Italia. Significativo a riguardo, un decreto, il n. 5346, emanato il 25 maggio 1839 da Ferdinando II, in cui il sovrano napoletano “nella mira di far divenire l’abitato del comune di Neviano in Terra d’Otranto atto a contenere l’aumentata popolazione del medesimo” autorizza il comune medesimo a cedere a “Donato Cuppone, Pasquale di Oronzo, Angelo Candido, Domenico Blasio e Francesco Colace” i tratti di suolo pubblico da ciascheduno occupati dietro pagamento di un annuo canone[7]. Il decreto inoltre prescriveva che “le nuove case a costruirsi sieno regolarmente piantate, ed abbiano al possibile una certa uniformità e ricorrenza di linee all’esteriore, e non meschini abituri”[8].

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto, a sinistra lo stemma del vescovo Vetta, a destra quello della comunità di Neviano (ph. F. Suppressa)

 

Pertanto, con queste rinnovate condizioni economiche Neviano necessitava di un tempio più ampio e capace di accogliere tutti i suoi fedeli, e non a caso nel 1847, l’arciprete Giuseppe De Franchis, relazionava alla diocesi di Nardò che la navata è “incapace a contenere non più che il quarto della popolazione”, lamentando contemporaneamente “dell’umido” presente nel vecchio tempio, pur tuttavia concludendo che la sua manutenzione “è piuttosto lodevole”[9].

Il documento fondamentale per ripercorrere l’iter edificatorio della nuova parrocchiale è la relazione dal titolo “Notizie storiche intorno alla riedificazione dell’attuale chiesa parrocchiale di Neviano”, redatta dal parroco mons. Roberto Napoli in occasione della santa visita del 1878 fatta da mons. Michele Mautone, vescovo di Nardò.

Da questa importante dichiarazione si rileva come il promotore dell’intervento fu mons. Luigi Vetta, vescovo della Diocesi di Nardò tra il 1849-1873[10], come tra l’altro ricorda l’iscrizione dedicatoria e lo stemma in facciata. Il Vetta è una figura particolare per il travagliato periodo che precede l’Unità d’Italia, infatti, di dichiarata fede borbonica fu costretto anche all’esilio dalla diocesi neretina per cinque anni all’indomani dell’unificazione della penisola. Vescovo che tuttavia si contraddistinse sul territorio per il mecenatismo ecclesiastico, commissionando opere quali il rifacimento del seminario diocesano e della chiesa matrice di Noha (all’epoca ricadente nella Diocesi di Nardò), anch’essa dedicata a S. Michele Arcangelo.

Nel 1859, essendo parroco don Salvatore Chirivì, si dette inizio ai lavori grazie ad una sovvenzione dell’Amministrazione Diocesana di 400 ducati. Altrettanto interessante è la figura dell’arciprete, sicuramente degli stessi ideali politici del vescovo Vetta, come si può dedurre da un’informativa della Prefettura di Lecce, nella quale è definito “uno schifoso borbonico clericale”, aggiungendo che “non compie operazione che non sia reazionaria. Si è sempre rifiutato a solennizzare le feste nazionali”[11].

Infatti fu inquisito per “complicità nel brigantaggio” avendo fornito denaro tra il 1864-1865 alla banda del brigante Francesco il Funerario[12], lo stesso che assieme a Pasquale Aspina (D’Ospina) e altri, fu colpevole di “eccitare il malcontento contro l’attuale Governo” in Seclì tra il 1861-1862[13].

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, interno negli anni Cinquanta del Novecento (archivio parrocchiale di Neviano

 

Nell’edificazione della chiesa concorse tutta la comunità mediante l’ausilio nel trasporto di acqua e pietre da costruzione, finanche la legna per la realizzazione di “grandi forni calcinatori”, mentre il suolo per l’ampliamento fu donato dalla famiglia Dell’Abate, facoltosi latifondisti della vicina Nardò. Progettista iniziale dell’intervento fu l’ing. Gregorio Nardò da Nardò[14], probabile figura di fiducia del Vetta in quanto artefice dei lavori commissionati dal vescovo sempre per il seminario e nella ricostruzione della parrocchiale di Noha.

Nel 1873, con la morte di mons. Vetta si arrestarono i lavori, giunti ormai a quasi due terzi dell’opera. Dalla relazione risultano essere state realizzate la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la crociera e parte della navata fino alla metà delle seconde cappelle. Di questo arresto dei lavori è ancora ben visibile sui prospetti laterali i segni dell’addentellamento della muratura. Tuttavia, con alcune somme lasciate a disposizione dal presule proprio per il completamento dell’opera, poterono proseguire i lavori.

Fu formata una nuova commissione, che includeva ora anche l’autorità municipale, che diede incarico all’ingegnere Quintino Tarantino da Nardò[15] per la redazione di un progetto di completamento e al contempo, con l’apposizione di una nuova tassa comunale, si raccolsero altri fondi per il prosieguo dei lavori.

Con la ripresa dei lavori si procedette alla demolizione dell’antica chiesa cinquecentesca, poiché sul suolo di questa andava costruita l’attuale navata. Intanto nel settembre 1877 si dette inizio alla realizzazione di “tutti i lavori in legno” mediante appalto dei lavori al fabbro-legnaio Salvatore Leucci da Scorrano, su “progetto d’arte” fatto dal perito Michele Rizzo da Alliste. Di tale intervento permane esclusivamente la robusta porta principale della chiesa e il telaio superstite di una vetrata semicircolare della seconda cappella sinistra, visibile solo dall’esterno poiché murata nel 1957. Finalmente il 4 aprile 1878 il nuovo vescovo di Nardò, mons. Michele Mautone, consacrò il novello tempio con rito solenne, come attesta l’epigrafe in facciata, mentre nel 1880 sono commissionate da famiglie locali l’erezione degli altari laterali, come attestano le epigrafi ivi collocate.

Nella seconda metà del Novecento una serie d’interventi ha contribuito a stravolgere lo stile dell’ottocentesca parrocchiale, non tanto in funzione dell’adattamento alle nuove norme del Concilio Vaticano II, quanto ad una costante ricerca di modernità e di materiali in voga. Infatti, come attesta una lapide nei pressi dell’uscita secondaria, i lavori si svolsero nel 1957, essendo arciprete don Salvatore Antonazzo e vescovo mons. Ursi.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto su via Pozzi Vecchi nel 1966 (fototeca Briamo, Brindisi)

 

In quest’occasione furono occluse le sei finestre semicircolari delle cappelle laterali, mentre quelle della stessa forma ma di dimensione maggiore della navata vennero modificate fino a diventare rettangolari e leggermente centinate. Similmente furono tamponate una finestra della cupola, una del timpano e due dell’abside. Il risultato fu un tempio snaturato della sua originale impostazione, con una netta diminuzione della luce interna che ne ha reso l’ambiente più scuro e poco contemplativo.

Il pavimento originale, di cui si ignora la consistenza, venne sostituito con una pavimentazione in marmettoni di scaglie di marmo, mentre per le cappelle laterali furono utilizzate comuni mattonelle in cemento. Largo uso di travertino fu adoperato per zoccolature, gradini e rivestimenti, mentre con pittura acrilica fu coperta l’ottocentesca decorazione in finto marmo che decorava le pareti interne della chiesa e delle cappelle, così come testimoniato da foto d’epoca e dai saggi in parte già eseguiti negli anni passati.

Nel 1972, in ossequio alle nuove disposizioni del Concilio Vaticano II, fu modificato il presbiterio mediante la demolizione dell’altare maggiore in pietra leccese, i cui frammenti furono in parte impiegati come decorazione nella recinzione dell’attiguo giardinetto a valle della navata. La cantoria, il coro, l’organo, il pulpito e alcuni arredi sacri, ritenuti antiquati, furono eliminati per dare posto ad un moderno organo elettrico. Tutta l’area presbiteriale e il coro fu rivestita con travertino e ceramica smaltata.

 

La primitiva chiesa cinquecentesca

Sono poche e frammentarie le notizie sull’antica chiesa cinquecentesca di Neviano, cancellata totalmente dall’edificazione dell’attuale parrocchiale. Nella visita pastorale di mons. Bovio del 1580 è descritta come “extra casale” mentre in quella del 1618 di mons. De Franchis è definita “in medio casalis” e “rimpetto la piazza”, accumunate entrambe dalla presenza dell’altare dedicato a S. Michele Arcangelo. Questa distinzione di localizzazione nelle visite pastorali, prima “fuori” dall’abitato e poi “nel mezzo”, ha portato Giovanni Cartanì ad ipotizzare che la primitiva parrocchiale fosse in realtà la cappella della Madonna della Neve esterna all’abitato di Neviano.

Neviano, castello nel 1966 (fototeca Briamo, Brindisi)

 

Personale ipotesi è che in realtà la parrocchiale non si è mai spostata, in quanto la distinzione tra “extra casale” e “in medio casalis”, è dovuta probabilmente alla crescita dell’abitato, la cui popolazione in quel periodo vede un repentino incremento dagli iniziali 11 “fuochi” del 1508 (circa 55 abitanti) ai 65 “fuochi” del 1595 (circa 325 abitanti)[16].

L’originale nucleo abitativo di Neviano doveva inizialmente addensarsi nei pressi del castello che degli Orsini del Balzo, poi con lo sviluppo della popolazione, l’abitato si espanse in maniera lineare verso sud-est lungo il costone roccioso, fino a circondare e superare la chiesa matrice.

Atlante Sallentino del Pacelli con Neviano e la diocesi di Nardò sul finire del Settecento

 

Uno spaccato di vita della parrocchiale si rileva nel testamento redatto il 17 gennaio 1626 dal notaio Sabatino Duca di Neviano[17], quando Isabella Tedesco di Galatone, moglie di Marcello Sinidoro di Neviano, lascia tutti i suoi beni, dopo la morte del marito usufruttario, alla chiesa parrocchiale di Neviano con l’obbligo di fondare una cappella in cui collocare un quadro con l’immagine della S.ma Annunziata. Morto il Sinidoro, il clero locale, composto dall’arciprete don Giov. Angelo Zizzari, don Angelo Bisci, il diacono Camillo Giordano, con il sindaco Giacomo Musticchi, previo assenso del vicario Granafei (atto del 4.12.1650 di notaio de Magistris), vendono un terreno della fu Isabella per 9 ducati ed 1 tarì, i quali vengono consegnati al pittore Giovanni de Tuglie di Galatone in acconto al quadro commissionato da Isabella “con le immagini della Madonna S.ma Annunziata, e Dio padre e degli angeli nella parte superiore”.

Ad un anno dalla morte, il clero di Neviano, in quanto legatario di Isabella, vende un altro immobile per il prezzo di 30 ducati, che verranno consegnati al pittore de Tuglie al fine di completare il dipinto.

Altre scarne notizie sulla parrocchiale possono essere rilevate dalle visite pastorali dei presuli di Nardò. In quella di mons. Sanfelice del 1719 la chiesa è descritta con battistero, sacrestia, torre campanaria, porta maggiore, e infine un altare dedicato S. Oronzo. Quest’ultimo era a carico dell’amministrazione comunale, come si rileva nella visita pastorale di mons. Lettieri.

Dai documenti consultati è pertanto facilmente individuabile l’area di sedime dell’antica parrocchiale, collocata tra il sagrato e la fine delle seconde cappelle laterali, con un orientamento liturgico pressoché coincidente con quello dell’attuale navata. E’ possibile dedurre quanto appena affermato dal fatto che:

  • Nel 1873 alla morte del vescovo Vetta era stata realizzata “la sacrestia, il cappellone del SS. Sacramento, la Crociera (leggi transetto), e parte della navata fino a metà delle seconde cappelle”.
  • Di questa interruzione è ancora visibile il segno degli addentellamenti della muratura sulle facciate laterali.
  • Per tutto il 1874 la chiesa cinquecentesca è ancora in piedi e in funzione, dato che il 13 dicembre 1874 il clero e i fedeli in solenne processione si recarono dalla matrice alla chiesa di S. Giuseppe al fine di traslocare i Sacramenti, il fonte battesimale e quant’altro necessario. A partire da questa data fino al 1878 la chiesa di S. Giuseppe è eletta temporaneamente a chiesa parrocchiale.
  • Nel 1874 secondo la relazione della visita pastorale del 1878 “si cominciò a demolire la vecchia chiesa” sul cui sedime doveva “piantarsi il resto della navata”.
Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, pianta, in rosso è evidenziata la sede della chiesa cinquecentesca (elab. arch. F. Suppressa)

 

Quindi è possibile escludere con certezza documentata che il sito dell’attuale transetto coincidesse con l’antica chiesa, come ipotizzato da molti. E’ inoltre da escludere la presenza di sepolture sotto il pavimento della chiesa, in quanto, alla data di ultimazione della chiesa era già entrato in vigore l’editto di Saint Cloud (1804) che vietava la sepoltura all’interno dei centri abitati (confermato poi nel 1865 dalla Prefettura), nonché per quanto è rilevabile dal registro parrocchiale dei defunti che a partire dal 1838 e fino al 1889 (anno di realizzazione del cimitero attuale) descrive il luogo di sepoltura come la chiesa fuori dall’abitato di S. Maria ad Nives.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, facciata laterale, particolare dell’innesto della navata, a sinistra la parte edificata fino al 1873, a destra quella tra il 1875 e il 1878 sulla sede dell’antica chiesa cinquecentesca (elab. arch. F. Suppressa)

 

 

Un enigmatico S. Cristoforo sulla facciata laterale

Sulla parete destra della chiesa, adiacente la porta laterale, è presente un grande dipinto murale a secco oramai quasi impercepibile, realizzato nella seconda metà dell’Ottocento, dove è rappresentato San Cristoforo con la classica iconografia desunta dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, ovvero con Gesù Bambino sulle spalle che regge il globo crucifero, bastone e piedi immersi nell’acqua nell’atto di guadare un fiume. Forse a causa delle degradazione della pittura, il soggetto fu replicato in ceramica smaltata al di sopra della porta laterale “per devozione di Mastore” negli anni Settanta del Novecento.

Neviano, chiesa S. Michele Arcangelo, prospetto laterale, rappresentazioni di San Cristoforo (ph F. Suppressa)

 

Questo Santo, uno dei quattordici ausiliatori (ovvero “che recano aiuto”), era invocato in passato come protettore dalla “morte improvvisa”, ed infatti vi era la credenza che chi avesse visto la sua immagine quel giorno non sarebbe morto. Per tale motivo, nel medioevo, era rappresentato all’esterno delle chiese e delle porte cittadine in proporzioni colossali, una tradizione molto viva un tempo specie nei paesi del Nord Europa.

Inoltre San Cristoforo era invocato anche dai pellegrini, viandanti e viaggiatori e questa rappresentazione potrebbe essere il segno che Neviano costituisse in passato una località di passaggio per pellegrini, forse diretti al santuario della Madonna di Leuca, luogo di culto che un tempo richiamava fedeli da tutta l’Europa. Un’ipotesi suffragata anche dal fatto che in un documento di “introiti ed esiti” redatto dall’Università di Neviano nel 1730 è riportata la somma di 62.56 ducati per varie “spese straordinarie” tra cui quelle per “elemosine a pellegrini”[18]. Un fenomeno che si riscontra per tutta l’antica Terra d’Otranto, come a Maruggio, Ginosa, Manduria, Montesardo, Parabita, dove erano presenti istituzioni caritatevoli o ospedali al servizio dei pellegrini.

Maruggio, dipinto di S. Cristoforo (da wikipedia)

 

Note

[1] La presente relazione storico-architettonica è tratta dal progetto di restauro approvato dalla Soprintendenza B.A.P. di Lecce il 06/04/2020.

[2] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 53.

[3] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 265.

[4] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 266.

[5] ASDN Visita pastorale di mons. Sanfelice 1719, A/22, f. 108; G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, cit., p. 98.

[6] S.A., Commissione Feudale di Napoli, Bullettino delle sentenze emanate dalla Suprema commissione per le liti fra i già baroni ed i comuni, n. 10, anno 1809, Tipografia Angelo Trani, Napoli 1809, p. 29-37.

[7] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.

[8] Regno di Napoli, Collezione delle leggi e de’ decreti reali del Regno delle Due Sicilie, Anno 1839, Semestre I, Stamperia Reale, Napoli 1839, p. 186-187.

[9] ASDN Corrispondenza tra Neviano e la curia vescovile di Nardò, anno 1847.

[10] Nacque ad Acquaviva Collecroce (CB) nel 1805. Trentaduesimo vescovo di Nardò, nominato dal pontefice Pio IX, in carica dal 20 aprile 1849. Morì a Nardò il 10 febbraio 1873, sepolto nella chiesa di S. Maria Incoronata.

[11] Documento riportato in una ricerca dei ragazzi dal titolo “Sulle nostre strade” della 1° classe della Scuola Media dell’Istituto Comprensivo di Neviano, A.S. 2005/2006.

[12] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1278.

[13] Archivio Centrale dello Stato, Guida alle fonti per la storia del brigantaggio postunitario conservate negli Archivi di Stato, Volume 2, p. 1275.

[14] Gregorio Nardò da Nardò è in realtà un perito agronomo, così come definito nell’Annuario d’Italia (S.A., Annuario d’Italia, Calendario Generale del Regno, 1896, Anno XI, p. 2135). Questi è soprattutto attivo come agrimensore, specie in contenziosi amministrativi sul territorio del comune nativo, come cui vengono commissionati nel 1851 elaborati planimetrici quali la “N. 3. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta La Pila Nuova” “N. 1. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Impestati” , “N. 2. Topografia dell’usurpazione lungo la strada pubblica detta Tarantina in Monte Cafuori”, (ASLe, Consiglio di Intendenza di Terra d’Otranto, Processi del contenzioso amministrativo, busta 37, fasc. 62.8). Mentre nel 1865 produce “Pianta topografica del fondo via di Neviano o Guardia in agro di Aradeo” (ASLe, Tribunale Civile di Terra d’Otranto, Perizie, busta 93, fasc. 587) per un contenzioso di confinazione.

[15][15] Quintino Tarantino è stato un ingegnere e urbanista nato a Nardò nel 1842, formatosi dapprima come matematico presso l’Università di Napoli (1866). Dal 1877 fu incaricato dall’amministrazione comunale del paese natìo per vari interventi urbanistici di espansioni al di fuori del fossato, ormai colmato e trasformata in asse stradale. L’opera per cui è maggiormente riconosciuto è il teatro comunale di Nardò nell’attuale corso Vittorio Emanuele, il cui progetto fu preferito rispetto a quello dell’ingegnere Gregorio Nardò (che lo aveva previsto nell’attuale piazza Salandra), morì a Nardò nel 1919 (D. G. De Pascalis, L’arte di fabbricare e i fabbricatori, Besa, Nardò 2001, pp. 100-101. Nell’ambito del restauro si segnala il progetto del 1867 dell’intera demolizione della cattedrale di Nardò (B. Vetere, Città e monastero: i segni urbani di Nardò (secc. XI-XV), Congedo, Galatina 1986, p. 198), cui seguì la “Risposta al voto emesso dal Consiglio superiore dei LL. PP. sul progetto della nuova Cattedrale di Nardò” edita a Lecce nel 1890 per i tipi “Tip. G. Campanella e figlio”, e i lavori di consolidamento della chiesa dei SS. Medici, fuori il centro urbano di Nardò (F. Suppressa, Un continuo cantiere. Sette secoli di vicende della chiesa di Santa Maria del Ponte in Nardò, in La chiesa dei Santi Cosma e Damiano a Nardò già di Santa Maria del Ponte, a cura di M. Gaballo, Congedo, Galatina 2018, p. 55-74).

[16] Si confronti i dati in: M. A. Visceglia, Territorio feudo e potere locale, Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Napoli, 1988. L’andamento cambia radicalmente nel corso della prima metà del Seicento, dove una crisi generale porta ad una diminuzione del 40% della popolazione, dato che nel 1627 i fuochi passano a 25 (125 abitanti), Neviano quindi subisce il più forte decremento tra i centri di Terra d’Otranto (A. Bulgarelli Lukacs, La popolazione del Regno di Napoli nel primo Seicento (1595-1648), in “Popolazione e Storia” n. 1/2009, p. 105). D’altronde la produzione media di cereali passa dai 600 tomoli degli anni 1585-88 ai 328 tomoli nel biennio 1623-24 (M.A. Visceglia, Rendita feudale e agricoltura in Puglia nella età moderna (XVI-XVIII secolo), in “Società e storia”, n. 9, 1980, p. 547). Nei Relevi presentati alla camera della Sommaria tra la fine del Cinquecento e gli anni ’40 del Seicento Neviano fornisce un reddito di 1571 ducati nel 1616 quasi quanto Parabita o Trepuzzi (M. A. Visceglia, L’azienda signorile in Terra d’Otranto, in “Quaderni storici” vol. 15, n. 43 (1), 1980, pp. 39–60).

[17] G. Cosi, Il notaio e la pandetta, Congedo, Galatina 1992, p. 129.

[18] G. Cartanì, Neviano tra storia e leggenda, Nuova Prhomos, Città di Castello 2015, p. 266.

Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni

Mario Colomba

di Fabrizio Suppressa

 

Mario Colomba, Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900. Nardò, Tipografia Carrino, 2017, pp. 136, ISBN 9791220021937.

C’è stato un tempo in cui le maestranze salentine per la loro riconosciuta ars aedificatoria erano chiamate a prestare la loro abilità oltre i propri confini provinciali. Si veda l’esemplare caso degli Spalletta di Nardò, costruttori di un gran numero di torri costiere del litorale salentino, che alla fine del Cinquecento sono chiamati ad operare a Barletta nel bellissimo Palazzo della Marra (oggi Pinacoteca De Nittis). Oppure si pensi alle maestranze leccesi, che nello stesso periodo si aggiudicano la costruzione delle torri costiere sul litorale di Terra di Bari, dall’Ofanto a Fasano.

La storia dell’architettura (minore) è testimone di una moltitudine misconosciuta di maestranze salentine attive anche a Napoli, Roma, Reggio Calabria, Crotone, la cui sapiente arte del costruire, trasmessa e rimasta pressoché inalterata fino agli anni Cinquanta del Novecento, è ad oggi in gran parte scomparsa.

C’è invece un presente, basato sulla perenne crisi dell’edilizia salentina, con diverse imprese che operano sul territorio con scarsa o mediocre qualità tecnica e professionale, oppure società costrette a lavorare in subappalto al massimo ribasso in giro per l’Italia o per l’Europa, con grande sacrificio dei dipendenti e conseguente riduzione della qualità del lavoro prestato.

Perché questa abissale differenza tra ieri e oggi? Perché un tempo l’arte del costruire era, almeno per la nostra provincia, un’attività seria e meritevole di rispetto per la tradizione e trasmissione della provata esperienza. Le maestranze, anche se spesso illetterate, avevano una grande padronanza dei materiali, delle tecniche, della statica, della durata del costruito nel tempo. Un corpus di nozioni immateriali che venivano trasmesse durante la lunga attività lavorativa, spesso da padre in figlio o comunque all’interno di una cerchia ristretta di fidati collaboratori.

In secondo luogo, al contrario di oggi, si costruiva poco, bene e per l’eternità, rispettando al contempo i luoghi e i cicli naturali, come appunto testimonia il detto locale, chi fabbrica in inverno, fabbrica per l’eterno.

Il lavoro editoriale dell’ingegnere Mario Colomba, dal lungo ma necessario titolo “Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardó e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani intorno alla metà del ‘900” prova a fare luce su questo vasto argomento, che purtroppo finora non ha destato il meritato interesse da parte del mondo accademico, e soprattutto di quello locale, che pare essersi disinteressato, per svariati motivi, di quell’arte che ha accompagnato ogni costruttore per secoli.

L’autore, testimone in prima persona di questa antica arte del costruire, ne descrive ogni aspetto con estrema chiarezza e dovizia di particolari, offrendoci non solo interessanti aspetti tecnici e pratici, ma anche e soprattutto un particolare contesto fatto di persone, prima che di pietre, che pur se apparentemente secondarie nella “squadra” e soggette ad un ordine gerarchico o piramidale, in realtà restano fondamentali per la specificità delle funzioni ricoperte e per i quali “l’unico aiuto tecnologico era rappresentato dall’uso delle sole macchine semplici conosciute da tempi immemorabili: la leva, la carrucola, il verricello ed il piano inclinato”. Motore di tutto era il “maestro”, lu messciu, che per indole e capacità trasmetteva i “segreti del mestiere, a quei soggetti (discepoli) che riteneva più dotati non solo di talento naturale ma anche di interesse e curiosità, inclini e capaci di recepire e ritrasmettere successivamente quanto veniva loro rivelato”.

Consiglio vivamente questo libro, non solo, come ovvio, a tutti i colleghi professionisti attivi nell’edilizia o nel settore del recupero o restauro, ma soprattutto a chi si occupa, tra le varie difficoltà, di dare un futuro solido al nostro territorio, affinché da questo glorioso passato possa attingerne utili indirizzi di sviluppo dell’edilizia.

 

Chi è interessato a ricevere copia del volume può rivolgersi direttamente all’Autore, tramite posta elettronica: studiomariocolomba@gmail.com

De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

De domo David

Il 9 novembre 2019, nella chiesa di San Giuseppe a Nardò, è stato presentato il volume De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019), Edizioni  Fondazione Terra d’Otranto 2019, 640 pagine, colore, formato A/4, circa 800 illustrazioni, a cura di Marcello Gaballo e Stefania Colafranceschi. Edizione non commerciale

INDICE

Joseph il giusto nei mosaici dell’arco di Santa Maria Maggiore a Roma

Domenico Salamino

 

La Fuga in Egitto. Suo importante significato teologico

Tarcisio Stramare

 

Dal Sogno al Transito: iconografie nella chiesa confraternale di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

San Giuseppe e la Sacra Famiglia nel fondo antico della Biblioteca Casanatense di Roma

Barbara Mussetto

 

La pala marmorea dei Mantegazza nella chiesa di Santa Maria Assunta in Campomorto di Siziano (Pavia)

Manuela Bertola

 

Iconografie di San Giuseppe negli affreschi delle confraternite dei Battuti in diocesi di Concordia-Pordenone

Roberto Castenetto

 

La basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo e i suoi arazzi

Giovanni Curatola

 

Hierónimo Gracián e il suo Sommario (1597)

Annarosa Dordoni

 

Le confraternite dei falegnami in Romagna

Serena Simoni

 

La confraternita del SS. Crocifisso e S. Giuseppe nella chiesa di San Giuseppe in Cagli (PU)

Giuseppe Aguzzi

 

La confraternita di San Giuseppe dei Falegnami di Todi e la chiesa di San Giuseppe

Filippo Orsini

 

San Giuseppe in due dipinti astigiani di età moderna

Stefano Zecchino

 

La confraternita di San Giuseppe a Borgomanero

Franca Minazzoli

 

Il culto di San Giuseppe nella città di Napoli e un piccolo esempio di devozione: il quadro di Giovanni Sarnelli nell’Arciconfraternita di San Giuseppe dei Nudi

Ugo Di Furia

 

 Ite ad Joseph. San Giuseppe nella statuaria lignea tra Otto e Novecento: alcuni esempi

Francesco Di Palo

 

L’oratorio di San Giuseppe di Isola Dovarese. Una pregevole testimonianza settecentesca

Sonia Tassini

Testimonianze giuseppine nella chiesa di San Vincenzo Martire in Nole (Torino)

Federico Valle

 

L’oratorio di S. Giuseppe di Cortemaggiore (Piacenza)

Annarosa Dordoni

 

San Giuseppe a Chiusa Sclafani (Palermo) tra arte e devozione

Maria Lucia Bondì

 

San Giuseppe nell’arte. Sculture lignee di Francesco e Giuseppe Verzella tra Sette e Ottocento in ambito pugliese e campano

Antonio Faita

 

Memento mori: il Transito di San Giuseppe

Biagio Gamba

 

Storia e tecnica delle immagini devozionali a stampa

Michele Fortunato Damato

 

Dal XVI al XIX secolo, quattro secoli di pizzo su carta

Gianluca Lo Cicero

 

Stampe popolari giuseppine nel museo di Pitrè di Palermo

Eliana Calandra

 

Le confraternite di S. Giuseppe in Puglia tra storia e religiosità popolare

Vincenza Musardo Talò

 

Le Regole della confraternita di San Giuseppe Patriarca di Nardò, un esempio «moderno» del fenomeno confraternale

Marco Carratta

 

Arte e devozione ad Altamura. La cappella di San Giuseppe in cattedrale

Ruggiero Doronzo

 

Alcuni esempi di iconografia giuseppina a Taranto

Nicola Fasano

 

In margine all’iconografia di San Giuseppe: il ciclo pittorico di Girolamo Cenatempo nella cappella del Transito di San Giuseppe a Barletta

Ruggiero Doronzo

 

 Sponsus et custos. Iconografia, culto e devozione per San Giuseppe nell’arco jonico occidentale. Exempla selecta

Domenico L. Giacovell

 

La raffigurazione di San Giuseppe negli argenti pugliesi

Giovanni Boraccesi

 

Esempi di iconografia giuseppina tra Puglia e Campania. Proposte per Gian Domenico Catalano, Giovan Bernardo Azzolino, Giovanni Antonio D’Amato, Giovan Vincenzo Forlì

Marino Caringella

 

Postille iconografiche su Cesare Fracanzano. Alcuni esempi della devozione giuseppina

Ruggiero Doronzo

 

I Teatini e il culto di san Giuseppe a Bitonto

Ruggiero Doronzo

 

Esempi di antiche pitture parietali giuseppine nel leccese

Stefano Cortese

 

La figura di san Giuseppe nella pittura post tridentina in diocesi di Lecce

Valentina Antonucci

 

San Giuseppe nella pittura d’età moderna nelle diocesi di Otranto e Ugento

Stefano Tanisi

 

Da comparsa a protagonista. Giuseppe in alcune opere pittoriche e in cartapesta della diocesi di Nardò-Gallipoli

Nicola Cleopazzo

 

La devozione a san Giuseppe in Parabita (Lecce). Il culto e le raffigurazioni del santo

Giuseppe Fai

 

Integrazioni documentarie e nuove fonti archivistiche per la storia della chiesa e della confraternita di San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Esemplificazioni iconografiche giuseppine a Galatone (Lecce)

Antonio Solmona

 

L’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe a Nardò

Stefania Colafranceschi

 

Vedute di Nardò nella tela dell’altare maggiore in San Giuseppe a Nardò

Marcello Gaballo

 

Comparazioni strutturali e integrazioni architettoniche settecentesche nella chiesa di San Giuseppe a Nardò

Fabrizio Suppressa

 

L’altorilievo neritino de La Sacra Famiglia in Viaggio nella chiesa di San Giuseppe

Stefania Colafranceschi

Un convegno e un libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò

La Confraternita di San Giuseppe di Nardò per commemorare i 400 anni dalla fondazione (1619-2019) ha promosso un convegno di studi incentrato sulla chiesa e il santo titolare, che si terrà nella sua chiesa sabato 9 novembre alle ore 15.30.

Per l’occasione è stato realizzato un volume di carattere interdisciplinare che verrà presentato in coincidenza con l’evento, dal titolo “De Domo David. La confraternita di San Giuseppe Patriarca e la sua chiesa a Nardò. Studi e ricerche a quattro secoli dalla fondazione (1619-2019)”.

 

Il programma prevede, dopo i saluti del Vescovo della Diocesi di Nardò-Gallipoli Mons. Fernando Filograna e del Priore Mino De Benedittis, un primo intervento di p. Alberto Santiago della Congregazione Oblati di San Giuseppe, che presenterà i contenuti del libro, cui seguirà la prof.ssa Stefania Colafranceschi, esperta di iconografia, che illustrerà “L’iconografia di San Giuseppe, dal Sogno al Transito”. Gli altri interventi, moderati dal rettore della chiesa Mons. Giuliano Santantonio, prenderanno in esame tematiche attinenti il santo, con particolare attenzione al ciclo giuseppino e alla sua iconografia, attraverso testimonianze artistiche di Nardò e di altri centri in Italia.

Don Domenico Giacovelli, direttore dell’Ufficio Diocesano Beni Culturali della Diocesi di Castellaneta, si soffermerà in particolare sulla Fuga in Egitto, uno dei temi prevalenti nell’apparato artistico della chiesa neritina, per via del raffinatissimo altorilievo situato al di sopra dell’altare maggiore. Due storici dell’arte –Ruggiero Doronzo e Nicola Cleopazzo– svolgeranno una disamina della produzione figurativa in Puglia e nella diocesi di Nardò-Gallipoli, attestando la profonda devozione e le relative forme rappresentative del “Custode” per eccellenza.

Marcello Gaballo, curatore della pubblicazione insieme alla prof.ssa Colafranceschi, tratterà delle nuove fonti archivistiche, che consentono di inquadrare e comprendere nelle sue articolazioni la storia della Confraternita di San Giuseppe, che è una delle più antiche tra quelle ancora attive a Nardò, e una delle poche intitolate al santo, presenti nella diocesi.

Altri due interventi, dell’architetto Fabrizio Suppressa e di Stefania Colafranceschi, punteranno invece ad illustrare gli aspetti architettonici dell’edificio secentesco, e l’iconografia del suo apparato plastico e pittorico, con particolare riguardo al pregevole dipinto dell’altare maggiore e alla Fuga in altorilievo che svela, per la raffinatezza esecutiva e l’altissima qualità di ispirazione, l’opera di maestranze che qui hanno lasciato un’impronta di rilevante valore stilistico.

L’ingresso è libero, sino ad esaurimento dei posti disponibili.

Libri| La chiesa dei SS. Medici Cosma e Damiano a Nardò

“I Lions per la cultura”

Il libro che dà il via al restauro di un gioiello neretino

La Chiesa dei SS. Medici Cosma e Damiano

 

Un tempo, non c’era casa a Nardò in cui non ci fosse un’immagine dei SS. Medici Cosma e Damiano, venerati nella chiesa omonima a loro dedicata, situata sulla strada che da Nardò porta a Lecce,, risalente agli inizi del Quattrocento. Era una originaria cappella contenente una icona della Vergine col Bambino che sorgeva su “loco Memore de li Iudei”, cioè un cimitero ebraico, situato, come di norma, fuori dalle mura urbiche, presso corsi o depositi d’acqua. Fatto questo che giustifica l’antico nome della Chiesa di S. Maria da Ponte, per un ponte a tre arcate ricostruito nel 1595 sul vicino torrente Asso, le cui acque, ancora oggi, vi fluiscono accanto.

Eppure sfugge spesso alla vista di chi giunge a Nardò dal capoluogo, questo “notevole esempio di architettura tardo rinascimentale salentina”.

Il Lions Club Nardò, in collaborazione con la Banca Generali, ha sostenuto la pubblicazione del pregevole volume, edito da Mario Congedo e curato dal Dott. Marcello Gaballo, con testi dello stesso, di Fabrizio Suppressa e Domenico Ble, in cui le foto (di Lino Rosponi e Stefano Santoro) e le ricostruzioni di una storia lunga circa sette secoli testimoniano, attraverso le decorazioni floreali, i putti, gli amorini, due dei quali sorreggono un cartiglio con la dedicazione alla Madonna delle Grazie,, la cifra stilistica dell’edificio, che nonostante i rifacimenti nei secoli, ha conservato i codici di appartenenza al circuito artistico che va da S. Caterina di Galatina alla Chiesa del Carmine di Nardò e alle relative maestranze in esse operanti.

E’ un segnale d’allarme che il Lions Club Nardò intende dare in aiuto al restauro della Chiesa a difesa del patrimonio storico-artistico-culturale della propria città, affinché esso non cada nell’oblio, nell’indifferenza e nell’incuria, cancellando la memoria della propria identità.

Il volume, la cui prefazione è stata curata dalla Presidente del Club, Maria Rosaria Manieri, in un certo numero di copie, sarà a disposizione degli intervenuti, nella serata della presentazione, il 17 febbraio 2019, nella Chiesa dei SS. Medici, alle ore 18.00.

Il ricavato della vendita sarà destinato alla nostra Fondazione , la LCIF – We serve.

 

Antonietta Orrico – Officer Comunicazione LC Nardò

Le costruzioni a secco del Salento, patrimonio dell’umanità. Se ne discute il 13 a Nardò

Dopo il rinvio dello scorso 4 gennaio a causa delle avverse condizioni metereologiche viene rinnovato l’appuntamento voluto dalla Fondazione Terra d’Otranto, con il patrocinio della Città di Nardò, che avrà per tema “Le costruzioni a secco del Salento, testimoni del nostro sentire più intimo e del nostro passato, patrimonio dell’umanità”.

L’incontro – dibattito avrà inizio sempre alle 19.30, nella chiesa di Santa Teresa a Nardò, su Corso Garibaldi.

Confermate le presenze di Cristian Casili, agronomo e consigliere regionale, di Don Francesco Marulli, Direttore dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale sociale e il lavoro, di Mino Natalizio, assessore all’Ambiente del Comune di Nardò, di Fabrizio Suppressa, architetto, e di Pier Paolo Tarsi, docente nei Licei.

La novità, rispetto a quanto già pubblicizzato, è la partecipazione di Glauco Teofilato, che sarà portavoce per gli studi condotti da suo padre Cesare sulle Specchie salentine, testimonianze delle epoche primitive che corrono tra l’Età della pietra e quella dei metalli, che si trovano nell’archivio di materiale edito ed inedito che lo studioso ha ereditato. Modera Marcello Gaballo, presidente Fondazione Terra d’Otranto.

Nel corso della serata è prevista la proiezione di numerose slides, partendo dai monumenti megalitici particolari di Terra d’Otranto, sino alle costruzioni più moderne con le pietre informi che i nostri contadini aggregavano per liberare dai sassi l’area dei loro lavori agricoli.

Le vicende del palazzo dei baroni Sambiasi a Nardò

UN VOLUME RICOSTRUISCE LE VICENDE DEL PALAZZO DEI BARONI SAMBIASI

La presentazione domenica 24 giugno (ore 20:30) in quello che oggi è Palazzo Sambiasi

 

di Danilo Siciliano

È in programma domenica 24 giugno alle ore 20:30 presso le sale di Palazzo Sambiasi (ex Monastero di Santa Teresa), in corso Garibaldi, la presentazione di Un palazzo un monastero – I Baroni Sambiasi e le Teresiane a Nardò, volume edito da Mario Congedo Editore, inserito nella collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli e realizzato con Fondazione Terra d’Otranto e associazione Dimore Storiche Neretine. L’autore è Marcello Gaballo con la collaborazione di Domenico Ble, Daniele Librato, Armando Polito, Marcello Semeraro e Fabrizio Suppressa. L’introduzione è a cura di Annalisa Presicce. Il volume ricostruisce e chiarisce finalmente le vicende storiche e architettoniche di quello che fu il palazzo dei Baroni Sambiasi del ramo di Puzzovivo, che fu accorpato al monastero delle Carmelitane Scalze, soppresso nel periodo cosiddetto “murattiano”, agli inizi dell’Ottocento. Il palazzo assunse l’attuale conformazione grazie all’intervento di Giovanbattista Mandoj, il cui stemma è rappresentato nella facciata del palazzo. Si tratta di un volume ricchissimo di immagini in bianco e nero e a colori e di rilievi grafici del palazzo e del monastero.

All’incontro di presentazione interverranno Annalisa Presicce, il direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Diocesi don Giuliano Santantonio, il magistrato Francesco Mandoj (discendente di Giovanbattista Mandoj) e dell’autore Marcello Gaballo. Interverranno per un saluto anche Sua Eccellenza mons. Fernando Filograna, il sindaco Pippi Mellone, l’assessore allo Sviluppo Economico e al Turismo Giulia Puglia, l’assessore alla Cultura Ettore Tollemeto, l’editore Mario Congedo, il presidente dell’associazione Dimore Storiche Neretine Antonello Rizzello.

I baroni Sambiasi e le monache di Santa Teresa a Nardò

Sarà presentato Domenica 24 giugno un nuovo libro sulla città di Nardò, presso le sale del Relais Santa Teresa, su Corso Garibaldi (vicino le Poste), alle ore 20.30.

Inserito nella Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli, edito da Mario Congedo di Galatina, è stato scritto da Marcello Gaballo con la collaborazione di Domenico Ble, Daniele Librato, Armando Polito, Marcello Semeraro e Fabrizio Suppressa, con prefazione di Annalisa Presicce.

Il volume sarà presentato da Annalisa Presicce, da Francesco Mandoj, da don Giuliano Santantonio e dall’autore.

In formato A/4, 228 pagine, ricco di illustrazioni in b/n e colore, con numerosi rilievi e planimetrie.

Ricostruzione del palazzo Sambiasi, del monastero e della chiesa di Santa Teresa

 

INDICE

Prefazione di Annalisa Presicce

 

Capitolo primo

Genealogie e architetture a palazzo Sambiasi. Gli archivi e la ricostruzione, di Marcello Gaballo

Premessa

  1. Sulla storia della famiglia Sambiasi e le vicende legate al palazzo

1.1. La prima traccia dei Sancto Blasio a Nardò

1.2. I Sambiasi baroni di Puzzovivo, Flangiano e Puggiano

1.3. Vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi

1.4. Il palazzo di Alfonso Sambiasi

1.5. Il palazzo di Francesco Sambiasi

1.6. I Della Ratta e le vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi

1.7. Ultime vicende patrimoniali di palazzo Sambiasi. Da Giambattista Mandoj ai nostri giorni

  1. Palazzo Delli Falconi
  2. Il salone di palazzo Sambiasi
  3. L’epigrafe MATURE CONSULAS NE TE PENITEAT (Provvedi tempestivamente per non pentirti), di Armando Polito

 

Capitolo secondo

Sulla chiesa di Santa Croce annessa al palazzo Sambiasi, di Marcello Gaballo e Armando Polito

  1. La chiesa attraverso le fonti pastorali. Brevi cenni storici
  2. La chiesa di Santa Croce nella visita pastorale del vicario Granafei

 

Capitolo terzo

Le Teresiane a Nardò. Origine ed epilogo di un monastero, di Marcello Gaballo

  1. Un secondo monastero femminile per la città di Nardò
  2. Suor Teresa e il progetto realizzato

2.1. Lidia Gaetana Adami fondatrice del monastero teresiano di Nardò

2.2. Sulla famiglia Basta di Monteparano. Le origini e il sostegno a suor Teresa

2.3. Le fonti su Masseria Sciogli. Dai Giulio ai Basta al monastero di Santa Teresa

  1. Dalla ricostruzione post-sismica alla soppressione. Gli ultimi settant’anni del monastero

3.1. Una nuova chiesa per il monastero di Santa Teresa. Il terremoto del 1743

3.2. Il monastero di San Gregorio Armeno di Napoli. Gli amministratori e la gestione dei beni delle Teresiane di Nardò

  1. Appendice documentaria

4.1. Cessione scambievole di Oratorij (1837)

4.2. Cessione scambievole di Oratorij (1838)

4.3. Cronotassi delle priore del monastero di Santa Teresa

 

Capitolo quarto

La chiesa di Santa Teresa. Gli artisti, le opere, il culto, di Marcello Gaballo

  1. Il profilo architettonico
  2. Due tele di Vincenzo Fato nella chiesa delle Teresiane a Nardò
  3. La statuaria nella chiesa di Santa Teresa

3.1. Il Redentore, Santa Lucia, Sant’Agata

3.2. La statua di S. Espedito e la Fondazione del nobile Enrico Personè

3.3. Il culto di San Biagio a Nardò. Due testimonianze iconografiche

3.4. Sulla ragione della statua della Madonna del Buon Consiglio nella chiesa di S. Teresa

3.5. La tela di San Carlo Borromeo orante, di Domenico Ble

 

Capitolo quinto

Araldica a Nardò. Lo stemma lapideo settecentesco del vescovo Carafa sulla facciata della chiesa di Santa Teresa, di Marcello Semeraro

 

Capitolo sesto

La mirabile e singolare volta della chiesa di Santa Teresa, di Fabrizio Suppressa

 

Capitolo settimo

Araldica carmelitana a Nardò. Lo stemma carmelitano: origine e sviluppi, di Marcello Semeraro

7.1. Gli esemplari neritini

 

Capitolo ottavo

Lavori di ristrutturazione e ammodernamento della chiesa di Santa Teresa dal 1800 ai nostri giorni, di Fabrizio Suppressa

  1. Appendice
  2. Appendice
  3. Appendice

 

Capitolo nono

La confraternita del SS.mo Sacramento a Nardò, dalla cattedrale alla chiesa di Santa Teresa, di Marcello Gaballo

  1. La cappella del SS.mo Sacramento in cattedrale
  2. Altri atti notarili e documenti d’archivio. I dati raccolti sulla confraternita del SS.mo Sacramento

2.1. Disposizioni per attuare il lascito del duca di Nardò Belisario Acquaviva d’Aragona in favore della cappella del SS.mo Sacramento nella cattedrale di Nardò, di Armando Polito

2.2. Legati da soddisfare da parte della confraternita

2.3. PLATEA della confraternita

2.4. Un rarissimo libro nell’archivio confraternale

  1. Appendice

3.1. Cronotassi delle cariche della confraternita del SS.mo Sacramento

3.2. Prefetti, cappellani e padri spirituali della confraternita

3.3. La visita pastorale del vescovo Antonio Sanfelice nel 1719 alle confraternite e congregazioni esistenti in cattedrale: Santa Maria della Misericordia, del Santissimo Corpo di Cristo e della Santissima Eucaristia, di Armando Polito

 

Capitolo decimo

Spoglio degli assensi conservati nell’archivio storico diocesano di Nardò riguardanti la confraternita del Santissimo Sacramento e del monastero di Santa Teresa, di Daniele Librato

Bibliografia generale

 

Il campanile della chiesa matrice di Copertino

 

Note documentarie intorno alla torre campanaria della chiesa Matrice di Copertino (XVI sec)

 

di Giovanni Greco, foto di Fabrizio Suppressa

La questione su chi ha inventato il campanile è abbastanza controversa almeno quanto la “scoperta” delle campane che, secondo la tradizione, si deve a San Paolino da Nola nel V secolo. I primi campanili della storia cristiana furono eretti intorno al VII secolo e fu indubitabile l’influsso dei minareti, anche se pare che il manufatto cristiano debba la sua forma soprattutto alle torri di guardia che gli abitanti dei borghi medioevali costruivano nei pressi delle chiese o dei monasteri per rifugiarsi in caso di assedio.

Nel 1577, Carlo Borromeo nel suo trattato De fabrica ecclesiae codificò per primo i canoni per la costruzione dei campanili: dovevano essere posti sulla facciata della chiesa, staccati da essa e sulla destra di chi entra; inoltre, dovevano avere preferibilmente forma quadrata e possibilmente essere dotati di un orologio. Più tardi, secondo il trattato di Francesco Cancellieri, sulla parte terminale, cuspide o loggiato che fosse, avrebbero trovato posto una croce o la sagoma metallica di un gallo, simbolo dei predicatori che svegliano chi giace nel regno delle tenebre.

In Terra d’Otranto, per quel che rimane, la tradizione dei campanili inizia con la grande guglia di Soleto del 1397 replicata, ma in modo incompiuto, mezzo secolo dopo a Corigliano dalle stesse maestranze che realizzarono il coro di Santa Caterina a Galatina. In epoca seicentesca, sulla linea del manufatto di Soleto, si innestarono quelli della Cattedrale di Lecce del 1682 e delle parrocchiali di Sternatia, di Maglie e di Lequile, per citarne alcuni. Nella seconda metà del Cinquecento ha inizio una seconda maniera, del tutto indipendente, con i campanili dell’Immacolata e di S. Domenico di Nardò, con quelle delle matrici di Galatone, Monteroni e Copertino, tutti della “maniera tarantinesca” in netta contrapposizione con i campanili della cosiddetta “serie leccese”.

Le principali caratteristiche di questa seconda serie saranno l’assenza di rastrematura progressiva nei singoli piani sovrapposti; l’assenza di coronamento a cupolino (difatti sono troncati); presentano, inoltre, delle semicolonne che possono essere due o quattro per lato che mancano nei campanili della “serie leccese”.

Osserviamo, ora, attraverso le fonti archivistiche, le vicende relative alla costruzione della torre campanaria della chiesa Matrice di Copertino, accennando preventivamente a due significativi progetti che, insieme al campanile, costituirono l’ambizioso piano di intervento voluto dal Clero e dall’Universitas, durato circa vent’anni e finalizzato all’ampliamento della Parrocchiale.

Nel 1561 la “Terra di Cupertino” contava poco più di 2300 abitanti e un crescendo benessere economico. Due aspetti che convinsero l’Universitas a favorire una serie di interventi urbanistici, tra cui l’ampliamento della Parrocchiale. Il notabilato locale che si alternava di anno in anno alla guida della comunità non era rimasto insensibile alla sua “ricettività” che, soprattutto in quel secolo raccoglieva centinaia di benefici ecclesiastici. Ovvero, beni mobili e immobili che sarebbero rimasti al riparo dal fisco per molti anni. Sicché, la classe benestante, per esprimere la propria gratitudine verso questa particolare “accoglienza”, promosse e finanziò l’ampliamento della chiesa per ingraziarsi il clero, ma soprattutto per ostentare la propria autorevolezza dei confronti del potere feudale.

La conferma di questa gratitudine porta la data dell’8 febbraio 1569, allorquando l’Universitas guidata da Giovan Francesco Morelli, stabilì di sostenere con 250 ducati la costruzione delle navate laterali affidandone i lavori al clan di costruttori guidato da Marco Antonio Renzo di Lecce. Successivamente, un atto di notar Antonio Russo del 6 ottobre 1576 ci rivela che le quattro dignità capitolari (l’arciprete Antonio Bove, l’arcidiano Cesare Desa, il primicerio Massenzio Bono il vicario foraneo Donato Gatto), per mezzo del procuratore del capitolo, Giovanni Maria della Mamma, acquistarono per 300 ducati da Margherita Boniurno e da Laura e Porzia Gambroy, un comprensorio di case per realizzare il vano absidale della chiesa. Gli immobili consistevano in una casa palazziata e cocina, camera terragna et orticello et altra camera chiamata lo Furno et conseguenti alia camera, cortilio et stalla intus detto cortilum, supportico et superiori domus, scala lapidea, cisterna et ali membri. Secondo un altro documento del 16 maggio 1579 le dignità si rivolsero al monastero di S. Chiara per avere a censo 100 ducati che servirono per beneficio della majore ecclesia pro amplianda […] per la fabrica del coro seu trabona. A margine citiamo un atto del 12 febbraio 1586 dal quale rileviamo che avendosi già finita e constructa la trabona le dignità vendettero per 55 ducati quella parte di caseggiato appartenuto ai Gambroy e che dieci anni prima era stato acquistato per la realizzazione del coro. Con la costruzione dell’abside – il cui impianto pentagonale si richiama alle cinque piaghe di Cristo, mentre la stella che deriva dal pentagono è schema del corpo umano in molti trattati del ‘4-500 – compare sulla scena artistica copertinese la figura di Giovanni Maria Tarantino, un mastro muratore neritino alla cui “maniera” si rifanno successivamente i clan di costruttori dei Pugliese, degli Spalletta, dei Bruno e degli Schirinzi.

particolare del campanile con lo stemma di Copertino

 

La prova che il Tarantino fu l’autore di questa insolita quanto ingegnosa costruzione – rintracciabile in modo quasi speculare in quel che resta dell’antica parrocchiale di Cursi – si legge in due note di introiti ed esiti presentate dai procuratori della fabbrica (i canonici Belisario Menga ed Angelo Pascali), al revisore dei conti don Giovanni Maria della Mamma, relativi all’amministrazione capitolare del 1579-80. Nella prima nota del 4 marzo 1580 leggiamo testualmente: Consignati a mastro Joanni Maria Tarantino et mastro Gio Francesco de lo Verde de la città de Nerito, mastri fabbricatori che fabricano in ditta fabrica d. 145. Nella seconda, del 15 ottobre seguente, è scritto: E più se poneno essi predetti Venerabili procuratori havere consegnati a mastro Giovanni Maria Tarantino in conto dello stancio de la fabrica della trabona d’essa ecclesia d. 106.

Ma chi era Giovanni Maria Tarantino di cui si sono occupati i maggiori studiosi salentini a partire da Luigi Maggiulli nella sua monografia su Muro Leccese nel 1871? Chi era questo genio della pietra che seppe ribellarsi all’oblio della storia, emergendo dal nulla in forza della firma apposta su almeno due delle sue opere (a Muro e a Morciano), nelle quali egli, quasi analfabeta, si dichiara “maestro” e dimostra di saper scrivere perlomeno con lo scalpello? Lo studioso Giovanni Cosi che si è occupato di lui nel 1981 in occasione delle vicende relative alla costruzione di San Domenico a Nardò, afferma che nel 1571 sposò Alessandra Manieri; che nel 1582 impegnò una dote di 6 ducati per la figlia Virginia; che nel 1593, nel 1611 e nel 1613 operò a Galatone; che nel 1616 la sua seconda moglie Prudenza Romano era già vedova.

Nel 1988, l’architetto Mario Cazzato, nel segnalare i rapporti tra centro e periferia relativamente al caso di Nardò, Galatone e Seclì oltre ai già citati centri di Muro e Morciano, individua la presenza del Tarantino anche a Minervino, Presicce, Latiano, Leverano, Tricase e Copertino. Più tardi autorevoli precisazioni verranno da Mario Manieri Elia che, tra l’altro, definirà il Tarantino una figura sulla quale – sin dal primo impatto con l’architettura salentina – sembra precipitare la parte più significativa della produzione locale della fine del Cinquecento.

A Copertino, in particolare, la bravura del Tarantino si confermò con la costruzione della torre campanaria della Matrice. Difatti, il Nostro vi fece ritorno otto anni dopo la costruzione dell’abside per aggiudicarsi l’assegnazione dei lavori.

L’erigenda torre campanaria si propose come un’opera d’arte che avrebbe sostituito il vecchio campanile a vela con tre campane del 1452 e che un bozzetto del carmelitano Angelo Rocca del 1584 ce lo mostra accresciuto di un’altra vela che insieme alla prima formava un angolo retto, alla cui sommità vi si poteva accedere per mezzo di una scala lapidea pro campanis pulsandis.

E’ il 4 settembre 1588 quando l’Universitas delibera l’incarico ai magnifici Giovan Francesco Morelli, Virgilio della Porta e Giulio Ruggiero di seguire tutte le fasi relative alla costruzione del nuovo campanile della maiore ecclesia.

Tra i compiti preliminari della terna era compreso anche quello di bandire in Copertino e nei paesi limitrofi la costruzione del campanile e di approvare il progetto più bello al costo più basso. Il 30 ottobre seguente, nella sacrestia della chiesa del convento di San Francesco intra moenia, alla presenza di notar Antonio Russo e di Colella Preyte, giurato della corte del Capitano a cui spettava di convalidare i bandi e di presiedere le aste pubbliche, si diedero appuntamento due gruppi di costruttori. Il primo era composto dai mastri neritini Giovanni Maria Tarantino, Allegrazio Bruno, Tommaso Rizzo, Angelo Spalletta e Gio. Francesco de lo Verde; il secondo dai mastri muratori galatinesi Pompeo Gugliese e Giacomo D’Amato. Insieme a loro era presente la terna deputata dall’Universitas e un nucleo rappresentativo del clero locale tra cui l’arciprete don Antonio Bove, don Bernardino Grittaglie, don Giacomo Maria Greco, il suddiacono Gio. Vincenzo Zurlo e i chierici Alfonso Zurlo, Giacomo Morello, Gio. Donato Bove e Donato Antonio Verdesca. Il giurato Colella, rivolto ai presenti disse ad alta voce: chi vole fabricare dicto campanaro, e dar migliore conditione comparga e ci mostri il suo modello e manifesta la sua offerta!.

Si fece avanti per primo il Tarantino il quale presentò un campanile in charta reali fabrice, ossia disegnato e dipinto in tutti i suoi particolari, accompagnato da pactis et capitolationibus. E’ interessante confrontare questo testo con l’oggetto cui ha dato luogo. La descrizione definisce, infatti, i vari ordini partendo dal basso e fissando dimensioni e prezzi unitari.

Guardando il modo in cui il campanile si pianta nel tessuto urbano con il forte parallelepipedo del suo basamento, riquadrato nobilmente nella faccia esposta e segnato al centro da una rosetta, impressiona la distanza tra autorità di concezione e il tono dimesso con cui le parti basamentali venivano proposte al committente in termini di pura quantità. Altrettanto vale per i successivi blocchi sovrapposti la cui dialettica proporzionale risulta condizionata dal prezzo per canna (misura equivalente a m. 2.10) o per blocco di tufo lavorato su una o su due facce.

Ma è il momento di osservare analiticamente l’offerta del Tarantino. Dapprima disse che ogni canna di fabrico relativa alla costruzione del primo ordine doveva essere retribuita a 23 grana; inizialmente l’altezza del primo ordine fu prevista di 60 palmi (cm. 26,36) poi stabilita in 70. Ogni blocco di tufo lavorato doveva essere retribuito a 3 carlini. Sei carlini, invece, furono richiesti per la lavorazione dei blocchi impiegati negli angoli. Il grosso cornicione aggettante compreso nel primo ordine (quello composto da archetti che i maestri definivano a cavalluccio), lo offrivano a 9 carlini il palmo, mentre il cosiddetto scorniggiato volevano che si pagasse il doppio.

Gli angoli di tutte la costruzione sarebbero stati costruiti in modo rinforzato a doppio concio. Fu precisato che l’intaglio che entrerà in detta opra si debba pagare a giudizio degli esperti eligendi per ambi parti a patto puro che lo detto intaglio si debbia fare a volontà delli predetti magnifici deputati e soprattutto che non s’esca da lo disegno. Si osserverà che, pur non essendoci alcuna indicazione sulla soluzione architettonica o sull’apparato iconografico, alla fine dell’opera questi risultarono assai densi e ricchi di significati.

Si può dedurre che gli elementi dell’intaglio, venivano eseguiti via via, su richiesta dei magnifici deputati o previa discussione con essi di ogni soluzione da adottare; tant’è vero che la stessa valutazione del compenso – per il quale era previsto l’arbitraggio – dipendeva dal gradimento del risultato finale da parte della committenza che evidentemente giudicava in relazione al testo iconografico.

Continuando nel capitolato proposto del Tarantino troviamo che per la squadratura semplice di un palmo di tufo fu proposto 1 tornese, mentre per quella relativa alle cornici fu richiesto il doppio. Fu precisato che il compenso per la squadratura dei tufi che si eseguiva a terra non doveva essere incluso nel canneggio della muratura in verticale. Ai mastri costruttori e ai manipoli che sarebbero stati impegnati nell’opera non doveva competere alcuna prestazione di materie prime. I deputati della fabbrica avrebbero dovuto condurre in loco tutto l’occorrente. Ossia, che il legname per l’impalcatura e i blocchi di tufo necessari dovevano essere scaricati nel cortile della chiesa esclusi quei pezzi che fino a quel giorno erano stati depositati per strada, fuori dal cortile.

Altro onere per i deputati sarebbe stato quello di dover provvedere all’alloggio delle maestranze, nonché ad un letto per ciascuno di loro escluse le lenzuola. Alle maestranze sarebbero state versate giornalmente 13 grana la canna relativamente al primo ordine (70 palmi), mentre il secondo ordine si sarebbe pagato, anche in questo caso giornalmente, a ragione di 2 carlini.

Per tutti gli altri ordini della costruzione, fino alla sua conclusione, il prezzo proposto fu 23 grana. Inoltre, si disse che, conforme alle norme in uso nelle piazze di Terra d’Otranto, l’Universitas avrebbe dovuto garantire il saldo dei lavori al termine di ogni ordine. Dal canto loro le maestranze garantivano il completamento della fabbrica entro 5 anni e ne bloccavano i prezzi pattuiti. All’Universitas, infine, sarebbe spettato il compito di scavare e svuotare le fondamenta ad una profondità che sarebbe stata stabilita dai costruttori.

Avendo consegnato il disegno ed offerto le loro condizioni, fu accesa la tradizionale candela vergine. E fino alla sua estinzione si sarebbero potuti presentare altri progetti ed altre offerte. Trascorso un tempo opportunamente lungo si fecero avanti Pompeo Gugliese e Giacomo D’Amato i quali proposero di eseguire il disegno del Tarantino a costi inferiori, cioè da 23 a 22 grana la canna. Si prestarono ad eseguire la lavorazione e la posa in opera di tutti i cosiddetti quadrelli, nonché la copertura della lamia al prezzo di 29 grana. La riquadratura del cornicione aggettante relativo al primo ordine la offrivano a 5 carlini (4 in meno rispetto al Tarantino). Infine, offrirono gratuitamente tutto l’intaglio riportato nel disegno del concorrente, esclusi i capitelli e le figure.

Al termine delle offerte il Colella chiese se vi fossero altri mastri in grado di fare proposte migliori. A quel punto entrò nuovamente in gioco l’equipe neritina che ribassò sensibilmente le offerte dei galatinesi. Proposero di fare quadrelli a 28 grana (uno in meno), e di eseguire, fare et osservare et complire tutto quello ch’anno offerto li detti mastri di S. Pietro in Galatina. In più offrirono idonea e sufficiente garanzia nell’esecuzione dei lavori e la maggior sicurezza possibile alla fabbrica.

Il 20 novembre seguente il sindaco, Giovanni Maria Caputo, convocò un pubblico reggimento durante il quale Giulio Ruggiero in rappresentanza della terna deputata per l’erigendo campanile comunicò che il partito della fabrica era stato concluso a favore di mastro Gio. Maria Tarantino e compagni di Nardò. Quindi, sollecitò la redazione di un apposito rògito notarile. Ma altro percorso restava ancora da fare.

Nel 1591, infatti, ritroviamo le dignità capitolari alle prese con l’acquisto di una porzione di suolo necessario. In un rogito di notar Antonio Russo si legge che alcuni mesi prima il Capitolo, pro amplianda Rev.da Ecclesia et construere de novo campanile, aveva acquistato per 142 ducati e mezzo dalla vedova di Pirro Li Nuci, Geronima Calia, una casa vocata la Specciaria con cantina inferiore, horto retro, camerino et camera, cisterna sita in loco dell’Ospitale da occidente, l’apotheca del quondam Giovanni Maria Chiarello da oriente, la strata pubblica da borea. Sicchè, don Agostino Chiarello, incaricato dal Capitolo, il19 agosto si accinse a stabilire con la Calia le debite cautele.

Non sappiamo quando avvenne la posa della prima pietra né se i costi subirono variazioni in corso d’opera. Se consideriamo il “1579” inciso sul lato nord del piano basamentale potremmo dire che a partire da quel 1588 ci vollero 9 anni prima che l’opera venisse compiuta. Quasi certamente essa iniziò a svolgere le sue funzioni nel 1603, come ricorda un’iscrizione lapidea posta alla base delle colonne centrali della facciata ovest, su cui è scritto che per volontà del sindaco dell’epoca, Filippo Ventura, furono collocate le campane restaurate.

A distanza di 420 anni, questa imponente opera di edilizia sacra che dall’alto dei suoi 35 metri osserva l’evolversi della storia copertinese, è ancora lì intatta, austera e simile ad una sentinella. Come un gigantesco mènhir abbrunito si erge nel cielo, si contrappone all’arcigno torreggiare del maschio angioino e sottolinea l’emergenza più significativa del profilo urbanistico di Copertino.

Bibliografia essenziale

S. Calasso, Ricerche storiche intorno al comune di Copertino, Copertino 1966;

V. Zacchino, L’attività copertinese di Giovanni Maria Tarantino, in “La Zagaglia, XIV, 1972 n. 54;

G. Cosi, Spigolature su Nardò, in “La voce del Sud”, Ottobre 1981;

M. Paone, Aneddoti di storia salentina, in “Nuovi orientamenti”, a. XIV, 1984;

M. Visceglia, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed Età Moderna, Guida, Napoli 1988;

M. Cazzato, Rapporti tra centro e periferia: il caso di Nardò, Galatone, Seclì, Nardò 1988;

M. Manieri Elia, Barocco leccese, Electa, Milano 1989;

M. R. Tamblè, Fonti diocesane per la storia delle strutture ecclesiastiche in Copertino: benefici e legati pii (secc. XV-XIX), in “Copertino in epoca moderna e contemporanea”, vol. 1, Congedo, Galatina 1989

G. Greco, Chiesa e clero a Copertino alla fine del ‘500, Bibliotheca Minima, Copertino 1996;

R. Beretta, Il campanile torna in piazza, in “Avvenire” 17 aoprile 1997, pag 19.

 

Fonti archivistiche

Archivio di Stato Lecce, atti di notar Antonio Russo, coll. 29/2

Archivio Chiesa Collegiata Copertino, Spoglio dè protocolli fatto per me d. Pietrantonio Montefuscoli, arciprete di Cupertino, t. 1°

relazione tenuta dall’autore nella sala civica a Copertino il 9 ottobre 1997 in occasione dei 400 anni della costruzione della torre campanaria.
E’ stata pubblicata ne “il Castello”a. VII 1997, n. 1 e ripubblicata nel libro “Frammenti di storia copertinese, 2007

Lupi e lupare nell’Arneo

di Fabrizio Suppressa

Ha destato notevole meraviglia la notizia, apparsa su testate locali e nazionali[1], del ritorno del lupo nel Salento e più in particolare nell’Arneo. È sembrato quasi di tornare indietro nel tempo, quando un anonimo giornalista de “La Provincia di Lecce” il 12 marzo 1911 riportava il seguente dispaccio:

 

“Avetrana, 10 marzo.

Da parecchi giorni due grossi lupi scorazzano in contrada Arneo, facendo una vera strage nelle masserie: cavalli, vacche, pecore, agnelli sono stati addentati o divorati e ogni tentativo per catturarli è riuscito vano. Le masserie più danneggiate sono quelle denominate Cursoli, Donna Menga e Santa Teresa.”[2]

L’occasione è ghiotta per segnalare in queste brevi note uno degli inediti segni di questo passato ancora individuabile nell’Arneo, ovvero una probabile “trappola per lupi” o “lupara” costituita da uno scavo a sezione circolare nella roccia tufacea (parzialmente colmo di terra e vegetazione) del diametro di circa due metri con al centro un pilastro.

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1A – 1B - Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 - foto di Fabrizio Suppressa)
1A – 1B – Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 – foto di Fabrizio Suppressa)

 

Foto aerea con a sinistra la “lupara” di Porto Cesareo e a destra l’enigma di Terenzano (Ugento)
Foto aerea con a sinistra la “lupara” di Porto Cesareo e a destra l’enigma di Terenzano (Ugento)

 

La collocazione del manufatto non è certo delle più felici[3]; è infatti situato a Porto Cesareo, in uno svincolo stradale tra le intersezioni delle provinciali Nardò-Avetrana e Leverano-Porto Cesareo, all’altezza dell’antica masseria Salmenta.

L’identificazione in una trappola per lupi è stata possibile attraverso il raffronto con un’altra opera simile, seppur leggermente più grande, situata ad Ugento in località Terenzano[4]. Qui lo studioso A. Pizzurro, in “Ozan: Ugento dalla preistoria all’età romana” descrive l’“enigmatica costruzione litica” come “Un unicum che non trova altri riscontri nella penisola salentina. Tale costruzione serviva sicuramente da trappola per la cattura di lupi e selvaggina varia e, dato che presenta forti analogie con quanto descritto da Senofonte nel Cinegetico 11,3, non si può escludere a priori un suo impiego come trappola durante le battute di caccia nell’antichità[5].

L’enigma di Terenzano (foto tratta da: http://www.salentoacolory.it/lenigma-del-terenzano/)
L’enigma di Terenzano (foto tratta da: http://www.salentoacolory.it/lenigma-del-terenzano/)

 

Proprio grazie al Cinegetico del Senofonte segnalato dall’autore, è possibile capire il funzionamento della trappola:

“Si scavano pure per la suddetta caccia [al lupo] delle fosse larghe, cupe, e rotonde lasciandovi in mezzo come un cilindro di terra [leggi pietra], di altezza uguale alla medesima fossa, e nella di lui sommità attaccano in tempo di notte una capra, covrendo la cennata fossa con delle ramate, acciò non sia veduta; mentre la fera correndo alla voce della capra per cibarsene, cade e precipita entro detto fosso da cui non potendo per la profondità uscire vi resta e vien presa”[6].

 

Rilievo e ricostruzione grafica della “lupara” di Porto Cesareo (disegno di Fabrizio Suppressa)
Rilievo e ricostruzione grafica della “lupara” di Porto Cesareo (disegno di Fabrizio Suppressa)

 

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5A – 5B - Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 - foto di Fabrizio Suppressa)
5A – 5B – Fotografie della “lupara” di Porto Cesareo (marzo 2018 – foto di Fabrizio Suppressa)

 

Forse un tempo la presenza di queste opere era molto più diffusa nell’antica Terra d’Otranto, come è possibile dedurlo dal “Codice di Maria d’Enghien” (1445-46) in cui si legge:

Per che al presente li lupi sono multiplicati: et per loro multiplicatione fanno di gran danno tanto alle bestie de la cità de leze, quanto de li casali vicini, et de la dicta cità de leze: e ordinato per lo dicto capitanio: acciocchè omne persona habia materia de amazare dicti lupi: che quillo chi ammazasse lupo per omne volta havera tari. X. quando fosse ucciso con balestra, et cum cani tari. vij. et in lupara tari. V.”[7]

Dove per “lupara” è lecito ipotizzare che non si intenda il tipo di arma da fuoco tristemente famosa ai giorni nostri, quanto invece questo tipo di trappola, il cui termine è ben diffuso nella letteratura in lingua volgare dell’epoca[8]. Non a caso il compenso stabilito dal codice per questo tipo di cattura – molto meno pericoloso per l’uomo – era decretato in 5 tarì ovvero nella metà rispetto ad un più azzardato scontro frontale con balestra, giustamente risarcito con 10 tarì.

La pratica della ricompensa per l’uccisione di un lupo continuò almeno fino la metà dell’Ottocento, come annota Giustiniano Gorgoni nel suo celebre vocabolario:

Nella provincia di Lecce: lu lupu, mercè i disboscamenti, non si vede più di frequente come nel tempo passato. Pur non si manca di tenere dei forti cani a guardia dell’armento, ai quali si mette un collare armato di punte di ferro. Anche qui, come altrove, l’Amministrazione dava un premio in denaro a colui che uccideva un lupo, o prendeva dei lupicioni (lupo lattante) ed oltre al premio, colui girando per le masserie riceveva dei regali[9].

Similmente è riscontrabile nei documenti dell’archivio storico del Comune di Nardò, dove si legge che il sindaco, dietro ordinanza del prefetto, si obbliga a “pagare a titolo di premio la somma di £. 25,50 a Caramia Giuseppe, vero uccisore della lupa e non già a Mazzeo Giovanni” per la soppressione avvenuta nel 1872 nei pressi della masseria detta “la Grande”[10]. Ed ancora, nelle stesse carte si legge un verbale sull’uccisione di due lupicini (un maschio e una femmina) fatta da Marinaci Vito di Giuseppe, contadino guardiano di boschi, in contrada Arneo nel 1884[11].

In conclusione, è doveroso segnalare che “Lupara” è anche un toponimo ancora vivo nell’Arneo (come anche in Gallipoli e Scorrano), al confine tra i territori di Nardò e Avetrana, tra le masserie Fellicchie e Serra degli Angeli ai margini dell’antico Bosco dell’Arneo e che non mancano sempre nel suddetto comprensorio altri toponimi testimonianti della presenza in passato del lupo, quali ad esempio “Cantalupi” tra Salice Salentino e Veglie e masseria Scorcialupi in Maruggio.

Spero quindi, con queste poche righe che questo sconosciuto, nonché raro, “monumento della civiltà contadina” possa essere, se non valorizzato, almeno riconosciuto e tutelato da eventuali costruzioni o ampliamenti stradali.

 

Note

[1] http://www.ansa.it/puglia/notizie/2017/11/24/dopo-100-anni-lupi-in-salentotracce-dna_af48d1d1-4c37-4d98-9560-44ea7e3d0151.html

http://bari.repubblica.it/cronaca/2017/11/23/news/i_lupi_tornano_in_salento_dopo_un_secolo_in_puglia_segnalati_anche_su_gargano_murge_e_arco_ionico-181924283/

http://www.nationalgeographic.it/natura/animali/2018/01/22/news/salento_individuato_un_nucleo_riproduttivo_di_lupo-3828795/

[2] M. Spedicato, Politica e conflitti sociali nel Salento Post-Fascista, Conte Editore, Lecce 1998, p. 186;

[3] Le coordinate geografiche sono: 40.267870, 17.910096, di seguito il link di Google Maps: https://www.google.it/maps/place/40%C2%B016’04.3%22N+17%C2%B054’36.4%22E/@40.2678935,17.9099803,21z/data=!4m5!3m4!1s0x0:0x0!8m2!3d40.26787!4d17.910096?dcr=0

[4] Le coordinate geografiche sono: 39.910196, 18.105765, di seguito il link di Google Maps: https://www.google.it/maps/place/39%C2%B054’36.7%22N+18%C2%B006’20.8%22E/@39.9101941,18.0882125,6310m/data=!3m2!1e3!4b1!4m6!3m5!1s0x0:0x0!7e2!8m2!3d39.9101957!4d18.1057651?dcr=0

[5] A. Pizzurro, Ozan: Ugento dalla preistoria all’età romana, Edizioni del Grifo, Lecce 2002, p. 27;

[6] F. Testa, Il cinegetico o sia Libriccino intorno alla caccia del greco filosofo ed oratore Senofonte tradotto in italiano, e di annotazioni, e prefazione fornito, Donato Campo, Napoli 1790, p. 130;

[7] M. Pastore, Il codice di Maria d’Enghien, Congedo Editore, Galatina 1979, p. 67

[8] Si veda ad esempio la Novella XXXVIII di Giovanni Sabadino degli Arienti “E per questo, facto secretamente cogliere tutte le persiche, excepto uno piede delle più belle, subito sotto quello fece fare una gran buca a modo de lupara, dove se pigliano li lupi, e aconciarla cum sì cauto modo che persona non se ne sarebbe mai aveduto. E circa tre nocte lui personalmente cum certi suoi famigli fece la guardia per sentire venire el malfactore e cadere ne la lupara. Il quale la terza nocte, venendo in zanche, entrò nel broilo e senza troppo cercare se n’andò al persico che miser Lippo avea salvato: dove non fu prima giunto, che cadde nella lupara; e per essere in zanche, quasi non fu per romperse el collo. Il che sentendo miser Lippo, che vigilava e stava attento, chiamò li famigli, dicendo: — Su presto! pigliate quella caldara de aqua è al foco e venite meco, ché l’è preso el lupo —.” Novella XXXVIII di Giovanni Sabadino degli Arienti, Porretane, dove si narra novelle settanta una etc. Nuovamente stampato, Merchio Sessa, Venezia 1531, p. 110.

[9] G. Gorgoni, Vocabolario agronomico con la scelta di voci arti e mestieri attinenti all’agricoltura e col raffronto delle parole e dei modi di dire del dialetto della provincia di Lecce, Forni Editore, Bologna 1973 (ristampa anastatica dell’edizione edita a Lecce nel 1891), p. 308;

[10] Archivio Storico dei Comune di Nardò (=ASCN), b. 37\232.1;

[11] ASCN, b. 37\232.2;

Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò

decor

Venerdì 14 luglio, alle ore 20, nella chiesa del Carmine di Nardò verrà presentato il volume edito da Mario Congedo di Galatina, Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò.

Un progetto ambizioso che il sacro tempio meritava, per essere una delle chiese più note e frequentate dalla popolazione ed oggi meta preferita dei tanti turisti che stanno riscoprendo la città di Nardò.

L’edizione, di circa 400 pagine, in formato A/4, con tavole e rilievi del complesso, centinaia di illustrazioni bianco/nero e colore, in buona parte eseguite da Lino Rosponi, è l’ottavo dei Supplementi dei Quaderni degli Archivi della Diocesi di Nardò-Gallipoli, diretti da Giuliano Santantonio. Oltre la Confraternita del Carmine hanno promosso l’edizione la Diocesi di Nardò Gallipoli e la Fondazione Terra d’Otranto.

Curato da Marcello Gaballo, contiene numerosi saggi scritti da studiosi ed esperti, che hanno voluto omaggiare la nota chiesa di Nardò con ricerche e nuove fonti di archivio raccolte negli ultimi anni. Tra questi Marino Caringella, Marco Carratta, Daniela De Lorenzis, Anna Maria Falconieri, Paolo Giuri, Alessandra Greco, Maria Domenica Manieri Elia, Elsa Martinelii, Alessio Palumbo, Armando Polito, Maria Grazia Presicce, Cosimo Rizzo, Giuliano Santantonio,  Marcello Semeraro, Maura Sorrone, Fabrizio Suppressa.

Si parte dalle origini della Congregazione dell’Annunziata e insediamento dei Carmelitani Calzati, fino alla loro definitiva soppressione e l’istituzione della parrocchia, soffermandosi sulle vicende del funesto terremoto del 1743, che arrecò danni considerevoli alle strutture, in buona parte ricostruite nel decennio successivo.

Notevoli gli approfondimenti artistici, specie all’interno della chiesa e del convento, senza tralasciare le sorprese dell’insolita facciata cinquecentesca e dei suoi celebri “leoni” posti all’ingresso, che sembrano rimandare al celebre architetto Giovan Maria Tarantino, probabile autore anche dell’altare della Trinità, nella stessa chiesa. Nuove fonti anche per l’altro artista neritino, Donato Antonio d’Orlando, al quale sembra debbano attribuirsi altre opere dipinte, oltre quella firmata del S. Eligio.

Altre sorprese emergono dagli studi sull’altare della Madonna del Carmine, sulla tela dell’Annunciazione, sulla statua lignea dell’Annunziata e su un inedito corpus di manoscritti musicali, conservati nell’archivio della confraternita.

Il ricco corredo fotografico, che rende il volume ancor più interessante, documenta arredi, stemmi, reliquie e suppellettili di cui si è arricchita la chiesa nel corso dei secoli e raramente esposti.

Da ciò l’entusiasmo del priore della Confraternita, Giovanni Maglio, che ha fortemente voluto ed incoraggiato l’iniziativa, con il sostegno dei confratelli e consorelle, inserendola “di diritto nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale civile e religioso, che si sta particolarmente curando in questo ultimo decennio” nella città di Nardò.

Oltre gli Autori, che hanno voluto offrire pagine importanti, mettendo a disposizione di tutti vicende e fonti spesso sconosciute o inesplorate, aiutandoci a leggere nella maniera più corretta ed esaustiva, altrettanto importanti coloro che hanno offerto immagini e foto altrimenti difficili da reperire, tra cui Giovanni Cuppone e don Giuseppe Venneri, Gian Paolo Papi, Clemente Leo e Don Enzo Vergine, il parroco della chiesa matrice di Galatone don Angelo Corvo, Don Domenico Giacovelli e Rosario Quaranta, Emilio Nicolì e Raffaele Puce, Stefano Tanisi, Bruno Capuzzello. Una particolare menzione a Stefania Colafranceschi per aver messo a disposizione parte della sua collezione di santini e immagini antiche, e a Stelvio Falconieri, per due importanti e rarissimi documenti fotografici della chiesa nei primi decenni del ‘900.

All’elenco si aggiungono Pierpaolo Ingusci, Antonio Dell’Anna, Luca Fedele, Emanuele Micheli e Matteo Romano, valido aiuto nell’ordinamento dell’archivio e trascrizione di alcuni documenti. C’è stato anche un silenzioso e paziente lavoro, assolutamente importante, nell’allestimento degli arredi liturgici e nella ripulitura di molte suppellettili in parte desuete ma necessarie per una completa catalogazione. Ed ecco che devono aggiungersi, includendo nel lungo elenco anche Cosima Casciaro, Dorotea Martignano, Teresa Talciano e Anna Violino.

Infine, ma non per minore importanza bensì per sottolinearne il ruolo, la riconoscenza ad Annalisa Presicce, che ha professionalmente rivisto le bozze ed omologato le centinaia di annotazioni per un testo agile, coerente e scientificamente valido, come si spera possa essere.

Il volume sarà presentato dalla Prof.ssa Regina Poso, già docente preso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento.

 

Una nuova edizione per la Fondazione. Nardò e i suoi

Nardò e i suoi

Con cerimonia privata, cui si accede per invito, sarà presentato e distribuito questa sera l’ultimo lavoro inserito tra le pubblicazioni della Fondazione, Nardò e i suoi. Studi in memoria di Totò Bonuso.

Un volume di 400 pagine, cartonato, in formato 24×30 cm, con saggi tutti riguardanti Nardò, a cura di Marcello Gaballo, presentazione di Luciano Tarricone. Edizione non in vendita. ISBN: 978-88-906976-5-4.

Saggi di Francesco Giannelli, Armando Polito, Maurizio Nocera, Gian Paolo Papi, Giuliano Santantonio, Fabrizio Suppressa, Paolo Giuri. Giovanni De Cupertinis, Marcello Gaballo, Stefano Tanisi, Alessandra Guareschi, Alessio Palumbo, Elio Ria, Maurizio Geusa, Pino De Luca, Letizia Pellegrini, Massimo Vaglio, Valentina Esposto, Daniele Librato, Mino Presicce, Pippi Bonsegna.

 

 

Luciano Tarricone, presentazione ……………………….……………………………………. p. 1
Francesco Giannelli, Tracce di preistoria e protostoria nel territorio di Nardò …… 5
Armando Polito, Un toponimo sulla riviera di Nardò: la Cucchiàra ………………….. 11
Maurizio Nocera, Della tipografia e dei libri salentini ……………….……………………. 15
Gian Paolo Papi, La “Madonna di Otranto” in territorio di Cascia
tra i possibili lavori del neritino Donato Antonio d’Orlando ……………………………… 29
Armando Polito, Antonio Caraccio l’Arcade di Nardò ……………………..……………… 41
Giuliano Santantonio, Ipotesi di attribuzione di alcuni dipinti
a Donato Antonio D’Orlando, pittore di Nardò ………………………………………………. 67
Fabrizio Suppressa, Torre Termite, la masseria degli olivi selvatici …………………. 81
Paolo Giuri – Giovanni De Cupertinis, Il seminario diocesano di Nardò dal xvii al xix secolo …………………………………………………………………………………………………….. 91
Marcello Gaballo, Un’architettura rurale impossibile da dimenticare.
Lo Scrasceta, dalle origini ai nostri giorni ………………………………………………………101
Stefano Tanisi, Lo scultore leccese Giuseppe Longo
e l’altare di San Michele Arcangelo nella Cattedrale di Nardò ………………….……… 117
Marcello Gaballo, Achille Vergari (1791-1875) e il suo contributo
per debellare il vajolo nel Regno di Napoli ……………………………………………………. 131
Alessandra Guareschi, L’arte “nazionale” di Cesare Maccari nella Cattedrale di Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 147
Alessio Palumbo, Il mito di Saturno in politica: le elezioni del 1913 a Nardò ………………………………………………………………………………………………………. 185
Elio Ria, Piazza Salandra, un esempio di piazza italiana. ……………………………….. 193
Maurizio Geusa, Uno sconosciuto fotografo di Nardò al servizio dell’Aeronautica Militare ……………………………………………………………………………………………………… 199
Pino De Luca, Histoire d’(lio)……………..…………………………………………………………. 227
Letizia Pellegrini, Scritture private e documenti.
L’archivio privato di Salvatore Napoli Leone (1905-1980) ………………………………… 231
Massimo Vaglio, Olio e ulivi del Salento ………………..………………………………………. 257
Maurizio Nocera, Diario di un musico delle tarantate. Luigi Stifani di Nardò …………263
Valentina Esposto – Daniele Librato, L’archivio storico del Capitolo
della Cattedrale di Nardò. Inventario (1632-2010) ……………………..……………………. 289
Mino Presicce, Edizioni a stampa della tipografia Biesse di Nardò (1984 – 2015) …377
Pippi Bonsegna, Ricordo di Totò Bonuso una vita per il lavoro… e non solo

 

La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

chiesa di san Giuseppe Nardò

Sarà presentato Sabato 26 aprile il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”,  La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.

Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio,  Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.

la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)
la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)

Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.

Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.

Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.

Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.

l'altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)
l’altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)

Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.

Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.

particolare dell'altare maggiore (ph Paolo Giuri)
particolare dell’altare maggiore (ph Paolo Giuri)

fronte

fronte retro

Calcare e calcinari nell’Arneo


di Fabrizio Suppressa

La calce, come affermano le fonti antiche di Vitruvio e di Plinio il Vecchio, fu scoperta molto probabilmente per caso a seguito dello spegnimento di un forte incendio di un edificio costruito in pietra calcarea[1]. Già dal IV secolo a.C. era conosciuta da Greci e Fenici che la diffusero attraverso le loro rotte mercantili in tutto il Mediterraneo.

Dagli scavi archeologici risulta che anche i Messapi utilizzarono la calce, sotto forma di malta, per la realizzazione delle proprie abitazioni; anche se per l’edificazione delle cinte murarie a difesa delle polis preferirono impiegare a secco enormi blocchi in calcarenite locale. E’ però con l’ascesa dei Romani che la calce assunse una qualità maggiore, per la realizzazione di infrastrutture ad ampia luce e di edifici mai realizzati fino ad allora. Nel nostro ambito territoriale, la calce, assieme al tufo, estratto nelle tagghiate, costituisce un connubio perfetto che ancora riesce a caratterizzare l’architettura salentina, sia essa aulica o rurale.

 

ph Fabrizio Suppressa

 

La calce e le calcare

La calce viva si ricavava, fino a pochi decenni or sono, in fornaci tradizionali chiamate calcare o meglio carcare nel vernacolo salentino. Queste primitive attività industriali erano localizzate in aree che avevano due caratteristiche imprescindibili: la presenza di boschi o di macchie per la fornitura di combustibile, come legna da ardere e carbone, e la giusta pietra calcarea per la cottura. Quest’ultima doveva essere, tra tutte le rocce del Salento, quella con formazione cristallina tipo pietra viva e dai

Libri. La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò

chiesa di san Giuseppe Nardò

E’ uscito in questi giorni il sesto supplemento della Collana che arricchisce la collana dei “Quaderni degli Archivi diocesani di Nardò-Gallipoli”,  La chiesa e la confraternita di San Giuseppe a Nardò, edizioni Mario Congedo, aggiungendo un altro importante tassello all’opera di ricostruzione storica del tessuto religioso, sociale e urbanistico di Nardò.

Curato da Marcello Gaballo e Fabrizio Suppressa, il volume di 154 pagine, di grande formato, vede la collaborazione di Stefania Colafranceschi, Giovanna Falco, Paolo Giuri, Salvatore Fischetti, Riccardo Lorenzini, Armando Polito, Giuliano Santantonio,  Stefano Tanisi, che hanno offerto saggi di notevole spessore sul culto, iconografia, studi storici e aspetti artistici concernenti il santo e la chiesa neritina a lui dedicata, nella quale ha sede la confraternita.

la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)
la facciata della chiesa (ph Paolo Giuri)

Vengono ricostruite minuziosamente le vicende dell’edificio, realizzato prima della metà del ‘600 su una preesistente chiesetta di Sant’Aniceto, nel pittagio Sant’Angelo, per espresso desiderio del sodalizio, già costituitosi nel 1621.

Tantissimi i documenti citati nel volume, in buona parte inediti e riportati da rogiti notarili e visite pastorali, grazie ai quali si riesce, finalmente, a ricostruire le vicende della bellissima chiesa, a torto ritenuta tra le “minori” della città.

Notevole il corredo pittorico in essa presente, che per la prima volta viene assegnato a valide maestranze salentine del 6 e 700, tra i quali Ortensio Bruno, Nicola Maria De Tuglie, Donato Antonio Carella e Saverio Lillo.

Centinaia di foto documentano le varie espressioni artistiche che si sono sommate nel corso dei secoli, e nel XVIII secolo in particolare, quando la chiesa fu ricostruita a seguito degli ingenti danni riportati nel terremoto del 1743. I rilievi architettonici dell’edificio e dell’annesso oratorio, la ricchissima raccolta di santini provenienti da collezioni private, le bellissime foto e gli inevitabili richiami al culto del santo nella Puglia, accrescono il valore dell’edizione, lodevolmente sostenuta ed incoraggiata dalla confraternita di San Giuseppe.

l'altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)
l’altare maggiore della chiesa (ph Paolo Giuri)

Scrive nella presentazione il direttore dell’Ufficio dei Beni Culturali della Diocesi, don Giuliano Santantonio “…Il pregio del lavoro che si pubblica è quello di offrire, in modo documentato e circostanziato, uno sguardo puntuale e dettagliato sulla Chiesa e sulla Confraternita, dalle origini al presente, capace di far apprezzare le significative peculiarità di realtà, come l’edificio sacro e la comunità che è in esso si riconosce, che nel tempo hanno finito per riorganizzare e caratterizzare anche urbanisticamente l’assetto di un intero quartiere, senza il quale la Città sarebbe altra cosa rispetto a come oggi si presenta.

Di particolare interesse è anche il suggestivo sforzo di inquadrare l’origine e lo sviluppo a Nardò del culto verso San Giuseppe nel contesto di un movimento devozionale più ampio, del quale la Città non ha mancato di cogliere i passaggi più decisivi con una tempistica che manifesta, come il tessuto sociale neritino dell’epoca non mancasse di attenzione verso ciò che andava manifestandosi fuori dalla cerchia delle proprie mura. E’ una bella lezione, che a noi, cittadini di un mondo globalizzato, pone l’interrogativo se la nostra capacità di intercettare il futuro che incombe sia ugualmente desta oppure non si sia alquanto assopita”.

particolare dell'altare maggiore (ph Paolo Giuri)
particolare dell’altare maggiore (ph Paolo Giuri)

Espresso 906

di Fabrizio Suppressa

Metto in disparte, seppur per una breve manciata di righe, le mie pietre e i miei castelli, per poter scrivere una tradizionale avventura che capita di rivivere

ogni qualvolta lascio il mio Salento alla volta della mia Torino. Potrà forse risultare un retaggio dei terribili temi delle scuole elementari dal titolo “Le mie vacanze” o forse un piccolo sfogo sui servizi ferroviari italiani, spero però sia inteso dal lettore come una delle tante infinitesime storie che percorrono quotidianamente le nostre vie ferrate. Devo premettere che per me l’Espresso 906 non è un anonimo mezzo di locomozione, ma piuttosto uno di quei luoghi del cuore o forse uno dei quei luoghi non luoghi. Ne conosco odori e rumori che ripercorro dall’età di tre settimane, quando fui trasportato in fasce a Copertino per poter essere “analizzato” nei particolari dalla folta parentela, alla ricerca della razza a cui più somigliassi.

Come di consueto, l’Espresso 906 lascia la città di Lecce alle nove e venti in un brulicare di mani salutanti dalla banchina ferroviaria. Le carrozze, traboccanti di passeggeri, sono un via vai di persone intente a sistemare i propri bagagli; si respira un’aria d’altri tempi, quella dell’emigrazione, una sensazione forse accentuata dalle stampe d’epoca delle varie Venezia e Pisa messe a decoro dell’arredo interno. Nello scompartimento in cui le valigie non “cacciano” mai a causa del carico di prodotti tipici, vi è sempre qualche salentino, di solito di “sotta lu capu“, che con famiglia si reca dopo le vacanze al Nord a lavorare, nell’attesa di una pensione tarda ad arrivare. Si fa subito amicizia, con i soliti discorsi e luoghi comuni; «mo che arriviamo.. chissà il tempo?!», o sovente vi si accenna una gara per il più lungo ritardo o il peggiore disservizio capitato, o in altri casi si elencano i vari tentativi, riusciti o meno, di furto in treno; quelli si che sono sempre di moda! Passano i minuti e i chilometri, presa confidenza, reciprocamente si va all’attacco con il solito «volete favorire?!» esibendo dentro confezioni richiudibili varie manicaretti che per rispetto ai deboli di cuore ne ometterò la descrizione.

Lungo il tragitto, il tempo cessa di essere affidato alle lancette dell’orologio; al suo posto l’incessante sbattere delle porte. «Sbam!». Con un semplice gesto della mano del capotreno, la porta sbatte, e con lei, le molteplici porte del convoglio. Un fischio, un segnale luminoso e con quella porta chiusa, il treno lascia la stazione appena raggiunta per la sua prossima meta, quante storie, amori, tragedie dietro quel semplice tac: è la porta che parla o che vorrebbe parlare e che nessuno è capace di  ascoltare.

Arrivati a Bari, il treno deve attendere l’innesto delle carrozze provenienti dalla Calabria (perennemente in ritardo). Da questo momento ci si prepara per la notte, si spengono le luci esi allungano i sedili. I due bambini dello scompartimento si stendono uno con i piedi in faccia all’altro, mentre gli altri passeggeri cercano di sistemarsi al meglio. Preferisco prima di mettermi a riposo, fare due passi in corridoio e approfittarne per una tappa alla “ritirata“. Varcato il corridoio mi accorgo di non essere più un passeggero della Freccia Adriatica, ma piuttosto di un Indian Express. Dopo un mega slalom tra valigie, cani, gente coricata a terra, fumatori incalliti di Marlboro e tra rifiuti di ogni genere e tipo, torno al mio posto per usufruire del mio sedile cinquanta per cinquanta di colore azzurro Trenitalia. Si rimane in dormiveglia il più del tempo, riuscire a chiudere occhio è un’impresa da record. Si rimane attenti, impauriti un po’ dai discorsi iniziali sui furti, ma ci si può accontentare di una magra consolazione, possedere il posto sopra al carrello del treno non fa certo addormentare. La notte prosegue lunga e rumorosa, «addò’stamu???» si bisbiglia «bo’!? Bologna?» «Rimini?» ma una voce elettronica inizia a ripetere «Ancona, stazione di Ancona!» il viaggio è ancora lungo. Vi si intravedono da una striscia della tendina non tutta abbassata, luci e teste di persone che camminano. Ritorna il sonno. All’improvviso qualcosa mi sveglia, un leggero colpo in testa e poi sul fianco, focalizzo un po’ rincoglionito, niente; è un calzino (con un piede dentro) del bambino (al quanto sonnambulo) che sta a fianco del mio sedile, gli prendo l’arto e lo riposiziono di nuovo nei pressi del volto di suo fratello. Ne approfitto per capire nei pressi di quale stazione siamo, ma con uno sguardo veloce intravedo molta gente stesa a dormire sul pavimento del corridoio; mi reputo fortunato ad aver trovato in tempo la prenotazione. Sono le cinque e mezza, la posizione da Buddha seduto mi ha reso i legamenti muscolari come un elastico al sole salentino, mi alzo per fare quatto passi in corridoio. Niente da fare; camminata rinviata: uno stramaledetto omino con cappellino rosso e carrellino, incede per le carrozze urlando a squarciagola «caffè, cornetti, birra (birra??), tramezzini, cocacola» svegliando l’intero convoglio, obbligando chi è sdraiato in corridoio ad alzarsi per permettere il passaggio del trabiccolo.  Questo è il segno che siamo alle porte di Bologna, e che per fortuna molti passeggeri devono scendere.

«Bologna, stazione di Bologna»! Cinque e trenta del mattino, scendono molti studenti e molti giovani turisti con sacco a pelo e idee rivoluzionarie. «Menu simu, megghiu stamu!» si sente esclamare in qualche scompartimento (concordo pienamente con quest’anonimo passeggero, sicuramente salentino). Fuori Bologna, alle prime luci dell’albeggiare si intravede dal finestrino un paesaggio agrario quasi estraneo. Distese monotone di granoturco abbinate ad un cielo nuvoloso rendono triste un risveglio non certo dolce. L’Espresso 906 continua il suo percorso accumulando sempre più ritardo ad ogni anonima stazione ferroviaria della Pianura Padana.

Piacenza, Stradella, Voghera, Tortona, Alessandria, Asti, Lingotto… il treno giunge a destinazione, Torino Porta Nuova. Si salutano i conterranei, compagni di sventura di una notte e ci si aiuta tra sconosciuti nella discesa dei bagagli. L’ultimo gradino metallico e il piede poggia Torino …nonostante tutto; a quando la prossima discesa?

Nardò. Torre Tèrmide, la masseria degli olivi selvatici

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La masseria Termide vista da ovest (ph. F. Suppressa)

 

di Fabrizio Suppressa

 

La masseria fortificata Torre Tèrmide o Termite è situata a pochi chilometri a nord-ovest dal centro abitato di Nardò[1], nell’agro denominato Arneo, il vasto e fertile territorio posto lungo l’insenatura jonica della penisola salentina. Secondo il Costantini, la costruzione appartiene alla tipologia delle “Torri a base scarpata con scala esterna”, conformazione questa tipica dell’area di “affittimento neretina”, in cui la stessa è inserita[2].

L’impianto agricolo, dalla conformazione quadrangolare del suo recinto, ha fondamento su una lieve asperità rocciosa del terreno. Al centro del complesso vi è l’elemento fortificato, il nucleo originario del complesso, databile alla prima metà del XVI secolo[3] e caratterizzato dall’aspetto severo della mole bruno-scura dei suoi conci tufacei. La torre è dotata di due accessi, quello inferiore è costituito da una piccolo passaggio, probabilmente successivo, posto nel basamento del fronte nord. Quello superiore, sempre sul medesimo prospetto, è garantito da una ripida e stretta scala in muratura al cui termine vi è un pianerottolo d’arrivo sostenuto da una volta a botte. Questo originariamente era formato da un ponte levatoio in legno movimentato manualmente in caso di necessità. Il sistema difensivo era inoltre dotato di quattro caditoie poste in asse con le principali aperture e di cinque feritoie adatte all’uso di artiglieria di piccolo calibro, come moschetti e archibugi. Dall’ampio terrazzo, la torre comunicava a vista con le limitrofe masserie fortificate di Abbate Cola, Corsari, Agnano e con la torre costiera di S. Isidoro.

La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)
La torre al centro della masseria, parte della scala è recentemente crollata (ph. F. Suppressa)

 

Piuttosto scarne sono le fonti storiche relative al piccolo insediamento agricolo. Dalle pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò emerge come la masseria nel giorno del 6 dicembre 1619 sia soggetta ad un nuovo proprietario. Alessandro Vernaleone di Nardò vende infatti a Lupo Antonio Coriolano e ai suoi figli Lucio, Orazio, Cesare e Gerolamo, per 1000 ducati il complesso agricolo[4]. Dagli stessi documenti emerge anche il nome del primo proprietario di cui si hanno notizie: un tal Ottavio figlio di Giovanni Pietro de Vito di Nardò, da cui Alessandro Vernaleone aveva acquistato anni prima la masseria per lo stesso prezzo di 1000 ducati[5].

Gli affari non sembrano andare bene ai nuovi proprietari; pochi anni dopo, il 12 gennaio 1622, un nuovo soggetto entra in società con i Coriolano. Vengono venduti all’Abate Domizio, procuratore del Capitolo di Nardò, al prezzo di 220 ducati, 19 ducati sulle prime rendite annuali della masseria e altri beni stabili “a scelta del Capitolo[6].

Nella prima metà del XVII secolo la masseria passa alla nobile famiglia neretina dei Sambiasi-Massa (per il matrimonio di Ottavio di Pietro Massa con Veronica Sambiasi) come emerge dallo stemma nobiliare posto sul fronte nord della torre[7].

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Stemma della famiglia Sambiasi Massa (ph. F. Suppressa)

Altrettanto interessanti risultano le cartografie storiche che inquadrano l’area in esame. Un primo documento di estrema rilevanza è certamente l’atlante del 1806 detto del Rizzi Zannoni[8], qui infatti la masseria Termide appare rappresentata immersa in un territorio prevalentemente impervio ed incolto, tra le folte macchie dette di Villanova e di Carignano, a non poca distanza dalla via di comunicazione che parallela alla costa da Taranto conduce a Gallipoli.

 

Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni
Stralcio del foglio 22 dell’Atlante Rizzi Zannoni

 

Un territorio dalle caratteristiche estremamente differenti da quelle attuali, che giustifica il toponimo “Tèrmide”. Tale vocabolo indica infatti nel dialetto locale l’olivastro, pianta tipica della macchia mediterranea impiegata anticamente per le proprietà di resistenza al clima e alle patologie come portainnesto per gli ulivi da coltivazione; una vera e propria risorsa per la florida olivicoltura di Terra d’Otranto.

Macchie che venivano impiegate anche per il pascolo allo stato brado di ovini e caprini, attività specifica delle masserie dette da “da pecore”, come la nostra in esame, nei cui capienti ricoveri, ingranditi nel corso dei secoli, poteva senz’altro ospitare numerosi capi di bestiame. Anche la cappella dedicata a Sant’Antonio da Padova, protettore degli animali domestici, adiacente al complesso ne è una forte testimonianza di questa importante attività agropastorale.

 

Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)
Masseria Termide, cappella di Sant’Antonio Abate (ph. F. Suppressa)

 

Attorno al 1870 la torre della masseria Tèrmide diviene vertice trigonometrico di seconda categoria, per la nascente rete cartografica nazionale redatta dall’Istituto Topografico Militare, viene per questo motivo costruito sul terrazzo, all’angolo di nord-est della torre, un pilastrino in muratura con un centrino in acciaio atto ad ospitare la strumentazione topografica.

Verso la fine dell’Ottocento la masseria risulta accatastata[9], compare l’impianto originario, in cui sono ben individuabili i vari corpi facenti parte dell’insediamento agricolo, i vani accessori, un’aia, una cappella e un cisternone per la raccolta delle acque piovane.

Alla fine della II Guerra Mondiale proprietario del complesso risulta essere il botanico napoletano Gioacchino Ruffo, Principe di Sant’Antimo e Duca di Bagnara e Baranello. Alla morte di costui nel 1947, la proprietà transita alla figlia Maria Lucia, e tale rimane fino al 6 settembre del 1952, quando per decreto dell’allora Presidente della Repubblica[10] Luigi Einaudi, le proprietà (assieme ad altre masserie del Salento, quali Ascanio, Pittuini, Rauccio, Scorpo e li Ronzi) vengono espropriate per 8.347.889,30 di Lire e affidate al neonato Ente per la Riforma Fondiaria di Puglia, Lucania e Molise. Il vasto latifondo[11] dai circa 630 ettari (uno dei più estesi della provincia), viene dapprima dissodato e bonificato, ed inseguito frazionato in “poderi” e “quote” venduti ai contadini assegnatari con patto di riservato dominio.

l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma
l vasto latifondo di 630 Ha prima dell’esproprio dell’Ente Riforma

La masseria divenne invece un centro di servizio per il patrimonio zootecnico[12] e per questo motivo alcune parti furono demolite per far spazio a nuovi fabbricati e a case coloniche di tipo “Arneo”. Con il fallimento della Riforma Fondiaria, tutto il complesso è entrato in un lento ed inesorabile declino; attualmente di proprietà demaniale, la masseria è saltuariamente occupata da coloni. Lo stato di conservazione è pessimo.

La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento
La masseria in una foto degli anni ’70 del Novecento

[1] La masseria è rintracciabile su Google maps al seguente link: http://goo.gl/maps/kHwTX

[2] A. COSTANTINI, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Adriatica, Lecce 1984, p. 30

[3] Ibidem, p. 272

[4] M. PASTORE, Le pergamene della Curia e del Capitolo di Nardò, Centro Studi Salentini, Lecce 1964, p. 28.

[5] Ibidem

[6] Ibidem, p. 30.

[7] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò Nostra, Lecce 1996, p. 65.

[8] G.A. RIZZI ZANNONI, Atlante geografico del Regno di Napoli delineato per ordine di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie, Stamperia Reale, Napoli 1789-1808, Foglio 22.

[9] Comune di Nardò, Foglio XLVII, Particella 9 – ringrazio Francesco e Tonino Politano per il prezioso aiuto e per il reperimento delle cartografie catastali

[10] D.P.R. n. 1369 del 6 settembre 1952 e G.U. n. 260 del 10-11-1952

[11] I confini sono così descritti: “A nord, con il limite dei fogli nn. 33 e 34, ad Est, con strada comunale Masseria Console, ad Ovest, con strada vicinale Sant’Isidoro e strada vicinale La Lucia. Sono intersecati nel senso nord-ovest, sud-est dalla strada provinciale Manduria-Nardò e dalla strada comunale Tarantina” G.U. n. 260 del 10-11-1952

[12] A. COSTANTINI 1984, op. cit., p. 102.

Copertino. Il santuario della Madonna della Grottella

 

di Fabrizio Suppressa

Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.

Santuario della Grottella (ph F.Suppressa)

L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi  rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.

Affresco raffigurante il ritrovamento miracoloso

Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.

Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”

La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.

Navata centrale (ph F. Suppressa)

Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.

All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.

Particolare del portale in pietra leccese

Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.

Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.

Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.

Altare Privilegiato, affresco della Madonna della Grottella

Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.

Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.

Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.

Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.

Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.

 

Bibliografia:

P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.

F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.

 

Particolare del rosone (ph F. Suppressa)

Fabrizio Suppressa

Fabrizio Suppressa, è nato a Torino nel maggio del 1987 ed ha origini salentine. Attualmente studia Architettura presso il Politecnico di Torino. Estremamente affascinato dalla Terra d’Otranto ed in particolare dall’architettura e dai materiali lapidei grazie anche alla guida del nonno maestro muratore e scalpellino dilettandosi altresì nella lavorazione di legno d’ulivo e pietra leccese. Nel 2007 fonda con una sua cara amica il sito Ankalè di cui è webmaster e curatore dei contenuti. Spera un giorno di poter praticare la libera professione di architetto nel Salento.

Il castello di Copertino

di Fabrizio Suppressa

Immerso tra il verde degli ulivi salentini e a pochi chilometri dal blu del mare Ionio sorge Copertino, un comune popolato da poco meno di 25000 abitanti. Se dovessimo descrivere questa ridente cittadina con un’immagine che la rappresenta, senz’altro ci lasceremmo catturare dalla mole bruno-carparo del castello cinquecentesco e dal mastio angioino inglobato nella fortezza. Una perfetta macchina da guerra, che seppur svaniti i cupi periodi bellicosi, continua tutt’ora a destare rispetto e meraviglia ai turisti che giungono a visitare il Monumento Nazionale.

veduta aerea di Copertino

Ripercorriamo brevemente le origini del fortilizio celate nelle gagliarde murature, sino ad arrivare all’attuale conformazione del “più grande, bello e forte castello che si vegga nella provincia”, per dirla con le parole del Marciano, opera di Evangelista Menga “Architettore eccellentissimo, (..) della Cesarea Maestà di Carlo V”. 

Delle primordiali origini del castello di Copertino vi sono molte ipotesi, la più avvincente riguarda una possibile fondazione bizantina di un castéllion o di una piccola cittadella fortificata che amministrava fiscalmente e militarmente i limitrofi casali. Nonostante accurati saggi di scavi e rilievi a cura della Soprintendenza, ad oggi non sono state rinvenute tracce risalenti a questo periodo storico.

Il primo nucleo ben identificabile è l’antico mastio sorto probabilmente sotto il dominio Svevo e portato a termine dagli Angioini, come testimoniano l’esistenza di alcuni stemmi e l’iscrizione “CAROLUS ANDEGAVENSIS 1267”.

castello di Copertino (ph F. Suppressa)

In seguito, a causa di successioni ereditarie, il feudo copertinese, assieme a quelli di Leverano, Veglie e Galatone, passa ai Gualtieri di Brienne, che appongono il proprio stemma in pietra leccese sul lato Est con l’iscrizione (non più esistente)  “GUALTERIUS DE BRENNA COMES CUPERTINI”.

Possiamo immaginare questa magnifica opera come isolata e probabilmente munita di recinzione e fossato di difesa, non molto differente dalla vicina torre federiciana sita in Leverano. D’altronde in alcuni punti non avvolti da superfetazioni, sono ben visibili una pronunciata scarpa alla base della torre e superiormente dei beccatelli mutilati che sorreggevano probabilmente un camminamento in legno. L’interno era poi costituito da solai lignei, sostituiti poi nel ‘700 con volte in muratura, mentre una scala a chiocciola, realizzata nella spessa muratura, collegava tra loro i vari piani.

Il dongione era praticamente inespugnabile poiché l’accesso originario era collocato alla quota del primo piano, e comunicava con l’esterno tramite un ponte levatoio, di cui oggi permangono gli scassi dei bolzoni sul lato Nord che tracciano sulla scarna muratura una sorta di grossa croce latina.

Con il matrimonio tra Caterina, figlia di Maria D’Enghien e Raimondo Del Balzo Orsini, con il Cavaliere francese Tristano di Chiaromonte, il feudo e il castello vengono donati ai novelli sposi. Tristano, divenuto ora Conte di Copertino, cinge di mura le terre del proprio feudo ed erige il raffinato e tutt’ora esistente Palazzo Comitale, arricchendolo successivamente da un grazioso loggiato con bugne a punta di diamante.

Non passa poco tempo che feudo e castello vedono nuovamente cambiare signore. Con la guerra tra Angioini e Aragonesi e la vittoria di quest’ultimi, le proprietà vengono concesse ai Principi Castriota Scanderberg d’Albania come ringraziamento degli aiuti prestati.

Ma siamo oramai agli inizi del XV secolo, l’invenzione e lo sviluppo dell’artiglieria sconvolge radicalmente le tecniche difensive di castelli e rocche. In tutta Europa le esili mura medievali vengono sostituite con cortine e opere bastionate ed anche il nostro castello di Copertino verrà perfettamente rimaneggiato alla maniera moderna.

Promotore di queste nuove ristrutturazioni è Alfonso Castriota come ci ricorda la lunga iscrizione che corre lungo il prospetto Nord-Est:

D. ALFONSO CASTRIOTA MARCHIO
ATRIPALDI DVX PRAEFECTVSQVE CAESARIS
ILLVSTRIVM D ANTONII GRANAI CASTRIOTAE
ET MARIE CASTRIOTAE CONIVGVM FERRANDINAE
DVCUM ET COMITVM CVPERTINO, PATER, PATRVVS
ET SOCER ARCEM HANC AD DEI OPTIMI MAXIMI
HONOREM CAROLI QVINTI REGIS ET IMPERATORIS
SEMPER AVGVSTI STATAM. ANNO DOMINI MDXL.

Costui affida l’incarico al copertinese Evangelista Menga, architetto militare nativo di Francavilla Fontana, già divenuto celebre per le sue fortificazioni di Malta, Mola e Barletta.

Il nuovo sistema difensivo, realizzato tra il 1535 e il 1540, si sviluppa attorno agli edifici preesistenti e ricalca planimetricamente il cortile trapezoidale dell’antico Palazzo Comitale. Vengono realizzate le spesse cortine di difesa, suddivise in due ordini di fuoco di cui quello superiore in “barbetta” e i quattro bastioni a punta di lancia collegati tra loro con una lunga galleria che scorre all’interno del perimetro del castello.

Contemporaneamente viene anche realizzato il portale di accesso (sempre opera di Evangelista Menga), dalle geometrie che ricalcano le linee angioine-durazzesche, arricchito inoltre da decorazioni scultoree in pietra leccese e da augustali con i volti dei personaggi che hanno contribuito alla storia dell’abitato.

particolare del portale del castello di Copertino (ph F. Suppressa)

Possiamo immaginare il castello nel pieno del suo splendore grazie ad un anonima descrizione settecentesca custodita presso l’Archivio Vescovile di Nardò:

“Così è fabbricato con ogni regola militare, che sempre a difesa dei suoi cittadini servirà da palladio contro i nemici. Né il suo fabbrico potrà mai venir meno, che per le sue fondamenta appoggiate si veggono sopra il sasso; tanto più sempre durevole, quanto ch’è pietra viva. E’ di passi 200 di circulo la sua pianta, cingendola per intorno il fossato largo passi 17 dalle cortine di fuore, e dalli Baloardi passi 8. Ha quattro torrioni in faccia de quattro venti più principali, difendendo la terra per ogni parte dai suoi nemici: ogn’uno di quelli ha quattordici finestroni, ed in ciascheduno di quelli vi sono due finestre una diversa dall’altra, per dove a traverso può giocare il cannone. (…)

Nella sua porta maggiore non solo vi è il rastrello, ma anche il ponte a trabocco; a fronte di chi, prima di entrare nel suo cortile, vi sono due fenestroni che con delle bombarde minacciano l’ingesso.

Succedendo il bisogno di far mine, e contro mine, così vi sono altre sotterranee corsie, come sotto de li baluardi in terra piana, che guardano le fossate. Vi sono stanze per abitare di varia sorte di genti e per risposta d’ogni attrezza di guerra. Forni, e molini per macinare grani, e polvere, ritrovandosi in quantità nelle sue grotte il salnetro. Non mancano le provviste dell’acque piovane nelle molte cisterne; come in un pozzo l’acque surgenti dolcissime, ed in abbondanza. Il fabbrico delle sue mura è largo palmi 35 con calcina di molta gran forte mistura. Detto castello fu guarnito con cento pezzi di cannoni ed altra artiglieria di bronzo, e con cento venti e più altri di ferro. Il piano vicino al castello è tutto minato, e con difficoltà questa fortezza potrà essere abbattuta.”

Con l’estinzione del ramo Castriota, il feudo viene messo all’asta dal regio demanio e acquistato dagli Squarciafico, banchieri genovesi con molte attività nel Salento. A questa famiglia dobbiamo la realizzazione di un capolavoro nel capolavoro, ovvero la costruzione della cappella di San Marco (realizzata al di sopra di una angusta cripta tutt’ora esistente) interamente affrescata dal pittore copertinese Gianserio Strafella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento; senza tralasciare un ulteriore opera d’arte custodita nella cappella: il monumento funebre di Stefano e Uberto Squarciafico realizzato dallo scultore gallipolino Lupo Antonio Russo in stile manierista.

Negli anni a seguire si susseguiranno ulteriori nobili famigli, quali i Pinelli, i Pignatelli e i Granito di Belmonte, che passata la paura ottomana, trascureranno il nostro castello a favore di palazzi molto più sfarzosi e confortevoli nelle città più importanti del Regno.

L’ultimo periodo di gloria per il castello avverrà verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, quando il re Vittorio Emanuele III e il Governo Badoglio rifugiandosi a Brindisi, stabiliscono qui il Comando di Presidio dell’Esercito. Tutti i locali interni e le aree attorno saranno destinate al ricovero delle truppe someggiate.

Verrà in seguito, dopo anni di abbandono ed incuria, acquistato dal Ministero che in accordo con la Soprintendenza darà il via ai lavori di restauro e di restituzione dell’opera come polo culturale ai suoi legittimi possessori: i cittadini di Copertino.

L’elegante torre federiciana di Leverano (Lecce)

La torre di Leverano (ph Fabrizio Suppressa)

di Fabrizio Suppressa

Tra le tante torri che svettano sulla penisola salentina, ce n’è una in particolare che racchiude nelle sue geometrie e nelle forme una raffinata eleganza. Stiamo parlando della torre federiciana, emblema dello stendardo leveranese, che da più di 700 anni domina il fiorente abitato della pianura copertinese.

Fu voluta da Federico II di Svevia, il Puer Apuliae, e ultimata nel 1220 come baluardo a difesa dell’abitato e delle coste cesarine, imperversate a quell’epoca da scorribande saracene. Fu posizionata secondo una rete di piazzeforti che proteggeva l’entroterra jonico, assieme alle fortificazioni di Mesagne, Oria e Uggiano Montefusco e collegata visivamente con il primordiale impianto svevo del futuro castello di Copertino (secondo parecchie fonti orali i due fortilizi erano collegati da improbabili gallerie ipogee).

La torre è la più alta della Terra d’Otranto, si erge per 28 metri tra le basse abitazioni circostanti, anche se, originariamente la costruzione sorgeva isolata all’interno delle mura cittadine con un profondo fossato largo alcuni metri.

Varcato l’uscio d’ingresso, posto nel poderoso basamento lievemente scarpato, si raggiunge un ambiente voltato a botte ogivale, dove lateralmente è posta una particolarissima scala a chiocciola a doppia spira (forse unica in tutto il Salento) che si sviluppa nell’anima della muratura per tutta l’altezza della torre.

Raggiunto il primo livello, non si può far altro che alzare gli occhi per ammirare le pareti interne dal colore ambrato, sino alla splendida volta a crociera dai costoloni bicromi. Questa particolarità, realizzata con l’alternarsi di conci in tufo e pietra leccese molto simile al coevo portico dei Cavalieri Templari di Brindisi, denota una chiara influenza orientale, tipica delle strutture duecentesche del Meridione d’Italia.

interno della torre (ph. F. Politano)

L’eleganza della torre risiede nelle raffinate decorazioni e nella perfetta fattura degli apparecchi murari, opere peculiari dell’architettura normanna. Come per esempio i caminetti con le deliziose foglie d’acanto, gli architravi dai precisi incastri e soprattutto le cornici delle finestre con il particolare motivo a zigzag (ornamento a “denti di sega” o a Baton-Rompus secondo Viollet Le Duc). Quest’ultima decorazione, riscontrabile anche nel santuario di Santa Maria della Lizza e nel campanile del Duomo di Nardò, è stata inspiegabilmente privata delle originarie proporzioni nel recente restauro a causa dell’inspessimento delle cornici con fasce in pietra leccese.

La torre era inoltre suddivisa in tre livelli con solai lignei, successivamente crollati o demoliti, come si desume dagli incassi delle travi nella muratura e dagli elaborati caminetti disposti quasi a mezz’aria.

Dall’ampio terrazzo, un tempo protetto da strutture in legno, la torre partecipò alla difesa dell’abitato, come ci ricorda il Marciano nel capitolo dedicato alla sua città natìa:

“Verso il 1220 Federico II vi edificò la torre, (…) acciò dalle scorrerie de’ nemici si difendesse il luogo, il quale per I’arme che si usavano in quelli tempi era fortissimo. E nell’anno 1373, o secondo il Coniger 1378, Francesco del Balzo Duca di Andria, rottosi colla Regina Giovanna I, condusse nel regno di Napoli Giovanni Montacuto capitano Bretone con seimila Brettoni ed Inglesi; ed avendo nella Puglia occupato Canosa, Minervino, Gravina ed Altamura, passò nell’assedio della città di Lecce, e nel passaggio distruggendo quanti luoghi incontrava della Regina distrusse con repentino assalto il Casale Albaro, i cui abitatori si ridussero ad abitare in questa terra.”

Ed ancora, nel 1484 resistette all’assalto dei Veneziani, che in quel periodo avevano occupato Gallipoli e i territori circostanti, mentre nel 1528 riuscì a resistere ai francesi comandati dal visconte di Lautrec.

Con il repentino passaggio delle tecniche difensive da piombante a radente iniziò il triste declino della nostra torre. Il dongione divenuto oramai un facile obiettivo delle artiglierie, fu trascurato dai vari feudatari e trasformato in magazzino per suppellettili e granaglie. Subì ulteriori sfregi quando in seguito, l’ampio locale interno fu trasformato in una vera e propria colombaia mediante l’asportazione, con un disegno a scacchiera, di alcuni conci dalla muratura.

Pericolante a metà ‘800, la torre fu “riscoperta” dai galantuomini più illustri di Terra d’Otranto, tra cui il De Simone, il De Giorgi e l’Arditi. Costoro si attivarono energicamente affinché si intraprendessero i primi lavori di consolidamento statico della volta a crociera e il riconoscimento della torre come monumento nazionale (1870).

Dobbiamo proprio alle loro azioni e alla loro tenacia se tuttora possiamo ammirare e visitare l’eleganza di questa agile costruzione svettante sopra le assolate terrazze della città dei fiori.

Le decorazioni nelle note di Cosimo De Giorgi

Bibliografia:

M. Paone, La Torre, in Tempi, uomini e cose di Leverano, Galatina, Editrice Salentina, 1985.

R. De Vita, Castelli e opere fortificate di Puglia, Bari, Adda Editore, 1974

L’arte di scavare la pietra

di Fabrizio Suppressa

I primi abitanti che popolarono il nostro territorio erano prevalentemente semi-nomadi, si spostavano a seconda dei periodi stagionali con gli armenti al seguito, alla ricerca di pascoli da utilizzare. I loro ricoveri erano costruiti con materiale vegetale (legno, canne, fango, pelli), sul suolo calcareo, come testimoniano i numerosi buchi da palo, scavati nella roccia in aree costiere o sulle alture rocciose.

Con lo stanziamento, le invasioni e l’influenza di altri popoli, nonché con lo sviluppo di nuove tecnologie, l’uomo iniziò a sfruttare ciò che aveva in abbondanza – il materiale lapideo – ricercando nuove soluzioni edilizie adatte ai nuovi bisogni.
Sulle scogliere di Porto Selvaggio è presente una cava, datata all’epoca messapica, da cui si estraeva una roccia calcarea molto compatta e resistente, cavata con un metodo molto antico: venivano scavati i contorni del concio da estrarre e si infilavano al di sotto dei cunei di legno che, bagnati abbondantemente con acqua, dilatandosi provocavano il distaccamento del pezzo dal substrato roccioso;  sono ancora visibili i segni lasciati dagli scalpelli, e numerosi blocchi monolitici, alcuni di notevoli dimensioni, che aspettano da millenni un imbarco, dai resti del sommerso molo d’attracco delle navi.

Passarono i secoli e dal vicino Oriente arrivarono i monaci Basiliani, portatori di grandi conoscenze tecniche, oltre che della cultura e della lingua. Essi erano dediti prevalentemente all’esercizio spirituale, in ascesi, o in piccoli cenobi. A causa delle persecuzioni iconoclaste e delle scorrerie di pirati e barbari, preferirono realizzare i loro luoghi di culto e le loro dimore in cavità ipogee che scavarono a mano, creando cripte, abitazioni a grotta, depositi per derrate alimentari. Alcuni complessi molto articolati dove si uniscono con splendidi affreschi raffiguranti scene di rievocazioni evangeliche e figure di santi per lo più orientali sono tra i capolavori del Salento. I monaci insegnarono alle nostre genti medievali i benefici di queste tipologie abitative di cui rimangono molte testimonianze nei pressi di Casole a Copertino, come pozzelle e case a grotta, ormai riempite di terra per piantarvi ulivi. Rimangono ancora alcune cripte, come a Veglie quella della Favana, in agro di Nardò quella di Sant’Antonio Abate, a Copertino quella di Masseria Monaci, della Grottella; rimangono anche alcune testimonianze orali, seppur molto fantasiose di lunghe gallerie che collegano varie località, come i conventi.

 

Dal Basso Medioevo agli Anni ’50

Con la necessità di accorpamento della popolazione e la relativa difesa, cresce il bisogno di materiale edilizio per la costruzione delle strutture. Nasce così la nuova figura dello zzoccatore, o del cavamonti, mentre il paesaggio rurale si trasforma; alcune aree adatte all’estrazione vengono trasformate per la nuova attività “industriale”. Lo zzoccatore, era uno dei mestieri più duri e meno pagati, il nome deriva dall’unico attrezzo usato, lo zzueccu; un ferro con due punte, la prima lunga circa 35 cm e stretta, disposta a coltello, serviva per creare i quattro solchi paralleli, che davano i lati al concio, la seconda punta più corta, lunga circa 20 cm, con forma di ascia, serviva ad estrarre il pezzo mediante lievi colpi e facendo leggermente leva alla base, e per livellarne le irregolarità.

Lu zzueccu Esiste ancora a Copertino, il vico degli zoccatori, un rione all’epoca molto povero e con le condizioni igieniche ai limiti della vivibilità, caratterizzato da una strada molto stretta con le case ammassate le une e le altre, situata appena fuori le mura sulla direttrice, stradale che portava alle tagghiate, ovvero alle cave.

In base alle richieste de lu mesciu, il cavamonti estraeva i cuzzetti, i pezzi, che in cantiere in base alle dimensioni prendevano il nome di purpittagnu con sezione quadrata di 25 cm, pizzottu con 30 cm di base, Palmo e mezzo con 35 cm di base. L’altezza veniva definita tagghia, ed era in legno e costante per tutti i zoccaturi (25 cm nel Novecento, ma varia a seconda delle epoche), la lunghezza invece variava a seconda dell’utilizzo e si misurava in palmi.

La qualità del tufo faceva dipendere il prezzo, quello rosso, era di scarso valore poiché il primo strato sotto il terreno era ricco di umidità e molto più friabile, sovente era utilizzato per le fondazioni o scartato, quello bianco, di media qualità veniva estratto dalle parti più basse della cava, quello giallo, per tutti gli impieghi variava di prezzo in base all’area di estrazione, le più rinomate erano presso masseria la Torre (torre te lu fieu) e li Monaci. Infine il materiale veniva trasportato dalla cava al cantiere tramite il trainieri.

Il paesaggio che si viene a creare è molto singolare, le cavità prendono forma a gradini, a causa dell’ingombro laterale dello zzueccu, con un labirinto irregolare costituito di varie stanze, dislivelli, scale e pinnacoli di pietra non estratta poiché di cattiva qualità (con catene o linee di cozza).
Una volta esaurita, la cava veniva recuperata a giardino, pian piano la natura si riappropriava della terra, e crescevano spontaneamente, chiappari, tumi, fichi, ficatigne, mentre in anfratti più ampi venivano piantati ulivi o agrumi; con il materiale tufaceo di scarto venivano realizzati muretti a secco di contenimento o di confine, e furnieddhi per riparo dalle improvvise intemperie.
La natura geologica del tufo permette la creazione di questi miracolosi giardini ad esempio il mantenimento dell’umidità in caso di siccità; questi esempi sono ritrovabili nell’area a sud est di Copertino, ma purtroppo c’è da constatare l’ignoranza di molte persone, che hanno utilizzato questi anfratti per liberarsi di elettrodomestici non più funzionanti, materassi rigorosamente bruciati, carcasse di auto, e l’immancabile “cesso” incontrastato principe delle improvvisate discariche salentine.

Consiglio ai lettori la visione di questo bel documento dell’Istituto Luce, a proposito delle nostre cave:

http://www.youtube.com/watch?v=n1Q8WJcalTY

Girolamo Marciano e la Fata Morgana

di Fabrizio Suppressa

 

Acquitrini, laghi, lame e paludi erano fino ai primi del Novecento elemento caratterizzante del paesaggio salentino. Luoghi scarsamente popolati a causa della diffusione del morbo malarico ma posti occasionalmente frequentati dalle genti locali che vi traevano importanti prodotti naturali utili all’artigianato e al sostentamento alimentare. Aree anche cariche di mistero e magia, patria di “magiare” streghe o fattucchiere che con le zone isolate e con i miasmi degli acquitrini trovavano il luogo ideale per praticare i loro intrugli.

Copertino. Il santuario della Madonna della Grottella

 

di Fabrizio Suppressa

Una strofa della pizzica copertinese “lu sciallabbà” recita così: “Gira, gira bella come il vento della Grottella”. Poche semplici parole, cariche di bellezza e di sensualità, descrivono con un colpo di pennello un luogo caro alla memoria degli abitanti di Copertino: il Santuario della Madonna della Grottella.

Santuario della Grottella (ph F.Suppressa)

L’attuale chiesetta sorge nei pressi dell’antico casale di Cigliano, uno dei tanti distrutti durante le invasioni dei Goti e dei Saraceni. Il luogo fu frequentato fin dall’epoca romana, come attesta l’origine prediale del toponimo, ma le uniche tracce antiche rintracciabili sono quelle relative all’epoca dei monaci basiliani. La leggenda narra come nel 1540 un pastorello avendo smarrito un vitello, incominciò in lungo e largo a cercarlo in questa antica terra; lo ritrovò tra cespugli e rovi, inginocchiato davanti l’ingresso di una grotta, dove all’interno due misteriosi ceri accesi  rischiaravano il volto affrescato della Vergine. Il pastore, dopo un attimo di smarrimento, corse subito al vicino paese per annunciare il ritrovamento al Capitolo della Collegiata e a tutta la cittadinanza, che una volta accertata la verità, si recò in processione a venerare la sacra immagine.

Affresco raffigurante il ritrovamento miracoloso

Dietro autorizzazione di Mons. Giovanni Battista Acquaviva, in quel periodo Vescovo di Nardò, fu costruita una piccola cappella; probabilmente si trattava di una piccola costruzione che custodiva l’ingresso del vano ipogeo. In pochi anni dal ritrovamento fortuito dell’immagine, crebbe in tutto il territorio della Terra d’Otranto la devozione verso la Madonna della Grottella. Occorreva quindi un luogo di culto più capiente e dignitoso.

Per questo motivo attorno al 1578 fu costruita per volontà di Mons. Cesare Bovio, Vescovo di Nardò, l’attuale chiesa. Infatti in un manoscritto del 1700 è possibile leggere “l’immagine fu venerata con molte particolari processioni dal clero, e crescendo tuttavia li miracoli, e la di lei fama, si rese in tal maniera celebre non solo in tutta la provincia, ma ancora nel Regno che da per tutto venivano genti a tributarla di doni” e ancora “coll’autorità, e pia munificenza di Monsignore Cesare Bovio (…) fu dalli fondamenti eretta la nuova Chiesa in quella forma, e magnificenza che hora si vede.”

La nuova fabbrica, costruita in piena Controriforma, segue molto dettagliatamente le nuove linee dettate nel 1577 da San Carlo Borromeo e presenti nel suo libro intitolato “Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae” ovvero le istruzioni per l’assetto di nuovi edifici di culto. Infatti la chiesa si caratterizza in pianta dalla croce latina a navata unica, con piccoli altari intitolati ad alcuni santi situati lateralmente al posto delle navate laterali. Ed ancora, per garantire un’ottima acustica durante le omelie e le predicazioni, la navata è coperta da una poderosa volta a botte così come prescrivevano le nuove regole. L’unica eccezione è data dal livello del pavimento della chiesa; San Carlo Borromeo stabiliva che le nuove costruzioni fossero elevate di almeno tre gradini al di sopra del piano stradale, la nostra chiesa invece è posta quasi un metro e mezzo al di sotto, e per accedervi dall’esterno, una volta varcata la soglia, è necessario scendere una decina di gradini. Probabilmente questa deroga è dovuta all’antico livello dell’ipogeo, ampliato nel friabile tufo in modo da far poggiare l’altare direttamente sull’antica area sacra e soprattutto per non compromettere la stabilità delle possenti mura perimetrali.

Navata centrale (ph F. Suppressa)

Molto più semplice e pulita la facciata dai lineamenti cinquecenteschi, composta da un profilo a capanna con al centro un ampio rosone decorato con putti, foglie e fiori, e un portale in pietra leccese sormontato da una piccola statua raffigurante la Madonna con Bambino.

All’interno della chiesa non mancano pregevoli testimonianze artistiche, sulla sinistra si susseguono gli altari intitolati a San Leonardo, San Francesco, Sant’Eligio e Sant’Antonio, mentre sulla destra sono presenti gli altari dedicati al Calvario e San Giuseppe Sposo; quest’ultimo attribuito con certezza allo scultore barocco Giuseppe Longo di Lecce. L’altare privilegiato è invece opera dello scultore Donato Chiarello, realizzato in pietra leccese con alcune parti in rilievo dorate e presenta al centro l’affresco ritrovato dal pastorello della leggenda.

Particolare del portale in pietra leccese

Interamente affrescata è la parete dell’abside sinistra, in alto, nel catino, troviamo Santa Cecilia che suona e canta con gli angeli la gloria di Dio, immediatamente sotto vi è la scena del ritrovamento miracoloso, e infine nella parte inferiore vi sono gli affreschi di San Francesco che riceve le stimmate e accanto il mistero della Visitazione.

Come ci ricorda la strofa della pizzica, il luogo è caratterizzato da un particolare venticello, fresco e asciutto nel periodo estivo, costantemente in rotazione da tutti i quadranti. Questa peculiarità avviene grazie alle caratteristiche geografiche dell’area, posta infatti su un piccolo poggio a spartiacque tra la Valle della Cupa e la piana di Copertino. Per questo motivo l’area fu la sede prediletta per la villeggiatura estiva di nobili e prelati e nel 1579 il Vescovo di Nardò, Mons. Cesare Bovio vi aggiunse “un comodo, et opportuno Palazzo fabbricatovi (…) attaccato alla chiesa medesima per divertimento e soggiorno de’ Vescovi Suoi Successori”.

Il 23 Febbraio 1613 la chiesetta passò sotto la tutela dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali grazie all’intercessione di Padre Donato Caputo di Copertino e nel 1618 si diede vita ad una piccola comunità monastica dipendente dal Convento di San Francesco intra moenia. In quegli anni, durante i lavori di ingrandimento del complesso monastico, vi lavorò come manovale il quindicenne Giuseppe Desa che tra quelle pietre maturò l’idea di farsi frate. Qui visse per circa 17 anni prima da oblato, poi da novizio, in seguito da diacono e infine fu ordinato sacerdote a Poggiardo il 18 Marzo 1628. La devozione alla Madonna della Grottella era talmente intensa da portare il frate in estasi; davanti alla sacra immagine, che lui amava chiamare “la Mamma mia”, volava “come ape che coglie il nettare dai fiori”. La fama del frate che volava, aumentò la mole di devoti che accorrevano al santuario, ma insospettì anche la Santa Inquisizione e il 21 ottobre 1638 Padre Giuseppe dovette lasciare la sua amata Grottella per recarsi alla volta di Napoli per comparire dinnanzi al tribunale del Sant’Uffizio. Non tornò più nei suoi amati luoghi, e dopo un lungo peregrinare tra Roma, Assisi, Pietrarubbia e Fossombrone, approdò a Osimo dove morirà il 18 settembre 1663.

Altare Privilegiato, affresco della Madonna della Grottella

Nel 1753, in occasione della Beatificazione di Fra Giuseppe da Copertino, fu demolita l’abside destra e vi fu aggiunta la cappella in onore del novello Beato, dove qualche anno dopo fu posta sotto l’altare la cassa mortuaria, donata per l’occasione dai confratelli di Osimo.

Il lento declino del Santuario iniziò dapprima nel 1810 con le leggi napoleoniche; i frati continuarono in ogni caso ad officiare e a vivere in convento fino alla definitiva chiusura del 1867, causata dalla legge di soppressione degli ordini monastici. I beni mobili furono incamerati e venduti dal Regio Demanio, mentre tutto il complesso andò lentamente in rovina fino agli anni ’50 del Novecento, quando i Frati Minori Conventuali ritornarono in possesso del Santuario e si poterono apprestare i primi urgenti lavori di restauro.

Un discorso a parte merita la storia della Grottella durante la Seconda Guerra Mondiale. L’intero complesso fu requisito dalla Regia Aeronautica e trasformato in deposito di munizioni e ordigni a servizio dei vicini aeroporti di Galatina e di Leverano. A partire dal 1940, durante i bombardamenti da parte degli Alleati sui cieli salentini, molti copertinesi venivano a rifugiarsi in questo luogo nonostante la pericolosità e la sensibilità dell’area, probabile obiettivo dell’aviazione nemica.

Le fonti orali narrano di come gli Alleati non bombardarono volutamente il facile bersaglio del Santuario poiché molti piloti italoamericani erano devoti a San Giuseppe da Copertino, Santo protettore degli aviatori. Infatti, tra leggenda e realtà, molti contadini delle nostre campagne sostenevano di aver visto tra le lamiere di alcuni aerei abbattuti medagliette o santini raffiguranti il Santo, come altrettanto riferirono alcuni soldati americani dopo gli sbarchi del 1943.

Ed è così che il “santuario dei copertinesi” entrò a far parte della storia anche in questa occasione.

 

Bibliografia:

P. Bonaventura Popolizio, La Grottella, Santuario mariano del Salento, Copertino, Ed. Il Santo dei Voli, 1958.

F. Verdesca, M. Cazzato, A. Costantini, Guida di Copertino, Galatina, Congedo Editore, 1996.

 

Particolare del rosone (ph F. Suppressa)

Il paesaggio dell’Arneo attraverso i segni e i luoghi dell’acqua

di Fabrizio Suppressa

Se c’è un elemento che può descrivere appieno le caratteristiche dell’agro neretino, questo è certamente l’acqua; materia presente e al contempo nascosta, che ha modellato il paesaggio naturale ed umano di quest’angolo di Salento.

Tale rapporto tra territorio e acqua lo si evince già dalle tante leggende. Si narra infatti che l’insediamento di Nardò fu fondato laddove un toro, colpendo con lo zoccolo il terreno, fece zampillare una sorgente d’acqua. Ritroviamo lo stesso legame anche nell’etimologia della parola “Arneo”, poiché secondo alcuni studiosi il termine deriva da Varneus, toponimo che indica un “terreno ricco d’acqua”[1].

Il prezioso liquido, con le sue strutture per l’approvvigionamento, ha disegnato ed impresso la trama della viabilità e della toponomastica dell’Arneo. Nella parte bassa e pianeggiante di questo territorio, pozzi attingevano ad uno dei più vasti giacimenti d’acqua dolce del Salento, ma poiché era difficoltosa sia la natura geologica del suolo sia la pratica di scavare pozzi, il numero di questi scavi nel passato era assai esiguo.

Ed infatti durante il periodo medioevale la maggior parte dei casali si addensa in prossimità di una risorsa idrica esistente e in alcuni casi il nome deriva proprio da questa caratteristica, come ad esempio Pozzo d’Arneo e Pozzovivo. La prima località, che fu in epoca imperiale una villa rustica, conserva ancora l’antico pozzo di fattura romana scavato a mano[2] e fu per secoli punto di riferimento per la viabilità neretina trovandosi in prossimità della via Sallentina. Proprietà termali sembra avessero avuto le acque del profondo pozzo della masseria Messere, nelle vicinanze del secondo casale, tant’è che nel ‘600 molti nobili e prelati neretini venivano a curarsi il così detto “mal della pietra”[3].

Anche nel periodo successivo al Medioevo, l’elemento acqua ha contribuito a variegare la geografia del territorio. Come ad esempio masseria Ingegna, nome che ricorda la ‘ngegna, una noria o ruota idraulica mossa a forza animale, che grazie ad un sistema di pulegge e secchi, sollevava l’acqua dal fondo del pozzo alle colture.

Altrettanto curiosa è l’origine del toponimo “monsignore” dove è sita la famosa masseria Trappeto. La leggenda popolare narra di una ricca ereditiera, proprietaria di tutti quei vasti fondi, che fu rinchiusa dai familiari in un profondo pozzo, poiché voleva donare le estese proprietà alla chiesa e

Tutto in una notte. La guglia di Soleto e la carcara ti li tiàuli

 

di Marcello Gaballo

 

La bellissima guglia di Soleto è uno dei capolavori di Terra d’Otranto ed è ben nota a tutti i pugliesi per la sua storia e per la ricca decorazione che offre.

Chiunque arrivi nelle operosa cittadina è accolto dalla maestosità dell’opera quadrangolare e dal fine lavoro di ornato che sembra scatenarsi dal terzo ordine in poi, per quietarsi nel tiburio ottagonale, librandosi nel cielo del Salento attraverso le maioliche policrome del capolino conclusivo. Indescrivibile la sensazione provata quando lo si osservi al tramonto, quando la luce solare radente esalta ogni minimo ricamo lapideo esaltandone la bellezza e l’originalità.

Le singolari bifore, gli intagli e i numerosi arabeschi, le colonne tortili, i numerosissimi mascheroni zoomorfi e antropomorfi, i superbi grifoni, le cornici trilobate, la straordinaria e delicata balaustra  rendono merito all’orgoglio cittadino soletano e alla sua inclusione tra i monumenti nazionali. Spiace, ancora una volta, constatare quanto l’arte meridionale, e salentina in particolare, sia poco considerata e pubblicizzata.

Tralasciamo le vicende architettoniche della chiesa, che fu ultimata nel 1783 dal copertinese Adriano Preite. Questi addossò la semplice facciata alla guglia, tanto da annullare il quasi totale ed emblematico isolamento della torre[1] dopo circa 400 anni dalla sua costruzione.

Gli studi accreditati di M. Cazzato e L. Manni hanno dimostrato che il nucleo originario della nostra guglia fu edificato dal potente conte Raimondello Orsini del Balzo, proseguito e decorato da suo figlio Giovannantonio, conte di Soleto e principe di Taranto, morto nel 1463. Abbandonate dunque tutte le fantasie e improbabili attribuzioni, compresa quella a Matteo Tafuri, celebre alchimista e filosofo, esperto in esoterismo, ed occultismo e per questo ritenuto il mago di Soleto, che però era nato almeno un secolo dopo il documentato 1397, al quale risale la nostra torre.

La spettacolarità della guglia, ma soprattutto le centinaia di figure umane e bestiali scolpite nella tenera pietra leccese, hanno provocato da sempre la fantasia del popolo salentino, che ancora oggi ricorda come la terra di Soleto sia sempre stata “terra di màcari” e di magie. L’aveva realizzata in una sola notte il mago per antonomasia, Matteo Tafuri, con l’aiuto dei diavoli che, sorpresi ancora al lavoro mentre arrivavano le prime luci dell’alba, furono pietrificati ai quattro angoli della guglia.

Del tutto inedita la novità di tale leggenda, come ho potuto scoprire lo scorso anno, intervistando E. F., un anziano di Nardò. Con aria misteriosa e nel contempo colorita mi ha svelato di conoscere il luogo da cui i diavoli avrebbero prelevato le pietre e la calcina per innalzare in quella notte del 1397 lu campanaru ti lu tiàulu a Sulitu.

Il luogo – mi riferisce sempre il signore – è ancora denominato la carcara ti lu tiàulu e si trova nei pressi della località La Strea, sul litorale che congiunge S. Isidoro e Torre Squillace a Porto Cesareo.  La carcara sarebbe una delle fornaci di cottura sparse nel territorio nelle quali si ricavava la calce e il saggio dell’amico Fabrizio Suppressa  è molto esplicativo.

Ho potuto verificare, grazie alla consulenza preziosa di Salvatore e Antonio Muci da Porto Cesareo, che la leggenda tramandata trova degli elementi validi sul territorio. La carcara esisteva realmente nell’entroterra, poco prima dell’ingresso a Porto Cesareo, giungendo da S. Isidoro, a circa trecento metri dal litorale. Poco distante da questa vi era, almeno fino agli anni 70 del secolo scorso, la petra ti lu tiàulu, un enorme macigno collocato su massi e pietrame di diversa misura, simile ad una “grotta”, purtroppo frantumato in occasione delle costruzioni abusive di quegli anni. Dalle testimonianze raccolte si potrebbe ipotizzare l’esistenza in quel luogo di una tomba preistorica a camera singola ovvero un dolmen, sfuggito alle ricerche e ai censimenti salentini di tali costruzioni megalitiche. La celebre petra poteva dunque essere il lastrone orizzontale del dolmen e le altre petre piccinne i lastroni verticali.

Ma l’immaginario collettivo è andato ben oltre, addirittura tramandando che in quel luogo si potessero udire  li catene ti lu tiàulu, dei rumori strani, sibilanti e roboanti, forse collegabili al rumore del vento attraversante antri o forami evidentemente non localizzati.

A poche centinaia di metri da qui, questa volta sulla costa, ancora due toponimi sono ancora noti al popolo Cesarino: lu puestu ti li tiàulu e la punta ti lu tiàulu, entrambi nelle immediate vicinanze di torre Squillace.  Insomma una precisa localizzazione che ci fa interrogare su cosa realmente avesse inciso sulla fantasia popolare, tanto da perpetuarne la leggenda fino ai nostri giorni.

Effettivamente questi luoghi, che per comodità identifichiamo con la località la Strea (derivante da “la strega”?), hanno ospitato un villaggio protostorico, dell’Età del bronzo, e gli scavi del 1969 condotti dalla Sovrintendenza Archeologica di Taranto hanno rinvenuto diversi oggetti, un anello fenicio, iscrizioni graffite in dialetto laconico, statuette votive, ceramiche micenee e bronzi locali. A qualche miglio fu rinvenuta anche una statua egizia del VII/VI sec. a.C. denominata Cinocefalo, oggi conservata nel Museo Archeologico di Taranto. I ritrovamenti hanno altresì dimostrato la protezione di quel luogo con un muro alto circa 2,50 metri, con andamento istmico fatto da massi regolari sovrapposti a secco.

Forse proprio questi massi, probabili avanzi del Limitone dei Greci, e la calcara sarebbero stati il motivo di tanta meraviglia che ha fatto immaginare orde diaboliche intente a trasportare il materiale fino a Soleto, per erigere la sorprendente guglia in quella magica ed indimenticabile notte di oltre seicento anni fa.

 

Bibliografia essenziale

M. Cazzato, Note di archivio. Lavori settecenteschi alla guglia di Soleto, in “Voce del Sud”, 14 maggio 1983.

L. Manni, La guglia di Soleto. Storia e conservazione, Galatina 1994.

M. Montinari, Soleto una città della Greca Salentina, Fasano 1993.

S. Muci, Porto Cesareo nel periodo contemporaneo, Guagnano 2006.

Civitas Neritonensis. La storia di Nardó di Emanuele Pignatelli ed altri contributi, (a c. di M. Gaballo), Galatina, 2001.

G. Stranieri, Un limes bizantino nel Salento? La frontiera bizantino-longobarda nella Puglia meridionale. Realtà e mito del limitone dei greci, in “Archeologia Medievale”, XXVII, 2000, 333-355.


[1] Come giustamente mi ha fatto notare l’amico Gino Di Mitri nelle incisioni del Desprez (Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicile di Vivant Denon) la guglia è mostrata come addossata non alla chiesa, ma a un portico verosimilmente posto sul lato ovest.


Nardò (Lecce). Le mani sulla Sarparea

 

di Fabrizio Suppressa

Lungo quel disastro “eco-estetico” di costa martoriata dall’abusivismo che va da Torre Lapillo a Sant’Isidoro vi è la Sarparea, un uliveto che costituisce l’unica interruzione di costruito lungo 25 km di litoranea. Percorrendo frettolosamente la strada che costeggia i limiti della masseria non ci si rende conto della reale piacevolezza che questo uliveto possiede. Per scoprirla bisogna necessariamente scavalcare quei bassi muretti e addentrarsi nel dedalo formato da nodose pareti di ulivo, per scoprire a pochi metri dal caos estivo, grotte con sorgenti d’acqua dolce, antiche fornaci per la cottura della calce,  stradine selciate senza inizio e senza fine, sino in sommità su di un piccolo poggio dove, con i suoi stili, le sue mura e i suoi inattivi opifici, troneggia la masseria Sarparea de’Pandi.


L’area oggetto di lottizzazione (la si confronti con le dimensioni della frazione di Sant’Isidoro in basso a sinistra)

La Sarparea non è un banale uliveto, come tanti altri di nuovo impianto nella zona, bensì un frammento dell’antica foresta oritana, un bosco di olivastri cresciuti sulla nuda roccia, innestati e addomesticati con tanta fatica durante lo scorrere delle generazioni.

I tronchi nodosi degli ulivi e i muretti a secco hanno temuto per secoli le scorribande che da terra e da mare minacciavano gli averi della proprietà. Sempre da terra e da mare la Sarparea è oggi di nuovo messa in  pericolo; ma non più da Goti o Saraceni, ma da costruttori e impresari promotori di due opere: un impattante resort[1] (versione raffinata del villaggio turistico) e un mega porto turistico da 624 posti barca.

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IL PROGETTO

Veniamo dunque ad analizzare nel dettaglio il primo progetto, quello riguardante la realizzazione del villaggio turistico. Tutto nasce dal PUG di Nardò (Piano Urbanistico Generale) approvato dalla Regione nel 2002, il quale prevede la completa lottizzazione del comparto 65, ovvero quasi tutta l’area a nord della frazione di Sant’Isidoro, area attualmente con due proprietari, i “F.lli Zuccaro” e la “Oasi Sarparea s.r.l.”. Il controverso progetto è stato presentato 3 anni fa dalla seconda figura, l’Oasi Sarparea s.r.l rappresentata dalla signora Alison Deighton, immobiliarista londinese di origini statunitensi. Per dare solo alcuni numeri, nell’area di intervento sono previsti ben 130.868,85 mc di costruzione e 41.023,15 mq di superficie coperta, in un terreno di poco più di 16 ettari.

Piano di Monitoraggio dell’Avifauna e della Chirotterofauna

Il piano di lottizzazione della Sarparea

Dopo un primo progetto che aveva la filosofia della tabula rasa, ne è stata affidata alla Gensler (una sorta di multinazionale della progettazione architettonica) la realizzazione di un secondo elaborato. La chiave del progetto attualmente al vaglio delle autorità è quella di mantenere l’uliveto e costruirci negli spazi vuoti tra un ulivo e l’altro; idea che si rileva al quanto ambiziosa e al contempo irrealizzabile senza compromettere pesantemente la natura del luogo e la tutela degli ulivi centenari. Grazie agli elaborati finora prodotti dalla Gensler, quali dei render (immagini di grafica computerizzata) che falsano la reale portata dell’intervento, il progetto è stato accolto positivamente dalla passata amministrazione comunale di Nardò, che con deliberazione del Consiglio comunale n. 106 del 21 dicembre 2009 ha adottato il piano di lottizzazione.

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L’iter burocratico per l’approvazione definitiva del progetto è ora arrivato alla VAS (valutazione ambientale strategica) presentata due mesi fa dalla LandPlaning s.r.l. (una società spin-off dell’Università del Salento[2]) per conto della società Oasi Sarparea s.r.l. dopo che la Regione in data 8 Marzo 2011 aveva assoggettato il progetto a questa verifica[3]. Per due mesi dalla data di deposito (30 Giugno 2011) chiunque liberamente poteva prendere visione degli elaborati, quali il Rapporto Ambientale e la sintesi non tecnica e presentare delle opportune osservazioni all’ufficio predisposto[4]. Così è stato fatto nella speranza di limitare il più possibilmente i danni e in allegato al fondo pagina vi sono le mie osservazioni presentate in Regione.

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L’aspetto architettonico degli edifici rappresenta forse la parte più impattante del progetto, come d’altronde emerge dagli elaborati grafici; architetture internazionali che non prendono minimamente in considerazione il territorio, ad eccezion fatta del terrazzo. Tuttavia, l’iter burocratico è giunto ad una scala urbanistica, quindi la questione stilistica degli edifici a questo livello poco importa. L’aspetto e la conformazione delle strutture potrà variare nelle successive definizioni di dettaglio. Per dovere di cronaca, il progetto è stato insignito di un premio definito dalla stampa “prestigioso”, il “The American Architetture Award 2010”[5]  assegnato da un ente il “Chicago Athenaeum”[6] così autorevole da sfornare quaranta premi all’anno e avere un sito internet a malapena funzionante (nella foto in basso la prestigiosa sede del premio). In ogni caso, il premio è valutato in base alla concezione statunitense dell’architettura, basata più sulla spettacolarità che sulla qualità del progetto architettonico.

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LE RAGIONI DEL NO

Non è facile opporsi mentalmente a progetti e ad interventi che potrebbero in qualche modo aumentare l’occupazione e lo sviluppo di questa parte del territorio, soprattutto in quest’ultimo periodo di crisi e specie se il progetto si fonda su principi di sostenibilità ambientale. Occorre però domandarsi se vale la pena, in nome della tutela del’uliveto sbandierata nel progetto, modificare pesantemente uno dei territori ancora intatti per offrire al turista un ambiente finto fatto solo di erbettina verde e ombrelloni di paglia. La formula del recinto turistico, per quanto offra servizi e comodità che è difficile trovare al di fuori di esso, non è di per se sostenibile per l’ambiente e per il territorio. Queste sorte di enclave attive solo pochi mesi all’anno, limitano con le loro barriere la scoperta del vero Salento e producono un’occupazione e un tornaconto (per il territorio) altrettanto ridotti, a dispetto del guadagno elevato della società di gestione. Ciò non significa che in nome del turismo sostenibile non bisogna più costruire alcunché, ma al contrario, l’attività edilizia sarebbe senz’altro stimolata dal recupero delle architetture e delle “scenografie” di cui questo territorio è riconosciuto ed apprezzato al di fuori di esso.

Esistono strade sostenibili sia dal punto di vista ambientale e paesaggistico sia economico che investono anche i comuni limitrofi, è un modello turistico aperto tutto l’anno, che non confina il turista in un recinto, ma lo apre alla ricerca del territorio.

LE OSSERVAZIONI

Prima di passare alle osservazioni presentate in Regione, è doveroso sottolineare come il Rapporto Ambientale redatto dalla LandPlaning presenti nelle sue 155 pagine alcuni elementi copiati qua e là dalla rete e da vecchie relazioni tecniche non inerenti all’area in questione. In particolare anche il nostro blog di Spigolature Salentine risulta interessato da tale fenomeno;  a pag. 99 del R.A. nella descrizione architettonica della masseria, alcuni paragrafi sono stati interamente copiati da un mio articolo del 3 Dicembre 2010, relativo ad antichi sistemi di copertura in laterizio[7].

Nardò, 07 Agosto 2011

(…)

Dopo un’attenta ed approfondita lettura del Rapporto Ambientale (R.A.) e della Sintesi non Tecnica, depositati in data 30 Giugno 2011 presso gli uffici regionali e comunali competenti dalla società Oasi Sarparea s.r.l. e relativi al piano di lottizzazione del comparto 65 del PRG del comune di Nardò, adottato con deliberazione del Consiglio comunale n. 106 del 21 dicembre 2009, si vogliono sollevare le seguenti osservazioni:

  • TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Il Rapporto Ambientale presentato dall’ente proponente sottolinea ripetutamente come il progetto di lottizzazione salvaguardi e valorizzi l’uliveto a sesto irregolare che ricopre quasi tutta l’area del comparto 65. Tuttavia in questo punto si vuole rendere noto come l’uliveto monumentale (BUR Regione Puglia n°41 del 22-03-2011), non sia affatto tutelato dal piano di lottizzazione e al contempo dal suddetto Rapporto Ambientale non vi sia traccia di un esaustivo piano di tutela.

Leggiamo infatti che all’art. 6 (tutela degli uliveti monumentali) comma 3 della L.R. n°14 del 4 Giugno 2007 “Gli uliveti monumentali sono sottoposti alle prescrizioni di cui al punto 4 dell’articolo 3.14 delle norme tecniche di attuazione (NTA) del Piano urbanistico territoriale tematico per il paesaggio (PUTT/P)

Nel punto 4 dell’articolo 3.14 delle NTA del PUTT/P le prescrizione base sono: “Nell’”area del bene” si applicano gli indirizzi di tutela di cui al punto 1.1 dell’art. 2.02 e le direttive di tutela di cui al punto 3.2 dell’art. 3.05; a loro integrazione si applicano le prescrizioni di base di cui al punto 4.2 dell’art 3.10”.

Inoltre, si ricorda che:

  • Gli indirizzi di tutela del punto 1.1 dell’art 2.02 delle NTA del PUTT/P:  “negli ambiti di valore eccezionale “A”: conservazione e valorizzazione dell’assetto attuale; recupero delle situazioni compromesse attraverso la eliminazione dei detrattori
  • Le direttive di tutela del punto 3.2 dell’art. 3.05 delle NTA del PUTT/P: “negli ambiti territoriali estesi di valore rilevante (“B” art. 2.01), in attuazione degli indirizzi di tutela, per tutti gli ambiti territoriali distinti di cui al punto 3 dell’art 3.03, va evitato: l’apertura di nuove cave; la costruzione di nuove strade e l’ampliamento di quelle esistenti; la allocazione di discariche o depositi di rifiuti, la modificazione dell’assetto idrogeologico. La possibilità di allocare insediamenti abitativi e produttivi, tralicci e/o antenne, linee aeree, condotte sotterranee o pensili, ecc., va verificata tramite apposito studio di impatto paesaggistico sul sistema botanico-vegetazionale con definizione delle eventuali opere di mitigazione”
  • Le prescrizioni di base al punto 4.2 dell’art 3.10 delle NTA del PUTT/P: “Nell’”area annessa”, si applicano gli indirizzi di tutela di cui al punto 1.3 dell’art. 2.02 e le direttive di tutela di cui al punto 3.3 dell’art. 3.05; a loro integrazione si applicano le seguenti prescrizioni di base:

 non sono autorizzabili piani e/o progetti e interventi comportanti nuovi insediamenti residenziali o produttivi

non sono autorizzabili piani e/o progetti e interventi comportanti trasformazioni che compromettano la morfologia ed i caratteri colturali e d’uso del suolo con riferimento al rapporto paesistico-ambientale esistente tra il bosco/macchia ed il suo intorno diretto; più in particolare non sono autorizzabili: la formazione di nuovi tracciati viari o di adeguamento di tracciati esistenti, con esclusione dei soli interventi di manutenzione della viabilità locale esistente”.

La realizzazione di strade, parcheggi, costruzioni, e la modifica del suolo va quindi in netto contrasto con la L.R. sulla tutela degli ulivi monumentali.

  • TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Il piano di lottizzazione prevede le nuove costruzioni negli interstizi tra un ulivo e un altro. Tali spazi destinati all’edificazione sono stati identificati tramite delle recenti ortofoto (strisciate effettuate nel 2006) che immortalano l’uliveto dopo le pesanti potature avvenute negli anni precedenti; operazioni culturali comunque necessarie alla corretta conduzione agricola ma che al contempo hanno ridotto notevolmente il volume delle fronde quasi al solo tronco. Ad integrazione di quanto appena segnalato si vuole illustrare la seguente figura 5.7.2. tratta dal Rapporto Ambientale  a pagina 78.

Piano di Monitoraggio dell’Avifauna e della Chirotterofauna

Le due foto satellitari, la prima del 1954 la seconda del 2006, mostrano come la tesi “presenza di substrato non idoneo alla piantumazione e dalla perdita di esemplari nel tempo” enunciata a pag. 78 del R.A. sia totalmente errata e che nella realtà l’aumento degli spazi disponibili tra un ulivo e un altro siano da attribuirsi esclusivamente a potature e da incendi avvenuti negli anni precedenti lo scatto dell’ortofoto. A completamento si vogliono allegare alcune foto dell’uliveto tratte sempre dal R.A. a pag. 79  che mostrano lo stato attuale degli ulivi potati e il relativo minimo volume.

rapporto_ambientale-832

Quindi le aree destinate all’edificazione previste nel piano di lottizzazione dovrebbero tenere conto del reale volume degli ulivi nelle normali fasi di coltivazione (con un diametro del volume variabile dai 8 – 10 metri) di conseguenza tali aree dovrebbero ridursi di dimensione.

  • TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Il Rapporto Ambientale non menziona in quale modo e con quali metodi intende proteggere gli ulivi monumentali durante le fasi di cantierizzazione. Il passaggio di macchinari ingombranti, quali gru, camion, caterpillar e betoniere per la realizzazione di strade e costruzioni, potrebbe infatti danneggiare in maniera irreversibile l’uliveto, non ultimo si ricorda che tale probabilità potrebbe essere maggiore laddove la vegetazione di presenti più fitta e ramificata. In aggiunta si vuole ricordare come all’art. 10 (divieti) comma 3 della L.R. n°14 del 4 Giugno 2007 sia rammentato che: “E’ vietato il danneggiamento, l’abbattimento, l’espianto e il commercio degli ulivi monumentali inseriti nell’elenco regionale di cui all’articolo 5”.
  • TUTELA DELL’ULIVETO MONUMENTALE. Si ricorda che l’area in questione è stata percorsa in data 17 Giugno 2008 da un incendio che ha distrutto o danneggiato quasi 200 piante (a proposito vi è depositata un interrogazione parlamentare n. 3-00650 presentata da Adriana Poli Bortone nella seduta n.183 in data giovedì 26 marzo 2009). Il piano di lottizzazione va dunque in contrasto con la legge n. 353 del 2000 che, all’art. 10, comma 1, testualmente recita: “Le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno 15 anni (…) È inoltre vietata per dieci anni, sui predetti soprassuoli, la realizzazione di edifici nonché di strutture ed infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, fatti salvi i casi in cui per detta realizzazione l’autorizzazione sia stata già prevista, in data precedente l’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti a tale data“.

agosto-199

  • PARTECIPAZIONE E CONSULTAZIONE. In relazione alla Direttiva comunitaria 2001/42/CE e il D.R.A.G. regionale, si rammenta come non vi siano stati intrapresi percorsi di partecipazione e consultazione che interessassero gli abitanti della stagione estiva della marina di Sant’Isidoro (in prevalenza di comuni limitrofi, quali Copertino e Leverano, e per la maggior parte all’oscuro del progetto), i commercianti o i residenti delle aree limitrofe. Inoltre l’unico momento di presentazione del progetto al pubblico è stato effettuato al di fuori della stagione turistica e all’interno del Consiglio Comunale in data 21/12/2009, come segnalato a pag. 139 del R.A.
  • Inoltre si segnala che nelle pagine seguenti (pag. 140-141) nella tabella delle osservazioni del capitolo 10.3 vi siano delle osservazioni di copianificazione (con esito considerato!) totalmente fuori luogo e probabilmente frutto di un copia e incolla da altre relazioni tecniche. In particolare si fa riferimento ad un “complesso dell’incoronata”, ad un “centro storico e la fascia circostante” e di “un villino sub urbano di inizio secolo” totalmente estranei al contesto geografico e sociale della Sarparea e della Marina di Sant. Isidoro. Ancor peggio si fa più volte menzione della “Sopraintendenza per i beni ambientali architettonici artistici e storici della Provincia di Brindisi”, ente territorialmente estraneo alla Provincia di Lecce.

(…)


[1]  Pur non essendo ancora iniziati i lavori di costruzione del resort è già attivo il sito internet: http://deightonuk.com/

[2] http://www.landplanningsrl.unisalento.it/

[3] http://www.regione.puglia.it/index.php?page=burp&opz=getfile&file=20.htm&anno=xlii&num=64

[4] http://urbanistica.nardo.puglia.it/index.php?option=com_content&task=view&id=192&Itemid=2

[5] http://www.comune.nardo.le.it/index.php?option=com_content&task=view&id=615&Itemid=67

[6] http://www.chi-athenaeum.org/default.htm

[7] http://spigolaturesalentine.wordpress.com/2010/12/03/antichi-sistemi-di-copertura-per-le-abitazioni-salentine/

Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

Nardò nel 1732

di Fabrizio Suppressa

 

I motivi di una così diffusa tecnica di copertura sono da ricercarsi esclusivamente nell’esiguo costo dei materiali impiegati, rispetto alle ben più costose e complesse volte in muratura; ma ciò non significava affatto che tale tecnica sia stata in passato appannaggio delle architetture più semplici e povere. Sovente, anche i palazzi nobiliari possedevano all’ultimo piano tali coperture, anche se mascherate da alti frontoni, come ad esempio Palazzo Castriota a Melpignano, Palazzo Rescio a Copertino o tanti altri esempi, riconoscibili ai giorni nostri per l’ultimo piano a “cielo aperto”.

Anche la campagna non era da meno; nel libro dei conti della masseria S. Chiara in agro di Nardò, leggiamo infatti che nel 1684 si ebbe modo di rifare l’acconcio delle capanne, e per tale scopo venne chiamato un mastro dalla vicina città di Veglie[1]. Le capanne, ovvero gli elementi pertinenziali, quali abitazioni e magazzini, non erano i soli elementi realizzati con tali semplici tecniche costruttive. In alcuni casi, anche la torre, l’elemento fortificato al centro di ogni complesso masserizio, possedeva alla sua sommità due falde inclinate, anche se ciò comprometteva un’abile manovra di difesa piombante. Per rimanere in ambito neretino, questo è il caso della masseria Nucci; dove purtroppo dobbiamo constatare l’introduzione durante i lavori di ristrutturazione di tegole non appartenenti alla nostra tradizione costruttiva, stese al di sopra di una vistosa soletta in cemento armato su di una torre del XV sec. Un ultimo esempio è una particolare architettura spontanea nata dalla fusione degli elementi tipici di città e campagna: la caseddhra. Una costruzione a secco a pianta rettangolare con una stretta somiglianza all’immagine dei nostri trulli, ma al contrario di questi ultimi, non coperta da una falsa cupola bensì da un tetto formato da una rustica struttura di legno, canne e tegole.

caseddhra
Caseddhra (dis. F. Suppressa)

 

Le caratteristiche di deperibilità e fragilità dei materiali impiegati erano tali che ciclicamente si doveva provvedere allo smontaggio e alla ricostruzione del tetto. E’ difficile quindi trovare ai giorni nostri opere che abbiano più di cento anni. Forse l’unica eccezione è racchiusa all’interno delle mura del Santuario di San Giuseppe da Copertino; la costruzione eretta dal maestro Adriano Preite nel 1754 conserva intatta l’umile stalletta dove nel 1603 il Santo venne alla luce.

La tecnologia, come già detto, era semplice e rapida. Un sistema di travi di legno chiamati murali poggiante sulle esili pareti di tufo, ospitava in senso ortogonale un assito di tavole su cui gravitava il manto di tegole. Solitamente a causa del costo più elevato, si ricorreva ad un “surrogato” delle tavole di legno, ovvero un cannizzo su cui veniva posta della malta (mista a paglia o pula di grano) per uno spessore di circa cinque centimetri. Nonostante la tecnica era ad uso di ambienti più umili, la copertura incannucciata garantiva un apprezzabile isolamento termico (le canne palustri e la malta mischiata con paglia, sono infatti materiali sostenibili impiegati oggi nella bioedilizia). In caso di ampia superficie da coprire, la struttura lignea diveniva molto più elaborata, l’Arditi nel suo “L’Architetto in Famiglia”, edito a Matino nel 1894, ci ricorda le varie parti dell’intelaiatura, che a seconda della funzione prendono il nome dialettale di monaco, braccia, razze, asinello e panconcelli.

Copertura Incannucciata
Copertura incannucciata, masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Suppressa)

 

Altrettanto curioso è il termine dialettale usato per indicare la tegola, ovvero l’imbrice (irmice o ‘mbrice in alcune varianti). L’assonanza ricorda la parola embrice, tegola piatta diffusa nell’area tirrenica nella tradizionale copertura alla romana, eppure la nostra tegola dalla forma concava corrisponde alla parola italiana coppo. In soccorso interviene il Marciano (anch’egli abitava in una casa con tetto a capanna), che nel capitolo del suo libro dedicato al regno minerale ci scrive quanto segue:

“Si trova anche in questa Provincia la Rubrica Sinopia eccellentissima, e la fabbrile dell’una e dell’altra specie in abbondanza, e l’argilla, ovvero creta bianca, della quale si lavorano e fanno i tetti per coprire le case, che il volgo chiama imbrici, imitando l’etimologia ed il nome latino Imbrices, ab imbrium defensione, (..)”[2].

Tali laterizi venivano realizzati in centri urbani specializzati nelle produzioni ceramiche, come Cutrofiano, Grottaglie, Lucugnano e San Pietro in Lama; non a caso, quest’ultima località era conosciuta in passato anche con il nome di San Pietro degli èmbrici[

A fine Ottocento, con l’aumento dell’attività estrattiva dei materiali edilizi e il perfezionamento delle tecniche costruttiva inizia la rapida scomparsa dallo scenario urbano di questo tipo di copertura. Il cocciopesto, un impasto di malta e cocci finemente triturati, utilizzato per secoli per impermeabilizzare i terrazzi di edifici di notevole importanza, viene rapidamente sostituito dalla tecnica del lastrico composto da chianche in pietra di Cursi e cemento; tuttora abilità fiore all’occhiello delle maestranze salentine.


[1] Antonio Costantini, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Galatina, 1984, p. 74

[2] Spero in una conferma Prof. Polito!

 

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