Fiabe della Terra d’Otranto

Una raccolta di fiabe della Terra d’Otranto curata da Eugenio Imbriani ci arriva dal passato come uno scrigno di preziosi

 

di Giuseppe Corvaglia

Un libro per curiosi, vecchi e giovani, è arrivato in edicola con Quotidiano di Lecce, ma si può acquistare anche sullo store dell’editore Del Grifo. Si tratta di Fiabe e Canti dell’antica Terra d’Otranto, 8,00 euro, pp 221.

L’edizione è stata curata da Eugenio Imbriani, che ci ha abituati alle  “chicche” sempre molto interessanti e ora ci regala questa raccolta, accompagnandola con un bel testo introduttivo che ci conduce nel mondo fantastico evocato da questo libro.

Il libro propone alcuni libretti di fine ‘800 e di inizi ‘900 scritti da Pietro Pellizzari e Giuseppe Gigli che raccolgono fiabe, canti e indovinelli.

Imbriani, nella sua introduzione, ci dice che i materiali sono distribuiti in maniera piuttosto disordinata, ma proprio questo rende la pubblicazione particolare e appassionante, perché la si può leggere nell’ordine dato e si può piluccare, cogliendo di fiore in fiore, senza perderne il senso e la gradevolezza. È  come uno scrigno che contiene gioie preziose e la lettura è come un’avida ricerca che quei tesori ci fa scoprire, godere e ammirare.

Il primo gioiello sono fiabe per lo più note ai Salentini, perché alcune di queste fanno parte di rinomate antologie, da Calvino a De Donno a Bronzini, ma soprattutto perché molti le ricordano, in tutto o in parte, dai racconti dei loro maggiori.

Talune, infatti, emergono dalla memoria, altre si ricordano in parte, come è stato per me per quella del Ciucciu cacazzacchini; altre si incontrano per la prima volta, come per me la fiaba de lu Purgineddhru o quella dei Musceddhri, o ancora quella dei Persi, una banda di scapestrati che conquisterà il tesoro di un Regno con l’arguzia e le qualità di ognuno (uno per tutti e tutti per uno e dire che il capo era considerato un buono a nulla).

Talvolta queste storie sembrano dimenticate e talvolta sembrano nuove, ma sempre sono avvincenti ed edificanti con le loro morali, come si addice alle favole.

Una in particolare mi ha attirato, non solo per ragioni campanilistiche, poiché è ambientata nel mio paese, Spongano, e riferita all’autore da Paolo Emilio Stasi, ma perché descrive la storia di molti meridionali (e non solo), a disagio nella loro terra, avara di risorse, che porta i genitori a privarsi del necessario per mandarli lontano a farsi una posizione o a formarsi per affrontare la vita: la Scola de la Salamanca. (Mi preme chiarire che la fiera o paniri, che la fiaba attribuisce a Spongano, è la Fera de Santu Vitu di Ortelle, ma non è un errore, è che a quei tempi Ortelle e Spongano facevano parte dello stesso Comune).

Tutte le fiabe proposte sono godibili e interessanti; quelle di Pellizzari sono particolarmente preziose perché scritte in un dialetto antico, ma fluido, magico, evocativo e sono corredate anche da una felice traduzione e da note anch’esse puntuali ed efficaci. Sono note che non consentono solo di comprendere il testo, ma spiegano, agli appassionati estimatori del dialetto, l’etimo di molti vocaboli e modi di dire, parti integranti del nostro lessico. Anche le favole di Giusti sono gradevoli e pregevoli, ma sono scritte “solo” in lingua italiana.

 

Altro dono prezioso sono i canti che raccontano storie d’amore puro, d’amore corrisposto e d’amore contrastato, di devozione e di sdegno d’amante.

Molti di questi sono davvero delicati e struggenti, sono pregni di immagini poetiche elevate, da antologia (Conca cilestra d’oru, unica spera/ quannu te nfacci lu sule se scura/ si fatta comu fiuru a primavera,/ sì fatta cu cumpassi e cu misura./ Ca quannu fice tie, bellezza altera,/l’urtimu sforzu fice la Natura), (Ulia cu aggiu l’arte de Virgilio:/ nnanzi le porte toi nnucìa lu mare/ e de li pesci me facìa pupiddhru, /mmenzu lle reti toi vinìa ncappare;/ e de l’aceddhri me facìa cardillu,/Mmenzu lu piettu tou lu nidu a fare/ e sutta l’umbra de lu tou capiddhru / vinìa lu menzugiornu a riposare.) (Porti li musi russi comu cirasa,/ lu culure ci porti è de na rosa;/ quannu camini tie trema la casa/ Pouru amante tou, comu riposa?/ Se pe sorta iddhru vene a casa / vene cu viscia tie, pumu de rosa/ e se pe sorta se chiga e te vasa,/ dapu vasata, te pija pe sposa).

Dalla raccolta di G. Palumbo, tratta dal libro, Coloni imbacuccati in segno di lutto

 

Molto interessanti sono anche altri canti di argomento religioso o narrativo (Na donna me prumise le quattr’ore./ Ieu lu meschinu, me pusi a durmire./ quannu me risbigliai fora nov’ore/pensa se persi tempu allu vestire!/ Nnanti alle porte fui de lu miu amore:/ eccume, beddhra mia, famme trasisire./ Iddhra me disse: va cchianta cicore/ cinc’ama donne no pensa a durmire.) (L’amore m’à rennuttu a malatia;/ m’à rennuttu mme pigliu l’ogliu santu;/m’à rennuttu nnu ramu de paccia,/ quattru medici stane a la miu ccantu./ E lu maggiore medicu dicìa:/ figliu, ci campi, non amare tantu./ e ieu, dintru de mie, rispunnia:/ ieu vogliu amare, e poi o moru o campu ).

In “Uh ci si beddhra”, uno stornello a rime identiche, viene raccontata la storia di due innamorati che cercano un pretesto per vedersi. L’innamorato suggerisce di andare da lui per prendere del fuoco, perché lui ha pietra focaia e acciarino e se la madre dice che la ragazza ha tardato dirà che c’è voluto più tempo per accendere e se si vedono i segni dell’amoreggiare sulle labbra potrà sempre dire che è stata una scintilla. (Uh ci si beddhra! Quantu ulìa tte vasu!/ Pijate na paletta e troa lu focu:/viti ca troi a mie mpuntunatu;/ portu scarda, focile e scettu focu./ Ci mammata te dice ca hai tardatu/ dine ca nu bastai a truare focu./ Se poi te vide lu musu sugatu, / dine ca foe fusciddhra de lu focu.)

Qui il Giusti si “riscatta” e ci propone canti pregevoli in dialetto, come quelli del Pellizzari, e indica pure le diverse aree di provenienza, che vanno da Leuca alla Valle d’Idria. Sono composizioni che talvolta sono arrivate a noi come canti, (Cu l’acqua ci te llavi la matina, Oddiu quantu su erti sti pariti, Sia Beneditu ci fice lu munnu…) o come parti di canti noti (…ci era pintore ieu te dipingeria/ nu litrattu de tie me nn’ìa de fare oppure …lu latte ca te dese la toa mamma/lu teni a mmucca e no lu sputi mai…) che ritroviamo nel repertorio di canti proposti dai tanti gruppi di musica popolare, ma nella maggior parte ci restano come versi, non per questo sono meno musicali e pregevoli.

Proprio il Giusti, che aveva pubblicato le fiabe in italiano per renderle fruibili anche ai non Salentini, ci fa un dono raro, inserendo nel suo libretto una dotta disquisizione del Maggiulli sui dialetti della Terra d’Otranto.

Dalla raccolta di G. Palumbo, tratta dal libro: vecchia di Martano (1907)

 

Ci sono poi degli indovinelli intriganti  e un’antologia di fotografie di Giuseppe Palumbo, il “fotografo in bicicletta”, che ci mostra, con dovizia di particolari, il mondo salentino dei primi anni del secolo scorso, le persone, i mestieri, i luoghi: la vita.

Popolane che attendono il passaggio del corteo nuziale (1907), sempre dall’archivio di G. Palumbo e tratta dal libro

 

Potete così comprendere perché ho paragonato questo libro a uno scrigno che contiene gioielli mirabili e la sua lettura al frugarci dentro per trovare le gioie più belle e rare da conservare nel cuore.

L’addobbo di una via a teorie di archi variopinti (1918-1919), dalla medesima raccolta

 

Qualcuno potrà obiettare che alcune di queste fiabe o di questi indovinelli o di questi canti sono già comparsi in altre raccolte, ma ritrovarli in questa pregevole edizione, è una gradevole occasione per custodirle e per soddisfare la voglia di meraviglia, le tante curiosità che abbiamo, ma anche per rievocare ricordi sopiti dell’infanzia e per meravigliare quel bimbo che, dentro di noi, non si perde, anche quando diventiamo poveri uomini che si credono celebrità e “…san leggere di greco e di latino e scrivon, scrivon e han molte altre virtù…” che non riescono a fermarsi e ad abbandonare “i rei fantasmi” e invece dovrebbero fare un bagno vivificante in questo mondo favoloso.

La mungitura all’ovile (1909), dalla raccolta di G. Palumbo

Libri/ Cici Cafaro

a cura di Stefano Donno

Esce per Kurumuny edizioni CICI CAFARO – IO SCRIVO LA REALTA’ (con cd allegato) a cura di Eugenio Imbriani, rinomato studioso di etnoantropologia, con le illustrazioni dello studio B22.

Una testimonianza preziosa, un lungo racconto in cui il flusso dei ricordi sembra riannodare le fila del rapporto tra passato e presente, tra memoria e appartenenza. Un’autobiografia che ci rivela una personalità emblematica e rappresentativa della cultura dell’area grica del Salento. Cici Cafaro è un uomo che sembra aver vissuto dieci vite in una: contadino, ambulante, poi emigrante e soldato, sempre cantastorie instancabile che conosce, come gli antichi aedi, il segreto del ritmo delle parole per incantare.

TRADINNOVAZIONE: il Glocal in Puglia tra musica e danza

Proponiamo di seguito l’ottima introduzione al film documentario di Piero Cannizzaro, scritta e pubblicata da Mauro Marino sulle pagine del quotidiano “PAESE NUOVO” dallo stesso diretto. Ringraziamo per la gentile concessione.

La redazione

di Mauro Marino

Il suono è la via di comunicazione che più facilmente può essere percorsa dalla suggestione, dalla memoria, dal pensiero.

Suoni sono i rumori, i linguaggi, le musiche.

Ogni suono è il segnale di una presenza, il veicolo di un messaggio, la componente essenziale di un territorio, di un paese, di un ambiente.

Un fenomeno caratteristico della corsa alla globalizzazione, ma anche un fenomeno particolarmente rispettoso delle diverse identità locali: si unisce, si mescola senza distruggere.

Magia tarantismo, disse Ernesto De Martino, sono forme arcaiche di cura, nelle quali si leggono aspirazioni e valori, tradizioni ed esigenze ludiche.

Ma oggi che la società contadina è notevolmente cambiata cosa è rimasto di quei suoni? Stiamo assistendo ad un nuovo interesse da parte di molti giovani che suonano e fruiscono di questa “nuova” musica. Suoni che oltre  agli strumenti tradizionali come la voce, il tamburello, i fiati, il violino e le percussioni popolari si aggiungono anche il violoncello, il contrabbasso, la tromba, la batteria, la chitarra, l’ organetto, la fisarmonica etc.

Abbiamo viaggiato nell’Italia attraverso la musica etnica e le sue commistioni, i contatti con le culture e i modi che questa musica alimenta e assorbe per produrre a sua volta altra musica.

Quello che si prefiggono i musicisti (ma anche i danzatori) che abbiamo incontrato, è quello di andare oltre alla tradizione cercando di creare un ibrido tra il passato ed il presente, per rendere ancora oggi viva la tradizione.

Anna Cinzia Villani

In Puglia abbiamo incontrato e ascoltato la cantante salentina Anna Cinzia Villani, il gruppo “Mascarimirì” il cui sguardo è volto alla world music, al raggamuffin, al dub, alla techno, alla contaminazione con esperienze, suoni, voci, ritmi di altri paesi vicini e lontani. La loro idea di fondo è quella di mettere in musica le sensazioni, gli umori e gli odori delle feste tipiche del sud. E il “Canzoniere Grecanico Salentino” che è stato il primo gruppo di riproposta musicale della tradizione salentina ad essersi formato in Puglia nel 1975, ben trentacinque anni fa per

Una recensione di Eugenio Imbriani su Tre Santi e una campagna

  

Intalòra (Ventola) di cartone con manico in legno. Periodo: primi Novecento. Dall'immagine se ne deduce la provenienza: festa patronale di Galatina. (L'originale è presso Nino Pensabene)
 
 

I “TRE SANTI”

DI

GIULIETTA LIVRAGHI VERDESCA ZAIN

Questo libro (“Tre Santi e una campagna”) è un vero e proprio

reportage etnografico;

non è certo il caso di fare paragoni irriverenti, tuttavia, per usare un’espressione molto nota, l’essere là degli antropologi viaggiatori caratterizza anche il viaggio nel tempo, pur sempre per raggiungere un luogo determinato, di Verdesca Zain.

 

 

UN MONDO RISCOPERTO E RACCONTATO

COME MAI FINORA ERA ACCADUTO

di Eugenio Imbriani

Per quanto riguarda la cultura popolare, nei tempi e nei luoghi in cui l’oralità è il canale privilegiato della comunicazione, mi sembra appropriato definire come tradizionale il processo di apprendimento di tecniche (operative, della narrazione, del canto) che avviene essenzialmente attraverso la ripetizione e l’imitazione. Si tratta di un processo selettivo, come è evidente, ricco di varianti, molto più mobile di quanto potrebbe sembrare: naturalmente, lo sviluppo dei bisogni ha accelerato i tempi di tale selezione, e ha favorito l’acquisizione di nuove modalità di vita, come tutti sappiamo. Quella pratica dell’apprendimento rappresentava la via più diretta per la formazione dell’identità, della rappresentazione di sé all’interno del gruppo, per la partecipazione al gioco sociale.

     A differenza di questa “piccola tradizione”, come è stata chiamata, la tradizione dotta è per antonomasia codificata, fissata nella scrittura, e svolge una funzione, molto importante, che consiste essenzialmente nella giustificazione di determinati comportamenti attraverso il riferimento a una necessità culturale che trova il suo fondamento in avvenimenti solitamente collocati in un passato molto lontano, se non mitico, ai quali vien fatta risalire l’istituzione dell’identità di un popolo, o di un gruppo, o che avrebbero autorizzato un sistema di potere. Si è parlato molto, a questo proposito, della tradizione inventata, delle false credenze, del nocciolo ideologico di esse.

     La scoperta e la valorizzazione della tradizione non sono mai atti puri; l’assegnazione stessa della patente di tradizionalità ai fatti culturali nasce dall’opportunità di valorizzare, per vari motivi, alcune situazioni rispetto ad altre: si pensi al ritorno turistico che molte manifestazione “folkloristiche” comportano, all’esplosione generale delle sagre estive, alla rivalutazione del “tipico” proposto in tutte le salse. Nella società della comunicazione di massa il folklore e in genere tutto quanto appartiene alle culture tradizionali ed etnologiche entrano nel contenitore mediale e si propongono ai clienti dell’informazione in modo frammentato e la fruizione non può che essere superficiale. La tradizione da bere, in questo modo codificata, è consegnata alle figure di saltimbanchi travestiti in modo pittoresco, ai rigurgiti prodotti dalla

Come ci inventiamo una cultura: il caso della Notte della Taranta

di Pier Paolo Tarsi

Possiamo partire da un’interessante intervista (interamente disponibile al seguente link: http://www.vincenzosantoro.it/nottedellataranta.asp?ID=233) rilasciata il 13 agosto 2005 a Carla Petrachi da Eugenio Imbriani, docente di Antropologia Culturale all’Università del Salento, studioso serio del tarantismo e non solo. È opportuna anzitutto una precisazione: Imbriani, per anni impegnato nel seno dell’Istituto Diego Carpitella, al momento in cui l’intervista è stata rilasciata si era già volontariamente allontanato da questo ente, battezzato “nell’estate del 1997 con il proposito di studiare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale del Salento” (fonte: sito dell’Istituto Diego Carpitello: http://www.lanottedellataranta.it/istituto_carpitella.php) e poi finito per diventare di fatto, con un evidente restringimento dei vasti intenti sopra indicati e a scapito in specie dell’attività di ricerca scientifica, semplicemente (o almeno, soprattutto) il promotore e l’organizzatore della famigerata Notte della Taranta, cioè – eventualmente qualcuno avesse passato gli ultimi anni su Marte e non lo sapesse – della estiva kermesse musicale itinerante per vari comuni salentini che conclude il suo ciclo a Melpignano, ove raggiunge il suo clou nel mega-concertone e show-mediatico finale negli ultimi giorni di agosto. Data la situazione descritta, il detto antropologo, interessato ovviamente più che altro alla ricerca e allo studio, finalità purtroppo “fagocitate” dalla Notte della Taranta che, per sforzi e risorse economiche e organizzative richieste, “cannibalizza” necessariamente tutto il resto delle attività per cui era sorto l’Istituto stesso, se ha inteso come anticipato prendere a suo tempo le distanze da questo, non ha ritenuto opportuno sollevare polemica alcuna. Imbriani infatti ribadisce spesso nella sua intervista di voler rimanere assolutamente lontano dalle polemiche su un eventuale “tradimento” dell’ampiezza di finalità per cui l’Istituto si era costituto e in particolare di voler astenersi da polemiche sul fagocitante e totalizzante evento mediatico (che vede almeno tanti detrattori, per ragioni molto diverse e spesso distanti tra loro, quanti sono i tifosi, motivati da ragioni anche qui molto variegate, ragioni che per continuità tematica non interessa ora analizzare).

Scelta arguta questa astensione dalle polemiche che non è dovuta (come si potrebbe pensare) ad una sobria pacatezza della persona in questione, a indifferenza o addirittura a una accondiscendenza remissiva e arrendevole della stessa, quanto al fatto, ben più interessante e istruttivo qui per noi, che Imbriani, con la mentalità tipica dello studioso, è interessato più a

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