Lettera di Aldo Bello a Ezio Sanapo

 aldo bello

Carissimo Ezio,

cinque, sei, sette volte ho messo mano a una risposta, e se vuoi a un riscontro, alla tua “Terza generazione”. E ogni volta, puntualmente, ho tracciato una croce sghemba sul manoscritto e ho mandato tutto all’aria. Qualcosa non quadrava, qualcos’ altro mi sfuggiva, mentre intendevo trovare una misura, con echi sinceri, realistici e speculari a quanto hai scritto in quelle pagine. Lo faccio ora, in via definitiva, forse perché mi sento in una condizione serena, (per quanto si possa restare sereni ad ogni rilettura del tuo testo), forse anche perché non ti aspetti più alcuna mia risposta, mentre io non ho mai rimosso questi tuoi grumi di vita vissuta, di esperienze esistenziali, di delusioni (tradimenti) e di illusioni futuribili (l’eterno inganno meridionale di una pertinace “speranza”. Capirai dagli ultimi righi perché questo disprezzo del termine).

Dunque. Tu rivedi un tuo cugino dopo una parentesi di dodici anni. Tu e lui anagraficamente adulti, ormai, ma ancora segnati (particolarmente tu, par di capire) dagli antichi ragionamenti sul mondo, qual era e come avreste voluto trasformarlo, nel senso di renderlo migliore e più nobile, o meno ignobile, nel momento in cui nella nostra cultura e civiltà si attuava una svolta radicale, e Supersano, il Salento e il Sud erano in fase di mutazione e si sentivano scivolare di dosso la vecchia pelle come la “camicia” di un rettile. Tu scrivi: era il 1960, tempo del miraggio di un salario fisso e del consumismo che aveva varcato anche le frontiere del Mezzogiorno, ma pure dell’emigrazione, dell’ espulsione dei valori consolidati della civiltà rurale dal contesto dell’antropologia umana e civile che aveva contrassegnato la nostra identità dalla notte dei tempi. E’ il tuo appassionato elogio dell’universo contadino, quello che aveva formato la tua (e nostra) anima e la tua (e nostra) coscienza e conoscenza, quello che però registri come irrimediabilmente tramontato. Era fatale che accadesse. I nostri contadini, i nostri artigiani, i “negri bianchi” che affollavano i mai abbastanza maledetti ”treni della speranza” (ho il malinconico vanto di avere inventato questa espressione nel linguaggio del giornalismo d’inchiesta italiano) erano esuli solitari della fame, erano miriametri di fasci muscolari, erano tonnellate di disperata materia grigia, che andavano al Nord e in Europa a vedere, come si diceva dalle nostre parti, “dove chiarisce il giorno”: vale a dire, dove fossero possibili un lavoro meno precario, un tozzo di pane meno amaro, un’ accumulazione primitiva di microcapitali in valuta che un giorno consentissero il ritorno ai luoghi d’origine, l’impianto di una modesta attività lavorativa (al pianterreno) e di un’abitazione con l’acqua corrente (da sempre più preziosa dell’ argento vivo) e col bagno di ceramica ordinaria (accanto all’officina o alla bottega che dir si voglia, oppure al primo piano) che sostituisse il vaso di coccio o il cesso dietro un paravento di fortuna. Tu sai che non sto inventando nulla: la condizione civile e sociale di un imponente di “lumpenproletariat” avrebbe reclamato una autentica rivoluzione, che non ci fu. E quando si realizzò, fu pacifica e nello stesso tempo radicale: si chiamò spopolamento di interi paesi e abbandono delle campagne, ricerca della tuta blu, trasferimento delle radici (e dei valori) oltre i confini dell’antico Regno di Napoli. In quei giorni cominciò a morire il vecchio Sud rurale. Osserva i nostri paesi. Le periferie sono butterate da costruzioni, che ancora oggi grondano sudore e sangue versati da quegli uomini in quegli anni. E sono orrende periferie, sotto il profilo urbanistico e architettonico. Alcune hanno divorato boschi, devastato campagne, sottomesso violentemente serre e pianure. Eppure testimoniano del transito, del passaggio su un diverso e più dignitoso gradino, appunto, civile e sociale. Sono il segno tattile del nostro inconfessato ri-morso. Così sono state travolte le superbe skylines salentine e meridionali, le linee del cielo e i profili degli orizzonti che ci facevano immaginare – da bambini – mondi altri e diversi, esplorazioni esotiche, scoperte da mozzare il fiato. E sono stati abbandonati i centri storici, perché in tanti, una volta indossato un doppiopetto, si vergognavano di abitarli: e con questo esodo è stata uccisa la solidarietà di vicinato, come sono svaniti il sentimento comune dei problemi di ciascuno e il disinteressato sentimento di missione professionale che appartenne a poche, ma alte figure locali. Se, poi, abbiamo voluto più lampadine elettriche in casa e tra gli sbavi di verde nei nostri giardini sgradevolmente pettinati, se abbiamo reclamato più pali d’illuminazione lungo le strade e nelle piazze, possiamo pretendere ora di vedere le orse e le costellazioni? Il progresso non comporta molte perfidie e qualche tradimento? Il fatto è che ti (ci) condiziona il tuo (nostro) background umanistico, fusione nell’ anima magnogreca di tutto ciò che il mondo classico ci ha donato. Musica, poesia, narrativa, cinema, (e io aggiungo il teatro), sicuramente hanno preservato da più torvi imbarbarimenti, ma proprio questa è la nostra croce, perché siamo fatalmente portati al confronto e al giudizio, al rimpianto per quel che poteva essere e non è stato e alla presa d’atto (spesso unilaterale) dell’ impoverimento ideale e spirituale del nostro tempo. E’ quello che tu esplicitamente definisci “il senno del poi”. Il treno che passa una sola volta, ma che non si prende. L’attimo che fugge e non ritorna. L’ euclideo “panta rei”, ogni cosa che scorre e non è mai più. Non è mai più se stessa. Per nessuno. Perciò, ad esempio, inorridiamo se a Torrepaduli (villaggio emblematico della nostra terra) si può ballare la pizzica utilizzando strumenti del tutto estranei, e persino alieni alla tradizione musicale che ci diede identità anche nel mito del tarantismo, cioè della sintesi estrema del cono d’ombra dentro il quale trovarono rifugio e forza di proiezione culti pagani e innesti cristiani. Si esorcizza così lo smarrimento della civiltà contadina, tu dici. Ed è vero. Con un’ aggravante: la pizzica, espressione storica di un malessere sociale, civile, e dunque politico (nel significato etimologico del termine: di vita della polis), è da tempo una sovrastruttura consumistica, le radici sono andate perdute, le coordinate antropologiche cancellate. La “malattia” è ludica. La taranta cantata o ballata è competitiva sul mercato del sound e del rock. In Salento sopravvivono riti residuali, figurazioni artefatte, sussulti coma tosi. Come gli arrosti sulle scogliere marine nella notte di San Lorenzo, come la sbronza di rigore la sera di San Martino, fanno parte di scintillanti quanto caduche liturgie che oggi incantano quasi esclusivamente gli spiriti romantici, e semmai sciolg~no il sangue agli algidi turisti del Nord. La pizzica-taranta non è più bruco, non sarà mai più farfalla. E’ una crisalide svuotata e infeconda.

Il “vostro” ’68 fu un crogiolo formativo, un’entusiastica affabulazione, un sogno che fortemente voleva valicare la linea polare delle pure e semplici proposizioni astratte per farsi esperienza reale di vita e d’impegno. Appunto: era il “vostro” sogno, e anche quello di tanti altri generosi sodalizi giovanili che germinarono non soltanto sugli echi ondulari di quanto sarebbe accaduto nel Maggio francese (non va dimenticato: quel Maggio fu a sua volta anticipato dal ’67 di Sociologia a Trento), ma anche nella visione complessiva della condizione delle aree arretrate e dell’Italia (nel frattempo “meridionalizzata”) in generale, con i salari compressi, con la ricchezza nazionale mal distribuita, con le persistenti maree migratorie, con la rapina delle rimesse in valuta dei nostri ex contadini e artigiani usate per pagare le importazioni di materie prime destinate solo alle imprese del Nord, col trasferimento al Sud di aziende votate all’obsolescenza, e con l’eterna questione meridionale che, raggirata da una strumentale questione settentrionale, vide impegnato il pensiero di fior di intellettuali, mandato in fumo dallo strategico disimpegno di fior di politici nazionali. Al vostro, seguì il vero e proprio ’68, e fu una catastrofe, uno scirocco travestito da libeccio che seppe solo distruggere, far marcire, togliere anima, senza saper creare nulla. Non generò, a differenza di quanto accadde in Francia, una classe politica in grado di progettare un sistema-Paese moderno; non fu capace di spirito predittivo; non seppe, non poté o non volle impedire abusi, corruzioni, regressioni dei contigui anni ’70 e dei vicini e orribili anni ’80. Tanta passione, tu dici. Ci fu anche passione civile, certamente, ma morì nello spazio di un mattino, issata sulla forca di interessi di parte, di tribù, di cosca. E ci furono tanta utopia e tanta ingenuità, aggiungi. Appunto, fu così: ma guai a non dare ascolto a un’utopia possibile, e per converso guai a non disertare il territorio infido dell’ingenuità. Fatto è che, espugnate le stanze del potere, (Università, giornali, uffici-studi, marketing…), e abbandonate a se stesse le masse giovanili che ci avevano creduto, i leaders sessantottini borghesemente riposarono sulle macerie ancora fumanti, consentendo l’onda d’urto di forza contraria. La reazione si sommò ai loro e agli altrui ritorni al privato (all’interesse privato), che tenacemente perdurano abilmente coniugati con accanite competizioni planetarie e nazionali che hanno comportato di primo acchito il crollo dei valori che pure erano stati alla base di quelle che defmisci “certezze acquisite, quelle d’origine”, che però avevamo buttato a mare. Che non sarebbero state tutte valide, col mutare dei tempi; ma che comunque almeno in parte sottintendevano un sostrato etico (amicizia, lealtà, solidarietà, rispetto di regole condivise…) senza il quale una civiltà naviga verso il declino e l’uomo diventa alieno all’uomo. Se questa è la storia del nostro recente passato, scritto sulla nostra carne e nella nostra memoria; se queste sono state le direttrici dell’azione culturale e politica sulla quale abbiamo costruito le strutture portanti del nostro presente; se mai come ora il senso di solitudine, di impotenza, di devastazione fisica e morale ci ha impastato di cinismo e di “particulare”, su chi potremo mai contare per riemergere e rimettere l’uomo al centro degli interessi e dei fini: sulla prima generazione, perduta al modo della legione romana che si spinse in viaggio verso le “terre nuove” dell’ Oriente medio ed estremo, senza riuscire a far ritorno, come testimoniano un tempio con colonne ioniche e i lineamenti mediterranei di una piccola popolazione tuttora residente nel cuore della Cina; oppure sulla generazione migrata in massa, dunque perduta anch’essa, che ha ormai per patria il mondo e che reprime la nostalgia per le radici per non compromettere il proprio futuro e quello dei figli; o infime su quella che vera e propria generazione non è, non può essere, perché include intelligenze ipersensibili, e per questo probabilmente più delicate e fragili, in ogni caso non manipolabili, che hanno manifestato un unilaterale e irrevocabile “gran rifiuto”, restando spiriti solitari, scegliendo l’impegno al di fuori di qualsiasi interesse precostituito, pagando con l’emarginazione o con l’esclusione o con la persecuzione sottilmente calunniosa il prezzo della propria decisione? (E penso con rabbia mal repressa all’esperienza di tuo cugino, che ha scelto l’assenza, attraverso una dolorosa uscita di sicurezza, chiedendo asilo a un’età che per antonomasia doveva essere “dell’oro”, e che invece fu “del piombo”, alla luce delle vicissitudini del piccolo Sergio, all’anagrafe Salvatore, nato in una notte di Natale che non portò con sé alcun dono o risarcimento, né nel nome della bontà né in quello della redenzione, da offrire come segno di rimorso a un orco in abiti talari. O forse la “nuova” età dell’oro l’ha misteriosamente scoperta in questa sua sublime fuga nella pazzia: una croce, ma forse più ancora una caverna un bosco una sorgente primigenia d’una latitudine non bassa, non carsica, ma alta e siderale, al modo di quanto sosteneva nel suo “Elogio” Erasmo da Rotterdam, e altrettanto bene affermavano gli esegeti musulmani, secondo i quali i pazzi sono Santi perché hanno donato la ragione a Dio? Domande che, incontrando per caso o per avventura tuo cugino, non potrei mai porre, e non solo per mia consueta. discrezione, ma soprattutto perché, scegliendo il divino territorio della non-ragione, Sergio alias Salvatore ha attinto una cognizione del dolore sconosciuta a noi uomini ordinari, a me e a te che siamo stati teste d’ariete, abbiamo affrontato la vita e le sue insidie con determinazione gladiatoria, e ce l’abbiamo fatta, oppure no, ma nessuno può accusarci di non avercela messa tutta. E vien da chiedersi: chi è sconfitto? Chi abita una regione per noi – esseri limitati dalla necessità – sconosciuta o incomprensibile, e lì forse dà libero corso ai propri sogni segreti e slanci appassionati e avventure dello spirito; oppure chi solca le prevedibili rotte di un’ esistenza condizionata, a volte compromissoria, altre volte contraddittoria, mai veramente libera, sempre priva di un buen retiro che non sia fittizio, talora frutto tossico di un malinteso “piacere di sembrare”, di apparire e non di essere, di avere e ancora una volta non di essere? Osservala con occhio disincantato, quest’umanità banale che ci assedia: privi come sono di pensiero propositivo, pretendono di essere tutti eternamente giovani, tutti belli, tutti intelligenti, tutti sulla cresta dell’onda, visibili, presenzialisti e fatui. Miscela micidiale, il mito di Narciso alimentato da un illusorio elisir di lunga vita: l’eternità giovanilistica conseguita per i secoli dei secoli! E non è escluso che a forza di trapianti diventeremo doni interetnici, con sezioni di corpi magari criminosamente procurate, e ricostruite e innestate nel nome di ben altra follia, questa sì ignobile, perché violenta e innaturale).

La Seconda Generazione, poi. Che dalla prima per li rami deriva, sotto il profilo dell’antropologia culturale e della stessa psicologia. E a questo punto, devi avere pazienza, e formulare insieme con me qualche domanda che sta, come si suoi dire, “a monte”. La prima: – Ma c’è stata veramente, a Sud, una civiltà contadina? -. Una polemica in proposito esplose quando Carlo Levi diede alle stampe il suo “Cristo si è fermato a Eboli”, e fu il Pci dell’epoca ad assumere un atteggiamento radicalmente critico nei confronti dello scrittore e dei sostenitori dell’esistenza di quella civiltà. Il problema non era tanto quello di intendersi sul valore dell’ aggettivo (“contadina”), quanto su quello del sostantivo (“civiltà”). Rientravano in una civiltà con qualsiasi aggettivazione i bambini sfruttati per sedici ore al giorno nelle miniere di carbone della Sardegna, o quelli che smagrivano fmo a morire nelle miniere di zolfo o di sal gemma nella Sicilia; le vendemmiatrici e le raccoglitrici di olive che in Calabria, mentre lavoravano, dovevano portare la museruola per non cedere alle tentazioni della fame; le migliaia di uomini e di donne vestiti a festa (cioè di nero, colore luttuoso, con i miserabili panni che avevano indossato il giorno del matrimonio e in qualche festa comandata, e che avrebbero reindossato soltanto il giorno della loro morte) che stavano in piedi, testimoni di pietra, sulle soglie dei loro tuguri, fra le ripide scalinate scavate con il piccone, sulle cupole degli antri occupati da uomini e bestie, in quella casbah trogloditica che erano i “Sassi” di Matera, al cospetto dei quali De Gasperi scoppiò in lacrime; i mietitori del Tavoliere delle Puglie che lavoravano da crepuscolo (dell’alba) a crepuscolo (del tramonto), con l’orcio dell’acqua che passava una volta soltanto, a sole meridiano, e che, guardati a vista da un “soprastante” armato di fucile, se trasgredivano gli ordini o rallentavano il ritmo forsennato del lavoro o chiedevano un solo altro sorso d’acqua venivano esclusi dal lavoro per quella e per tutte le altre stagioni a venire, elencati in una lista di proscrizione redatta nel Castello di Federico TI, Castel del Monte, e passata di mano in mano fra tutti i latifondisti della Capitanata; e le nostre tabacchine, (delle donne anche incinte, ma guai a sapersi in fabbrica, pena il licenziamento in tronco), alle quali non era consentito neanche di orinare per dieci-dodici ore, anch’esse tenute d’occhio dalla “maestra” che traeva prestigio soltanto dal rozzo rigore con cui applicava quel che poteva applicare, vale a dire esclusivamente i divieti; e le campagne raggiunte a piedi (nudi) prima dell’alba e condotte con strumenti primordiali, buoni per l’olio di gomito, cioè per la fatica fisica, senza macchine agricole, senz’acqua, senza energia rurale, senza strade di collegamento, senza servizi minimi; e i giornalieri affamati, al pari delle loro famiglie, raccolti nelle piazze di paese in attesa di un ingaggio; e l’ineducazione sessuale, buona per sfornare cucciolate di figli candidati all’ indigenza e alla precarietà fisica (oltre che agli arruolamenti per un po’ di guerre mondiali), sebbene circolasse fin dagli anni ‘ 50 il celeberrimo “Rapporto Kinsey” che alla disoccupazione e ad altre frustrazioni e schiavitù attribuiva l’intensificarsi dei rapporti sessuali, sempre incontrollati; e via elencando? Sicuramente, c’erano i valori di cui tu parli, e io parlo; e alcuni erano valori senza tempo, vorrei dire precetti di una inconsapevole religiosità laica largamente condivisa che regolavano la vita delle comunità. Ma molti di essi erano connessi a quell ‘universo arretrato, immobile (e strumentalmente immobilizzato dalla politica dualistica italiana), con un suo proprio fuso orario, con un ritmo del tempo che non si dominava, non si accelerava a volontà, col cuore viola che faceva “tremare la terra” per le marce dei contadini che ne reclamavano il possesso: salvo scoprire, poi, a riforma agraria bene o male attuata, che era stata tutta un’ illusione, e che alla terra non si poteva chiedere più nulla. Transitando in automobile per il Foggiano, guardai e le case rurali di quella riforma. Sono ancora là, con le orbite nere, le pareti sbilenche, le stalle e i fienili desolati. Gli assegnatari, dopo poco tempo, esasperati dall’isolamento, (solo gli uomini di cultura protestante, in Francia, in Inghilterra, negli Stati Uniti, hanno imparato da secoli ad abitare le campagne che lavorano), vendettero porte e fmestre, abbandonarono tutto il resto, legarono le valigie con lo spago, ed emigrarono. Si poteva defmire “civiltà” quest’inferno? Si poteva benedire un sole che, amico delle pianure nebbiose del Nord, era implacabilmente ostile nelle pianure e nelle murge luminose del Sud? Questione aperta, confronto non ancora concluso. Giudizio da tener sospeso. Ma soltanto come esercizio intellettuale.

La seconda domanda: – Se si escludono i Vespri e quella napoletana del 1799, oltre al buon riformismo di un Gioacchino Murat che, al modo dell’ultimo re svevo, il ghibellino Corradino, i meridionali fucilarono dopo processo sommario, il Sud (l’Italia) ha mai realizzato un’autentica rivoluzione? Che io sappia, no. Non proletaria, e non solo perché le masse avevano il problema del pane quotidiano, (“Franza o Spagna, purché se magna”), ed erano stremate fisicamente e psicologicamente, ma soprattutto perché erano inesistenti sul piano culturale, (indici di analfabetismo più alti d ‘Europa), oltre che vessate da una violenza baronale cieca e, alla lunga, suicida. Del resto, ripercorri un po’ di narrativa e di poesia di scrittori meridionali: dopo Verga, Capuana, Pirandello, Brancati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Quasimodo e Cattafi, siciliani; dopo alcune cose della Negri e dopo Lussu, sardi; dopo Répaci e Alvaro, e – per l’emigrazione – Strati, calabresi; dopo Scotellaro, Gatto, Sinisgalli, Pierro e il recentissimo Nigro, lucani; dopo alcune pagine di Cassieri, e Bodini, Tommaso e Vittorio Fiore, Accrocca, Pierri, i recenti Verri e De Donno, pugliesi; dopo il lontano (nel tempo) Jovine, molisano, e il più vicino Silone, abruzzese; dopo Marotta, Rea, Compagnone, Prisco e De Filippo, campani, poco o nient’altro ha avuto il Sud come protagonista, i popoli del Sud come matrici di narrazione, come scuola di poesia, come impronta identitaria nazionale. Non per niente l’industria editoriale è dispiegata al Nord. Non per niente la stessa Tv d’oggi è emblema di disimpegno civile, etico, didattico. E chissà perché continuano a moltiplicarsi, come per partenogenesi, le mafie, una delle quali -la più recente – imbratta anche la nostra Terra d’Otranto. E neanche borghese, e tu stesso chiarisci perché: perché gli studenti (intellettuali in nuce), una volta tornati con il pezzo di carta in tasca, vittime di un connaturato trasformismo, subito e definitivamente si integravano. I loro antichi ideali? Sbolliti gli slanci giovanili, cambiava il colore del cielo e della terra. Nuove mete: l’agiatezza, o la ricchezza (possibilmente veloce), il circolo cittadino, la scalata al potere locale con potenziale conquista di altri livelli politico-amministrativi, e, per chi aveva capito che la malattia e la morte erano i marchingegni che la precarietà fisica (la prima) e l’ineluttabilità del destino che tutti ci livella (la seconda) avevano dall’ alba del mondo predisposto per gli uomini, lo stetoscopio e i paramenti sacri diventavano strumenti di dominio sugli altri. E non sono del tutto convinto che “gli studenti attesi a lungo”, una volta tornati e burocratizzati tra le griglie del loro lavoro e delle loro nuove relazioni, sentano davvero il tormento per ciò che hanno rinnegato. Ho motivo di dubitarne, ma forse è il mio scetticismo a condizionarmi (però sapessi quante energie ho speso per evitare che tanti idealisti diventassero, come sono poi diventati, apostati!), e dev’essere la mia ragione a frenare l’antica passione, rendendomi misuratamente diffidente. Il trasformismo rappresenta lo zoccolo duro della storia meridionale. Che è sempre stata una storia senza indulgenze e senza innocenza. E intanto coloro i quali avevano immaginato un progetto e lo vedevano fermo per le diserzioni, oppure osteggiato perché non conformista, continuavano ad emigrare, il loro spirito inquieto e la loro indole inappagata non potevano accettare l’appiattimento delle idee, la caduta dei valori fondanti, lo svilimento delle istanze rinnovatrici, le abiure, le tattiche del voltar gabbana, le compromissioni, i baratti… Questa è cronaca di un numero infinito di giorni di passione, da altri incompresi, e più ancora elusi per tornaconto oppure per viltà. E’ il filo rosso della generosa disposizione d’animo dei vinti che anche da soli, e talora irrisi dagli stolti costretti ad autodifese senza ritegno, si erano battuti per tutti. Ma chi ha memoria, chi vuole aver memoria nel profondo Salento, a sud del Sud?

Certe volte mi sorprendo a immaginarti intento al tuo lavoro. Tu macinavi (macini ancora, presumo) le terre per creare i tuoi colori. E pure questo fa parte del nocciolo umanistico che si era impossessato di te, e che continua a non mollarti. Dunque, ti penso su alte scale, intento a rigenerare affreschi con la testa girata all’ insù, al modo del ruvese Cantatore quando dipingeva le volte delle ville lombarde che – mi diceva – così tornavano in vita, rianimate centimetro dopo centimetro, pennellata dopo pennellata. Simultaneamente cerco di disegnare il profilo di tuo cugino e di indovinare i suoi gesti, i comportamenti, il suo modo di relazionarsi, anche – ma è molto più difficile – i pensieri che racchiude la sua anima in esilio volontario. “Siamo cresciuti, e vorrei che tu te ne accorgessi”, gli scrivi. E’ il tuo strenuo vitalismo a suggerirti l’esortazione. E’ la tua gran voglia di vivere la contemporaneità, ma ricordando chi sei e da dove vieni, a suggerirti la continuità dell’ impegno, il tentativo di recupero degli ideali non del tutto annientati dall’ indifferenza e dalle ipocrisie del mondo, la loro proiezione nella sfera della Terza Generazione: “Non di quella attuale, fredda e calcolatrice…, ma di una generazione nuova, con più orgoglio e dignità… Forse quella ideale”. E intanto, delinei il proposito di ricompattare gli sparsi e i dispersi per ricostruire una storia “altra”, per scagliare una sfida all’intero millennio che ci sta di fronte: la scommessa è apodittica, tu comunque sarai lì (al culmine del percorso catartico) ad aspettare chi, ripresa la saggezza dell’età e la forza della ragione, abbandonata la latitudine aurorale della fanciullezza, tornerà adulto fra adulti, fra compaesani ridiventati popolo, comunità solidale. Coinvolgente utopia, da sintonizzare lungo l’asse Supersano-Parma. E, in tutta la sua sostanza antropologica e storica, spericolata negazione di ciò che noi salentini realisticamente siamo: “Un popolo di individualisti nello stesso tempo di elegante ironia e di lezioso sentimentalismo, un colto e risoluto coacervo di monadi solitarie che riproducono soltanto in se stesse, nella loro sfera esistenziale, nella loro orgogliosa e schiva temperie, nella loro simultanea disposizione al sogno e al progetto, le strutture intellettuali e sociali della realtà che li circonda. Essi sono consapevoli di abitare una terra di mezzo, una penisola della maggiore Penisola. Sanno anche di avere occhi che guardano alle Colonne Occidentali che non sono più paradigmi della paura e della sfida, e cuore che batte ad Oriente, trepidante per l’antica Madre. Sono, allora, quello che furono in ogni tempo: uomini scalpellati da una Storia più tragica che grande, anime in guardia su stolte pianure di acqua e di sabbia. Erratici menhir”. Chiedo scusa per l’ autocitazione, e concludo. Non amo il termine “speranza”, perché nel suo nome sono stati ideati e portati a compimento gli inganni più saturnini per il Sud. Inganni la “California della Penisola”, le “frontiere degli anni ’80”, la “Sylicon Valley del Mezzogiorno”, la “redenzione dell’osso appenninico con allevamenti intensivi” e altre corbellerie politico-favolistiche con le quali ci hanno menato per il naso almeno dal secondo dopoguerra ai nostri giorni. Tu hai speranza. Dici di avere speranza, e la connetti a una generazione ideale. Voglio aver torto, scommettere sulla tua speranza, ricorrere alla tua Cassazione e perdere la partita, richiamare in vita una speranza che da tempo ho stoicamente ucciso e riconsiderarla dura a morire. Regredisco consapevolmente agli anni giovanili, quando le speranze imperversavano, speculari alle tecniche dei bidoni puntualmente realizzati. Faccio anch’io un salto indietro, falsifico i paradigmi anagrafici. Affilando la ragione, però. Altro non posso concedere.

Niente e nessuno cancellerà i segni inquietanti che ti ha scavato dentro (e che traspaiono sulla tua pelle) l’universo che, emigrando, ti sei lasciato alle spalle, questo è pacifico. Come niente e nessuno potrà mai distoglierti dall’ idea che tuo cugino possa fare il percorso a ritroso, dopo il viaggio nella non-ragione, con un transfert che rimuova le pagine nere della sua vita e lenisca anche il tuo cruccio per la sua condizione attuale, che ferisce la tua sensibilità e ti fa riaffiorare la nostalgia dei giorni delle grandi (e belle) affabulazioni con lui. L’augurio è che questo possa in qualche modo accadere, che scatti un folgorante meccanismo, che so, fisico o chimico o d’altra misteriosa o sublime natura, che riporti su coordinate contemporanee la fanciullezza che finora ha protetto e forse salvato un innocente; e che tu (insieme con lui) possa riattualizzare i tuoi (e vostri) ricordi, aderendo ad essi come se fossero appena di ieri, rimettendo in moto lo scambio di idee, conoscenze, progetti, e quant’ altro contribuiva a unire, e non a spezzare, le vostre giovinezze e il vostro pensiero. Ti siano propizi i giorni e le opere, Ezio. Siano lievi i giorni e i pensieri di Salvatore: e possa finalmente dormire, ora che avete rianno dato i fili sospesi per dodici anni. Se non vi pesa l’ombra di una compagnia, aspetterò con voi, discretamente invisibile, le cifre ultime del bilancio millenario, nel nome della verità “che è sempre senza colpa”. Da questa o dall’altra riva, in qualunque cono cosmico mi sia concesso l’ultimo asilo. Aldo

Dalla Casina Ascanio Ognissanti 2004

 

Su Aldo Bello si veda anche su questo sito:

Aldo Bello, giornalista e poeta galatinese

Decoro del territorio e dei centri urbani salentini

 

Centro storico di Oria
Centro storico di Oria

di Ezio Sanapo

Il paesaggio di terra d’Otranto e Leuca è la somma di due civiltà millenarie: quella classica delle chiese e dei palazzi dei ceti benestanti e quella contadina dei meno abbienti, con le loro case basse, senza decori né colori, ma con una decisa identità architettonica e una storia parallela da raccontare. Perché un paese la sua storia la deve raccontare per intero e per poterlo fare deve essere tutelato e tramandato in maniera completa. Lo Stato purtroppo, tramite la Sovrintendenza alle Belle Arti, finanzia restauri solo per la conservazione delle chiese e dei palazzi, ma non dei centri urbani, altrettanto storici, e che avrebbero potuto testimoniare il patrimonio culturale (non solo coreutico-musicale) della nostra civiltà contadina.

Durante tutto lo scorso millennio il paesaggio salentino ha subito occupazioni di varie razze e culture che hanno lasciato stratificate preziose impronte architettoniche: Bizantini, Normanni, Angioini, Turchi, Aragonesi e Borboni. I loro stili hanno arricchito il nostro paesaggio di testimonianze storiche in tutti i centri urbani e su tutto il territorio da poterne fare un bene culturale da tutelare. Già dalla metà dell’Ottocento partivano da Lecce direttive e regole scritte per tutti i comuni di Terra d’Otranto e Leuca. Lo storico architetto Luigi Arditi, agli inizi del 900 controllava di persona che le commissioni edilizie comunali, nel dare licenze di edificabilità, tenessero conto dei stili, dei materiali e dei colori da utilizzare.

La prima legge di tutela territoriale e paesistica, valida su tutto il territorio nazionale, risale al 1922 e reca la firma del filosofo Benedetto Croce, ministro del governo Giolitti. A quella legge, nel 1939, il ministro Giuseppe Bottai, durante il regime fascista, aggiunse la tutela delle coste con il divieto di edificare entro i 300 metri dai mari laghi e fiumi dichiarati “Bellezze naturali nazionali”, vincolate come demanio pubblico.

Approfittando della necessità urgente di nuovi insediamenti urbanistici, durante il secondo dopoguerra, quei vincoli si allentarono e insediamenti e abusi edilizi sconfinarono per la prima volta sulle coste salentine. Inizio così per il nostro paesaggio un periodo di involuzione causato anche dalla confusione di ruoli e compiti tra lo Stato e le neonate Regioni, nonostante che la Costituzione Italiana, all’articolo 9, avesse assegnato allo Stato il controllo di tutti i beni territoriali e paesistici .

Nel 1972 infatti lo Stato assegnerà alle Regioni la gestione del territorio, ma, per la prima volta separato dal paesaggio che le Regioni, togliendosi ogni responsabilità, avevano delegano ai Comuni. Lo hanno fatto spedendo a ogni singolo centro abitato copia di un “Regolamento Edilizio Comunale”, appositamente redatto e tutt’oggi ancora valido ma, purtroppo, dimenticato nei cassetti di ogni ufficio tecnico comunale. Verrà ignorato dalla stragrande maggioranza dei cittadini.

Senza più nessun controllo, neanche quello da parte del nuovo ministero denominato all’Ambiente, il territorio nazionale subirà gravi abusi e scempi di ogni tipo. La Regione Puglia il suo “Piano Territoriale” lo redigerà soltanto nel 2014, cioè con 42 anni di ritardo dalla sua costituzione e 30 anni dopo l’emanazione della legge Galasso del 1985 che glielo imponeva.

IL PAESAGGIO “FAI DA TE”

Il paesaggio urbano dei comuni del Salento, non tutelato da un “Regolamento”, verrà lasciato quindi alla libera mercè dei singoli abitanti. Tutto questo in pieno regime consumistico e con il mercato e le industrie chimiche del nord pronte ad approfittarne spedendoci, a partire dagli anni 70, una valanga di prodotti per l’edilizia e per la tinteggiatura che in soli cinquant’anni hanno riempito di muffa gli interni e gli esterni delle nostre case e hanno cancellato gran parte delle testimonianze storiche, che avevamo ereditato dalla generazione precedente alla nostra. Di conseguenza si sono spente in tutto il Salento centinaia di fornaci, che producevano calce per l’edilizia e la tinteggiatura.

Durante tutto questo nostro ultimo decennio la crisi economica ha falcidiato migliaia di posti di lavoro e molti ex operai, senza più nessuna possibilità di trovare altra occupazione, si sono riversati sull’edilizia: soprattutto imbianchini, perché e un mestiere apparentemente facile e non avendo esperienza adeguata nella scelta dei materiali e della mistura dei colori, senza nessun regolamento e indicazione da parte degli uffici tecnici comunali, hanno fatto quello che hanno potuto all’insegna di un “ Fai da te” generale, come se fosse un modello di vita. Il risultato del loro operato è ormai sotto gli occhi di tutti, specie quelli increduli dei turisti che vengono a visitare il Salento.

UN SEGNALE DALL’”INDIVIDUO”

Molti dei Sindaci, sentendosi in prima fila tra i responsabili dell’involuzione del nostro paesaggio, fingono di ignorare il vecchio regolamento edilizio, promettono “Piani del colore” che sono costosi e richiedono tempi lunghi e immaginano risorse finanziarie che non ci sono. La loro segreta preoccupazione sta nel bisogno di mantenere buono e al completo il proprio elettorato, che gli permetterà magari quel secondo mandato che gli spetta per legge.   La facciata color limone di una qualsiasi civile abitazione in pieno centro storico proprio di fronte al suo e nostro municipio, come per incanto, passa inosservata e inosservate passano tutte le altre che spuntano come funghi nelle periferie e, ormai, anche in aperta campagna.

Guardato da una certa distanza il panorama di un centro urbano lo puoi immaginare e fotografare come un insieme di case (e di persone), non più in sintonia e in armonia tra loro ma neanche con se stesse. Da vicino invece i scarabocchi e le scritte spray, a caratteri cubitali, sparse dappertutto, sembrano messaggi di un disordine sociale e di un individualismo esasperato, portatore di una solitudine non più sopportabile.

In epoche arcaiche, l’individuo, al calare della sera, appendeva per sua usanza, fuori, sulla sua porta di casa, una lampada accesa per segnalare la sua presenza ai passanti che ne avessero avuto bisogno. Vorrei poter dire che oggi, invece di una lampada, l’individuo, già di per se disorientato, usa il fronte esterno della sua abitazione, tinteggiandola con colori accesi: giallo, arancio, rosso, per segnalare a noi, o forse a sè stesso, non tanto la sua presenza quanto invece questa sua e nostra esistenza.

Riflessioni in margine ad un contratto di mezzadria del 5 agosto1931

di Armando Polito

Sono sicuro che Ezio Sanapo, autore del recentissimo post Il giardino degli aranci (https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/12/04/il-giardino-degli-aranci/), non me ne vorrà se alle sue pertinentissime osservazioni sul documento pubblicato aggiungo oggi le mie; e con questo non credo certo di aver detto l’ultima parola al riguardo. Mi è parso opportuno, per facilitare a qualsiasi lettore la comprensione di quanto dirò e per evitare, cosa che odio, di essere creduto sulla fiducia, esibire la trascrizione del testo a fronte del documento originale. Prima di iniziare, credendo di aver giustificato ampiamente questa “intrusione” (felice o infelice, bisogna aspettare per dirlo e perché io lo sappia …) non richiesta con quanto fin qui detto, ricordo a chiunque che vale, naturalmente, il contrario, che, cioè, le “intrusioni” altrui nei miei lavori saranno graditissime; dirò di più: vivo per loro, perché l’orticello della conoscenza è l’unico in cui la coltivazione e il raccolto reciproci possono dare i  frutti migliori, per quantità e qualità.

Cedendo alla deformazione professionale, pur non rimpiangendo la correzione dei compiti, che fossero di italiano, latino o greco, dei miei allievi (unicamente perché ho sempre avuto classi numerose …), non posso fare a meno di dire che lo stile, pur nell’aridità obbligata (ma da chi o da che cosa?) del contenuto giuridico-burocratico è perfetto, a parte il presente contratto e stato letto (ma, per converso ricorrono le forme letterarie ha l’obligo e si obliga). Ciò che, però, più mi preme far notare è l’assoluta corrispondenza tra le parole ed il loro significato, senza che mai, dico mai, il velo dell’ambiguità aleggi tra loro: anche un bambino sarebbe capace di capire cosa i contraenti hanno voluto stabilire. Qualcuno dirà che manca la penale, elemento fondamentale di ogni contratto, così come la sanzione dovrebbe esserlo di ogni legge. E, invece, c’è: la conservazione del posto di lavoro subordinata all’avvenuto rispetto degli impegni presi. E, signori, da una parte c’è un’analfabeta (non un responsabile del governo; sento qualcuno dire: dove sta la differenza? …), dall’altra un contadino, non il megadirigente di un carrozzone più o meno (e in quel meno si nasconde chissà che cosa …) pubblico.

Sorprende poi, ma non può farmi che piacere (anche se qualcuno che non ha capito un tubo di me mi appiopperà l’etichetta di comunista … ) il fatto che l’usufruttuaria Vita Aquila Garzya firma con il segno della croce e il contadino Pasquale Canoci1appone il suo nome, corredato di paternità, con una grafia che non definirei insicura e nella quale perfino Pasguale per Pasquale diventa un peccato venialissimo, al pari del cognome che precede il nome (ordine che potrebbe anche, al di là delle consuetudini del tempo, essergli stato suggerito dall’estensore del documento …).

 

Sulla nostra Vita Aquila mi soffermo brevemente per ricordare che Garzya3, il cognome del marito, è un nobiliare di origine spagnola, ma mi pare inutile e irrispettoso fantasticare (perché potrebbe trattarsi del discendente di famiglia nobile sì ma da tempo decaduta) su un amore tra un nobile ed una popolana, anche se tracce di questa nobiltà potrebbero ravvisarsi in quel giardino Capanidi cui sono proprietari Bonaventura e Wera Garzya di Emanuele.

So che questo tipo di indagini, discutibile già in passato, lo è diventato ancor più con la progressiva riduzione delle utenze telefoniche domestiche e con l’avvento del cellulare. Tuttavia riporto i dati che seguono nella speranza che qualcuno abbia la possibilità e la voglia di fornire, magari, precisazioni o ragguagli sul tema.

Nell’elenco telefonico di Tuglie 2013/2014 il cognome Canoci ricorre tre volte. Più ampio il territorio coinvolto da Garzya (nella grafia Garzia), visto che della signora Vita non è indicato nell’atto il luogo di nascita ed il domicilio: ricorre, infatti, una sola volta a Tuglie, due ad Alezio, diciannove a Matino e ben ventiquattro a Parabita.

Interessante mi pare, poi, far notare come nel 1931 nella pratica della concimazione lo stallatico occupa il primo posto e seguono a pari merito il concime chimico e la pratica del sovescio. Oggi, dopo aver avvelenato la terra con i pesticidi ed averla resa sterile con i concimi chimici, torna in auge l’agricoltura del tempo che fu con la pomposa etichetta di biologica, mentre le multinazionali continuano imperterrite a produrre e a commercializzare veleni …

Obsoleta pure, e da tempo, l’abitudine di coltivare verdura negli interspazi tra albero ed albero (soprattutto negli uliveti), poco compatibile con le attuali tecniche di coltivazione e di raccolta del prodotto principale.

E chiudo il mio post con il verso originale di Garcia Lorca con la cui traduzione italiana, su cui ho qualcosa da ridire, Ezio Sanapo ha chiuso il suo:

La luna llorando dice:/yo quiero ser una naranja

(La luna piangendo dice/voglio essere un’arancia)

Non chiedetemi, però, se tra il Garzya del documento e il poeta spagnolo ci sia un collegamento; non sarebbe l’unico caso in cui onestamente dovrei riconoscere di non essere in grado di rispondere.

______________

1 Facente parte, sembra di capire, della Casina Capani, in cui l’atto viene sottoscritto. Non è chiaro, poi, se questa casina corrisponda alla villetta che il mezzadro si impegna a coltivare e il rapporto dell’una e dell’altra con l’attuale Masseria Capani (nell’immagine che segue tratta da http://www.salento.it/agriturismo-capani-alezio).

e con la Villa Elia o Casino Capani (nell’immagine che segue tratta da http://www.ilmiosalento.com/?p=7561).

 

Il giardino degli aranci

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di Ezio Sanapo

 

L’albero di agrumi è stato sempre considerato una pianta di esclusiva pertinenza delle famiglie nobili e benestanti. Queste erano a conoscenza delle proprietà terapeutiche e benefiche del frutto e ne fecero  il simbolo sempreverde del loro benessere e della loro supremazia.

La padrona a cui si riferisce un documento d’epoca, era rimasta vedova e non potendo permettersi di avere in casa un servitore, (sarebbe stato sconveniente per la sua moralità), ha sottoscritto con un contadino, un contratto di mezzadria per la cura delle piante del suo giardino e la raccolta delle arance, riservandosi tutti per se i  mandarini come gesto estremo di distinzione sociale.

I nobili, avendo frequentato le scuole superiori e università, appartenevano all’universo della civiltà e cultura classica di origine greco-romana.

Già la mitologia greca descriveva le arance come “mele d’oro” del giardino delle Esperidi. Al confine  occidentale della terra dove il giorno si incontra con la notte, in un isola al centro del mare, fioriva un giardino dove le Esperidi dall’amabile canto, custodivano i “pomi d’oro ” con l’aiuto di un drago. L’albero era stato generato in occasione delle nozze tra Zeus ed Era per farne loro un dono e i suoi frutti diventarono così  simbolo della fecondità e dell’amore.

Nel Rinascimento, con la riscoperta di quella civiltà, gli agrumi assunsero un posto preminente nell’arredo a verde di ville e palazzi con i loro parchi e giardini  e divennero così monopolio del ceto nobiliare  assumendo di fatto il significato del loro “status- symbol”.

Gli agrumi, oltretutto, vennero utilizzati anche per insaporire gli arrosti, confetture, dolci, medicinali e olii essenziali per la preparazione di profumi.

“Il giardino degli aranci”, soprattutto nel Salento, è ubicato in un’area scavata a una profondità di circa tre metri nel parco alle spalle del  palazzo. Così  riparato dai venti, dalle intemperie e nascosti sotto i rami  delle piante, il proprietario e la sua consorte o le sue amanti potevano intrattenersi indisturbati nei loro rapporti amorosi convinti che il profumo di quei frutti e dei fiori d’arancio fossero afrodisiaci. Questo spiegherebbe l’usanza, tramandata fino a noi, del rito propiziatorio di ornare, con fiori d’arancio, la sposa il giorno delle sue nozze.

Oggi le arance le consumiamo spremute, ieri mangiavamo ad uno  ad uno i suoi spicchi dopo averle scrupolosamente sbucciate. I mandarini erano un lusso soltanto per i giorni di festa come Natale. Arance e mandarini erano oggetto di regalo che i padri o padrini facevano ai figli e figliocci il giorno della loro Cresima o prima comunione.

Cinquant’anni fa, in pieno sviluppo economico, l’acquisizione di un certo benessere ha rimescolato tra loro  i ceti sociali di origine: quello Borghese è sceso più in basso, quello Popolare è salito un po’ più in alto e quelle che erano sempre state due classi distinte, sono diventate una sola e indistinta. I nobili invece, sempre in guerra tra loro, erano scomparsi  già molto tempo prima.

Quel benessere economico ha fatto si che quanti erano stati, per origine e discendenza, mezzadri, coloni e servitori, hanno potuto costruirsi una propria casa e dietro la casa, accuratamente recintato, il loro sospirato giardino  decorato a verde con alberi di agrumi, come un chiaro ed estremo messaggio di un proprio riscatto per un possibile  benessere economico e sociale.

 

“ …e la luna piangendo disse: vorrei essere un’arancia”

(Federico Garcia Lorca)

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Lettera aperta agli abitanti di Supersano

 

 di Ezio Sanapo

 

Ho riflettuto molto ultimamente sulla enorme quantità di soldi che si spendono per la tutela e la salvezza delle anime degli abitanti del mio paese:

Nell’arco degli ultimi sessanta anni nel mio paese hanno accorciato la Chiesa Madre e nello stesso tempo ne hanno edificata una nuova in un’altra piazza negli anni 50. Inspiegabilmente hanno abbattuto e ricostruito, nuova di zecca, un’altra chiesa, che era la più antica del paese negli anni 60. Hanno pavimentato, un’altra volta, e intonacato i muri esterni della Chiesa Madre negli anni 80. Hanno stonacato invece la chiesa della santa protettrice del paese che era stata edificata “per miracolo” negli anni 90. Hanno rifatto il campanile e tutto il look interno, sempre della stessa Chiesa Madre negli anni 2000.

Senza parlare della costruzione di un imponente Oratorio che è l’unico intervento forse, fatto senza fare scempio e recare danni irrimediabili al patrimonio storico del paese.

Tutti questi lavori, opportuni o meno, sono stati realizzati con il contribuito dei cittadini, sia che li avesse messi lo Stato, sia che li abbiano messi di tasca propria. Il tutto con l’approvazione benevola della sovraintendenza alle belle arti.

Se gli abitanti del mio paese avessero speso almeno un terzo di quella cifra per le nostre scuole, oggi avrebbero scuole degne di essere frequentate, perché la scuola insegna Valori e Regole che è molto difficile insegnare in una scuola che strutturalmente non è in regola. Diventa difficile anche per chi nella stessa scuola insegna religione, che serve per la tutela dell’anima, se quella dei bambini ha, oppure no, un valore analogo a quella degli adulti.

In questi ultimi tre mesi, ho potuto visitare varie scuole dei paesi limitrofi e mi dispiace dover ammettere che la scuola del mio paese è la peggiore.

Nel mio paese le Chiese durano secoli (se non le abbattono volontariamente), le scuole invece durano pochi decenni, se tutto va bene, ed è, questa, la prova scontata che ogni cosa è durevole solo se fatta con amore.

Non scrivo tutto ciò per polemizzare con qualche amministrazione in particolare perché a memoria d’uomo, tutte le amministrazioni comunali, che si sono susseguite, (compresi gli abitanti che le hanno votate) nessuna si è veramente preoccupata di investire per il futuro del paese partendo dalle strutture della scuola, che sono fondamentali per la formazione dei bambini, Ma ci  preoccupiamo solo  della loro anima quando diventerà adulta.

Degli adulti di oggi è ammirevole la disponibilità di tante perpetue e sacrestani che si offrono volontariamente tutti i giorni a portare fiori freschi e a tenere pulite e ordinate le Chiese del mio paese, molto bene!

Sarebbe bello però se almeno un terzo di tanto interessamento lo riservassero anche per le Scuole frequentate dai loro figli che oltre ad avere un’anima, hanno tutto un futuro davanti: se lo avessero fatto già prima, avremmo oggi amministrazioni comunali che si sarebbero comportate di conseguenza per non perdere consensi.

Forse toccherà anche a me un giorno, preoccuparmi della mia anima. Da bambino ho dovuto sempre arrangiarmi da solo, da anziano invece avrò forse tutto il conforto della Chiesa e di tutti i Santi. Cambierò l’acqua dei vasi sugli altari tutti i giorni per meritarmelo e mi sentirò finalmente a casa mia, anche se non è il paese che io sognavo da bambino, anzi, non è proprio un paese per…bambini, ma dei bambini conserverò il ricordo della loro anima “alunna”, dei loro sguardi limpidi e sinceri dove posso ancora scorgere le radici della mia stessa anima incontaminata, con …”l’elmo di carta e la spada di legno” a difendere la sua identità e la sua purezza.

La pittura di Ezio Sanapo ha la sfumatura del sogno

di Franco Contini

 

Metamorfosi di un campo di grano 2 ( olio su tela ) cm. 135 x 110
Metamorfosi di un campo di grano 2 ( olio su tela ) cm. 135 x 110

Conoscere la storia di un artista contemporaneo, le vicissitudini private oltre che  pubbliche è, dunque, fondamentale.  Di Giotto, per citare un nome, o di altri artisti, anche anonimi ma, storicizzati attraverso le loro opere, non sappiamo nulla, molto spesso, della loro vita privata.

Frazione 1 ( olio su tela ) cm. 120 x 95
Frazione 1 ( olio su tela ) cm. 120 x 95

Ciò nonostante, le loro opere continuano a comunicare in maniera indipendente poiché sono, fondamentalmente, il risultato di almeno tre elementi, separati o compresenti, generanti l’opera d’arte oltre la necessaria sapienza dell’artista stesso:

 

Maria (olio su tela ) cm. 55 x 45
Maria (olio su tela ) cm. 55 x 45
Annunziata (olio su tela) cm. 50 x 60
Annunziata (olio su tela) cm. 50 x 60
Immacolata (olio su tela) cm. 65 x 50
Immacolata (olio su tela) cm. 65 x 50
Magnificat ( olio su tela ) cm. 55 x 45
Magnificat ( olio su tela ) cm. 55 x 45

Il primo elemento è quello della interpretazione letteraria, il secondo quello della traduzione in immagini dei testi sacri per consentire al popolo, un tempo incolto, la comprensione del messaggio biblico-evangelico. Terzo, ma non ultimo in termini di importanza, quello di una committenza, ricca e agiata, (non sempre necessariamente colta), la quale spesso entrava a piè pari, anche, anche nella progettazione della stessa opera.

Oggi non è più così. Non ci è dato comprendere l’arte contemporanea fino in fondo se non conosciamo le intime motivazioni che hanno indotto l’artista a realizzarla. Anche perché, molto spesso, rappresenta il mondo interiore, dunque uno stato psichico e pertanto invisibile.

E’ priorità insostituibile e necessaria conoscere le esperienze di vita vissuta dell’artista, per trovare la chiave di accesso alla lettura dell’opera d’arte e, di conseguenza, alla comprensione del messaggio artistico.

La pittura di Ezio Sanapo ha la sfumatura del sogno. Sembra essere pensata di notte e realizzata di giorno.

Il Mare di Addolorata lagoffa. cm. 150 x 100
Il Mare di Addolorata lagoffa. cm. 150 x 100

L’esperienza della vita dovrebbe imporgli una pittura espressionista accesa, fatta di colori forti e svelte pennellate. Di colori primari squillanti e secondari contrastanti. Ed invece adatta toni sommessi, quasi sempre sussurrati, rare volte accesi.

Sanapo  sceglie di usare colori tenui, lievi tonalità quasi incipriate, impalpabili. Dando vita ad una gamma cromatica morbida, vellutata che par di sentire Haydin piuttosto che Beethoven.

Sceglie di essere autodidatta assoluto, abbiamo detto. Una decisione che rischia di essere il suo limite ma dalla quale ne consegue un risultato originale e una cifra stilistica riconoscibile. Sceglie cioè di agire lontano dal riferimento all’operare di altri artisti modernisti o post-modernisti del novecento i quali ricercarono nuove forme espressive raggiungendo, a volte, risultati originalissimi, oltre invece, concludendo con un approccio a tutta la storia palesemente eclettico.

Il suo alto senso della tradizione lo dissuade dall’effettuare sperimentazioni nell’ambito di correnti artistiche più o meno originali, più o meno criticamente fortunate.

Binario Unico ( olio su tela ) cm. 110 x 75
Binario Unico ( olio su tela ) cm. 110 x 75

Resta profondamente ancorato a una pittura figurativa descritta da formule tonali personali e da rappresentazioni dal carattere indiscutibilmente intimista.

E’ bene ricordare che l’arte, in tutte le sue manifestazioni, reali o illusorie che siano, non prescinde mai dalla rappresentazione di due tipi di spazio: lo spazio pieno, rappresentato dalla forma e quello vuoto che la contiene. Nelle opere di Sanapo, molto spesso, lo spazio vuoto assume predominanza fino a diventare soggetto esso stesso. Distanza incommensurabile dalla forma. Spazio entro il quale assistiamo alla sospensione del tempo. Rappresentazione drammatica e metafisica insieme.

Paesaggio con ombrellone verde a fiori  ( olio su tela ) cm. 115 x 90
Paesaggio con ombrellone verde a fiori ( olio su tela ) cm. 115 x 90

Scorgiamo affiorare persino l’idea dello spazio che avvolge le scene dei ricordi d’infanzia.  A volte i due spazi, pieno e vuoto, interagiscono.  La stessa fissità, stabilità e rigidità delle architetture è messa in discussione. E queste divengono morbide, animate, fino a sembrare quasi che respirino. Come nel ciclo di opere “Coppia in interno con sottofondo musicale”, nelle quali le architetture trasmettono il senso ritmico della musica divenendo corpi sinuosi e molli come corpi danzanti, forse più della coppia stessa.

Il modo di Sanapo di affrontare lo spazio determina una rappresentazione ipnogocica, costruita cioè con figure che paiono provenire da una condizione di dormiveglia.

Paesaggio Notturno con Luna Park 2 (olio su tela) cm. 130 x 80
Paesaggio Notturno con Luna Park 2 (olio su tela) cm. 130 x 80

Pur essendo preminente la forma emerge un senso di vuoto e di solitudine in uno spazio dove qualcosa è accaduto o sta per accadere. Una sorta di sospensione del tempo su una soglia che determina l’inizio o la conclusione di un evento in un’atmosfera tutta surreale.

La luce è pensata come forza che sublima il reale invalidandone la consistenza e la concretezza della materia.

Sembra continuamente stimolato a rappresentare il reale attraverso il surreale. Ci invita a riflettere sui motivi  ricorrenti della nostra tradizione culturale con la consapevolezza di quanto e come i valori etico-sociali si sono trasformati se non addirittura perduti. Cercando di recuperare le valenze positive della tradizione con i suoi valori. Prendendo in esame una rivalutazione critica del passato per comprendere consapevolmente il presente.

Paesaggio Urbano con Cacciatore (olio su tela ) cm. 100 x 75
Paesaggio Urbano con Cacciatore (olio su tela ) cm. 100 x 75
Coppia in interno con Sottofondo Musicale 2 ( olio su tela ) cm. 70 x 45
Coppia in interno con Sottofondo Musicale 2 ( olio su tela ) cm. 70 x 45

La sua è una figurazione solo in apparenza semplice poiché e fondamentalmente criptica e simbolica.

Ci sono dettagli singolari nelle sue opere, che comunicano una intensa riflessione esistenziale ed immagini generali a cui affida le sue emozioni più recondite, espresse da tematiche come l’emarginazione o la solitudine, la paura ansiogena che il male possa vincere sul bene, la preoccupazione di dare un’altra chance all’amore.

Senza perdersi mai d’animo nutre l’embrione della speranza: enigmatico e chiaro allo stesso tempo, quanto coinvolgente, è il dipinto “ Il mare di Addolorata la goffa”, nel quale una figura femminile, sulla riva, attende dal mare l’arrivo della nave che porterà il suo corredo e si potrà avverare il sogno che le consentirà di intraprendere il percorso di iniziazione verso il riscatto della propria condizione umana. La scena è pervasa da un surreale senso di immanenza e di immutabilità delle cose. Drammatico è qui lo spazio vuoto, più del pieno, più della forma.

E’ costantemente immerso invece nella dimensione spirituale, con le Opere del ciclo “Una Donna di Nome Maria”, che potrebbe essere dedicato a Don Tonino Bello e a i suoi scritti mariani. In esse la luce è pensata come forza che sublima il reale invalidandone la consistenza e la concretezza della materia.  L’opera “Natività” l’idea di una Donna-Madonna che potrebbe addirittura risultarci blasfema per la libertà del gesto con cui si priva dell’aura sacrale. Esprime senza falso pudore, tutta la gioia per la maternità e per la nascita del figlio: la Madre è veramente Madre e, davvero, Cristo si è fatto uomo.

Dinamo cm 150 x 85
Dinamo cm 150 x 85

Generalmente gli spazi e gli orizzonti sono indefiniti, sfumati. Diafane le figure. Le forme, a tratti evanescenti e pronte a dissolversi nell’aria se non ci fosse il disegno a descriverle e sottoscriverle, chiamato a contenerle e sostenerle. E dunque a strutturare e reggere la composizione tutta.

Costruisce le immagini con colori pastellati e una materia pittorica che non prevarica la forma ma la supporta, sfumandola, stando un passo indietro.

Favorisce l’aspetto emotivo e poetico collocandolo in uno spazio onirico e applicando forse inconsapevolmente, il dettato surreale di Breton: “automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere…il funzionamento reale del pensiero…con assenza di ogni controllo esercitato sulla ragione…”.

Canneto 2 (olio su tela cm. 195 x 102
Canneto 2 (olio su tela cm. 195 x 102

Oggi l’arte ha acceso i riflettori su tematiche come, il disagio sociale, la quotidiana sofferenza dell’umanità.  La necessità  improcastinabile di un ritorno alle origine delle cose del pensiero, alla purezza, per rifondare un ordine sociale che sia più giusto, equo, meritocratico. Per riscrivere le regole di una civile convivenza interculturale. L’inutilità delle guerre per risolvere i conflitti. Il disastro ambientale perpetrato senza fine e impunemente.

Queste ed altre ancora sono le tematiche affrontate dall’arte contemporanea. Problematiche che non si possono risolvere senza un processo di recupero dei valori e dell’identità, che collochi gli stessi nell’alveo della conoscenza, della cultura e della loro praticabilità. Ed è esattamente ciò che motiva l’asserzione iniziale: “ Ezio Sanapo è un artista contemporaneo”, perché recuperando valori e tradizioni e attingendo al ricordo di un mondo che non esiste più poiché cancellato, travolto da un progresso molto spesso ingannevole e fraudolento, l’artista ci restituisce immagini colme di poesia e di struggente bellezza.

Espressione e mimesi della realtà. Appunti critico-biografici su Ezio Sanapo

di Franco Contini

 

Uomo che Pensa (olio su tela) cm. 100x80
Uomo che Pensa (olio su tela) cm. 100×80

Ezio Sanapo è un artista contemporaneo.

L’affermazione, solo apparentemente scontata, trova sostegno nella acquisita consapevolezza che l’arte del passato continua a comunicare, comunque e, indipendentemente dalla conoscenza che si ha della vita privata e, a volte, intima, degli artisti che l’hanno generata.

Chiariamo il concetto:

L’arte contemporanea, intendendo con questi termini anche e soprattutto, quella di ricerca più avanzata, per essere compresa appieno e quindi goduta, consumata, fruita, non può, assolutamente, prescindere dal vissuto quotidiano dell’autore, dell’uomo-artista.

Soprattutto del quotidiano vissuto in età giovanile, cioè durante la formazione della coscienza civica ma, anche, senza ordine di importanza, della coscienza etica, estetica, sentimentale ed emozionale dell’Uomo.

La moglie del Casellante ( olio su tela ) cm. 120 x 60
La moglie del Casellante ( olio su tela ) cm. 120 x 60

Per queste ragioni, in questa sede, parleremo dell’uomo prima, per arrivare, poi, a dare spessore alla affermazione iniziale: EZIO SANAPO, artista contemporaneo.

La storia personale di Sanapo è una storia che si dipana con una serie di fatti, di eventi significativi, di quelli che segnano la memoria in modo indelebile.  Fatti da lui stesso rievocati durante alcuni colloqui con il sottoscritto.  E’ una storia, potremmo dire, fatta, in sostanza, di negazioni e impedimenti.

Sanapo non vanta paternità artistiche, non ha frequentato una scuola di formazione specifica. Nè istituto d’arte, nè Liceo Artistico.  Neppure lo studio privato di un qualsiasi maestro locale. Si ritiene, con un velo di orgoglio, autodidatta assoluto.

Dopo la quinta elementare è impedito agli studi dal padre, muratore,  il quale vuole che il figlio segua le sue stesse orme.

Da ragazzino, in conflitto con il padre è costretto a inventarsi, per rendersi autonomo, attività riduttive.   A diciotto anni appena compiuti, sempre per volere del padre, emigra in Svizzera.

Tutte queste circostanze gli consentiranno la conoscenza e l’importanza dei rapporti umani a contatto con  lavoratori di paesi ed etnie diverse.

Mare d'inverno 1 ( olio su tela ) cm. 130  x 70
Mare d’inverno 1 ( olio su tela ) cm. 130 x 70

L’irrigidimento dei sentimenti, dunque, diviene sistema-espediente educante alla durezza della vita che, per la psiche di un bambino, è come fuoco ardente di una forgia, che rende molli i metalli, ai quali, se non si da nuova forma, restano materia grezza.

La pittura è il suo modo di comunicare e riempire il vuoto di sentimenti non corrisposti ma anche e soprattutto, per conoscere la realtà che lo circonda e smascherarla quando assume forme virtuali e fittizie.

Sostiene che “l’arte è militanza civile, serve per stimolare le coscienze”, per lui “l’artista è uno stato d’animo”.

Primo giorno di Primavera. cm 110 x 80
Primo giorno di Primavera. cm 110 x 80

Al suo ritorno in Italia prende coscienza della perdita di identità del ceto popolare al quale sente di appartenere e perciò, negli anni settanta, cerca di recuperarla svolgendo concretamente  volontariato in attività politiche e sindacali.

Acquisisce la consapevolezza che il suo essere artista debba considerare non solo gli aspetti estetici  ma anche e, soprattutto, la responsabilità etica e politica, di rendere visibili le forme possibili della realtà irreale, priva dei punti di riferimento, tradotte in maniera figurativa.

Orienta la sua ricerca artistica con una certa attenzione al mondo operaio e contadino, trattando argomenti come i diritti negati allo sfruttamento dei lavoratori.  Tematiche sociali riguardanti attività lavorative insolite quanto provocatorie.

Vigilia 1 (olio su tela) cm. 130 x 85
Vigilia 1 (olio su tela) cm. 130 x 85

Estremamente provocatore per quel periodo, come ad esempio nell’opera raffigurante l’uomo dedito al ricamo, un tempo esclusiva attività della identità femminile. Non si comprese, invece che era la rappresentazione di un cambiamento epocale della società.  Che il lavoro non sarebbe appartenuto più ai generi maschile o femminile.  Non ci sarebbero stati più netturbini o soldati solo maschi, ne ostetriche o ricamatrici solo femmine.  Ce l’avrebbe imposto la precarietà e la diminuzione del lavoro, il grande problema che oggi tutta l’Europa conosce bene.  Sanapo si rivela dunque più provocatore, vate, trent’anni prima, di una drammatica e irrisolvibile, sembra, situazione lavorativa attuale.

 

Vigilia 2 (olio su tela) cm. 135 x 90
Vigilia 2 (olio su tela) cm. 135 x 90

Il rapporto con la Terra, l’Arte e il Paesaggio

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di Ezio Sanapo

“ Quando gli uomini hanno grossi problemi, devono rivolgersi ai bambini, sono loro ad avere il sogno e la libertà”  

( F. Dostoevskij )

Ricominciare dalla Scuola

E’ il percorso che io e Maurizio Nocera in collaborazione con “LE STANZIE Agriturismo” stiamo facendo, a cominciare dall’Istituto comprensivo di Supersano che comprende anche i comuni di Nociglia, Botrugno e S.Cassiano.

I temi che porteremo all’attenzione degli  studenti delle scuole elementari, medie ed insegnanti sono:

 Il rapporto con la Terra, l’Arte e il Paesaggio.

La Terra come matrice della nostra esistenza, l’Arte come regolatrice delle nostre emozioni e dei nostri sentimenti e il paesaggio come testimonianza della nostra identità e della nostra storia.

Queste tre importanti e indispensabili componenti della nostra vita sono sottoposte, in questi ultimi decenni all’abbandono e al degrado.

Lo scopo è rimodulare con esse un rapporto nuovo, partendo dai bambini che, oltre ad essere più sensibili e ricettivi, hanno più di ogni altro la possibilità di coinvolgere gli adulti.

Chiunque può unirsi all’iniziativa e contribuire ad allargarla per coinvolgere tutto il nostro territorio.

Maurizio Nocera, LE STANZIE” ed io ringraziamo le ditte di artigiani che su nostro invito si sono unite per eseguire gratuitamente la pitturazione dei locali della scuola in occasione della manifestazione.

 

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ISTITUTO COMPRENSIVO

(Botrugno – Nociglia – S. Cassiano- Supersano)

IL MONDO CHE VORREI

Terra- Arte- Paesaggio

L’umanità sa, l’ha sperimentato sulla propria pelle, che un mondo ideale, perfetto, luminoso, nella realtà non esiste, come pure sa che esso è difficilmente raggiungibile. Tuttavia, essa sa pure che un tale mondo ideale irraggiungibile possa essere ugualmente perseguibile, e per questo s’impegna quotidianamente e vive nella speranza di un domani migliore.

Oggi sappiamo che il pianeta sul quale viviamo non è più in buone condizioni fisiche, molti acciacchi lo tormentano e, purtroppo, la causa di questi suoi mali è dovuta a scelte sbagliate fatte da noi stessi umani.

Qualcuno oggi si è accorto di tutto questo e cerca con infinita umiltà di correre ai ripari, rimodulando il suo rapporto con la TERRA, col PAESAGGIO e con l’ARTE, partendo proprio da quello che è sempre stato (ed è) l’humus vivo della stessa umanità: i giovani, gli studenti e tutti coloro che amano sentirsi partecipi di un nuovo processo di rivitalizzazione del pianeta Terra.

All’interno di questa progettualità, l’ISTITUTO COMPRENSIVO di SUPERSANO (Scuole Elementari e Medie),  LE STANZIE e l’artista EZIO SANAPO, hanno pensato bene di proporre una serie di eventi per dare il loro contributo alla rivitalizzazione del proprio territorio e del Salento.

20 dicembre 2013

-SUPERSANO-

Aula Magna

                    ISTITUTO COMPRENSIVO SUPERSANO

Ore 9,00: Presentazione del Progetto:

IL MONDO CHE VORREI

L’intento dell’incontro è assegnare la tematica IL MONDO CHE VORREI agli studenti per un loro elaborato (tema, poesia, disegno e altro frutto della creatività dell’età evolutiva) da consegnare entro il primo marzo 2014. Una giuria di esperti valuterà gli elaborati e, ai migliori classificati, il 22 marzo, inizio della primavera e Giornata Mondiale della Poesia, indetta dall’Unesco, assegnerà dei Premi-Libro.

 

Ore 10,00:Inaugurazione Mostra di

EZIO SANAPO

Interventi:

Prof.ssa Caterina SCARASCIA ( Preside),

Maria BONDANESE (Consigliera alla Cultura),

Franco CONTINI (Docente Accademia di Belle Arti di Lecce),

Alessandro LAPORTA (Direttore Biblioteca Provinciale),

Francesco PASCA (Critico d’Arte).

 

Ore 11,00-13,00: Convegno

LA TERRA NOSTRA GRANDE MADRE:

SALENTO DA AMARE

Interventi:

dott. Roberto DE VITIS, (Sindaco di Supersano, Saluto),

Ing. Gianni CARLUCCIO, (Proiezione diapositive su Salento da amare).

Prof. Giovanni INVITTO, (Salento Terra d’Ospitalità).

Dott. Agr. Gigi SCHIAVANO (Comitato “La notte verde Ritorno alla Terra” di Castiglione)

Coordina: Maurizio NOCERA.

 

LE STANZIE:

Ore 13,30-15,00 Ristoro ( buffet con panini e vino)

Intermezzo musicale di WALTER DELLA FONTE

Ore 15,00: Convegno

IL PAESAGGIO NOSTRO ORIZZONTE DI VITA

Dr. Giovanni GIANGRECO (Sovrintendenza Prov.),

“Il territorio urbano rurale del Salento”

Interventi:

Raffaele BAGLIVI (Architetto),

Lorenzo CAPONE (Editore),

Antonio CARLINO (Impiegato),

Mario CAZZATO (Architetto),

Ada DONNO (Presidente AWMR-Italia),

Nunzio PACELLA (Giornalista),

Vincenzo RUGGERI (Giuggianello),

Salvatore SCIURTI (Architetto),

Nello SISINNI (Architetto),

Alessandro TURCO (referente Fondazione Tonino Guerra)

altri.

Conclusioni:

Dr. Salvatore BIANCO (Ispettore Sovrintendenza Provincia di Lecce).

Coordina: Simona VARRAZZA (Portavoce “Le Stanzie”)

Lettera aperta la ministro Bray sul paesaggio salentino

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LETTERA APERTA AL MINISTRO AI BENI CULTURALI

–         per conoscenza al Presidente della provincia di Lecce

 

Spett. Sig. Ministro,

Come semplice cittadino residente nel Salento le scrivo per richiamare la sua attenzione sullo stato di “conservazione” del patrimonio paesaggistico dei comuni che appartengono alla provincia di Lecce.

Il paesaggio salentino, ad eccezione delle Città di Lecce, Maglie e Specchia, non è più sottoposto, da parte delle Amministrazioni Comunali e rispettivi uffici tecnici, a nessun controllo e regolamentazione per la sua conservazione e tutela.

Nelle commissioni edilizie di ogni comune di Terra d’Otranto e Leuca dei secoli scorsi, erano vigenti e obbligatorie, norme severe e persuasive circa la scelta e il rispetto dei colori, dei materiali e dei stili architettonici tipici del paesaggio mediterraneo.

Dagli anni ’60 queste normative sono andate man mano scemando fino a scomparire del tutto con l’avvento del regime consumistico che privilegia i prodotti chimici e industriali incompatibili con il nostro clima,  a danno dei prodotti tradizionali e naturali esistenti sul nostro territorio.

Paradossalmente nello stesso arco di tempo in cui è stato riscoperto e rivalutato il patrimonio coreografico-musicale popolare salentino, il paesaggio urbano ed extraurbano, altrettanto popolare, iniziava il suo declino e oggi rischia di essere cancellato per:

–                    il ricorso sempre più diffuso alla colorazione esagerata delle facciate       ed eccessivo ricorso alla pietra a vista nei centri urbani;

–                    il proliferare, nelle nuove costruzioni, di forme architettoniche estranee alla nostra identità culturale;

–                    il diffondersi di graffiti e scritte con bombolette spray sui muri dei centri urbani e periferici che per assuefazione agli occhi degli abitanti (ma non a quelli dei turisti), evidenziano un paesaggio emergente che avanza indisturbato e si sovrappone a quello preesistente fino alla sua cancellazione totale, e con essa, la nostra memoria storica.

Se in questi ultimi anni Il Salento è stato molto apprezzato sotto l’aspetto  musicale è un merito che va sottolineato.  Tutto ciò può essere vanificato perché è inconcepibile che la considerazione e l’apprezzamento non venga fatto anche per il patrimonio paesaggistico che ha la stessa storia. Ed è, anzi, il contesto stesso di quello musicale, entrambi parti integranti di due diverse civiltà millenarie, quella contadina e quella classica che, proprio grazie a delle regole, sono state tramandate fino a noi, rispettandosi a vicenda e che noi oggi, potremmo con orgoglio  presentare, come testimonianza, ai  visitatori che tanto concorrono allo sviluppo turistico ed economico del Salento.

Io sottoscritto Ezio Sanapo assieme a tutti gli altri sottoscrittori del manifesto allegato, ci siamo impegnati, da qualche anno a richiamare l’attenzione delle amministrazioni locali, dei cittadini e nelle scuole, con manifesti ed articoli sui giornali, a prendere coscienza su un problema che per essere risolto non ha bisogno di finanziamenti e che ciò nonostante, per la sua cronicità, trova forti resistenze. Proprio per questo siamo ricorsi a questa nostra lettera e alla sua attenzione.

“ELOGIO AL BIANCO DELLA CALCE” e riconciliazione con il nostro paesaggio di origine sarà il tema che il comitato organizzatore della manifestazione LA NOTTE VERDE dedicherà il 31 agosto di quest’anno, dopo lo strepitoso successo dello scorso anno nella località di Castiglione in provincia di Lecce.

Nell’ambito della manifestazione suddetta, io e tutto il comitato organizzatore faremo un bilancio e decideremo altre eventuali iniziative rendendo  pubblica e ufficiale una vostra risposta o iniziativa che possa concorrere alla risoluzione di un problema che ha una importanza che va al di la delle motivazioni di carattere estetico .

In attesa di una sicura e pronta risposta la saluto cordialmente.

 

Ezio Sanapo                         Il comitato organizzatore LA NOTTE VERDE

In mostra i dipinti di Ezio Sanapo

 

 

  CITTA’ DI ALESSANO

Provincia di Lecce

Alessano: in mostra i dipinti di Ezio Sanapo

L’amministrazione comunale di Alessano, in collaborazione con Pro-Loco, Centro Anziani, Marinai d’Italia e Adovos, organizza la Mostra  di dipinti di Ezio Sanapo, pittore e decoratore autodidatta ben noto al pubblico salentino. La rassegna , che sarà ospitata nelle sale del cinquecentesco Palazzo Legari ad Alessano dal 15 dicembre – 15 gennaio 2012,  sarà inaugurata il  15 Dicembre  alle 17,00 con i saluti del sindaco di Alessano Osvaldo Stendardo cui seguiranno gli interventi di Francesco Greco, Alessandro Laporta, direttore della Biblioteca Provinciale di Lecce,Francesco Accogli, direttore della Biblioteca Comunale di Tricase e Nello Wrona. La mostra, che prevede l’esposizione di oltre trenta  dipinti che riassumono il lungo percorso artistico dell’artista salentino( risale al lontano 1960 ,quando aveva appena 12 anni, la sua prima mostra), comprenderà anche il ciclo di otto opere sul tema “Una donna di nome Maria” in ricordo del vescovo Don Tonino Bello. Nato nel 1948 a Supersano, Ezio Sanapo, che attualmente risiede a Tricase, ama definirsi un  artista “congenito e per vocazione, non per titolo ma per stato d’animo”. Dal 1977 ha tenuto diverse mostre in diverse località italiane riscuotendo un notevole successo di critica e di pubblico. Di lui ha scritto il compianto Enzo Panareo : “Ezio Sanapo è un artista ostinato e coerente a considerare il suo impegno artistico come impegno sociale e culturale al riparo da ogni condizionamento commerciale perché l’arte, a suo dire, possa essere libera di esprimere tutta la sua carica poetica, ironica e di denuncia. Il suo scenario di ispirazione è sempre stato la realtà che lo circonda, non quella piatta e virtuale ma quella vera, che sta nelle pieghe e non si vede ad occhio nudo, con tutta la sua problematica e la sua potenziale carica umana, con al centro il singolo individuo e il suo stato di conservazione”.

 

La mostra resterà aperta tutti i giorni, dal 15 dicembre al 15 Gennaio dalle 16,00  alle  21,00.

 

 

Il campo dei fuochi

 Vi racconto la speranza

di Ezio Sanapo

L’ultimo breve periodo di speranza che si possa ancora ricordare, risale alla fine degli anni ’60 e fu stroncato sul nascere dalla cosiddetta “strategia della tensione,” che non si limitò alle stragi di vittime innocenti ma rispolverò la filosofia dell’individualismo, tanto cara ai governi conservatori di questi ultimi anni.

La paura è nemica della speranza e a partire dagli anni ’80, la gente cominciò a barricarsi in casa. Quel imponente ripiegamento di massa fu chiamato” riflusso” che concretamente significa rinuncia, dietrofront. Il tutto all’insegna dello slogan: “Privato è bello”.

Da allora sono passati ormai troppi anni e non credo che oggi la gente sia felice, chiusa in casa e in se stessa: Per la sua tranquillità non sono bastati tutti i sistemi di sicurezza possibili: lucchetti, porte corazzate, videocitofoni, telecamere, sistemi di allarme, cani da guardia, guardie giurate, siepi, muraglie e filo spinato e non ultimo la legge che autorizza a sparare a vista. Ma fuori, del nemico neanche l’ombra (tanto poteva entrare via cavo). E per via cavo, invece di cultura, entra una concezione deformata e volgare della realtà che ha seriamente danneggiato la sensibilità della gente e la sua disponibilità ad emozionarsi. Senza emotività e stimoli culturali i liberi cittadini non hanno più parlato e i liberi pensatori non hanno più pensato. Mi riferisco ai tanti e qualificati intellettuali che abbiamo in tutto il paese, sono ormai decenni che questi ultimi non scendono sulle piazze.

Essi, abbandonati dalla gente comune, si sono isolati in cerca di se stessi: alcuni si sono limitati a un dialogo chiuso all’interno della propria categoria, senza un coinvolgimento popolare, altri, i più validi, hanno perso ogni speranza. Sul fatto che non ci sia più speranza essi hanno ragione ma non è questo il problema. Il problema vero è la loro solitudine, che è la stessa di tutti noi: una solitudine né voluta, ne casuale: la soluzione di questo problema è la premessa per un nuovo clima di speranza. Un intellettuale, si sa, è per certi versi una figura scomoda, se poi sta tra la gente lo è a maggior ragione perchè tra la gente crea Speranza, dividi le due cose e la speranza muore. Prova ne è il fatto che oggi effettivamente non si intravede all’orizzonte nessuna grande idea e nessun progetto di società che sia in grado di risvegliare grandi ideali e stimolare passione.

I governi che si susseguono a malapena riescono a portare avanti il disbrigo dell’ordinaria amministrazione con programmi a breve termine. Direbbe Platone: “Quando uno Stato è male amministrato è giusto cominciare a trasformare intanto la nostre coscienze”. Io spero che partirà dai nostri intellettuali la richiesta di riscatto della nostra dignità storica e morale e il ripristino dei valori della nostra cultura classica e universale. “I beni materiali di ogni società più vengono ripartiti più diminuiscono, la cultura invece è l’unico bene dell’umanità che al contrario diventa più grande se più distribuito” (Hans G. Gadamer). A loro e a una nuova speranza che sia di supporto e di stimolo per tutti, dedico, come racconti per adulti e bambini, queste mie modeste riflessioni.

“Quasi una ninna nanna”

Non deve essere facile per un bambino appena nato essere fiducioso e tranquillo in un mondo che lo sovrasta per la sua enormità, lui così fragile e indifeso. Ma c’è la mamma che lo tranquillizza e gli somministra una razione giornaliera di fiducia e speranza. Lo fa con ogni modo: la mammella, i baci e le carezze; lo fa cantilenando e discorrendo con il bambino. La mamma gli parla, il bambino non la comprende ma la guarda negli occhi e capisce che quelle della mamma sono buone notizie, che fanno ben sperare e si addormenta.

“La cometa e i fuochi di artificio”

La speranza viene vissuta come una vigilia: nella tradizione popolare e religiosa è rappresentata da quel lungo periodo in cui le anime del Purgatorio vivono in attesa dell’Avvento che culmina con la venuta del Messia e della liberazione dalle loro pene. A segnalare e simboleggiare la sua venuta è una stella cometa che indica un orientamento, una direzione. C’è ancora oggi, da parte della gente, il bisogno e la necessità che un corpo celeste, al di sopra di noi, indichi una presenza e una direzione. Nelle feste dei santi protettori, altre popolazioni di anime “penanti” ma dello stesso purgatorio, hanno sostituito le comete con i fuochi artificiali. Il finale di ogni festa è sempre uguale: Allo spegnersi di ogni cometa e allo scoppio dell’ultimo e dirompente botto di ogni fuoco artificiale, c’è il silenzio e il buio totale. E’ quello il momento in cui ognuno di noi sente il bisogno di guardarsi intorno a cercare accanto a sé la presenza di qualcuno.

“Il sepolcro e il grano”

C’era una volta il rituale dei “Sabburchi” (dei Sepolcri) e del miracolo del grano che nasce al buio nello spazio di una bacinella di terra e tufo, coperta con uno straccio bagnato e nascosta sotto il letto per trenta giorni, tirata fuori e decorata con piccole bandierine di carta e petali di fresie. Così addobbata, veniva portata in chiesa prima di Pasqua, il giorno della morte di Cristo. Immaginate lo spettacolo che possono creare cento bacinelle variopinte e tutte ricoperte di teneri fili di grano appena nato, ai piedi dell’altare. La speranza che sfida la rassegnazione, il trionfo della vita sulla morte: cento singole bacinelle che unite tutte insieme formano un campo di grano e, su questo, Cristo risorto!

“Una valigia piena di sogni e di speranza”

da: http://theappletheking.blogspot.com

Ci sono ancora, da qualche parte, cento famiglie che tutte insieme formano una comunità, ma divise e sparpagliate sono rimaste con un pugno di terra che ognuno ha portato con se, come lievito, convinti che la terra potesse lievitare: la speranza viva per miracolo. Chi è emigrato lo ha fatto suo malgrado, per necessità, ma senza fare nessuna rinuncia. La rinuncia e il danno lo hanno fatto quelli che sono rimasti. Chi è rimasto ha accettato compromessi e in cambio della propria tranquillità ha “lasciato fare”. Sono stati stravolti i centri storici, hanno occupato illegalmente le nostre coste, hanno comprato le masserie e le hanno trasformate in ville con piscina, hanno riempito i terreni di discariche abusive, hanno creato diffidenza reciproca, hanno ucciso il dialogo e, come dice un mio caro amico, hanno ucciso la speranza. Verso la metà degli anni settanta ci fu un massiccio ritorno e chi è tornato ha trovato ormai sciolto quel vincolo di solidarietà che aveva unito generazioni per millenni di anni. Altrettanto massiccia fu la ripartenza, come quella di una nuova ondata di emigrazione giovanile che, ancora oggi, dissangua il meridione, conseguenza di quel patto scellerato tra governanti e governati. Anche questi nuovi emigranti porteranno con se i sogni e la speranza che è stata tanto utile a coloro che li hanno preceduti e che, messi tutti insieme, sono tanti. Così tanti da decidere, addirittura, il Governo e le sorti di una Nazione, com’ è avvenuto con il secondo governo Prodi. L’ex ministro conservatore Tremaglia, autore della recente legge sull’immigrazione non immaginava certo che anche i sogni e la speranza potessero essere di così lunga conservazione e casualmente ha toccato una piaga ed è successa una rivoluzione o semplicemente un miracolo, quello di una bacinella che diventa un campo di grano.

“Il Sud come l’Andalusia ”

Visitando certe zone del Sud, ti sorprende e ti sconforta vedere, a qualsiasi ora, le strade e le piazze deserte: sembra che nei paesi non ci sia più nessuno. Allora ti vengono in mente quegli stessi luoghi negli anni settanta, il clima di festa di allora, una festa durata diversi anni. La gente chiedeva Cultura, voleva Sapere. Mi ricordo la moltitudine di artisti e critici d’arte lavorare gomito a gomito e tanti collezionisti di quadri. C’era una galleria in ogni paese e la gente andava numerosa a visitarle. Chi vive oggi in quei paesi si chiede: “Che fine ha fatto tutta quella gente? E tutti quegli intellettuali?” Mi vengono in mente i versi del poeta spagnolo Rafael Alberti esiliato in Italia a causa del regime fascista, il poeta si chiedeva:

“E’ possibile che l’Andalusia sia rimasta senza nessuno? E’ possibile che sui monti andalusi non ci sia nessuno? Che sui mari e nei campi andalusi non ci sia più nessuno?”

E’ il lamento di dolore causato dal vuoto di speranza e dalla solitudine che ne consegue; dalla distanza tra l’intellettuale e la comunità, distanza tanto simile a quella che si è creata tra la metà di popolazione che è andata via e l’altra che invece è rimasta, senza che nessuno avesse stabilito, tra l’una e l’altra, il necessario dialogo costruttivo che potesse far sperare.

“Il campo dei fuochi”

Il campo dei fuochi stava appena fuori dalla periferia del paese così molta gente poteva guardare i fuochi d’artificio dalla propria terrazza. Visto così al buio sembrava un posto misterioso e chissà quanto lontano, faceva quasi paura. Nei giorni precedenti, prima e durante la festa nessuno aveva potuto avvicinarsi, il divieto era tassativo e gli addetti ai lavori erano stanchi di ripeterlo. Il giorno successivo invece, visto alla luce del sole, era un campo qualsiasi, né incolto né coltivato. Disseminati da tutte le parti, sembravano ancora caldi i pezzi di carta bruciacchiati delle “carcasse”, carta dura e resistente, ricavata dai sacchi di cemento, non facilmente infiammabile. Dopo la festa, di buon mattino,come tutti gli anni, i ragazzi erano là, sparpagliati su tutto il campo a cercare frammenti di polvere da sparo. Erano frammenti di colore nero, di grandezza diversa, nascosti tra le zolle ed i piccoli cespugli. Messi tutti insieme in un barattolo di latta, lo portavano di nascosto a casa. Come ogni anno, la sera si sarebbero riuniti e, sempre di nascosto, avrebbero incartato il tutto e messo in uno “stompo,”; poi, con una miccia di carta accesa, lo facevano esplodere, causando un botto improvviso, forte e violento. Non era certo un fuoco di artificio, ma fra tutti quelli esplosi nei giorni di festa, era forse il più gradito. Siccome la festa era passata, il paese era ricaduto nel suo letargo e questo i ragazzi non lo avevano accettato. Così, d’improvviso, si spalancavano porte e finestre, si sentivano voci dappertutto, cani abbaiare e pianto di bambini. Il paese era ancora vivo.

Il bello di un botto è la sua imprevedibilità, non sai mai quando scoppia né dove. E poi un botto serve a tante cose: può dare il segnale che una festa è finita o che sta per cominciare. Può scoppiare oggi o non scoppiare mai.

…tu però stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera.
( da ” il messaggio imperiale” di F. Kafka )

Per una mostra di Ezio Sanapo

Per una mostra di Ezio Sanapo

“Passo doppio”, o della fine della leggenda nera

 

di Nello Wrona

 


Conosco Ezio Sanapo da più di vent’anni, da quando cioè tra le pagine della
rivista “SudPuglia”, poi “Apulia”, si era raggrumato, romantico e disperato
quanto può essere un trasognato Don Chisciotte di fine millennio, un gruppo
di poeti, scrittori, romanzieri, artisti (pittori, soprattutto, e poi scultori, fotografi,
gente dallo sguardo lungo e disincantato), giornalisti, editori. Per tutti, uno
squalo che mordeva dentro, dannazione e tormento di errabondi suonatori di
violino, sognanti a volte, eccessivi quasi sempre, nel deserto illimite e senza
confini del Salento.
Ezio Sanapo era ai margini di quel gruppo, non vi entrò mai – come dire? – in
modo organico, militante, ma con quel gruppo si misurò, lui fortemente laico
e con intatti propositi di rivolta, con intelligenza e ironia.
Erano gli anni Novanta, o giù di lì: crollavano Muri, che scoprivano patrie inquiete, e scoppiavano i bubboni di Tangentopoli e di Mani pulite, una tempesta
annunciata mesi prima da un film tristemente profetico, “Il portaborse” di
Nanni Moretti. Dice il protagonista in una sequenza ormai celebre: «Il grigiore,
la noia e anche l’eccessiva onestà fanno senz’altro più danni al Paese». La
classe politica, in Italia, è decapitata: spariscono o si dissolvono partiti storici
come la DC, il PSI, il PSDI, il PLI; il PCI si chiama ora Partito Democratico della Sinistra, la falce e il martello sono sepolti all’ombra di una quercia frondosa.
È una stagione di sangue e di mattanze (Falcone e Borsellino), di vuoti politici,
di imbonitori televisivi prestati alla politica, del telemarketing elettorale, di
un partito di plastica (“Forza Italia”), in un Paese sfiancato dalla crisi economica
e da un “effimero” elevato a sistema culturale (il suo profeta intellettuale,
Renato Nicolini, protagonista delle Estati romane, è scomparso pochi giorni
fa), dove la noia della “generazione X” è uno stato d’animo permanente.


Dico questo, e mi sono dilungato nella premessa, perché “Passo doppio” di
Ezio nasce in quegli anni, è una gestazione lunga e complessa, perché rivela
un malessere esistenziale che in quegli anni svuoterà le piazze e i cortili (per
chi ha memoria: l’ultimo grande movimento di massa sono i giovani che picconano il Muro di Berlino; negli anni seguenti i giovani entreranno nelle pagine
della cronaca nera e si chiameranno “black bloc” e renderanno tristemente
famosi i sit in delle potenze mondiali) ricacciando le persone nelle case, a
spiare con occhi di gatto dietro persiane e finestre e porte impietosamente
chiuse e sprangate a chiave.


Tramontata la stagione della solidarietà del vicinato, svuotati come denti cariati
i centri storici, violentato persino il bianco della calce (il bianco che al Sud
fa (faceva) miracoli, scriveva Giuseppe Cassieri, ora oscenamente deturpato
con sorprendenti gamme di colori che nelle facciate delle case vanno dal giallo
canarino al verde al viola al malva, e con il benestare delle amministrazioni
comunali), il rifugio nel privato, tra confortevoli mura domestiche, chiudersi la
porta alle spalle, definitivamente, sembrava un passo obbligato.
Un passo obbligato, come lo era stato, Ezio, accantonare i temi e la narrativa
pittorica della cultura contadina, dei contadini dalle mani callose, del culto dei
morti (in un Salento sempre più affrancato da una servitù confinata nei libri di
Fiore, di Levi o di Scotellaro, ma di nuovo popolo di formiche incolonnate ora
ai caselli autostradali o in fila ai checking degli aeroporti pronti a timbrare i biglietti di una nuova emigrazione, qualificata e intellettuale, con il trolley e l’iPad
in mano).
Un passo obbligato, come lo è stato emigrare una prima volta, sei anni in terra
elvetica, e poi tornare a Supersano, provare a forzare l’uscio delle case,
scardinare le diffidenze, parlare di diritti e di sindacato, captare le ansie e i sogni
della gente, e poi emigrare una seconda volta (nel Nord Italia) ad allargare
i confini (non soltanto della propria arte) e andare a vedere, come si dice,
dove fa giorno. Sottilissimo il filo che lega questi momenti, come quello che in
una sua bellissima tela (“Gruppo di famiglia in esterno”) regge i panni del bucato,
appesi ad asciugare, esposti al caldo del sole ma anche alle intemperie.
Non si può vivere di monologhi, ha detto Ezio Sanapo in una remota intervista,
e nemmeno di voli solitari, aggiungo io. Dice Paul Éluard:
«Non verremo alla meta ad uno ad uno, ma a due a due.
Se ci conosceremo a due a due, noi ci conosceremo tutti, noi ci ameremo tutti e i figli un giorno rideranno della leggenda nera dove un uomo
lacrima in solitudine».
Stupenda metafora, quella del volo a due, che ricorda i violinisti e gli amanti
delle promenades di Chagall, che si librano e volteggiano in aria mano nella
mano, in modo sconcertante e a dir poco naturale, e sulla quale don Italo
Mancini nel 1985 – nella solitudine, questa sì perfetta, delle bianche scogliere
di Leuca – scrisse una pagina memorabile, parlando del volo elitario, verticale,
del gabbiano Jonathan e della morale imperfetta dello stormo, cioè della
crassa ignoranza del branco.
Ecco, la scia lunga, il colpo di coda degli anni Novanta è che in qualche modo
si sia tentati da un volo solitario e verticale, cioè dalla tragica dimensione
della solitudine, dove solo a Dio e agli angeli, come dice Francesco Bacone, è
concesso di fare da spettatori. Mentre la logica di questa mostra, la cifra stilistica
di Sanapo e la sua esperienza di artista (uso questo termine in maniera
provocatoria con lui, che si ritiene solo un umile apprendista del colore) vanno
nella direzione opposta, cioè verso un percorso di coppia (non solo nel senso
più corrente di uomo-donna, del “còpula” latino), puntano dritte verso storie
condivise, che possano far riemergere l’uomo dalle macerie di giorni sempre
uguali, che scorrono anonimi, arroccati dietro cancelli elettrici, muri di
confine, vetri blindati e telecamere di sorveglianza contro un nemico immaginario
che preme minaccioso alle frontiere.
[Ecco, a proposito del nemico alle frontiere, una singolare coincidenza di date:
l’8 agosto del 1991 (riaffiorano sempre gli anni Novanta…) dal mercantile
“Vlora” sbarcarono a Bari oltre ventimila albanesi che erano saliti con la forza
a bordo nel porto di Durazzo; la loro prigionia nello stadio del capoluogo pugliese, contro il parere del sindaco e contro qualsiasi sentimento di umanità;
le rivolte; il rimpatrio di quasi tutti gli esuli. Per loro l’abbondanza, la fortuna,
il sogno di una nuova “Mèrica” restarono una chimera confinata nella calura
di un girone dantesco; per noi, fu la perdita definitiva dell’innocenza, rispetto
a un’emergenza immigrazione mai conclusa, anzi in questi ultimi mesi drammaticamente accentuatasi, con gli sbarchi clandestini sulle nostre coste, a un
passo dalle nostre case].
Contro il nemico, scrive Borges, si costruì l’infinita muraglia cinese e il suo imperatore ordinò, anche, che si bruciassero tutti i codici, tutti i libri, tutti i ritratti,
tutti i quadri, tutte le stoffe colorate e tutte le insegne dei negozi. Non si può
nulla predare se tutto è già distrutto e dimenticato: è il paradosso di un presente
orfano di memoria, di un “quando” senza risposta, di un mondo infantile
abbozzato da un dio capriccioso che lo abbandonò, per gioco appunto o
per stanchezza, a metà dell’opera.
“Passo doppio”, invece, è la porta spalancata di casa, un invito a guardare cosa
vi succede dentro, a sbirciare dove e come possono nascere le nuove speranze.
Che si tratti di un ballo appena accennato, o di un vorticare frenetico
di mani e di gambe, o di una scala a pioli che sembra tentare la scalata fino
al cielo, il messaggio più eloquente è che, dietro ogni apparenza e contro ogni
apparenza, in fondo al tunnel c’è sempre una speranza.
Guardando questa “nostra” gente ballare, dure e callose le mani, viene in
mente “L’avventura di due sposi” di Italo Calvino, dove è rappresentata la vita
quotidiana di due giovani sposi, operaio lui, impiegata lei, una vita familiare
vincolata e condizionata dai rispettivi orari di lavoro, stritolati dalla logica del
capitalismo e di una società industriale che con i suoi ritmi produttivi priva i
due giovani sposi persino del tempo per amarsi e rende frettolose e fredde e
furtive le loro carezze, negando loro persino il piacere di tenersi per mano. La
speranza è quella di ritrovarsi, per un attimo, a condividere davanti a una bacinella d’acqua il tubetto del dentifricio.
E in direzione della speranza sembra guardare la moglie del casellante, lo
sguardo penetrante e insistente a cercare treni su altri binari, oltre la linea dell’orizzonte, oppure le due figure femminili, la donna e la bambina, in bilico sul
binario in attesa del treno, o aspettando di sentirne il fischio (“Binario unico”),
o la donna che splende di luce propria, come le lucciole di pasoliniana memoria,
nel “Ritratto di amanti in un interno”, dove la passione e l’amore non
hanno volti, ma sono ridotti a pura sostanza.
La speranza, dicevo. È una vigilia, dice Sanapo, è l’attesa, il sabato del villaggio,
e quando si realizza (la speranza) ti rendi conto che, come l’utopia, questa
speranza ti ha fatto camminare, proprio come l’utopia dello scrittore uruguayo
Eduardo Galeano, così cara a Sanapo: «L’Utopia sta all’orizzonte. Mi avvicino
di due passi, lei si allontana di due passi. Faccio dieci passi e l’orizzonte
si allontana di dieci passi. Per quanto cammini, non la raggiungerò mai. A
cosa serve l’utopia? A questo: serve a camminare».
Ma la speranza è anche un filo sottilissimo ed esile, che si tratti del filo dell’uomo
e della donna che ricamano (splendida metafora dei ruoli invertiti nella
società moderna…), o del filo dei guinzagli di “Isola pedonale” (l’uomo e la
donna si avvicinano, si conoscono, mantengono le distanze? O altro?), o il filo
che muove la macchinina dell’autoscontro e porta una coppia tra gli scossoni
della vita, tra rischi di colpi e di collisioni.
L’individuo da solo non conta niente, non dà certezze, non fornisce risposte (si
veda il quadro con il manichino, e subito dopo quello con l’appendiabiti, da
leggersi l’uno e l’altro in sequenza, come se fossero collocati nella stessa stanza):
in termini pittorici, è il rovesciamento dell’impressionismo, che diede uno
scossone alla riproduzione naturalistica della forma, che porterà alla scomposizione del soggeto rappresentato e infine alla sua dissoluzione nell’astrazione, nel concettuale e nell’informale. Lo aveva lucidamente anticipato, nel 1832, Honoré de Balzac, nel suo “Capolavoro sconosciuto” dove il protagonista del racconto, il pittore Frenhofer, nega l’esistenza in natura delle linee, il contorno degli oggetti, definiti in realtà dalla luce che avvolge dinamicamente superfici e volumi.
Ezio le linee le usa, eccome, con il seppia o il nerofumo, definisce i contorni
e le mase corporee, e le pieghe degli abiti, e le architetture e i ritagli del cielo,
non lascia spazio agli equivoci o alle imposture delle macchie e dei tocchi
di colore, delle ombre e dei riflessi, dei valori tonali, prospettici e atmosferici:
in questo è un artigiano tardo-rinascimentale, lontano anni luce dall’artista individuale, narciso e nevrotico dell’età romantica e dei giorni nostri.
Provate a guardare, ora, questi quadri, e di ognuno di loro vi sembrerà di poterci
entrare dentro, e girare intorno ai personaggi, sentire il calore della pelle
e anche il sudore, e di poterli guardare da ogni angolazione, come se si fosse
allo stesso tempo protagonisti e spettatori, che è poi il vero senso della tragedia,
dove gli uomini, tutti gli uomini, sono spettatori, e il vero miracolo della pittura:
che è quello di lasciarci dentro un dubbio, più spesso un’emozione. E di
farci credere che presto finiranno, anche per noi, i giorni della leggenda nera.

Lettera a mio cugino residente a Taviano

di Ezio Sanapo

PRIMA GENERAZIONE

 

Caro cugino,

Lo scorso mese di giugno 2004, sono stato, per vari motivi nel nostro paese di origine e ho chiesto di te. Mi hanno detto che ora risiedi a Taviano presso una nuova e confortevole casa di cura per disabili e malati mentali e che lì tutti ti vogliono bene. Così ci siamo rivisti, dopo non so quanti anni a Taviano.

In tutto questo lungo periodo, credimi, ho potuto riflettere meglio per capire queste nostre due esperienze di vita, vissute agli antipodi, come i due lati della stessa medaglia, ma simili tra loro.

Noi, ti ricordi, siamo cresciuti insieme per tutto il periodo della nostra infanzia fino all’età di sei anni. Poi ti hanno rinchiuso in un orfanotrofio e lì hai potuto studiare. Io invece come tu sai, sono rimasto in paese e lì ho dovuto inventarmi un lavoro molto riduttivo e con quello ho potuto lavorare mentre aspettavo il tuo ritorno per le festività di Pasqua, Natale e poi tutta l’estate.

Durante quei periodi e per gli anni che scorrevano, abbiamo ragionato molto sul mondo così com’era e come lo immaginavamo. Era come qualcosa che ti sfugge di mano e ti accorgi poi che non hai più. Quel mondo stava radicalmente cambiando, con le contraddizioni e le conseguenze che ne sono derivate.

Era il 1960: il consumismo e il miraggio del benessere economico, l’abbandono del paese, l’emigrazione e la disgregazione di una intera comunità. Intanto, grazie ai tuoi studi, noi avevamo scoperto e condiviso un reciproco interesse per i classici: la musica, la poesia, la letteratura, il cinema, il teatro e tutto ciò era bastato a preservarci da un imbarbarimento sempre più diffuso. La nostra generazione non aveva potuto, nè voluto continuare a tramandare i valori di un modello culturale, quello nostro di origine, ritenuto non più credibile. Noi però in quegli anni abbiamo vissuto quei brevi periodi, molto intensamente ed in maniera diversa. Grazie alla nostra fervida fantasia ci siamo creati uno schema esistenziale approssimativo ma tutto nostro, basato su valori e principi controcorrente, una specie di ’68 molto anticipato che però non rinnegava niente del proprio passato.

Un ’68 che poi è arrivato ma, per noi, non aveva più senso. Fu l’anno del nostro ‘primo esodo: tu in Germania per ragioni economiche, io in Svizzera per incomprensioni familiari. La gente in quel periodo viveva con entusiasmo un clima di festa e di rinascita, di entusiasmo. Tutto questo sarebbe sfociato poi in più impegno nel sociale, in politica e quindi nelle lotte per la conquista di diritti fondamentali.

Tanta volontà, passione, ma anche ingenuità e utopia. Nessuno si aspettava una così feroce e violenta controffensiva conservatrice che da lì a poco, con un nuovo clima di tensione e paura, avrebbe determinato la fuga di ognuno nel suo privato (la comunità non c’era più), la caduta di ogni certezza acquisita (quelle d’origine le avevamo rinnegate) e da tutto ciò ne è scaturita una crisi d’identità che ha causato danni in ogni singola famiglia. Noi tutto questo l’abbiamo visto col senno di poi.  Alla ricerca delle nostre radici negli anni ’70, io ero tornato in paese e tu con il tuo bravo diploma acquisito in orfanotrofio, hai trovato lavoro all’ltalsider di Taranto, dopo un breve periodo in una fabbrica tedesca. Le tue esperienze in fabbrica, Germania prima e Taranto dopo, ti hanno fatto scoprire la realtà cruda e cruda che sicuramente ignoravi.

Hai avuto un ripensamento, uno sbandamento e hai tentato anche tu una fuga a ritroso, ma indietro, nel tuo passato, come un chiodo dolorosamente piantato nella memoria, c’era l’orfanotrofio con tutti i suoi orrori. Ricordo allora quando mi confidavi che nell’orfanotrofio i bambini più malinconici smarriti e provati fisicamente, venivano fotografati e fatti pubblicare sul giornalino da mandare a tutte le famiglie, insieme al vaglia per le offerte […] I più carini invece, scelti in mezzo a tanti, erano privilegiati e coccolati. A questi, i padri educatori manifestavano certe attenzioni, nessuno avrebbe reagito, nessuno avrebbe saputo. Ognuno di questi bambini pensava di essere il solo, il fortunato, magari prescelto da un disegno divino”.

Tra questi c’eri tu, Sergio, all’anagrafe Salvatore, nato il 25 dicembre, notte santa di Natale. Mi raccontavi che il padre educatore che abusava di te, ti leggeva il Vangelo, quello di San Matteo che racconta di Gesù Bambino, Salvatore e nato la stessa notte come te, morto poi sulla croce per scontare tutti i nostri peccati. Successe allora così, un corto circuito improvviso nella tua mente, pesante come una croce, la tua.


SECONDA GENERAZIONE

Come tu sai, io sono invece cresciuto in mezzo alle insidie quotidiane e questo mi ha preservato dal male che ti ha colpito. Ho avuto credimi molta forza d’animo per continuare anche da solo a far valere le ragioni tutte ideali, dei nostri principi. L’ho fatto anche per te.

Quello che ho potuto fare è sicuramente servito a preparare il terreno a quanti sarebbero ritornati nel nostro paese: Quelli che partivano per cercare lavoro e quelli che invece per studiare alle università del nord. Quelli partiti per lavoro non sono più tornati, gli studenti, invece (li abbiamo aspettati tanto) sono puntualmente arrivati: medici, ingegneri, avvocati, professori. Appena arrivati diventavano esattamente come quelli che c’erano già, lo stesso opportunismo, la stessa arroganza e secolare mentalità borbonica che ancora oggi fa comodo e si tramanda.

Allora ho capito che la realtà lì non sarebbe cambiata anzi riceveva rinforzi. La maggior parte dei medici di famiglia si alternano a spadroneggiare con metodi feudali i paesi del sud come il nostro, questo perché la gente lì, più che altrove, ha due chiodi fissi: la morte e la malattia. Su queste paure medici e preti senza scrupoli hanno sempre speculato sui risvolti emotivi della gente strappando loro i consensi necessari per il controllo del territorio. Per questo, nelle competizioni elettorali di quei paesi i medici sono sempre primi e al comando di ogni lista, con tutta la loro ipocrisia ideologica. Di riempimento e a seguire tutti gli altri, le loro pretese in base al titolo.

Era il periodo degli arrampicatori sociali, arrivisti e furbi di ogni genere, gli ideali erano il loro tormento. Quel periodo ha segnato il nostro ‘secondo esodo’: tu a Taviano e io a Parma. Come tu sai, il mio impegno ha sempre avuto una motivazione ideale, un’esigenza caratteriale che ho pagato a caro prezzo, niente per interessi personali. Gli ideali ti portano a fare scelte di vita che non puoi barattare con un posto di lavoro, una licenza edilizia, una strada asfaltata che ti arriva fino a casa e lì la strada finisce.

Gli ideali non si barattano con un parcheggio contornato di verde, fatto costruire d’autorità accanto alla propria casa con la scusante dell’interesse pubblico. Chi non ha ideali non può avere scrupoli e anche questo è un dato caratteriale che può esplicitarsi e avere ragione solo in un basso della storia, perché come tu sai la storia è fatta di alti e bassi e questi livelli valgono per tutti, nessuno è escluso. Cambia solo il valore di cosa si rimette o si guadagna.

Il compito che ha la storia è quello di quantificare, soppesare e discernere inesorabilmente. Lo so, caro cugino, cosa hai provato quando hai capito che crescere significava subire una trasformazione, accettare l’ipocrisia, la furbizia e la mediocrità come regole di vita e su queste regole, misurarsi con gli altri: sopraffare per non essere sopraffatti. Hai accettato la pazzia perché questo ti permetteva di restare bambino, ti sei rifiutato di crescere.


TERZA GENERAZIONE

Ma noi intanto siamo cresciuti e il mese di giugno scorso ci siamo ritrovati a parlare per la prima volta da adulti ma con le stesse idee, perché le idee non muoiono, non invecchiano, e restano giovani per sempre. Nel nostro paese ho conosciuto gente che ha tanto bisogno di speranza e di credere che il peggio è passato.

Oggi ci tengo a dirti che sul grafico della storia siamo ad una risalita: c’è forse un’altra generazione che avanza. Non parlo della nostra, ingenua e bidonata, né di quella attuale, fredda e calcolatrice, ti parlo di una generazione nuova, con più orgoglio e dignità: una terza generazione, forse quella ideale. Con questa occorrerà costruire un dialogo, stabilire un contatto (di questo lo gente ha bisogno)e tu puoi farlo da Taviano, io da Parma e di seguito tutti gli altri mille, duemila paesani sparsi in tutto il mondo.

Un’intera comunità che si ricompone. Non è l’annuncio di una speranza messianica nè tanto meno di una rivoluzione. Ti lascio con il progetto, forse l’unico possibile, di un sogno infantile interrotto tanti anni fa, così sarai tranquillo per un po’. Sono tanti anni che non dormi più e finalmente potrai farlo ora; abbiamo un intero millennio davanti, alla fine di questo faremo un bilancio, io sarò lì ad aspettarti.

Ciao, tuo cugino Parma, 20 luglio 2004

“Andrò a chiedere a Dio

La mia antica anima di bambino

Con il cappello di carta

E la spada di legno”

(F. Garcia Lorca)

La vera storia di papa Galeazzo di Lucugnano

di Ezio Sanapo

Difficile dire quanto i periodi felici della storia, abbiano riguardato le popolazioni del sud e in particolare di Terra d’Otranto, zona questa, così fuori mano. Ma il periodo che sta tra il ‘500 ed il ‘700, è stato la notte più fonda della storia, la vera “notte della taranta” per gli abitanti di quella zona.

Al morso della taranta e della fame si aggiungeva quello della paura e della disperazione a causa del clima inquisitorio messo in atto dal regime spagnolo, coadiuvato dal clero, per scongiurare il dissenso che nasceva dentro e fuori la Chiesa. Vengono in mente immagini di paesaggi torbidi, senza aurore né tramonti come nei versi di un’antica filastrocca salentina:

 …Cquai nu ssé canta gallu

e nnù sse vite luna.

Nuddhru fiju te mamma

camina mai a quist’ura…

Ma il Sud, che aveva risorse proprie, sopravvisse a tutto ciò, esorcizzando il proprio disagio con la superstizione e la magia e in situazioni estreme anche con l’ironia: al simbolo pagano della taranta se ne aggiunse un altro altrettanto contrapposto alla chiesa da far pensare ad una presa di distanza dalla fede: nacque in un così ostile contesto e come rimedio a tutti i mali, il personaggio di “Papa Galeazzo” del paese di Lucugnano e paludi limitrofe, a sud del Regno di Napoli, zona questa, soprannominata le ” Indie” d’Italia”.

“Papa Galeazzo”, che non ha nessuna certificazione anagrafica comprovante la sua reale esistenza, è la trasposizione in chiave ironica, di un anonimo cittadino di Lucugnano, nella persona immaginaria, di un Papa malizioso e bonario, metafora di quello che nella realtà era un inquisitore temuto e potente.

In certe situazioni può succedere dunque che ciò che è troppo temuto e potente, può essere, anche da una singola persona, esorcizzato o ridimensionato a condizione che questa abbia, una forte consapevolezza della propria identità e che tenga in dovuto conto la caducità e la transitorietà di ogni vicenda umana. La commiserazione, la tolleranza o l’ironia sono risorse conseguenti che tale persona acquisisce a completamento di tutto ciò, senza lasciare spazio a nessuna forma di violenza.

L’idea del personaggio di Lucugnano, era nata, probabilmente, a danno di un omonimo parroco,a quel tempo, realmente esistito in quel paese. Si presume che esso non fosse ben visto dalla povera gente di quel luogo, tanto da essere beffeggiato con l’appellativo di “Papa”, un Papa che però si atteggia, ragiona e vive come uno di loro. Sta di fatto che molti preti, a quel tempo, oltre alle loro funzioni liturgiche, aiutavano il Potere Temporale svolgendo compiti “polizieschi” che culminavano con la persecuzione di persone a volte anche innocue e innocenti. Anche per queste vicende la gente di quel luogo avvertiva ormai la necessità di far valere le proprie ragioni, e non potendo farlo liberamente, ha dato delega a “Papa Galeazzo”, maschera tragicomica di un personaggio creato a imitazione di un prete non al servizio di Dio ma dei potenti, nel quale si incarna e diventa tutt’una l’anima di un “cafone” o di un “picaro”, che forte della sua carica ironica e trasgressiva, mette in atto, una rappresentazione a scena aperta, delle reali condizioni di vita della propria comunità. Nella storia anonima e mai scritta di quella gente, questo tipo di “ribellione” in apparenza puerile ed insignificante non era nuovo se consideriamo che, per esempio il turpiloquio cioè l’uso di espressioni oscene ed esplicitamente sessuali nel linguaggio dialettale Salentino era motivato da una repressione sessuale, premeditata e sistematicamente messa in atto, per tanti secoli dalle stesse autorità, con tutte le devianze, le sottomissioni e le frustrazioni, che da questa ne sono derivate.

ancora un ecclesiastico dipinto da Botero

Anche l’abitudine di esprimersi con imprecazioni e bestemmie rivolte a Dio, Madonne e Santi è sempre stata una forma di disubbidienza che si è diffusa proprio in quegli anni e le stesse autorità se ne preoccuparono tanto da ricorrere a torture come la mordacchia e a leggi speciali.

Di ribellioni “liberatorie” come queste, molti anni più tardi, ne ha fatto le spese l’arma dei carabinieri. Questi, quando giunsero per la prima volta nel Salento, non furono visti di buon occhio dalla popolazione. I salentini che storicamente lavorano la terracotta, li hanno copiati e prodotti in serie come pupazzi in miniatura con tanto di pennacchio, baffoni, e un curioso fischietto attaccato al fondoschiena: Dritti sull’attenti a guardia di un popolo salentino notoriamente scettico e prevenuto ai cambiamenti. E’la riprova che tutto ciò che viene imposto dall’alto crea sempre disagio, inquietudine e quindi rigetto.

Oggi che viviamo tempi di relativa libertà di pensiero e di parola, possiamo comprendere meglio il disagio di tante generazioni, all’ombra delle quali, anonimi autori controcorrente, in quel clima di caccia alle streghe, hanno avuto il coraggio, di “inventarsi” ad ogni male, rimedi così irriverenti e irriguardosi nei confronti dei rigidi ed opprimenti costumi di allora, sapendo di rischiare l’accusa di eresia e finire sul rogo, come è capitato ai filosofi Giordano Bruno di Nola e Cesare Vanini di Taurisano, nello stesso periodo e sotto lo stesso regime.

Papa Galeazzo dunque, più che l’interprete di una volgare comicità demenziale, come oggi ci fanno credere, si distingue invece come un autorevole personaggio salentino del sedicesimo secolo nato con il diffondersi della letteratura spagnola cosiddetta picaresca, che per la prima volta raccontava la realtà nuda e cruda della gente comune e che poi si è estesa, per merito di autori, a volte non a caso anonimi, in tutta Europa con i personaggi Lazzaro da Tormes, Justine, Moll Flanders, Tom Jones, Gil Blas e tanti altri meno noti.

Nella premessa a “La letteratura picaresca: cultura e società nella Spagna del l600”, di José A. Maravall, si racconta di una società, quella spagnola, divisa in tre categorie fondamentali: Una, quella privilegiata del clero e dei nobili aristocratici, l’altra costituita dal ceto medio, che condivideva quei privilegi ma criticamente e proponendo riforme. La terza categoria infine è quella dei dissenzienti, ossia il ceto più povero in tutta la sua moltitudine: Un sottogruppo di questi, ancora più emarginato era quello dei “picari” ai quali indubbiamente si ispiravano, per dissenso o per scrupolo, intellettuali del ceto medio o elementi illuminati del popolo stesso, per dare vita a personaggi immaginari e renderli messaggeri di una denuncia che diversamente sarebbe stato impossibile fare.

Nacquero perciò da un contesto sociale così ingiustamente delimitato, i comportamenti del “picaro”, persona libera e senza regole, individualista e senza padroni, con i suoi comportamenti (non avendo più niente da perdere), al limite della legalità, abituato com’era, a vivere ai margini di una società, quella spagnola, che comprendeva nella sua più estrema periferia anche il paese di Lucugnano in provincia di Lecce.

La figura di Papa Galeazzo storicamente è collocata sotto il regime spagnolo di Filippo II, quando ormai finiti i fasti del Rinascimento, tutta l’Europa, attraversava un periodo di difficoltà economiche che ogni Stato cercava di tamponare proponendosi unito a investire in attività mercantili. In Italia questo non fu possibile per l’influenza della Chiesa cattolica che impediva ogni tentativo di unificazione del Paese. Divisa perciò in tanti piccoli stati contrapposti tra loro, l’Italia non fu in grado di far fronte alla concorrenza degli altri paesi europei e questo portò ad un suo ulteriore impoverimento.

Le precarie condizioni di vita in una realtà così difficile e incerta, furono giustificate con la teoria tutta clericale dell’esistenza terrena come periodo transitorio e di espiazione. Una realtà che, per essere accettata così com’era, aveva tuttavia bisogno di essere mitigata con un tocco di virtualità: Per ingannare l’occhio si sovrappose allora ad essa, una visione architettonica ricca, imponente e solenne a fare da facciata e come per miracolo, Chiese e palazzi signorili mutarono forme e si arricchirono di fregi ed elementi decorativi esagerati, allo scopo di ostentare maggiore prestigio e pretendere più rispetto: nacque così il Barocco che trovò il suo epicentro proprio in Spagna e Terra d’Otranto.

In questo rimarcato conflitto tra il reale e l’irreale e tra il vero e il falso, può succedere allora che nel più piccolo e sperduto angolo del Regno,un picaro o un qualsiasi cafone, delle borgate più povere e fatiscenti di Lucugnano, può diventare “Papa”. Un Papa che per descrivere le reali condizioni di vita della gente comune deve necessariamente farsi interprete della loro storia, con comportamenti e racconti di vita ironici e maliziosi, come sfogo alle loro paure, alle loro inibizioni e alla loro impotenza. Storie e racconti di vita realmente vissuta e non più censurata. Si realizzava così il sogno del “picaro”, che è quello di riscattarsi sul proprio destino, diventare qualcuno, conquistare il posto più alto della società ed essere considerato dalla storia, così come non era mai stato. Un sogno che non poteva durare e il risveglio fu tragico e amaro. Dopo il concilio di Trento, in pieno periodo di restaurazione, tutto rientrò sotto il controllo dell’ordine costituito e seppellito poi dal tempo e dall’oblio: La Taranta, simbolo pagano, passò sotto la tutela di S.Paolo protettore, furono travisate le sue ragioni e impedita la sua autonomia. Di “Papa” Galeazzo, finito lo spettacolo e calato il sipario non se ne seppe più nulla: Il suo virtuale personaggio svanì con tutta la sua carica ironica e trasgressiva. Trecento anni dopo, con l’Italia unità e liberata, Papa Galeazzo ricomparve sulla scena come lobotomizzato, senza più nessuna motivazione storica e senza parrocchia. A lui sono stati attribuiti, “cunti e culacchi” cioè volgari racconti da osteria e come un patetico e ridicolo buffone è stato consegnato ai giorni nostri.

Papa Galeazzo è invece quell’anonimo eroe popolare che crede ancora in sé stesso, perciò capace ancora di sognare, e che vive da sempre in noi sospeso tra la fantasia e la realtà. Forse, sotto le sue mentite spoglie di figura barocca, continua a battere un cuore tenero di umile contadino che sa di essere destinato a soccombere e che ride soltanto, per nascondere dentro di se, un pianto che dura dalla notte dei tempi.

 

Terra d’Otranto, alla ricerca del bianco perduto

 

centro storico di Ostuni

 

di Francesco Greco

 

Alla ricerca del bianco perduto. Il colore della civiltà contadina, respiro del paesaggio mediterraneo, contaminato, offuscato da una modernità retta da un cromatismo volgare nei suoi postulati estetici aggressivi e devastanti. Metafora di un individualismo esasperato che trasferisce nel telecomando l’espressione di un libero arbitrio per cui il nostro io è diluito in un allucinato nulla cioraniano che ci trasforma in cloni dalla percezione e sensibilità uguale a quella di altri.

E così, brandendo un soggettivismo cieco e folle, dipingiamo le nostre case di colori assurdi, spesso ibridati: giallo canarino, verde voltastomaco, viola, marrone-feci. Il bianco è il colore solare dell’identità, la memoria, le radici, ma anche dell’innocenza perduta, svenduta, dell’umanesimo del mondo di ieri che ci portiamo nel sangue, della socialità mite e appagante tramite l’affabulazione dolce con cui avveniva il passaggio delle esperienze e i valori, della solidarietà tra individui, famiglie, collettività nell’aspra lotta per la sopravvivenza.

Il grande pittore pugliese (è nato a Supersano) Ezio Sanapo (erede di Toma, Casciaro, Vincenzo Ciardo, ecc.), da anni porta avanti una battaglia per il ritorno a quella che Rosy Trane (Critical Food) chiama “dignità del paesaggio” e Donato Margarito (critico lettarario) “respiro del paesaggio”. L’artista rimpiange quel bianco sfavillante di cui un tempo erano dipinte le case ora che viviamo in stanze di pietre nere a causa non della quieta sedimentazione del tempo ma della pitture industriali che soffocano le pareti. Parla di “bianco violentato da colori assurdi”, di “forme architettoniche deliranti”, di “respiro soffocato del mondo contadino”. La calce era prodotta nei forni del Salento (intorno a Taurisano) ora chiusi, la vendevano girando nei paesi su carri agricoli, mentre nel profondo Nord, nel Brenta, si continua a farla in modo tradizionale e la esportano nel mondo.

centro storico di Soleto

“…bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvare l’anima e quella di chi la abita (Andrea Zanzotto, poeta)”. Conscio che occorre parlarne alle nuove generazioni, l’artista porta avanti la battaglia nelle scuole, dove fa circolare un manifesto che richiama  il “Regolamento edilizio dei Comuni di Terra d’Otranto e  Leuca del 1899”, in cui espressamente agli articoli 16, 17, 20 e 25 si invitava la popolazione a escludere tinte che “per troppa vivezza potranno offendere la vista, od ingenerare diminuzione di luce…”. Il documento  è firmato da artisti e intellettuali italiani e stranieri: Rocco Turco (Tricase), Luigi Schiavano (Taurisano), Giuseppe Pellegrino (Cutrofiano), Arnaldo Alfarano (Supersano), Vito Lisi (Miggiano), Amedeo Gualtieri (Supersano), Costantino Nuzzo (Tricase), Agostino Branca (Tricase), Francesca Trane (Ruffano), Donato Margarito (Montesano S.), Cosimo Corallo (Ruffano), Mauro Arena (Tricase), Ingrid Simon (Vienna), Donato Nuzzo (Castiglione), Francesca Lillo (Ruffano), Francesco Accogli (Tricase), Tommaso De Marco (Tricase), Paola Trono (Tricase), Luca Santoro (Taurisano), Adelaide Gerardi (Monteroni), Miriam Rifuggio (Tricase), Antonio Macchia (Specchia), Alfredo De Giuseppe (Tricase), Roberta Cirillo (Napoli), Francesco Alfarano (Supersano), Eleonora De Giuseppe (Tricase), Giuseppe Nuzzo (Ruffano), Giovanni Pellegrino (Zollino) e Giorgio Fersini (Tricase).

Ostuni

Domanda: Maestro, lei si chiede cosa si dovrebbe esorcizzare, la taranta o un dèmone infido portato dalla modernità e che ci fa imbruttire ciò che per secoli è stato bello e sano…

R. “Nella maggioranza dei Comuni del Salento il paesaggio urbano continua a essere sfregiato da forme architettoniche estranee alla nostra cultura, dalla colorazione esagerata delle facciate delle abitazioni, il ricorso eccessivo alla pietra a vista e le bombolette spray. Così ha subìto un trattamento opposto alla musica popolare: uniti da secoli, sono stati separati. In questo contesto oggi si balla e si suona il tamburello sullo sfondo di ciò che ci circonda, e dovremmo chiederci: cosa c’è davvero da esorcizzare?”.

D. Lei sostiene che a forza di deturpare ne risentirà anche il turismo…

R. “Gli ospiti non sono attratti soltanto dal clima e dalla musica, ma anche dal paesaggio e ciò che i turisti trovano porta evidenti i segni del degrado e l’incuria dell’uomo. Essi dicono che non sappiamo conservare la bellezza, che è meglio se non tocchiamo più niente, che di danni ne abbiamo già fatti anche troppi. Nella nostra mentalità distorta, l’interesse privato prevale su quello pubblico”.

D. Di chi la colpa?

R. “Delle amministrazioni comunali, sindaci, assessori, uffici tecnici. Nei 60 anni di prima e seconda Repubblica, o sono stati incompetenti o hanno avuto altri interessi. Ma pure di geometri, ingegneri, architetti”.

D. C’è, pare di intuire, un forte elemento sub-culturale legato a un degrado complessivo, fuori e dentro di noi…

R. “Prevale una forma di anarchia, di fai da te. L’artigiano porta la mazzetta di colori, il committente guarda e punta sui più vistosi. Più forti sono più ci si distingue dagli altri: è la cultura dell’apparire senza essere. Rosso, azzurro, arancio, giallo, verde, viola. E così, quello che prima era un paesaggio unico ora è un agglomerato di singole e ibride case colorate come pacchi natalizi” .

scorcio del centro storico di Mesagne

D. Paradossalmente questa aggressività dell’uomo deriva da un benessere, o presunto tale, perché adesso sta svanendo…

R. “E’ vero: tutto ciò che la nostra povertà aveva conservato e tramandato oggi lo sta distruggendo appunto un benessere presunto. Lo stesso che ci fa credere che tutto quello che riguarda il passato è da cancellare, distruggere, come fosse una pagina amara e scomoda della nostra storia”.

D. Altrove le testimonianze del passato le recuperano…

R. “Le custodiscono gelosamente con regole scrupolosamente rispettate. Dove queste non ci sono non c’è memoria storica, tutto diviene terreno di conquista dei poteri forti, in questo caso l’industria che produce materiali chimici per l’edilizia. Il profitto non ha scrupoli né rispetto della civiltà, specialmente per quella del Sud, anche grazie all’ipocrisia delle amministrazioni locali, tutte quelle che si sono succedute, una uguale all’altra, negli ultimi 60 anni”.

 

centro storico di Ruffano

D. La calce viva era un fatto culturale ma anche di salubrità…

R. “Il Sud ha perduto ogni identità e dignità, ma anche le abitudini più elementari. Imbiancare a calce significava anche disinfettare e igienizzare gli ambienti abitati: lo si faceva quasi una volta l’anno. Sono passati 60 anni e in tutto questo tempo di sporco ne abbiamo accumulato troppo: una sola mano di calce vergine non basta…”.

Sulla povertà

da “Come eravamo”
di Ezio Sanapo

A mia zia Pina

Premessa
Il concetto di povertà, come ceto sociale autonomo e distinto, è finito con gli anni ’50. Come tutte le classi sociali aveva una sua storia, una sua identità, le sue regole e un suo modello di vita. Da allora diventò quello che oggi conosciamo: un insieme di strati sociali indistinti e accomunati da un unico comportamento “piccolo borghese”, a imitazione di quel ceto medio borghese che fino ad allora aveva dominato. Rimescolato quindi il tutto, in una unica, fascia sociale, senza più nessuna identità, questa, poteva essere più facilmente asservita a un nuovo modello di società, “sbarcato” da noi, in quegli anni, dall’occidente. Consumare fu la nuova parola d’ordine. Chi non poteva farlo veniva escluso da questa nuova fascia sociale, che, non avendo più storia, non aveva più doveri, nè protezione e diritti di appartenenza. Così, questo nuovo modello di società, abolendo il principio della solidarietà, che era considerato “sacro” dalle comunità più povere, ha messo in atto, un nuovo tipo di emarginazione: quella del singolo individuo e non più di una intera comunità. L’individuo, da solo, non avrebbe più avuto possibilità nè di difendersi, nè di ribellarsi.

Stagioni parallele
Fino agli anni ’50, prima dell’emigrazione di massa, il ceto popolare e di origine contadina, aveva come unica possibilità lavorativa quella dei lavori bracciantili sui terreni di proprietà dei piccoli o grandi latifondisti, non quindi su terreni di propria appartenenza. Dello stesso ceto, una larga fascia era esclusa, per via che le assunzioni venivano fatte senza regole e sulla base di simpatie e convenienze.

Una massa enorme di povera gente era perciò esclusa dal processo produttivo ma gli veniva per scrupolo riconosciuta la necessità di un probabile sostentamento, dando loro libertà di movimento, a stagione ultimata, sugli stessi terreni a loro discriminatamene inibiti. Così intere famiglie, costrette dalla povertà e dalla fame, potevano “vendemmiare” fuori stagione, nei vigneti già vendemmiati, raccogliendo sparuti grappoli di uva acerba e tardiva. Potevano cercare e raccogliere le ultime olive rimaste.
Raccoglievano le ultime spighe rimaste sui campi di grano già mietuti, prima che le stoppie secche e pungenti venissero bruciate.
Raccoglievano, sotto gli alberi, gli ultimi fichi sfatti e caduti, che opportunamente essiccati potevano essere venduti per ricavarne alcool.
Per queste attività, svolte con una esperienza secolare e tramandata da generazione in generazione, era necessaria la conoscenza dei luoghi di frequentazione, delle colture, delle condizioni climatiche, dei tempi e delle stagioni. Stagioni svolte parallelamente a quelle dei raccolti veri e propri, da persone d’ambo i sessi e di ogni età, persone semplici e dignitose che avevano con la natura un rapporto quasi familiare, religioso e di profondo rispetto. Non potendo essi lavorare la terra, la natura coltivava per essi offrendo loro frutti tardivi e stagionati e altri prodotti selvatici che nessuno avrebbe altrimenti raccolto. Ed essi, inseguendo le stagioni, raccoglievano cicorie selvatiche e lumache, sia in estate che in inverno, da vendere in giro per il paese. Con la stessa dignità facevano lunghe file per una scodella di pasta e ceci che alcuni proprietari terrieri offrivano ai poveri, ogni anno per devozione a S. Giuseppe. La stessa devozione che essi avevano per il proprio vicino di casa, perché quando il povero poteva cucinare, cucinava anche per esso.
Con un candore religioso tipico di un cristianesimo come alle origini, ma ancora paganeggiante, i poveri potevano esprimersi, con il loro antico dialetto che abbondava di riferimenti osceni e scabrosi, senza volgarità e senza perdere la loro purezza d’animo e la loro innocenza. Senza mai scoraggiarsi pregavano senza essere ascoltati, chiedevano senza ottenere, Bestemmiavano senza peccare.
I poveri di allora, diversamente da quelli di oggi, avevano una grande risorsa, avendo essi accumulato nell’arco dei secoli vissuti in solitudine, un enorme patrimonio culturale: tutto questo loro patrimonio, li aveva resi autonomi e autosufficienti, rispetto al resto della società che li aveva storicamente emarginati. Intanto per la loro abitudine a girovagare randagi a inseguire le stagioni su sentieri e campi altrui, avevano maturato una libertà e uno spazio illimitato: in quello spazio immaginario, i poveri di allora coltivavano i loro sogni. I sogni delle masse popolari sono sempre stati frutto di una fede e di una incrollabile speranza e la speranza giustificava la loro resistenza e i loro sacrifici. I poveri credevano, o avevano imposto a loro di credere, che l’esistenza terrena e la loro condizione di vita fosse predestinata, una prova da superare o un castigo del destino che accettavano per espiare colpe che non avevano, per errori mai fatti. La condivisione di questo sacrificio collettivo ha sviluppato nel loro ambito quella solidarietà diventata modello di vita e riparo ad ogni minaccia terrena.
Soltanto da una così tenace e convinta appartenenza sociale, uniti alla fantasia e creatività popolare, possono nascere quegli opportuni strumenti di difesa necessari a garantire la sopravvivenza della classe stessa. Lo strumento di difesa dei poveri era l’ironia: l’ironia nasce dalla fantasia e creatività popolare come risorsa necessaria per difendersi da tutto ciò che di potente e minaccioso li circonda e a mitigare ed esorcizzare non solo quella minacciosa superiorità, ma, anche la propria impotenza e quel senso di nullità che ha sempre caratterizzato ogni appartenente ad un ceto povero.
L’uso stesso di affibbiarsi vicendevolmente nomignoli e soprannomi, assurdi, sconci e ridicoli, a danno dei veri nomi di origine, è tipico dei ceti popolari e della loro capacità di ironizzare persino sulla propria e umile ascendenza. Il soprannome “marcava” l’intera famiglia e si tramandava nei secoli di generazione in generazione come un titolo ironico di onorificenza, per irridere allo stesso tempo il ceto superiore, che aveva invece titoli veri e nobiliari e che con questi poteva imporre il suo dominio legislativo ed economico.
Oggi, vergognarsi del proprio soprannome, equivale a rinnegare le proprie origini a riprova di una povertà che non è più solo economica ma anche culturale.
Mia zia Pina, ultima di quella stirpe e povera per definizione, è morta che aveva appena quaranta anni, agli inizio degli anni ‘60, cioè, agli albori di questa nostra civiltà. Ha vissuto fino all’ultimo con la dignità tipica di quel ceto e con la speranza di una vita a “venire”. Incrollabile nell’attesa di un marito sempre lontano, che dalla sua lontananza gli mandava, come sostegno materiale, non denaro, ma sacchi pieni di scarpe usate e spaiate che lei pazientemente appaiava, legandole strette l’una all’altra con i rispettivi laccioli e ammucchiava in mezzo al locale che abitava, per poi venderle ad altra gente povera come lei. Zia Pina aveva i polmoni malati e l’aria, inquinata dalle vernici di quelle scarpe, respirata per giorni, notti e mesi, ha anticipato la sua fine.
Senza il marito e senza figli attorno al suo letto di morte c’erano solo parenti e vicini di casa. Quando è arrivato il prete per l’estrema unzione mia zia Pina si è guardata intorno, ha accennato una risatina ironica e ha fatto uno sberleffo con la lingua a tutti i presenti, dopo di che si è girata su un fianco e volgendo loro le spalle è morta. Ha lasciato un grosso registro dove minuziosamente segnava i soprannomi di tutti i suoi debitori. Era un lungo elenco di soprannomi sconci e ridicoli, con accanto ad ognuno la misera cifra che mia zia avrebbe dovuto riscuotere ma che non ha mai riscosso. Così tutti hanno potuto verificare che la sua precaria ed inutile esistenza si è conclusa, come per ogni altra persona povera, tutto sommato, in credito.

Conclusione
Così, con uno sberleffo, si era chiusa un’epoca storica e ne era iniziata un’altra: l’emigrazione ha disperso quella massa di gente che era stata una comunità. Ognuno per suo conto ha conosciuto finalmente il benessere ma ha rinnegato, credendole ormai superate, le sue origini. Molti per scrupolo, hanno cercato rifugio nel passato, ma tutto era stato ormai cancellato oppure strumentalizzato e non esistevano più le condizioni per una presa di coscienza di massa e di revisione critica della nostra storia, specie quella più recente.

Oggi, molto spesso, l’uso che viene fatto delle tradizioni popolari originarie di quella gente serve solo a speculare su un patrimonio culturale di un ceto popolare che, come tale, non esiste più e sul suo rituale anche religioso, che meritava certamente più rispetto, perchè, prima di essere affossato del tutto, poteva ancora farci riflettere sul malessere di ieri e quello di oggi. Ma senza più regole tutto è permesso se motivato da una logica di profitto: molti di quelli che ieri erano poveri e sfruttati , oggi sfruttano altra povera gente e si sono a loro volta arricchiti. Altri invece, ieri raccoglitori di grappoli d’uva acerbi e tardivi e oggi più poveri ed emarginati di allora, ingannati da un modello di sviluppo economico che non c’è stato e svincolati da un ordinamento sociale non più credibile, sono stati risucchiati in organizzazioni criminali per svolgere attività illegali. La solidarietà ha lasciato il posto alla diffidenza e il povero di oggi è diventata una persona sola, non ha più nemmeno una controparte e l’arma dell’ironia, se mai la avesse ancora, non gli servirebbe più: una persona, da sola, non può ridere, né di se né degli altri, perché la realtà che gli sta intorno è diventata troppo seria e preoccupante.

Ad un amico che mi chiede se c’è ancora speranza, io, come tutte le persone in buonafede non so cosa rispondere. Forse le persone in malafede, che hanno certo molta più lungimiranza di noi, possono dirci cosa intravedono nell’immediato futuro: questi temono che la speranza torni a risvegliare le coscienze e, per difendere se stessi e tutti i loro privilegi, hanno alzato imponenti barriere nei confronti del prossimo che li circonda, segno evidente che non tutto è scontato, e questo mi fa ben sperare. A questo mio più caro amico posso allora dire che una speranza ancora esiste, qualcuno l’ha intravista, oltre quelle fitte ed altissime barriere, camuffate da siepi sempreverdi e sormontate da un minaccioso filo spinato.

Elogio al bianco della calce

Venditore ambulante di calce (anni ’60 del secolo scorso)

di Ezio Sanapo

Il paesaggio urbano nella stragrande maggioranza dei comuni del Salento, continua ad essere sempre più sfregiato da: forme architettoniche estranee alla nostra cultura, dalla colorazione esagerata delle facciate delle abitazioni, dal ricorso eccessivo della pietra a vista e dalle bombolette spray.

Il paesaggio ha subito perciò un trattamento opposto a quello riservato alla musica popolare salentina: le due cose legate insieme da secoli, sono state separate e trattate in maniera indiscriminata. In questo contesto oggi si balla e si suona il tamburello sullo sfondo di ciò che ci circonda, senza chiederci che cosa  dovremmo veramente esorcizzare.

Il paesaggio e la sua storia

“…Con il loro paesaggio i paesi raccontano la loro storia, la loro architettura, i modi di dare forma e colore allo spazio abitato e dunque anche il modo di vivere di intere generazioni attraverso i secoli” (Arch. Carlo Socco – Politecnico di Torino).

“…bisogna capire che salvare il paesaggio della propria terra è salvarne l’anima e quella di chi la abita” (Andrea Zanzotto – poeta).

 

Il paesaggio che noi salentini abbiamo ereditato porta i segni stratificati delle dominazioni straniere che si sono succedute: bizantine, normanne, angioine, turche, aragonesi, borboniche e savoiarde. Contaminato e sopravvissuto a tutte queste, il nostro paesaggio può ancora raccontare la sua storia come una persona anziana la racconta ai propri nipoti affinchè tutto si tramandi e sopravviva.

Il turismo arrivato finalmente nel Salento non è attratto soltanto dal clima e dalla musica ma anche dal paesaggio e quello che i turisti trovano porta evidenti i segni del degrado e dell’incuria ad opera dell’uomo che lo abita. I turisti dicono di noi che non sappiamo conservare che è meglio se non tocchiamo più niente che di danno ne abbiamo fatto già troppo. Il danno

Vituccio “Paracazzi”. Breve storia di un ragazzo di strada

di Ezio Sanapo

Il mio paese è il centro, l’ombellico del Salento, così come piazza IV Novembre era l’ombellico di quel paese. Non è una piazza, in realtà è la strada principale che da nord a sud spacca in due il paese e lo priva di ogni intimità: non una meta quindi, ma un paese di passaggio. tranne quel punto dove la strada si allarga e si formano due “piazzole di sosta”, una di fronte all’altra, dove nessuno, per un motivo qualsiasi, si sarebbe mai fermato a sostare. Tranne i cani randagi e tutti quei ragazzi assidui frequentatori della piazza perché nelle case non c’era spazio sufficiente per tutti. La piazza era allora abitata.

Almeno una volta al giorno, la casa, unico vano o due al massimo, veniva completamente oscurata e il ragazzo prima di uscire aiutava la madre a scacciare le mosche: dall’interno il ragazzo apriva e chiudeva ripetutamente lo spiraglio della porta che dava alla strada, con movimenti rapidi e regolari per indicare alle mosche un punto di luce e una via di uscita e la madre, partendo dall’angolo più interno ed opposto, sventolando un asciugamani , spingeva le mosche verso quello spiraglio di luce allora bastava spostarsi di lato, spalancare la porta e con rapidi colpi d’asciugamano, cacciarle via. Questa operazione, due o tre volte, e con le ultime mosche, quasi inseguendole, anche il ragazzo scappava via: restava la madre, a porta chiusa e in penombra, sola finalmente.

A differenza dei cani randagi, che sulla piazza stavano insieme ambedue i sessi, del genere umano solo i maschi potevano stare. Le ragazze invece, già da piccole, terrorizzate dai genitori: “se stai con i maschi ti muore la mamma!” facevano una vita più riservata, quasi anonima.

Senza la presenza adulta e femminile, quasi sempre svezzati e cresciuti senza un abbraccio, senza baci nè carezze, senza dialogo, nè allegria, nè giochi da parte dei propri familiari, i ragazzi di strada erano in realtà soli tra loro, ma proprio per questo, liberi di dare sfogo al loro istinto più naturale e alla loro rabbia che tanto li faceva assomigliare ai cani.

I cani a loro volta erano terrorizzati dai sassi che in ogni momento, e da ogni direzione potevano arrivargli addosso e la loro permanenza sulla piazza o soltanto il loro passaggio era un’incognita, un rischio. I ragazzi si divertivano a spaventarli, ad inseguirli con bastoni e a sassate interrompere i loro amplessi quando si accoppiavano tra loro.

Certo è che le strade e le piazze allora erano popolate, le case colme e traboccanti e animali e persone, giorno per giorno dovevano fare i conti con la realtà, per avere spazio sufficiente a legittimare la propria esistenza anche

Ezio Sanapo, i suoi personaggi, il suo mondo

C’è tempo fino  al 31 agosto per visitare la mostra personale di pittura di Ezio Sanapo ospitata nei locali appena restaurati di Palazzo Arena  in via S. Spirito n° 14 nella città di Tricase.

Patrocinata dal Comune di Tricase, dal Comune di Supersano e dalla Banca Popolare Pugliese e  inaugurata il 16 luglio da Alessandro Laporta e Francesco Accogli, la mostra raccoglie una sessantina di opere tra  disegni, bozzetti e dipinti.

Un autodidatta Ezio Sanapo che dipinge per intimo bisogno, per “esigenza dell’anima” per caparbia volontà di  comunicare e di raccontare in un connubio sublime di poesia, ironia ed utopia.

cercatori di lumanche – il campo

Il racconto che scaturisce dal percorrere le diverse sale della mostra trasporta piano piano il visitatore in un tempo sospeso dov’è possibile incontrare coppie di amanti che danzano o che ricamano , uomini che fanno bolle alle finestre o vanno in cerca di lumache o le sognano…

Il racconto si fa sogno (Cercatore di lumache –  il sogno  o Stefania ripassa a memoria il suo sogno)  e via via emozione appena accennata…così come lo stile pulito, lineare appunto essenziale con pochi elementi caratterizzanti che colpiscono immediatamente e coinvolgono piacevolmente l’osservatore.” (F. Accogli).

Le opere in mostra tutti i giorni dalle 9, 30 alle 12,30 e dalle 18,30 alle 23,30 “ridanno smalto a un artista già completo che in questa anteprima, che è un’ennesima conferma, sa insinuare il dubbio, padre di tutte le certezze, sa affascinare e far riflettere, sognare e commuovere”.  (A. Laporta)

scorcio interno – zona notte

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