Il tabacco raccontato con garbo in un libro di Salvatore Colazzo

Spongano (ph Giuseppe Corvaglia)

 

di Giuseppe Corvaglia

Per uomini e donne della mia età l’infanzia e l’adolescenza, in estate, si riempivano di frutti della terra succulenti e saporiti: fichi, meloni, uva, angurie, cucummarazzi, pomodori, persichi , albicocche… c’era però un frutto che frutto non era, anche se ugualmente una risorsa importante per le non brillanti economie salentine: il tabacco.

Il tabacco nel nostro vissuto era amico, o almeno conoscente, tiranno, ma anche speranza (quanti motorini per gli adolescenti dipendevano dalla stagione), levatacce alle quattro di mattina e mani sporche di unto amarognolo che si puliva a fatica dalle pieghe della pelle. D’estate diventava cornice alla vita del paese. In ogni angolo c’erano talaretti con le file di tabacco infilato.

Per raccoglierlo al mattino bisognava alzarsi prestissimo e quando il sole saliva nel cielo, ci si sedeva per terra all’ombra delle limese e si trafiggevano le larghe foglie con le acuceddhre per fare le file da stendere al sole. Era davvero una compagnia discreta, uno di famiglia ormai, piacesse o no, da gestire, ma anche da coccolare, da proteggere da quattru nziddhri di pioggia fugace come dalla muntura della notte.

Contadine mettono a dimora le piantine di tabacco (ph Oronzo “Oro” Rizzello)

 

All’epoca non avremmo pensato che sarebbe scomparso dal Salento. Molte famiglie lo producevano e molte si spostavano nel Tavoliere delle Puglie o nel Metapontino per coltivarlo.

A quei tempi la sigaretta era un piacere, un sollievo facile da ottenere per gli adulti, e un modo per sentirsi grandi, una sottile ribellione per i ragazzi.

Anche gli attori fumavano nei film, come nei caroselli pubblicitari, i vecchi e il sigaro sembravano una cosa sola e inscindibile e le bionde sigarette erano anch’esse irrinunciabili.

Gli emigrati al ritorno per le feste portavano cioccolate per i piccoli e sigarette per i grandi. Dalla Francia le sigarette erano le famose Gauloise e dalla Svizzera le Marlboro e le Muratti della Philips Morris molto diffuse anche con il contrabbando.

A raccontarlo oggi non sembra neanche vero, direbbe Francesco De Gregori, invece oggi le sigarette non sono più uno status symbol, un segno distintivo di prestigio, di sicurezza, di classe, sono viste con sospetto: sono indice di vizio, provocano ictus, malformazioni neonatali, infarti, forse anche la “guerra atomica”. In realtà è ben noto come il tabacco crei dipendenza ed è ben noto come il fumo nuoccia alla salute specie quando finisce di essere piacere occasionale e diventa ossessione, vizio, perché, come dicevano gli antichi, “Bacco, Tabacco e Venere / riducon l’uomo in cenere”.

Oggi non si fuma più nei locali pubblici, non si fuma nemmeno nei parchi, ma nemmeno in casa o in macchina. Per fumare si esce sul balcone, ci si ferma alla piazzola di sosta… l’unico posto rimasto tradizionalmente “affumicato” è il bagno delle scuole. Anche l’ONU ha istituito la Giornata senza tabacco che si celebra il 31 maggio

Da alcuni anni Tabacco nel Salento non se ne coltiva più. Non perché lo vieti il monopolio, ma perché non ne vale più la pena.

Ogni tanto qualcuno ne parla con nostalgia dimenticando cosa significava lavorarlo, quali fatiche, quali impegni comportasse, ma a me è rimasta sempre la curiosità di saperne di più, di andare oltre le cose che avevo visto con i miei occhi di ragazzo. (sappiamo che curiosità deriva dal latino “cur”, perchè)

Molti di questi perché ce li spiega un libro davvero molto interessante “I tabacchi orientali del Salento- Quattro storie e loro dintorni.” (Giorgiani Editori – Novembre 2017- 157 pag. 10 €) di Salvatore Colazzo, un agronomo di Collepasso, che con passione racconta la storia del Tabacco, dalla sua scoperta nelle Americhe al Novecent,o con l’interessante ed efficace presentazione di Mario Toma, che inquadra il fenomeno del tabacco dal punto di vista sociologico.

Il libro non è il solito libro che parla degli aspetti della coltivazione, della vita che menavano i contadini, della fatica, dei disagi e delle oppressioni, ben noti ormai, ma ci apre un mondo e ci fa conoscere il tabacco come storia, come pianta, come fenomeno di costume ed evento economico delle nostre terre e del mercato mondiale, come oggetto di desiderio e bene voluttuario.

Colazzo ce ne parla come se raccontasse la storia di un vecchio amico e nel raccontarla ci svela tanti particolari, non solo della pianta in sé, o delle fasi di lavorazione, ma anche di come si sia diffusa dal sedicesimo secolo nel mondo, del perché sia stata apprezzata e si sia diffusa in tutte le classi sociali, di come sia stata una risorsa capace di affossare o rialzare l’economia e di come la stessa pianta sia stata adattata dalla botanica e dalla genetica ai gusti delle persone.

Ci racconta storie di politica incapace che cede le armi a imprenditori avidi vampiri e storie di imprenditori coraggiosi capaci di fare scelte ardite, sicuramente utili alle proprie sostanze, ma pure capaci, con produzioni innovative, di dare pane e guadagno anche alle classi contadine.

La prima storia che ci racconta è quella di questa pianta che arriva in Europa e inizialmente viene utilizzata solo a scopi medicinali da frati erboristi per poi diventare genere voluttuario o ridotto in polvere e fiutato, o avvolto in sigari e fumato o anche appositamente acconciato e masticato.

Del tabacco si apprezza il rude sapore, ma anche il tono che dà (la nicotina è un alcaloide stimolante il sistema nervoso centrale già noto per queste virtù agli indigeni americani che lo usavano per raggiungere una condizione di trance).

Poi ci parla del tabacco salentino e si scopre che non era quel tabacco dai nomi esotici che conosciamo, ma un tabacco che si chiamava Cattaro riccio o Brasile salentino che nemmeno si fumava, ma era buono per ottenere delle ottime e pregiate polveri da fiuto, prodotto che, passando di moda il gusto per le tabacchiere, con la diffusione delle sigarette, manderà in crisi tutta la tabacchicoltura salentina.

Colazzo è molto bravo a raccontare della diffusione sempre maggiore del tabacco in tutto il mondo, dell’evoluzione dei gusti con il sopravanzare della preferenza per il fumo all’uso di tabacchi dal gusto meno forte e più gradevoli . Quindi ci racconta della grande produzione degli Stati Uniti, ma anche del progressivo affermarsi dei tabacchi prodotti nell’area dei Balcani, chiamati turchi o orientali, tali da surclassare il tabacco americano che pure aveva creato il mercato del fumo, così da essere richiesti per migliorare le miscele degli stessi prodotti americani (il primo a miscelarli fu proprio l’americano Philip Morris).

Racconta anche di come lo Stato Italiano fece propria questa produzione avocando a sé la gestione, la produzione e la vendita, creando la Privativa di Stato per il Monopolio di Sali e Tabacchi.

Ci racconta pure, però , di come col tempo lo Stato mostrò di non saper gestire bene la cosa e di come scelse di affidare a una società di imprenditori privati, chiamata Regia Cointeressata (1869), la produzione del tabacco mantenendo il monopolio della distribuzione e della vendita.

I privati cercarono di rendere efficiente la produzione combattendo il contrabbando, che per gli agricoltori era un mezzo per arrotondare i miseri guadagni, ma, essendo loro a stabilire il prezzo e la qualità del raccolto, lucrarono sul prodotto pagando il tabacco ai contadini come di seconda classe per poi usarlo nelle miscele dei sigari come di prima classe.

Questo portò un guadagno effimero perché, in realtà, fece distogliere i contadini dal produrlo e ben presto quegli stessi mezzi che dovevano portare a una maggior efficienza e guadagno diventarono la ragione di perdite per gli imprenditori stessi della Regia Cointeressata e per lo Stato, che aveva il monopolio e doveva produrre il tabacco per fare i sigari. Non disponendo della materia prima, dovette importare il prodotto dall’estero a discapito della bilancia commerciale. Come dire che a voler solo guadagnare speculando si va a perdere tutto: insomma chi troppo vuole nulla stringe.

A questo punto il Colazzo ci racconta due cose anch’esse molto didascaliche: una racconta come lo Stato riprese in mano anche la produzione rilevandola dai privati allo scadere della concessione, e di come, questa volta, investì nella scienza e nella sperimentazione affidandosi ad esperti come Orazio Comes e Angeloni, esperti e botanici di rango, che cercarono di trovare qualità più adatte alla produzione nazionale e al gusto del mercato compatibili con il nostro clima e la nostra terra.

La seconda storia parla di un pioniere deciso e lungimirante il Principe Gallone.

Con la crisi della tabacchicoltura si cercò di trovare delle nuove strade per uscirne. La Camera di Commercio di Lecce fu autorizzata a sperimentare sulla produzione di tabacco, ma si fissò sulle vecchie specie locali, finché un imprenditore illuminato, il Principe di Tricase Giuseppe Gallone, Senatore del Regno, ottenne il permesso di sperimentare nella tabacchicoltura e, collaborando con imprenditori di Salonicco, importò e produsse alcune varietà di tabacchi levantini che nel nostro Salento attecchivano bene, tanto poi da diventare colture pregiate e consentire al Monopolio di non importare più del dovuto tabacchi pregiati dall’estero e rilanciare la produzione del tabacco nel Salento. All’epoca Salonicco era un porto da dove passava quasi tutta la produzione dei tabacchi pregiati orientali perché vicino alla Erzegovina alle città come Xanti e Saluk e lì si poteva imparare la coltivazione di quelle piante e procurarsi le sementi di quelle varietà.

Sen. Giuseppe Gallone Principe di Tricase e Moliterno

 

L’esperimento riuscì e varietà come Erzegovina, Xanti Yaca, Perustitza e Sallucco, diventarono di casa.

Nel libro si parla ancora di altri pionieri che per migliorare la produzione ibridarono specie americane, come il Kentucky con le specie salentine contro le opinioni comuni, qualche volta irridenti, poi smentite dai risultati.

La storia si ferma alla fine dell’800. Continuare avrebbe richiesto un altro libro e questo probabilmente accadrà in un’altra pubblicazione che Colazzo saprà regalarci.

 

http://www.salogentis.it/2013/06/17/tabacco-e-tabacchine/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/01/la-coltivazione-del-tabacco-da-fiuto-sun-di-spagna-nel-salento/

https://issuu.com/salvy/docs/i_suoni_del_tabacco/10

https://www.youtube.com/watch?v=7KV0Lir4gMI min.1-min 7

https://carmiano.wordpress.com/2017/05/30/il-tabacco-attivita-produttiva-del-secolo-scorso-a-carmiano/

 

Spezzoni di vita salentina all’insegna del tabacco

 tabacco3

 di Rocco Boccadamo

Antefatto. Qualche giorno fa, mi è casualmente capitato di visionare, sul computer, un vecchio video in bianco e nero, realizzato dalla RAI nel 1953, dedicato alla coltivazione e alla lavorazione del tabacco nel Salento, a cura del mitico giornalista e inviato Ugo Zatterin, inconfondibile la sua voce, e comprensivo di una serie d’interviste ad abitanti, soprattutto donne, del Capo di Leuca.

Documento, a dir poco emozionante per uno come me, ragazzo di ieri dai radi capelli bianchi e soprattutto, in piccolo, già diretto spettatore, se non protagonista, di antiche sequenze di vita contadina, autentiche pagine di civiltà e di storia, scritte, con matita e tratti di dura fatica, dalla gente di questo Sud.

Ciò, accanto al ricordo ancora fresco delle vicende appena successive alla seconda guerra mondiale e, specialmente, della fase in cui si poneva inarrestabilmente avvio a una grande, radicale riscossa o rivincita.

Una mutazione, tale ultimo evento, affatto effimera e di facciata, accompagnata e enfatizzata, al solito, da proclami e discorsi di non disinteressati rappresentanti del popolo nelle istituzioni, di qualsivoglia schieramento, bensì reale, concreta, solida, progressiva, tanto da toccare, in un pugno di stagioni, sì o no un decennio, l’impensabile traguardo, riconosciuto al nostro Paese anche a livello internazionale, del cosiddetto e però autentico miracolo economico.

E, si badi bene, a ulteriore merito degli attori, all’epoca nessun regalo, nessuna congiuntura favorevole, nessuna fase di tassi o cambi o prezzi delle materie prime favorevoli, nessun influsso, insomma, di condizioni propiziatorie, cadute dall’alto o dal contesto globale.

Unicamente, un’immensa marea d’impegno civile e sociale, frutto di singole personali gocce di sudore, di fatiche intense e immani, d’impegno inconsueto, indescrivibile, una cascata di volontà e dedizione che non conosceva confini, né di orario lavorativo, né di luoghi, né di settori.

Per restare al tema narrativo odierno, il tabacco si appalesava con le sue diffusissime e onnipresenti gallerie di filari, esse stesse intrise di una forza naturale prodigiosamente eccezionale. Giacché i modesti germogli o piantine ricollocati dai vivai nel grembo delle rosse e/o di colore grigio bruno zolle, crescevano, si elevavano sino a raggiungere, talora, l’altezza delle creature umane, uomini, donne, anziani, ragazzi, ragazzini, adolescenti, uno schieramento senza età e senza tempo che accudiva le piantagioni con amore, a modo suo appassionato, dedicandosi, sperando e, nello stesso tempo, emanando interminabili rosari di stille di sudore.

La storia, o avventura, della coltivazione del tabacco, vengono a mente le sue varietà Erzegovina, Perustizza, Xanti yakà, prendeva abbrivio con l’assegnazione, da parte dei Monopoli di Stato, di un’area prestabilita su cui si poteva piantare, più o meno piccola, quando non sacrificata, a seconda delle dimensioni delle proprietà agricole dei richiedenti. Concessione diretta, oppure, nel caso di messa a dimora colturale da svolgersi in regime di mezzadria, indiretta, con la relativa pratica espletata, in tale ipotesi, a cura di grossi proprietari o latifondisti che, a loro volta, trasferivano i permessi ai loro coloni.

A seguire, la semina, con relativi vivai o ruddre contraddistinti anche dalla sistemazione, sui cordoli perimetrali di fertile terra concimata, di centinaia o migliaia di piantine di lattuga (insalata), che successivamente, per, alcuni mesi, avrebbero rappresentato un non trascurabile contributo per la gamma di pietanze delle povere mense contadine.

Poi, la piantagione vera e propria, la zappettatura e, finalmente, il graduale raccolto, partendo, giorno dopo giorno o a brevi intervalli, dalle foglie più basse rispetto al terreno (1^, 2^, 3^, 4^, 5^ raccolta).

Intanto si susseguivano le stagioni, arrivando ad abbracciare, fra semina e raccolto, una buona metà del calendario, ovvero l’arco da fine gennaio ai primi di agosto.

Non sembri retorica, ma, con nostalgia ed emozione, si potrebbe fare un accostamento approssimativo rispetto all’umana gestazione. In fondo, così come dal seme dei padri e dal grembo femminile si attendeva, come tuttora si attende, lo sbocciare e l’arrivo di una creatura sana e bella, parimenti dalla semina del tabacco si aspettava, con fiducia e ansia, il germoglio e la crescita di piante/foglie belle, sane, forti e fruttuose.

Un vero e proprio impegno a doppia ripresa, sempre all’insegna della fatica, consisteva nello stacco, di buon mattino, immediatamente dopo l’alba, delle foglie verdi e ancora umide di rugiada  dagli steli delle piante, badando a rispettare rigorosamente la platea dei filari; quindi, da metà mattinata, nell’infilaggio delle medesime in lunghe, piccole lance (cuceddre) per la formazione di pesanti file/assemblaggi, che, appese man mano a rudimentali telai  in legno (talaretti o tanaretti), sarebbero state a lungo fatte essiccare sotto il sole.

Non senza saltuari interventi delle persone accudenti, sotto forma di corse sfrenate, di fronte a pericoli o imminenza di acquazzoni, onde trasportare le anzidette attrezzature e i preziosi contenuti al coperto di capannoni o rifugi rurali.

Una volta, il prodotto, divenuto secco, con le file si formavano i chiuppi, per rendere l’idea una specie di grossi caschi di banane, tenuti appesi, per un’ulteriore maturazione o stagionatura del tabacco, ai soffitti dei locali.

E, alla fine, lo stivaggio del tutto in grosse casse di legno e la loro consegna, per la lavorazione finale delle foglie, alle “manifatture” o magazzini, in genere gestiti, dietro concessione da parte dei citati Monopoli di Stato, a cura di operatori abbienti, soprattutto proprietari terrieri, dei vari paesi.

All’interno dei magazzini, le donne, in certi casi a partire dalla giovanissima età e sino a raggiungere ragguardevoli carichi di primavere, dopo le fatiche richieste dalla coltivazione e dall’infilaggio delle foglie verdi, riprendevano a lavorare a giornata per due/tre mesi all’anno.

Così, fra una stagione del tabacco e la successiva, si procreavano figli, si stipulavano fidanzamenti e celebravano matrimoni, grazie anche ai nuovi “frabbichi” (case di abitazione), per i giovani maschi, e ai corredi, per le femmine, realizzati proprio mediante i sudati profitti che era dato di trarre dalla coltivazione e vendita del tabacco.

La scenografia dell’attività in parola era anch’essa ambivalente, nel senso che, talora, l’ambientazione rimaneva totalmente circoscritta in loco, nei paesi e nelle campagne del Salento, mentre, in altri e diffusi casi, si spandeva su plaghe distaccate e distanti, a partire dagli ultimi territori verso sud ovest della provincia di Taranto, sino a una lunga sequenza di località del Materano.

Nel secondo contesto, avevano luogo, mercé l’ausilio di grosse autovetture noleggiate con conducente, vere e proprie migrazioni temporanee di numerosi interi nuclei famigliari: dalla mente di chi scrive, giammai si cancellerà l’immagine delle considerevoli partenze di compaesani marittimesi, per il tabacco, nelle primissime ore del 29 aprile, il giorno immediatamente successivo alla festa patronale di S. Vitale.

Riprendendo l’antefatto al primo rigo delle presenti note, nel documentario di Zatterin, le sequenze erano girate interamente dalle mie parti.

Sennonché, ieri, nel compiere un viaggio in auto con i miei famigliari per una breve vacanza sul Tirreno, è stato per me come veder girare ancora un analogo documento, improntato a nostalgia e amore per il sano tempo lontano, che tanto mi ha dato e lasciato e, perciò, mi è fortemente caro.

Ciò, scivolando lungo la statale 106 Ionica e i primi tratti della 653 Sinnica, e scorrendo e leggendo le indicazioni segnaletiche di Castellaneta, Ginosa, Metaponto, Marconia, Scanzano, Bernalda, Marconia, Pisticci, Casinello, Policoro, Montalbano Ionico e via dicendo.

Non erano, almeno per il mio sentire, meri appellativi di paesi e contrade. Invece, generavano l’effetto di immagini palpitanti, con attori, non importa se in ruoli di protagonisti o di comparse, identificantisi nella mia gente di ieri e, in fondo, in me stesso.

 

La coltivazione del tabacco da fiuto e da pipa nel Salento

di Antonio Bruno*

Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud
un tramonto da bestia macellata.
L’aria è piena di sangue,
e gli ulivi, e le foglie del tabacco,
e ancora non s’accende un lume.

 

 

tabacco-pianta

La coltivazione del Tabacco da fiuto “Sun di Spagna”nel Salento leccese

Nel Salento leccese si coltivavano i tabacchi per fiuto che necessitavano di irrigazione quotidiana e si caratterizzavano per avere le foglie con un rachide mediano grosso, fibroso e lungo più di un metro.
Il tabacco da fiuto era una coltura tipica del Salento leccese. Nel 1771, con editto di Clemente XIV, la congregazione dei monaci Cistercensi, con lo scopo  di bonificare i terreni paludosi circostanti il loro convento, iniziarono  a dare le terre in censo ai contadini ed a coloro che colpiti da condanna  si rifugiavano in convento per ottenere l’impunità; con i ricavi  ottenuti i monaci iniziarono la coltivazione di diverse piante e diedero  impulso alla coltura del tabacco.
Nella manifattura i monaci iniziarono la produzione, prima per loro  consumo e poi a scopo di commercio, della famosa polvere «Sun  di Spagna».
A Lecce con privilegio dato a Madrid il 17 dicembre 1682 si nominava un “Credenziere del Fondaco della Città di Lecce”.

Le varietà di Tabacco da fiuto coltivate nel Salento leccese

Nel Leccese, che comprendeva le province di Brindisi e Taranto, si  coltivavano le varietà Cattaro leccese, importato dai Veneziani,  il Cattaro forestiero, proveniente dall’Alsazia, il Cattaro  riccio paesano e il Brasile leccese, importato dalla Spagna  o da Napoli per opera di navigatori.
Le coltivazioni di queste varietà diedero luogo alle prime industrie  manifatturiere private, per la produzione delle polveri da fiuto. I numerosi  conventi nella provincia di Lecce contribuirono alla diffusione delle  polveri, soprattutto del «Leccese da scatola» prodotto  dai frati Cappuccini.

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La prima Manifattura tabacchi da fiuto del Salento leccese

Nel 1752, per editto reale di Carlo III di Borbone, veniva impiantata  a Lecce un’importante manifattura di tabacchi da fiuto in un ex convento  di Domenicani che, impiegando 20 molini «macinini» mossi  a mano, produceva polvere di gran lusso.
La richiesta del Cattaro leccese e del Brasile, utilizzate  nella lavorazione delle polveri, favoriva nella provincia la diffusione  della coltura del tabacco.

La Commissione di inchiesta sul tabacco del 1881

Nel 1881 una Commissione d’inchiesta sui tabacchi levantini coltivati nella Terra d’Otranto, secondo la quale “… se il regime di monopolio fosse assunto dallo Stato, ripartirebbe equamente ai produttori ed all’erario pubblico i vantaggi che oggi rifluiscono agli azionisti della Regìa.”
In quel periodo iniziava a diffondersi nel Leccese il contrabbando di tabacco, favorito in parte anche dal prezzo inadeguato corrisposto per le migliori qualità di tabacco, e dallo scarso numero di spacci presenti che rendevano talvolta difficoltoso il rifornimento di tabacco.

Le prime coltivazioni di Tabacchi orientali nel Salento leccese

Le prime coltivazioni di tabacchi orientali, dopo i campi sperimentali impiantati nel 1885 a Cori (Roma) e Cava dei Tirreni (Salerno), furono effettuate tra il 1890 e il 1898 nel Salento, in Sicilia e in Sardegna (Vizzini, Alessano, Poggiardo, Lecce, Iesi, Sassari, Palermo e Barcellona Pozzo di Gotto).
Le coltivazioni furono eseguite sotto la direzione del Prof. Orazio Comes, illustre botanico, docente di botanica e di patologia vegetale alla Scuola Superiore di Agricoltura di Portici, autore di celebri studi sulla coltivazione e sulla filogenesi del tabacco.

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L’introduzione dei tabacchi orientali nel Salento leccese

Come già scritto nel Salento leccese intorno al 1890 si introdussero le varietà orientali Xanthi Yakà e Erzegovina, provenienti dalla Macedonia e dall’Erzegovina, con risultati positivi. I tabacchi orientali devono avere foglie piccole e con la prevalenza del tessuto cellulare su quello fibroso. Ed ecco che vi è differenza tra il tabacco di varietà Cattaro e Brasile, coltivati per il fiuto, che deve essere irrigato per accelerare la vegetazione, con quello orientale che invece ha necessità di rallentare e ritardare la vegetazione per ottenere foglie piccole, elastiche, quasi trasparenti e molto aromatiche dopo l’essiccamento.
L’altro fattore che decretò il successo dei tabacchi orientali nel Salento leccese è stato il terreno che nel nostro territorio è nella maggior parte dei casi calcareo. Il terreno calcareo anche se di poca profondità risulta più adatto alla coltivazione del tabacco orientale rispetto al terreno ricco di humus.

Il Tabacco Salento da pipa

Dal tabacco Kentucky si ottennero tipi utilizzati per trinciati da pipa, come il Salento (ottenuto dall’incrocio con il Cattaro). Nel 1922 si iniziò la coltivazione sperimentale a Lucugnano (Lecce)

Per non dimenticare

Nelle enciclopedie che consultavamo noi studenti prima dell’avvento della rete, di internet alla voce Provincia di Lecce si leggeva che le colture prevalenti erano l’olivo, la vite e il tabacco. Il tabacco ha percorso le memorie di tutti, è stato presente e la raccolta del tabacco era compito delle donne. Si alzavano prestissimo la mattina per andare a raccogliere le foglie verdi, tutte della stessa misura.
Le foglie, perfettamente ordinate l’una sull’altra, venivano delicatamente poste nelle casse, trasportate dagli uomini con i carri in masseria. Al fresco, sotto i porticati, le donne, sedute in cerchio, infilavano le foglie ad una ad una in lunghi aghi piatti, “acuceddi”, facendoli poi passare sui fili di spago che formavano “li curdati”.
Si mettevano  a seccare su appositi cavalletti di legno (taraletti), da mettere al coperto la notte e portare al sole di giorno, ogni sera, ogni giorno, con gli occhi rivolti al cielo ogni tanto, quando comparivano le nuvole.
Guai se il tabacco si bagnava!  Le foglie, attaccate come erano l’una all’altra, si sarebbero ammuffite!
Era la nostra vita e siccome adesso non c’è più eccola scritta, così come ha fatto Vittorio Bodini…per non dimenticare….

Bibliografia

Giampietro Diana, La storia del tabacco in Italia. I. Introduzione e diffusione del tabacco dal 16° secolo al 1860
Cosimo De Giorgi, La coltivazione dei tabacchi orientali nelle Puglie

Emigrazione/ I leccesi a Civita Castellana (Viterbo)

di Alfredo Romano


Qualcuno si chiederà come mai molti leccesi abbiano scelto come luogo d’emigrazione Civita Castellana e non le tradizionali città del Nord. Non si tratta, innanzitutto, di una scelta, ma del risultato di una congiuntura economica nel mercato delle braccia.

La coltivazione del tabacco

Ci fu a Civita Castellana, dal dopoguerra in poi, una forte richiesta di manodopera specializzata nella coltivazione del tabacco. Il risveglio dell’economia ceramica aveva provocato una carenza di salariati e brac­cianti. I proprietari terrieri erano per ciò costretti a ripiegare su colture estensive, per lo più seminativi e pascoli che, se da una parte non ri­

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