Il Tarantismo e il Vanini

di Pietro De Florio

 

Premessa

Ernesto De Martino nel suo celebre e importante libro sul tarantismo, La Terra del Rimorso del 1961, non faceva alcun riferimento a Giulio Cesare Vanini il quale, proprio in virtù della propria, per così dire, “salentinità” scrisse qualcosa da non trascurare, riguardo al tarantismo, difatti Andrzej Nowicki, uno dei massimi studiosi del filosofo taurisanese, nel 1964 rimproverava bonariamente al De Martino tale mancanza1. Tuttavia, a distanza di tanti anni, ancora oggi, nell’imponente mole di studi folklorici e antropologici sul tarantismo, sovente (soprattutto nella guidistica) si trascura di menzionare il Vanini, perdendo o rinunciando a un particolare punto di vista storico sull’argomento.

 

busto di G.C. Vanini (1886) di Eugenio Maccagnani. Lecce Villa Garibaldi, particolare (ph Pietro de Florio)

 

Il Filosofo

Lucilio Vanini, filosofo libertino e pre-illuminsta, nacque a Taurisano nel 1585, nei suoi scritti, firmandosi Giulio Cesare, teorizzava un mondo meccanicisticamente strutturato e senza provvidenza, nel continuo ed eterno fluire dei fenomeni naturali. Alle soglie della rivoluzione scientifica, per il Vanini tutto l’universo è costituito di corpi, non vi sono quintessenze, esistono solo le coordinante logiche di causa – effetto, esperienza ed osservazione (sebbene ancora entro schemi concettuali tomisto-aristotelici). A causa di queste idee, accusato di ateismo e blasfemia, fu arso vivo a Tolosa nel 16162. Ma oltre alle speculazioni teoretiche, il Vanini si occupò anche di vari e comuni argomenti, tra i quali il tarantismo o tarantolismo salentino. Del filosofo si conoscono solo due opere scritte in latino: l’Anfiteatro dell’eterna Provvidenza (del 1615) e il dialogo IMeravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (del 1616).

 

Il Tarantismo

I protagonisti del dialogo 57 IV 3 dei Meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali sono lo stesso Giulio Cesare, in veste di sapiente divulgatore della conoscenza e l’interlocutore di fantasia Alessandro. Il Vanini, con un approccio critico e causalistico, pone la questione del tarantismo, indagando la  ragione del fenomeno, per quelli che erano i criteri epistemologici dei primi anni del Seicento. Generalmente, come altrove, lo stile narrativo si fonda su ciò che il protagonista apprende da sconosciuti o da quello che gli viene riferito “da alcuni amici” tutti non identificati, un espediente cautelativo, giusto per evitare possibili procedure inquisitorie.

Domanda Alessandro: – “Perché coloro che sono morsi dal falangio (animale che dalla città di Taranto è detto tarantola) sono incitati dalla musica a saltare tanto da stancare gli occhi degli spettatori? G.C: – forse perché (per non parlare del furore di Saul che fu chetato dal dolce suono della cetra di Davide) nel frattempo in dolore si attenua”. Con il movimento, prosegue Giulio Cesare, il veleno si allontana dal cuore, fluisce altrove, si diluisce e la mente si distrae, tuttavia la sensazione di malessere si ripresenta gradualmente quando la musica cessa e pertanto occorre ricominciare 4.  In questo passaggio il Vanini accenna al celebre episodio biblico in cui si narra che “lo spirito del Signore si era ritirato da Saul e uno spirito malvagio da parte del Signore lo colmava di terrore, tanto che i servi di Saul gli dissero: «Ecco dunque uno spirito maligno da parte del Signore che ti agita»”. Davide entrato nelle grazie di Saul divenne suo scudiero e “quando lo spirito divino infieriva sopra Saul, Davide prendeva la cetra e suonava con le sue mani; ciò sollevava Saul e gli faceva bene, poichè lo spirito malvagio si allontanava da lui” 5.

Ma a differenza dell’episodio di Saul che mitiga la propria sofferenza solo con l’ascolto della cetra, Giulio Cesare osserva che la “malattia velenosa” può essere attenuata grazie all’eccitamento degli spiriti6, causato dalla musica, ma “ Forse più correttamente dirò che la cura è data non dalla musica, ma dalla faticosa danza stimolata dalla musica ed affermerò fiducioso che tale veleno, certamente freddissimo è vinto ed espulso dal sudore”7, quasi a voler dare una spiegazione fisica, ipotesi, peraltro, già sostenuta da Giulio Cesare Scaligero (1484-1588)8. Quindi il filosofo arriva ad una comprensione ragionevole del fenomeno tossico e, a conferma della tesi movimento/sudore, cita il Fedone di Platone nel dialogo9 in cui a Socrate fu vietato qualsiasi movimento dopo aver bevuto la cicuta, per non sminuire l’efficacia del veleno10.

Serafino Elmo, “Il trionfo di David” (1740), chiesa Sant’Angelo Lecce. Da notare la strumentazione da “pizzica” (ph Pietro de Florio)

 

Si potrebbe aggiungere tra gli scritti di Platone, l’Eutidemo dove si parla degli speciali canti per debellare il veleno dei ragni e qualcosa di simile si trova nei versi di Euripide che riguardano il mito di Demetra nella delirante e disperata corsa alla ricerca della figlia Persefone.

La casistica comportamentale dei tarantati pugliesi è varia: “taluni piangono”, “altri ridono”, “alcuni corrono”, “c’è chi suda”, c’è chi si abbandona nel torpore o vomita, altri impazziscono ed Alessandro pensa che questa varietà di comportamenti, sia superstiziosamente in rapporto al succedersi dei giorni della settimana, mentre per Giulio Cesare è la specificità della tarantola che genera effetti molteplici, a seconda delle caratteristiche degli individui un po’, come accade per gli ubriachi, ognuno reagisce in maniera diversa al vino 11 o, per meglio dire all’ubriachezza: si ride, qualcuno piange o blatera, altri dormono ecc.12, in sostanza dall’indagine induttiva vaniniana risulta che gli effetti del morso velenoso dipendono perlopiù dal grado di predisposizione psicofisica dell’individuo.

Molti, apparentemente guariti dal veleno della tarantola, puntualmente a distanza di un anno ricadono nello stesso malessere, analogamente ci sono piante che fioriscono nello stesso giorno ogni anno o, come  osserva, Girolamo Cardano (1501-1576, citato dal Vanini)13, alcuni alberi di noci mettono il fogliame sempre il 24 giugno (proprio in concomitanza con il convegno di streghe sotto il noce di Benevento14). Questo accade anche per le febbri coleriche e atrabiche15  che hanno ricadute puntuali, sempre nello stesso periodo, tutto ciò farebbe pensare, agli influssi astrali, considerata la regolarità del fenomeno. Inoltre, bisogna considerare che la sofferenza del tarantato dura finchè vive il “falangio” e guarisce quando questo muore, perché probabilmente i due eventi sono correlati e influenzati dalla stessa costellazione (stando al determinismo aristotelico – averroistico da motori immobili sul mondo sub-lunare). E come vanno “vociferando i contadini pugliesi diremmo che è una proprietà del falangio che la sua vita e i suoi morsi abbiano la stessa durata, perché sono prodotti dalla stessa costellazione” 16, riprendendo il Vanini la tesi del filosofo rinascimentale Pietro Pomponazzi (1462-1525)17.

Il protagonista del dialogo Giulio Cesare non trascura, sicuro delle proprie analisi induttive, a suo modo scientifiche, ironicamente di segnalare quali potrebbero essere i rimedi e gli intrugli popolari contro il veleno del falangio, quindi riferendosi ad Alessandro soggiunge ironicamente: “perdonate, o canoni pontifici, ad un prete che scrive di medicina!”, proponendo poi uno strano elenco di erbe e terre rare, mosche che si nutrono di insolite piante  ecc.18, tutta roba ripresa dallo Scaligero (vedi nota 7).

Quando Giulio Cesare era a Lione, qualcuno gli raccontò di un “lacchè” o “fannullone” alloggiato presso un albergo e, nonostante l’ottimo trattamento ricevuto, ritenne a torto, esoso il conto da pagare. Andando via, questo fannullone, lasciò la propria stanza piena di fumi, provocati da qualcosa disciolto in un vaso d’argilla. I camerieri che vi entravano, subito dopo ne uscivano saltellando e ballando. “Tutti, non solo i cattolici, ma anche gli Ugonotti attribuirono la causa di ciò ad un artifizio diabolico. Giulio Cesare, invece, si fece beffe di tali simile storielle ed ascriveva ogni cosa alla causa naturale”19 (sottolineando con la garanzia del proprio nome l’assurdità dell’episodio).

Evidentemente il lacchè versò polvere di falangio nel vino e, chi saliva in camera, bevendo qualche sorso, ne usciva saltellando. Anche i fumi sparsi nella stanza erano stati prodotti dalla polvere di falangio combusta e chi vi entrava inalando il miasma, cominciava a ballare e saltellare, anche senza aver bevuto il vino. “Così tutti in quella sorta di sala da ballo erano indotti a danzare. Perfino una cagnetta si era data alle danze”20. Quindi il veleno della tarantola e la sua esalazione prodotta dalla combustione provocano malessere e, su scala più vasta, è ciò che accade quando si inalano i vapori di “un corpo appestato” e con la peste “non solo vanno in rovina intere famiglie, ma addirittura grandissime città”21.

Insomma dal fenomeno raccontato con un certo brio popolaresco e spiegato in maniera logicamente verosimile, si hanno di fatto drastiche e nefaste conseguenze che generano anche manie o fissazioni esagerate. A tal proposito, “In Germania – racconta Giulio Cesare – ho conosciuto un cattolico che nella settimana santa non visitava le pubbliche chiese, ma assisteva alle cerimonie sacre in una cappella privata” per non infettarsi “dai vapori molesti” e nocivi emessi dai cristiani proprio in quel periodo di particolare mestizia che predispone alle melanconia22 (secondo la medicina ippocratica a cui il Vanini fa riferimento)23.

Ricapitolando: Cardano e Pomponazzi sostenevano, per il tarantismo il determinismo astrologico e lo Scaligero attribuiva al movimento e al sudore l’espulsione del veleno dell’aracnide, ma tutti sono d’accordo, compreso il Vanini che si tratti oggettivamente di una “malattia velenosa” dovuta al morso del ragno o falangio. La danza dei tarantolati è prodotta  da qualche sostanza insita nel falangio, come conferma la storiella dello sfaccendato di Lione, secondo l’elementare schema esplicativo vaniniano e, proprio nel raccontare in modo ironico e popolaresco:“così tutti in quella sorta di sala da ballo erano indotti a danzare” o della fobia del tedesco24, sta a dimostrare che per questi fatti apparentemente inspiegabili, non vi sono cause sovrannaturali o qualcosa di demoniaco, come pensavano cattolici e ugonotti. Si tratta solo di cause materiali che hanno una spiegazione logica e fisica, come accade, secondo quanto raccontano gli storici, nella diffusione della peste, cioè basta qualche esalazione di un corpo infetto a mandare in rovina intere comunità25. Ovviamente dal Vanini non ci si può aspettare una moderna analisi socio – antropologica di difesa magica della personalità (a quei tempi gli studi etnografici e folklorici erano agli inizi), ma una condanna a quelle che erano le superstizioni o gli errori dell’intelletto umano, la ragione dovrebbe essere la guida dell’agire umano in cui ogni cosa viene pensata e appresa direttamente per ciò che è, mentre la verità o la conoscenza sostanziale  si sviluppa attraverso la riflessione26.Tuttavia l’uomo non è Dio, né possiede verità eterne, noi dice il Vanini conosciamo in modo indeterminato perché siamo “circoscritti e definiti dai limiti del tempo e dello spazio”, delle cause che si presentano volta per volta “possiamo fare una congettura […]. Perciò ora siamo incerti e dubbiosi, ora certi”27. Le cose perdono la loro valenza essenzialistica e aristotelico – metafisica28, per assumere un significato logico di comprensione graduale, ma non definitiva della realtà. E quando ciò non si verifica, l’errore o la superstizione e l’ignoranza prendono il sopravvento. All’uomo appartiene la capacità di decifrare le molteplici cose mondo e comprenderle con la logica dell’intelletto.

 

Attualità della questione

Alla fine degli anni ’50 il De Martino studiò la magia meridionale29 come fatto storico -culturale, interessandosi della prassi terapeutica musicale e cromatica connessa al tarantismo, ad iniziare da Pitagora, Ippocrate, Platone, proseguendo nella letteratura greca antica, nella mitologia di Dioniso30, Orfeo, Demetra ecc., via via, fino alla vicenda di San Paolo a Malta31 e alle varie interpretazioni di epoca medievale e moderna. Riguardo al Santo il Vanini accenna al suo potere terapeutico e dice che “ci sono tra noi quelli che si vantano di essere muniti della grazia paolina; infatti, curano rapidamente coloro che sono morsi da serpenti. Tale facoltà donò ad essi la natura generatrice di tutte le genti e talvolta ho scorto sotto la loro lingua una minuscola immagine di serpente impressa dalla stessa natura”32 (con un tono un po’ canzonatorio).

Egidio Presicce, “Tarantata” (1979), collez. privata (per gentile concessione della famiglia) (ph Pietro de Florio)-dell’artista.

 

Nel tarantismo il magico svolge una funzione protettiva (risalente al  mito di Aracne), di soccorso psicologico dell’individuo proprio nei periodi precarietà e sofferenza esistenziale. La tarantolata (e sono perlopiù donne, chiara dunque la significato erotico), vittima presunta di un morso di tarantola, simula con una frenetica danza la lotta contro il veleno dell’animale che, chiamato con vari nomi di persona, viene identificato con il negativo da esorcizzare.

La donna, in questo rituale, si libera, dalla soffocante oppressione quotidiana contadino – patriarcale e, al ritmo incalzante dei musicanti33 con violino tamburello, fisarmonica e chitarra si lascia inconsciamente trasportare nell’arcaico menadismo coreutico, ora pizzica.

La donna agita convulsamente nastri e fazzoletti colorati, perché vuole eliminare con la danza dal proprio corpo il veleno, identificato con un colore particolare, cioè quello della tarantola (terapia coreutica-musicale e cromatica), riconosciuto tra i vari fazzoletti o nastrini colorati o panni esibiti dai presenti (o chissà nel vestito di un giovane che da lei viene fissato e ammiccato) e, per il momento, il male scompare34.

Il tarantato o, più spesso la tarantata, secondo una fonte secentesca del De Martino si agitano“come se fossero travagliati da follia amorosa, la bocca spalancata, le braccia aperte, gli occhi lacrimosi, il petto ansante, stringono infine in amoroso amplesso il panno colorato e sembrano fingere una ardentissima unione, per così dire una identificazione con esso”35. Quindi i colori acquistano una valenza simbolica durante l’esorcismo coreutico in correlazione all’inclinazione della tarantata verso un determinato colore. Il De Martino, pone la questione “se sia pensabile una connessione fra simbolismo cromatico del tarantismo e simbolismo cromatico medievale” e se fosse vero che “il verde sia da interpretare come il colore dell’amore nuovo […] e il rosso […] dell’aggressività e del furor, della passione ardente armata”36.

Studi più recenti sul tarantismo pongono l’accento sul concetto di possessione o di trance37, sulla modifica della coscienza, tratto comune con i riti mediterranei della Grecia antica, un criterio d’indagine che deborda nel culto orfico – dionisiaco, fino a risalire alla civiltà protostorica dell’Italia meridionale38. Tuttavia le nuove prospettive di studio pur integrando la speculazione demartiniana, ne riconoscono la validità dell’impianto epistemologico di fondo.

 

Note   

1 Andrzej Nowicki, Curiosità vaniniane. Vanini e le tarante, “La Zagaglia”, n. 42, Giugno 1969, p. 163.

2  Mario Carparelli, Il Più Bello e il più maligno spirito che io abbia mai conosciuto. Giulio Cesare Vanini nei   documenti e nelle testimonianze, I Cento Talleri Prato, 2013.

3 Cfr. Giovanni Papuli, Francesco Paolo Raimondi, Giulio Cesare Vanini, Opere, Congedo Galatina, 1990, pp. 108-110.

4  Giulio Cesare Vanini, I Meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (1616) IV, 57, p. 444, in Giulio Cesare Vanini, Tutte le Opere, Monografia introduttiva, Testo critico e Note di Francesco Paolo Raimondi; traduzione di Francesco Paolo Raimondi e Luigi Crudo, appendici di Mario Carparelli, Bompiani Milano, 2010. D’ora in avanti tutti passi citati, sia da I Meravigliosi segreti della natura regina e dea dei mortali (1616), sia dall’Anfiteatro dell’eterna provvidenza (1615), sono tratti dall’opera citata e i titoli abbreviati in Meravigliosi e Anfiteatro.

5 I Libro di Samuele, XVI, 14-23.

6 Si tratta di particelle, secondo l’antica medicina galenica che regolano meccanicamente la fisiologia dell’individuo. Quindi si ha uno spirito naturale nel fegato che regola il metabolismo e l’alimentazione, quello vitale nel cuore che soprintende alla circolazione del sangue e quello animale nel cervello che controlla la percezione e i sensi (Cfr. Galeno, Opere scelte, a cura di I. Garofani, M. Vegetti, Torino, 1968). Si tratta di  una metodologia medica, al pari di quella ippocratica che sopravvive fino in epoca moderna, trattata da Telesio, Bacone e Cartesio. Secondo quest’ultimo, gli spiriti vitali (dotati di estensione e movimento) sono entità fisiche che fanno d’unione tra intelletto e le azioni del corpo e realizzano l’unità psicofisica dell’essere vivente. Questi spiriti (parti più sottili del sangue), attraverso i nervi causano nell’anima le passioni (sentimenti, emozioni, percezioni ecc.) che possono essere soppresse, rigettate, accolte (quelle giuste) o moderate (Renè Descartes, Discorso del Metodo(1637), prefaz. Di Giovanni Reale, traduz. di Monica Barsi e Alessandra Preda, Rcs Milano 2010, p. 53 e, Renè Descartes, Le passioni dell’anima (1639) a cura di Salvatore Obinu, Bompiani Milano, 2003, art. XXXVI)

7 Meravigliosi, IV, 57, p.445

8 Nota 399 a cura di F.P. Raimondi p.1803, in G.C.Vanini, Tutte le Opere, cit.

9  Critone rivolgendosi a Socrate dice: “ bisogna che io ti avvisi di parlare pochissimo; perché, dice egli (cioè il carnefice che somministrerà il veleno), quelli che parlano, si riscaldano di troppo, e ciò non è bene avendo a bere il veleno; se no, ci è caso di averlo a bere due e anco tre volte. E Socrate: – lascialo andare; digli che badi a sé, che s’apparecchi a darmelo due volte, se bisogna; e anco tre” Platone, Fedone, in Dialoghi, (I Classici del Pensiero), a cura Carlo Carena, traduz. Francesco Acri, Appendice Mari Vegetti, Einaudi – Mondadori  Milano, 2008, VIII.

10 Meravigliosi, IV, 57, p.445

11 Come nel veleno (naturale) del falangio non vi è alcuna manifestazione diabolica, così anche riguardo al vino il Vanini ne smitizza la valenza cristiano-dionisiaca, facendone una bevanda dagli affetti naturali positivi, una specie di toccasana fisico-morale (Mario Carparelli, Giulio Cesare Vanini: il Filosofo del Vino, in “Alceo Salentino” del 01.11.2005 www.alceosalentino.it/giulio-cesare-vanini-filosofo-del-vino.html)

12 Meravigliosi, IV, 57, p.445

13 Ivi, IV, 57, p.446

14 Intorno a un grande albero di noce (già sradicato in epoca medievale) nei pressi di Benevento si davano convegno in determinati periodi (es. San Giovanni) tutte le streghe o janare (Alfredo Cattabiani, Calendario, Rusconi Cde Milano, 1988, pp. 242 – 246).

La cosiddetta Janara nel Beneventano e nell’area campana (forse da sacerdotessa di Diana, oppure Ianua da Giano bifronte, effige del nume posto sugli ingressi dei fabbricati) sarebbe una delle tante specie di streghe appartenenti al folklore agreste (cfr. Benevento le Janare attorno al Noce, in Palumbo Murizio Ponticello, Misteri Segreti e Storie Insolite di Napoli, Newton Compton Roma, 2015 e Maria Pia Selvaggio, L’Arcistea. Bellezza Orsini e la sua Janara, Spring Caserta, 2008)

15 La febbre atrabiliare, secondo la medicina umorale di Ippocrate, deriva dall’umore della bile nera posta nella milza, il soggetto è debole, pallido, triste e avaro  (Nicola Ubaldo, Atlante Illustrato di Filosofia, voce Umori, Giunti Firenze, 2000; cfr. Walter Bernardi, Fisiologia e Mondo della Vita, in Storia della Scienza, a cura di Paolo Rossi, vol. I Utet /Espresso, 2006, pp. 375 – 377

16 Meravigliosi, IV,57, p. 446

17 C’è una zona della Puglia dove abbondano i falangi, un tipo di ragno che noi chiamiamo tarantola. Chi viene morso da questo ragno, si agita al punto da non riuscire a star fermo e sembra quasi che balli” e ciò dipende dagli influssi delle costellazioni  (a conferma di  ciò che dicono i contadini pugliesi) e la terapia musicale, in questo caso, non serve nulla, il soggetto morso soffrirà finché il ragno sarà in vita. Quindi “dalla proprietà naturale del falangio deriva che tanto l’animale, quanto l’efficacia del suo morso durino lo stesso tempo, perché entrambi sono sostenuti dalla stessa costellazione […]: pertanto muoino insieme”. Insomma per il filosofo mantovano ogni evento può essere compreso il proprio svolgimento, perché condizionato dagli astri, identica cosa accade come nel tarantismo (Pietro Pomponazzi, Il Fato, Il Libero Arbitrio e la Predestinazione, saggio introduttivo, traduz. e note di V. Perrone Compagni, Nino Aragno, Torino, 2004 II, 7, p. 441-445, in Maurizio Cambi, Tommaso Campanella, Il Morso della Tarantola e la Magia Naturale, in Antropologia e Scienze Sociali a Napoli in Età Moderna, a cura di Roberto Mazzola, Aracne Editrice Roma, 2013, p. 16 – 17)

18 Meravigliosi, IV,57, p. 446

19 Meravigliosi, IV, 57, pp. 446 – 447

20 Ivi, p. 447

21 Ivi, pp. 447- 448

22 Ivi, p. 448

23 Ippocrate concepisce la salute come l’equilibrio tra freddo, caldo, asciutto e umido e ai quattro umori corporei, il terzo di questi è flegma che ha a che fare con l’acqua e la sua sede è nella testa, il carattere è malinconico, vale a dire magro, emaciato, debole, scarno, avaro, triste. Lo squilibrio fisiologico avviene quando un agente esterno per ingestione o per caldo o per il freddo o per una malattia altera gli umori. Al medico spetta il compito di ristabilire gli equilibri assecondando la natura. Questa teoria, attraverso Galeno arriva al Rinascimento ed era ancora di moda nel Seicento (Giorgio De Santillana, Le origini del pensiero scientifico, traduz. Giulio de Angelis, Sansoni Firenze, 1966, pp. 140 – 142. cfr. Ludovico Geymonat, Gianni Micheli, Corrado Mangione, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. I Garzanti, 1970, pp. 380 – 381.

24 Meravigliosi, IV, 57, p. 447-488

25 Ibidem

26 Anfiteatro, XXIX,  pp.. 192-193

27 Ivi, XXIII, pp.138-139.

28 Cfr. Pietro De Florio Razionalismo Pre – Illuminsta e La Nascita dell’Uomo in Giulio Cesare Vanini, “Pensiero  Mediterraneo” del 13.11.2022. riv. online https://www.ilpensieromediterraneo.it/razionalismo-pre-illuminista-e-la-nascita-delluomo-in-giulio-cesare-vanini/

29 Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso Contributo a una storia religiosa del sud (1961), presentaz. di Clara Gallini Il Saggiatore, Milano, 2015. E. De Martino, Sud e Magia (1959), Feltrinelli Milano, 1979, pp. 140-144.

30 Cfr. Paolo Pellegrino, Il Ritorno di Dioniso, Il Dio dell’Ebbrezza  nella Storia della Civiltà Occidentale, Congedo Galatina, 2003 pp.109-134,

31  Luca (Atti degli Apostoli 28) racconta durante il viaggio verso Roma l’apostolo Paolo fece naufragio a Malta . Su quell’isola neutralizzò una vipera velenosa tra lo stupore generale di chi gli stava intorno. Da quell’episodio nacque la tradizione popolare legata alla figura del Santo vincitore degli animali velenosi. Leggenda vuole che San Paolo in questo viaggio fece tappa a Galatina durante la sua opera di evangelizzazione, da qui il culto di San Paolo nella città salentina, zona franca per i tarantolati, area, per dirla eufemisticamente, esorcisticamente protetta, benché questa tradizione, come osservano alcuni, risale al secolo XVIII. Nelle tarantate non manca mai l’immaginetta di San Paolo e le relative invocazioni.

32 Meravigliosi,  IV, 57, pp. 432 – 433

33 Cfr. Pierpaolo De Giorgi, L’Estetica della Tarantella, Pizzica, Mito e Ritmo, Congedo Galatina, 2004, pp. 34 e sgg. La musica diviene uno strumento terapeutico e nel rituale del tarantismo, come sostiene il De Martino, sono le tarantate a imporre il ritmo della danza vitale su mondo oscuro e negativo della taranta, così la guarigione può avvenire e la malattia essere sconfitta (Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, (1961) Il Saggiatore Milano, 1968, in P. De Giorgi, op. cit. p. 43)

34 Giuseppe Gigli, Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto (1893), A. Forni Edizioni Bologna, 1970, p. 71

35 E. De Martino, La Terra, cit. p. 172

36 Ivi, 174

37 Gilbert Rouget, Musica e trance. I rapporti tra musica e i fenomeni di possessione traduz. e cura di G. Mongelli, Einaudi, Torino, 1986; Georges Lapassade, Saggio sulla trance, traduz. e cura di G. De Martino, Feltrinelli, Milano 1980; G. Lapassade, Intervista sul tarantismo, Madona Oriente Maglie 1994  in P. De Giorgi, op. cit. p. 37

38 P. De Giorgi, op. cit. p. 39.

Luigi Chiriatti, il più grande erede culturale salentino di Ernesto De Martino

 

di Romualdo Rossetti

Dopo una lunga malattia che ne aveva fiaccato il fisico ma non certo lo spirito, ha terminato la sua avventura terrena giovedì 25 maggio 2023, all’eta di settant’anni, con il coraggio e la serenità che lo ha sempre contraddistinto, Luigi Chiriatti.

Autore, tarantologo di fama nazionale e internazionale, musicista-cantore, fondatore della casa editrice Kurumuny, nonché direttore artistico del festival “Notte della Taranta” del quale dal 2015 era diventato co-direttore artistico insieme al compianto Daniele Durante, deceduto nel giugno 2021.

Già presidente dell’associazione culturale “Ernesto De Martino – Salento” era divenuto anche direttore scientifico dell’Istituto “Diego Carpitella” e dal 2003 al 2009 e nel 2014 e direttore artistico del festival “Canti di Passione”.

Nato a Martano da padre artigiano e madre contadina, saggiò fin dalla più tenera età da entrambi i genitori, dal padre “muratore girovago” la diversità e la complessità culturale del territorio salentino e dalla madre contadina quel complesso sapienziale mitico rituale intriso di magismo. Frequentò con profitto le scuole medie presso il seminario Arcivescovile di Otranto e poi il liceo classico Capece di Maglie, successivamente quello di Lecce. Dopo il diploma s’iscrisse alla facoltà di Filosofia che lo invogliò verso l’indagine etnografica sul territorio salentino nella quale potette approfondire gli studi sui canti alla stisa, sugli scazzamurreddhi o sciacuddhi, sulle opere malefiche delle striare e soprattutto sulle tarantate e i tarantuni.

Kurumuny, il podere dei nonni, dove una variegata umanità di quasi venti anime aveva dato vita ad una colonia culturale e sociale autonoma, si trasformò nel suo punto cardinale tanto che più tardi lo avrebbe scelto come nome per la sua casa editrice. A Kurumuny vivevano le prefiche di Martano e alcuni dei grandi cantori che erano stati contattati dall’antropologia audiovisiva nazionale e internazionale dell’epoca. Vi era anche chi per mestiere incideva le mammelle delle donne afflitte da mastite o operava per slegare i vermi che affliggevano i più piccoli. Fu lì che apprese anche l’arte di raccogliere i funghi, passione che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. A Kurumuny era presente anche sua zia Pascalina che durante i mesi di fine primavera ed estivi suonava un enorme tamburo che serviva tanto a divertire e donare un momento ludico quanto per cercare di alleviare le sofferenze delle donne pizzicate dalle tarante.

Delle tarantate conobbe le storie che le donne gli raccontarono in prima persona e che amplificarono il suo interesse per il misterioso fenomeno coreutico-musicale, soprattutto quando suo padre lo accompagnava a visitare la cappella di San Paolo a Galatina durante la festa dei Santi Pietro e Paolo. Fu partendo proprio da Kurumuny, durante i suoi studi universitari, che cominciò a prendere in considerazione l’idea di approfondire, tramite una ricerca sul campo, la storia del tarantismo salentino del suo tempo, una ricerca che potesse divenire una prosecuzione di quella intrapresa da Ernesto De Martino negli anni ‘60.

Partecipò in prima a due terapie domiciliari molto differenti fra loro: una suonata e una sonante. Una taranta “ballerina” sensibile alle note dell’armonica e una taranta “sorda” in cui la donna si auto-induceva la trance tramite una nenia. Contemporaneamente cominciò a documentare negli anni settanta la giornata delle tarantate a Galatina, luogo di culto per eccellenza delle spose di San Paolo; in un primo momento con una macchina fotografica con obiettivo fisso di 50mm (Ferrania) e successivamente con macchine da presa.

Fu quello il periodo del suo primo incontro con Gigi Stifani, il “dottore delle tarantate”, musico e terapeuta neretino che tramite il suo violino e la sua presenza costante sul territorio aveva curato decine e decine di donne in preda alle problematiche della morsicatura della taranta. Gigi Stifani gli raccontò del fatto che a suo dire le donne risultavano essere più soggette al morso perché avevano nel sangue “una gradazione in meno” rispetto all’uomo. Il neretino gli disse di credere nell’intercessione del santo di Tarso e ai suoi miracoli così come gli confidò di essere consapevole del suo importante ruolo di “guida sciamanica” nel rituale di liberazione dalle afflizioni del tarantismo. Tutte quelle storie, tutti quei racconti, tutte quelle dicerie delle comari del paese unitamente alle teorie dei medici, dei sacerdoti, costituirono il corpus della sua tesi di laurea dibattuta nel 1978 presso l’insegnamento di Sociologia dell’Università di Lecce perché nessuna altra cattedra “filosofica” avrebbe mai accettato una tesi sul tarantismo in quanto considerato ancora, crocianamente parlando, un argomento tabù di scarso interesse culturale, una specie di infimo fenomeno da baraccone non degno di nota. Nel 1977, prima di laurearsi, aveva inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, fondando successivamente diversi gruppi di riproposizione e recupero delle tradizioni musicali popolari come il famoso Canzoniere di terra d’Otranto e Aramirè.

Considerevoli furono le sue ricerche sul tarantismo pugliese vissute pienamente all’interno della più ortodossa interpretazione gramsciano-demartiniana che supportò con altri importanti spunti ermeneutici.

Memorabili rimangono alcune sue opere di antropologia culturale come il saggio “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino”, edito nel 1995 da Capone Editore e successivamente dalle Edizioni Kurumuny, dove presentò la sua inchiesta sul tarantismo in collaborazione con le registe Annabella Miscuglio, Maria Grazia Belmonte, Ronny Daoupulo, ricerca finalizzata alla realizzazione di un documentario dallo stesso titolo uscito nelle sale cinematografiche nel 1981. Nel saggio l’autore si soffermò a raccontare con una scrittura avvincente ma anche molto intima la propria esperienza di libero ricercatore, nato e cresciuto nei luoghi in cui quella cultura ancora si manifestava seppur sempre con minore vigore.

Si offrì, quindi, ai propri lettori in veste di protagonista di una ricerca volta a ritroso nel tempo e costituita da simboli e luoghi “magico-rituali” da lui frequentati e vissuti in gioventù. Altra sua memorabile fatica fu il saggio storico locale Terra Rossa d’Arneo edito da Kurumuny nel 2017 dove indagò l’imponente movimento di lotta per la terra, culminato nelle occupazioni delle terre d’Arneo del ‘49-51.

In quasi cinquant’anni di ricerca sul campo riuscì a realizzare un autorevole archivio di etnomusicologia e tarantismo con più di 1600 documenti di vario genere tra video, interviste, fotografie e materiale sonoro. Numerose sono state le sue collaborazioni culturali che lo portarono a conoscere personaggi di primo piano della ricerca etnologica ed etnografica come Vittoria De Palma, seconda moglie di Ernesto De Martino, della quale raccolse inedite testimonianze di vita.

Lascia la moglie Marisa Palermo, i figli Salvatore, Anna, Giovanni, Francesca, Fabio e Paolo. Al figlio Giovanni e alla nuora Alessandra Avantaggiato e agli alti figli spetta ora l’onere e l’onore di portare avanti le Edizioni Kurumuny nel solco da lui creato.

 

Si hortum in bibliotheca habes, deerit nihil

Marcus Tullius Cicero,  Epistola ad familiares

 

 

Erbe e tarantismo

di Gianfranco Mele

 

Introduzione

Che ruolo hanno avuto le erbe nell’ambito del tarantismo? Oltre ad avere impiego come medicinali da parte dei medici del tempo (molti dei quali e in ogni caso, a seguito della osservazione dei casi, hanno ammesso una superiorità del rituale musicoterapeutico), le vediamo inglobate anche nei contesti rituali, sia come presenze evocative di più antichi scenari naturali all’interno dei quali si svolgevano i riti, sia come strumenti complementari di guarigione. Non solo: nel caso dei cosiddetti cirauli o ceramati o tarantolari erano parte di un rito di tipo magico-medicinale che abbiamo descritto in precedenti occasioni.[1]

Analizzando il complesso dei loro impieghi a partire dai tempi più remoti, nei quali specifiche erbe erano considerate, a causa delle loro proprietà (reali e/o attribuite) strumenti salvifici per la cura degli avvelenamenti da morsi di animali, si può ipotizzare che la presenza nell’ambiente del rito di piante come  la ruta, la menta, il basilico (sebbene nelle forme rituali pervenuteci relegate ad un ruolo ornamentale o, come asserisce il De Martino di “stimolo olfattivo”), possa costituire il retaggio di loro precedenti ruoli più attivi,  e/o la rappresentazione delle virtù loro attribuite sin dalla antichità, ovvero rimedi e antidoti contro i veleni, contro le possessioni, insieme a tutta una serie di credenze magiche connesse al rapporto tra queste piante e gli animali velenosi.

Vi sono poi casi in cui rimedi a base di erbe sono impiegati sia nell’ambito  di rituali medico-magici operati da maghi guaritori, sia da parte di medici settecenteschi e ottocenteschi: ad esempio, i vapori di vino  bollito insieme a rosmarino ed altre erbe  (ruta, salvia etc.) sono utilizzati sia dai cirauli calabresi che dai medici salentini e siciliani.

Le applicazioni immediate di aglio al fine di “non far passare il veleno” sono utilizzate sia dai medici che nella tradizione popolare, mentre vi è  una lunga serie di più o meno complessi rimedi a base di erbe, impiegati esclusivamente nella tradizione medica, come l’ Acqua Vitale o l’ Elettuario Antifalangio utilizzati da Epifanio Ferdinando, la Teriaca o il Mitridazio utilizzati sin dall’antichità per i morsi di animali velenosi e suggeriti anche per la cura del tarantismo, e infine decozioni, tinture e applicazioni varie.

Nel caso mitico e atipico del “tarantismo” di Aracne, le erbe sono addirittura non già rimedio, ma causa della metamorfosi della fanciulla: qui non è un morso, non è il veleno inoculato da un aracnide a costringere il personaggio ad assumere quelle stesse movenze da ragno che assumono le tarantate salentine, ma alcune potenti erbe “infernali” che la dea utilizza per l’incantesimo.

 

La presenza delle erbe nei rituali

E’ nota la presenza di elementi vegetali nell’ambito dei rituali di tarantismo. In genere, a tale presenza sono attribuiti due significati: 1) la ricostruzione all’interno delle mura domestiche di un più antico scenario arboreo (laddove la stanza in cui si svolge il rito viene adornata di fronde, rami verdeggianti, pampini di vite); 2) l’impiego di erbe specificamente aromatiche come “stimolo olfattivo” (su questo aspetto abbiamo pochissima, benchè significativa documentazione).

Tuttavia, laddove si fa riferimento agli stimoli olfattivi la questione pare liquidata in termini di un generico sollievo offerto dal piacevole odore delle piante, trascurando approfondimenti in merito alle loro proprietà specifiche e ad antichi e tradizionali impieghi di quelle piante nella cura dei morsi di aracnidi ed altri animali presenti nella simbologia del tarantismo.

Non sfugge al De Martino la presenza di tali piante aromatiche nel rito, ed è proprio lui ad ipotizzarne l’impiego a fini di stimolo olfattivo.

Nel De Martino, la questione della ricostruzione dello scenario arboreo è ben distinta dalle osservazioni rispetto alla presenza di determinate piante aromatiche. Se difatti pampini di vite, fronde e rami di piante varie hanno un fine più che altro ornamentale e al tempo stesso rievocativo di un rito svoltosi più anticamente all’aperto, alle cosiddette piante aromatiche sembra assegnato un ruolo (benchè secondario) più immediatamente terapeutico.

Il  De Martino riprende un passo della Caggiano, la quale nel 1931 aveva  osservato il rito svolgersi così nelle campagne di Taranto:

“tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [2]

Le erbe aromatiche utilizzate nel rito osservato dalla Caggiano dunque sono: basilico, cedrina, menta, ruta, e vedremo più avanti, nei dettagli, cosa hanno in comune tali piante. Nel commentare il su riportato passo, il De Martino scrive:

“ I vasi di basilico, di cedrina, di menta e di ruta erano impiegati durante l’esorcismo come stimolo olfattivo: la tarantata di tanto in tanto odorava queste piante aromatiche allo stesso modo come contemplava i colori dei drappi o dei nastri, o si accostava a questo o quello strumento per entrare con esso in particolare rapporto. In altri termini l’evocazione non si compiva soltanto attraverso suoni e colori, ma anche gli aromi potevano avere la loro parte, per quanto relativamente minore, almeno a giudicare dal fatto che questo particolare del rito non trova altri riscontri nella documentazione diacronica”.[3]

Passiamo ora perciò ad approfondire il legame di queste erbe citate nel passo della Caggiano, con il tarantismo, con la sintomatologia a questo attribuita, e con le cure in genere dei morsi degli animali velenosi.

Basilico (Ocimum basilicum)

 

Basilico, tarantole e scorpioni

La presenza del basilico nel rituale del tarantismo è descritta anche in un recente testo di Mario Salvi, che riporta una ricerca effettuata su Villa Castelli:

“La cura per guarire  dagli effetti del morso di scorpioni, serpenti ecc. (dal dialetto: “sfogare la malinconia”) prevedeva l’intervento di musicisti e cantori che eseguivano uno specifico tipo di pizzica, detta tarantella, in cui le parti in minore (sonata a “malinconica”) si alternavano a quelle in maggiore, riprese dalla pizzica pizzica.

 La signora Lucia De Marco (97 anni) madre del cantore Vito Nigro, ricorda che negli anni della prima guerra mondiale quando si dovevano curare le tarantate, di solito donne il cui marito era al fronte, venivano chiamati suonatori di Francavilla Fontana. Si trattava di un trio costituito da violino, chitarra e tamburello, quest’ultimo suonato da una donna.

La cura della “malinconia” si svolgeva nella casa dell’ammalata, di solito nell’ambiente più grande, che spesso fungeva anche da camera da letto. A terra era posto un vaso di basilico e, al centro della stanza, un oggetto che ricordava nella forma l’animale che aveva morso o spaventato la tarantata.

La terapia musicale durava spesso più di un giorno e in tal caso i musicisti si trattenevano nella casa finchè la tarantata non aveva “sfogato”. [4]

Il basilico, che come abbiamo visto è presente sia nelle osservazioni della Caggiano che in quelle del Salvi, ha un ruolo particolare e una lunga tradizione come erba magica e medicinale. Nel Medioevo  era usato per cacciare i diavoli dagli invasati; si pensava inoltre che  guarisse dalla melanconia, e per questo vi era l’antico detto “mentis nubila pellit” (caccia l’oscurità della mente).

Per Dioscoride il basilico ha numerose proprietà e impieghi medicinali, da diuretico ad antiinfiammatorio, e ha la particolarità di essere utile rimedio alle punture degli scorpioni (“dissero gli Arabi, che essendo trafitti dagli scorpioni coloro, che quel giorno han mangiato basilico, non sentono dolore alcuno”)[5]. Vi era però anche una credenza opposta: ovvero, secondo Plinio ad esempio, “non puo guarire, avendo quel giorno mangiato basilico, chi sia stato trafitto dagli scorpioni[6].

Si era attribuito a questa pianta persino il potere di generare scorpioni e vermi:  “dissero alcuni,che mettendosi   trito sotto una pietra ne nascono gli scorpioni: o che masticato,e posto al sole se ne generano alcuni vermi.[7] Una variante di questa credenza è nella tradizione popolare siciliana, laddove si crede che gli scorpioni possano nascere da foglie di basilico messe sotto un recipiente colmo d’acqua.

Nicholas Culpeper, medico e botanico inglese del XVII secolo, nel suo trattato  Complete Herbal (1653) cita il medico francese Antoine Mizauld (1510-1578) che riporta la credenza  secondo cui il basilico messo nello sterco di cavallo genererebbe bestie velenose, e un certo Hilarious che raccontava della credenza diffusa secondo cui odorare troppo il basilico faceva nascere scorpioni nel cervello.[8]

Euscorpius italicus

 

L’ “erba cedrina”

La cedrina citata dalla Caggiano è di difficile identificazione poiché questo nome volgare è attribuito sia alla Lippia citriodora che alla Melissa officinalis. Alla lippia sono attribuite proprietà antinfiammatorie, sedative ed antispasmodiche. Melissa officinalis ha proprietà sedative ed antispastiche, e in medicina popolare veniva utilizzata per il trattamento di isteria e stati d’ansia. Inoltre, come vedremo più avanti, la melissa ha avuto impiego nella cura di morsi di animali velenosi fin dai tempi della medicina antica, ed è citata anche nel trattato Centum historiae di Epifanio Ferdinando, il medico mesagnese del XVII secolo che si occupò di tarantismo.

Lippia citriodora

 

Menta e animali velenosi

La menta è citata nel Dioscoride del Mattioli anch’essa come erba specifica contro i morsi degli animali velenosi, ed ha addirittura il potere di metterli in fuga: “scaccia tutta la pianta sparsa per terra i serpenti”.[9] Il Mattioli riferisce di proprietà ed usi comuni di varie piante della tribù delle Mentheae e quindi troviamo ad esempio che la calamintha “bevuta, ovvero impiastrata soccorre a i morsi delle velenose serpi”[10]   e usata con vino “vale contra a veleni”[11], così come la Mentha pulegium “soccorre con vino a i morsi di numerosi animali”.[12] In medicina popolare, la menta e la mentuccia sono sempre state utilizzate a tali scopi. Nella tradizione salentina, oltre a credere che la pianta potesse far fuggire i serpenti, la si utilizzava anche come rimedio contro i veleni (sia l’infuso che la masticazione delle foglie). La mentuccia ha avuto impiego specifico come rimedio per coloro che venivano morsi dallo scorpione. Epifanio Ferdinando cita la calamintha come rimedio contro tutti i veleni[13],  e la menta puleggio è citata come farmaco complementare nella descrizione di in un caso ottocentesco di tarantismo osservato dal medico calabrese Gaetano Spizzirri: in questo frangente la cura non era stata realizzata dal medico ma dai cirauli o ciraulari calabresi e lo Spizzirri era semplicemente testimone oculare dell’accadimento. Più avanti (nel paragrafo dedicato alla ruta), vediamo ancora come la menta puleggio sia citata anche dal Marciano.

Menta

 

La Ruta: da “herba de fuga demonis” a rimedio contro i morsi

L’ultima delle erbe citata dalla Caggiano è la ruta, una pianta utilizzata sin dai tempi più antichi come antidoto contro gli effetti dei morsi di animali velenosi.  Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con  vino “in dose di un acetabolo”[14]; applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:

“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]

Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]

Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una  “Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]  Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca, che: “della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]

Ruta graveolens

 

Teriaca e Mitridazio[19], antichi farmaci contenenti entrambi la ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[20], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. o inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[21]

Anche Achille Vergari, medico di Nardò, nella sua opera “Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose” (1859) indica teriaca e mitridazio come antico rimedio, e rende noto che in alcuni luoghi “si usano ancora con successo i sughi di aglio, di cipolla, di ruta, di rovi, tanto localmente che internamente[22] e infine ricorda che “Celso per le punture delle tarantole e degli scorpioni prescriveva  l’applicazione dell’aglio con la ruta pesti e mescolati con l’olio”. [23]

Salvatore Pezzella, in una sua ricerca su antichi ricettari dell’Italia centrale, descrive la pratica del porre la ruta verde sulla parte interessata dal morso di tarantole o serpi.[24]

Ancora, sono menzionate ruta, menta (puleggio) ed altre erbe per la cura del tarantismo nel Marciano:

“Si sogliono anco curare i tarantati, come dice il Mattioli, con dar loro a bere la teriaca, il mitridato, ed altri diversi antidoti contro il veleno, e col fregar sopra la morsura  l’aglio scarnificarla e suggerla, fomentandola prima col vino tiepido, o caldo, ove siano stati decotti prima la ruta, l’origano, il dittamo, il puleggio, il serpillo e simili”.[25]

Nel rinascimento la ruta era considerata Herba de fuga demonis[26] la qual credenza ha origini antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni.

In medicina popolare la ruta era utilizzata anche per la sua azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di  “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente”.[27]

Si può comprendere dunque come, a causa di questa mescolanza di credenze ed effettive proprietà, la pianta potesse godere di particolare considerazione anche nell’ambito delle cure per il tarantismo.

 

Altre testimonianze: malva e altre erbe

Un’altra testimonianza sulla presenza di erbe, è raccontata da Sergio Torsello e Vincenzo Santoro che riportano il caso di Nena, la tarantata 76enne di Alessano che utilizzava una malvacea (molto probabilmente Malva sylvestris):

La sua odissea, o meglio, il suo stato di agitazione “senza orizzonte”, cominciava qualche giorno prima del 29 giugno, la festa di S. Paolo, il solo capace di scendere a patti col ragno, lui che aveva dominato la vipera biblica, e poteva liberarla dal “rimorso” del ragno che opprime col suo mitico rigurgito. Girava di casa in casa, Nena, ad amici e parenti chiedeva i “fiureddhi”, una specie di malva spontanea dal forte potere sedativo, la sola cosa che riuscisse a regalarle qualche sollievo. Poi tornava a casa, si chiudeva in una stanza e cominciava a ballare.[28]

In effetti la malva, oltre ad essere considerata pianta medicinale utile ad ogni malattia (“la malva da ogni male salva”), ha avuto, sin dai tempi del Dioscoride, fama di pianta che cura gli avvelenamenti causati dai morsi dei ragni:

“Giova la decozione della malva fatta insieme con le sue radici bevendola a tutti i veleni mortiferi: ma bisogna che coloro che la bevono, continuamente la vomitino. Vale medesimamente ai morsi de i ragni, che chiamano phalangi…” [29]

Malva sylvestris

 

L’amica Sandra Taveri  mi riferisce della presenza ornamentale di violaciocca a Ceglie e di gelsomino a Cisternino in alcuni riti di tarantismo. Anche qui, c’è da ricordare che in passato l’infuso di fiori di violaciocca mescolato al vino è stato utilizzato come antidoto per i morsi di animali velenosi, mentre il gelsomino ha avuto utilizzi come analgesico e antispasmodico.

Infine, nell’opera del De Martino è riportato il caso di Michele di Nardò, giovane pescatore di 18 anni, che suole annusare non meglio specificati “fiori di campo” alla ricerca di un sollievo o nel tentativo, come dice il De Martino, di “ottenere dall’olfatto quello stimolo che non veniva dall’udito o dalla vista”.[30] Il tentativo di autocura da parte del giovane di Nardò è citato anche  in altro passo della ricerca del De Martino, quello in cui riferisce delle osservazioni della Caggiano nelle campagne di Taranto. Dopo aver citato lo scenario rituale con presenza di erbe descritto dalla Caggiano, lo studioso ricorda e correla a questo il caso di Michele, il quale “durante l’esorcismo musicale occasionalmente odorava dei fiori di campo, proprio come se cercasse di trarre degli stimoli olfattivi quanto non riusciva ad ottenere da quelli sonori e cromatici”.[31]

 

Tra magia e medicina

Vedremo dettagliatamente più avanti, anche se ne abbiamo già fatto diversi cenni, come nell’ambito delle cure mediche (sia quelle specifiche del tarantismo che quelle  rivolte più in generale ai morsi di animali velenosi) vengano utilizzate le stesse erbe (ed altre, dalle analoghe proprietà) che abbiamo visto esser presenti (secondo alcune testimonianze) nei rituali del tarantismo. La differenza fondamentale sta però nel fatto che mentre nel caso del rituale costituiscono una mera presenza (una sorta di complemento d’arredo dal De Martino individuato come finalizzato a funzionare come stimolo olfattivo), nel caso delle cure mediche le piante vengono ingerite sotto forma di preparati o utilizzate, dopo decozione e miste a vino, per bagni e vapori. A tale proposito, si potrebbe già osservare che in ambito magico-popolare sono ritenuti sufficienti  la semplice presenza o il possesso di una pianta perchè essa infonda le sue proprietà (vi sono numerosi esempi in ambito etnografico che evidenziano questo aspetto: ad esempio una pianta ritenuta afrodisiaca “funziona” come tale non solo se ingerita, ma anche se portata addosso o lanciata verso la persona che si intende ammaliare). C’è  però un caso  significativo di commistione della sfera del magico con quella  medica: si tratta di un episodio al quale già abbiamo accennato nel paragrafo dedicato alla menta. Nel 1827 sulla rivista  “L’Osservatore Medico” appare un articolo firmato da Samuele Spizzirri, allievo in medicina e nipote del medico calabrese Gaetano Spizzirri. Il giovane Samuele rendiconta dettagliatamente  intorno ad un caso osservato da suo zio: nel luglio del 1826 un giovane di Marano (prov. Di Cosenza) viene morsicato da ben due tarantole mentre lavora nei campi. Segue, nella narrazione, la descrizione di una serie di sintomi conseguenti il morso, tra i quali un continuo “tremore convulsivo” che spingeva l’infermo a danzare.  Vano è l’intervento di un chirurgo che applica nella parte colpita (l’avambraccio sinistro) “un bottone rovente” : a quel punto, il padre del ragazzo manda a cercare un ciraularo[32] il quale, dopo aver pronunciato dinnanzi al malato i suoi segreti carmi, interviene con medicamenti a base di erbe (il medico che assiste all’intervento riconosce unicamente, tra queste, il Rosmarino). Il giovane guarisce in tre giorni, e come medicinali oltre al bagno di vapori di vino ed erbe prende, da prescrizione, un succo di menta puleggio:

 “Il padre del paziente avendo una cieca fiducia in taluni cerretani di Mendicino, conosciuti col nome di Ciraulari, mandò tosto a cercare il più perito, il quale non appena giunto pronunciò i suoi superstiziosi carmi; applicò con la man dritta, dapprima sulla coscia sinistra, e quindi sulla dritta, e quasicchè tocco dalla mano di Medea, cessa come per incantesimo nel paziente il tremore, da prima nel sinistro, e quindi nel dritto lato; risultamento, che noi lasciamo alla considerazione del lettore per decidere, se debba o no attribuirsi alla morale influenza. Ciò ch’è certo però è che il villano Esculapio avendo fatto prendere al suo infermo, precedentemente coperto con mantello di lana, un bagno dei vapori di vino, dentro del quale avea fatto bollire, in vase di rame, le sue eroiche erbe, tra le quali noi potemmo distinguere il rosmarino, l’infermo al terzo giorno si ritrovò guarito, senza aver preso internamente altro rimedio che un bicchiere di succo di puleggio che gli defaticò lo stomaco”.[33]  

Lo Spizzirri prosegue citando poi brevemente un altro caso, quello di un quarantenne sempre di Marano, morso anche lui dalla tarantola. L’uomo viene guarito dallo stesso “cerretano” o “ciraularo” nel giro di tre giorni e con lo stesso metodo.

Samuele Spizzirri in una nota conclusiva ipotizza che il principale ingrediente del bagno di vapori nel quale sono state decotte varie erbe medicinali sia l’ Acanthus mollis. L’ acanto ha avuto in effetti utilizzo come lenitivo per eritemi e punture di insetti, e inoltre era considerato in antichità una pianta de fuga demonis come la Ruta. Tuttavia quella dello Spizzirri resta una ipotesi dal momento che nel composto di erbe suo zio riesce a riconoscere unicamente il rosmarino. Peraltro, vi sono numerose piante (come vediamo anche dalle varie citazioni inserite in questo lavoro) utilizzate nel corso della storia sia propriamente medica che magico-medicinale come rimedio specifico ai morsi di animali velenosi, altre utilizzate per ottenere sudorazioni, oppure ancora con duplice funzione. Descriveremo più avanti una caso analogo, in cui un tarantolato viene trattato, in Sicilia, con inalazione di vapori caldi di vino in cui son stati bolliti rosmarino, ruta, salvia ed altre erbe, ma questa volta il terapeuta è un vero e proprio medico.

 

Medicina, erbe e tarantismo

In conclusione, le testimonianze rispetto alla presenza di questa tipologia di erbe nell’ambito dei rituali del tarantismo sono troppo poche per poter affermare con certezza che fossero là presenti per le loro qualità di agenti anti-veleniferi e/o per altre loro proprietà (reali o attribuite) medicinali o magico-medicinali quali quelle che abbiamo sin qui riportato. Si può però ipotizzare che la loro presenza derivi da un più antico e definito ruolo (del quale via via la presenza stessa è rimasta a livello meramente simbolico o come debole retaggio di un impiego più attivo e concreto). In tal caso, il divario tra elementi tipici del rito e rimedi medici sarebbe meno eclatante di quanto si sia sempre creduto. Difatti, si tratta delle stesse erbe indicate sia nella medicina popolare che nella letteratura medica di ogni tempo (dall’antichità sino all’ Ottocento) come specifiche per la cura di morsi di tarantole, scorpioni, serpenti e animali velenosi in genere. Cè un passo del Mattioli  significativo al proposito:

“Imperochè il lungo suono e il lungo ballare provocando il sudore gagliardamente vince al fine la malitia del veleno di questi animali: come che in quel mezo, che si suona, si gli dia delle theriaca, del mithridato, e dell’altre cose, che universalmente valgono ai morsi delle serpi, e degli aspidi”.[34]

Ancora più significativi, i casi dei tarantolati calabresi descritti da Samuele Spizzirri che abbiamo riportato di sopra: là, una mistura di erbe decotte son parte di un bagno a base di vapori di vino che il ciraularo somministra ai suoi pazienti, nell’ambito di un rituale di tipo medico-magico nel quale hanno una parte essenziale anche carmi e manipolazioni.

Epifanio Ferdinando, nel capitolo dedicato alle cure del morso della tarantola del suo Centum Historiae, cita, oltre ai composti (teriaca, mitridazio) diverse erbe come efficaci contro i veleni: l’ “herba Anchusa” (una Borraginacea), la mentuccia (o calamintha), il timo serpillo, l’ artemisia, il camedrio, il rafano, il nasturzio, l’aglio per uso esterno.[35]  

Epifanio elenca anche una serie di rimedi provenienti dall’antica medicina, quali i semi di Pastinaca già indicati dal Dioscoride, il decotto di melissa, l’impiastro di foglie di origano e l’origano in polvere bevuto nel vino, il decotto di centaurea minore assai consigliato da Galeno, la nigella bevuta con vino, l’ aristolochia con vino, il succo di foglie di gelso,  il cumino, i semi di agnocasto, il succo di piantaggine già raccomandato da Plinio come rimedio contro morsi e veleni, l’ elettuario di Albucasi (ruta, mnta, piretro, assafetida), gli asparagi cotti nel vino, l’olio di assenzio (Artemisia absinthium) per uso esterno, l’ essenza di rosmarino.[36]

Uno dei medicamenti a base di erbe prescelti da Epifanio è la sua Acqua Vitale. Tale acqua nasce dalla distillazione di una serie di elementi vegetali: fiori di citrus, foglie di quercia, cardo benedetto, scabiosa, acetosella, sonco, salvia, maggiorana, fiori di lavanda, assenzio, rosmarino, tussilagine, melissa, pimpinella, borragine, lentisco, ruta, cipero, alloro, ginepro, corteccia di citrus, tormentilla, curcuma, cinnamomo.[37]

Altro rimedio straordinario per Epifanio è l’ Elettuario Antifalangio, così composto:

“Prendi un’oncia di frutti di mirto e tamarice; semi di pastinaca, nigella, agnocasto, dauco, anice, cumino e origano una dramma; terra sigillata e bolo armeno orientale due dramme di ciascuno; centaurea minore, aristolochia rotonda, mezza dramma di ciascuna; foglie di melissa, trifoglio bituminoso, camepizio e abrotano mezzo pugno di ciascuno; teriaca ottima e mitridato due dramme di ciascuno; succo di cipolla, di aglio, di piantaggine, di atrepici e di edera depurati, quanto basta in parti uguali: si ottenga uno sciroppo col miele. Con questi ingredienti si faccia un elettuario, aggiungendo acquavite quanto basta”.[38]

Ritratto di Epifanio Ferdinando

 

Non mancano nella trattazione di Epifanio altri consigli e rimedi di carattere non vegetale, come lo sterco di capra applicato sulle morsicature, i lavaggi delle ferite con acqua marina calda, l’induzione con vari mezzi di sudorazione abbondante, il pane masticato applicato sulla morsicatura, il falangio ridotto in polvere e bevuto con vino, il cervello di gallina con pepe, la cantaride (Lytta vesicatoria) nel suo ruolo di “veleno che agisce contro il veleno”, i bagni di sabbia calda o di cenere calda, il bagno in acqua di mare. Epifanio conclude che tutte queste terapie sin qui descritte sono sicuramente efficaci per espellere il veleno della tarantola, ma in Puglia il rimedio più utilizzato ed efficace è quello della musica (come altri medici dei suoi tempi, Epifanio ammette che la “terapia” funziona ma le attribuisce una spiegazione razionale: la musica serve ad espellere il veleno tramite il sudore “con tanto scuotimento del corpo, le forze assopite del veleno, messe al sicuro e tranquille, vengono rimosse e cacciate fuori dal sudore”).[39]

Centum historiae  di Epifanio Ferdinando

 

A proposito delle ulteriori “tecniche” suggerite da Epifanio a base di acqua marina, acqua calda e balneazioni, non possiamo non ricordare il ruolo che tali rimedi hanno avuto sia nella medicina antica che nella specifica tradizione del tarantismo. Come già abbiamo evidenziato in altra occasione, la presenza dell’elemento acqua nel rituale di cura è una costante che, se tardivamente si manifesta con la presenza di bacinelle e tinozze piene d’acqua nell’ambiente del rituale domiciliare, presenza interpretata dal De Martino come mera rievocazione di un più antico “scenario acquatico”, suggerisce in realtà un continuum con forme più antiche di cura a base di balneazioni.[40]  Allo stesso modo, può essere che la presenza delle “erbe aromatiche” negli ambienti domiciliari in cui si svolgeva il rituale musicoterapeutico fosse l’eco di un ruolo o di una compresenza più attiva di determinate piante nell’ambito della cura medico-magica popolare.

Tornando alle cure mediche del tarantismo, come diversi suoi colleghi anche il Baglivi riferisce in merito alla azione del Rosmarino attraverso diverse ricette (spirito rosmarinato di vino, essenza distillata di rosmarino assunta assieme all’acqua teriacale); cita inoltre come efficaci rimedi la corteccia di limone, l’issopo, la melissa.[41]

Abbiamo già riferito dei rimedi a base di ruta ed altre erbe suggeriti dal Vergari. Ancora, il Vergari elenca applicazioni di tinture aromatiche, [42] e inoltre, dopo aver suggerito cataplasmi emollienti per i pazienti, al fine di medicare la parte ferita, consiglia:

“Dopo curata la parte, i morsicati si facciano stare in letto, facendo lor prendere  decozioni diaforetiche, di rosmarino, di foglie d’aranci, di melissa, d’issopo, di serpillo, di edera, di salvia, di ruta, di fiori di viole, di tiglio, di sambuco ec. Con gocce d’ammoniaca liquida. Taluni hanno usato con successo il vino poderoso, e l’alcoole, soli o con teriaca o con polvere di roccasecca” [43]

Vediamo qui nel testo del Vergari comparire anche l’edera, e in una nota a margine il medico neretino specifica che secondo Eliano “I cervi morsicati dalle tarantole velenose trovano il di loro rimedio nell’edera”.

Il Vergari continua elencando una serie di altri rimedi tra cui i bagni d’acqua calda, e le cure segrete dei cosiddetti “Tarantolari, Ciarauli, Benedetti di S. Paolo ecc”. [44]

In una successiva lunghissima nota a margine, infine, il Vergari elenca una serie di antichi rimedi in disuso “per l’avvelenamento de’ falangi”: ne ritroviamo moltissimi, con varie combinazioni di erbe già elencate in questo scritto, e altri che ricomprendono singolari preparazioni nelle quali son presenti anche solanacee tropaniche, papavero da oppio, cicuta ( un antidoto fatto di succo di papavero, pepe, mirto e altri ingredienti con aggiunta di vino,  un altro in cui insieme al papavero e varie erbe è presente anche la radice di mandragora, l’antidoto di Eraclide di Taranto in cui si ritrovano succo di cicuta, altea, pepe, mirto ed altre erbe, un antidoto fatto di vino e datura, e vari altri).

Il medico siciliano Giovanni Meli (1740-1815) cura il caso di un sacerdote morso dal ragno provocando la sudorazione del malato attraverso l’inalazione di vapori ottenuti facendo bollire “un mezzo barile di vino unitamente allo rosmarino, alla salvia, alla ruta, alle fronde di frassino, alla radice di genziana, allo scordio, all’abrotano e ad altre erbe amaricanti”. [45]

Paolo Boccone (1633-1704) nella sua trattazione giudica molto efficaci i rimedi proposti dal Baglivi e li ricapitola, dopo aver evidenziato come a suo parere, se si opera un intervento tempestivo con aglio pesto sulla parte offesa, il veleno “non passa più oltre”, e la persona morsicata “non patisce alcuno impulso al ballo, perchè non è seguita alcuna fermentazione”.[46] Il Boccone indica questo rimedio come empirico e tradizionale, provato dall’esperienza degli abitanti di Brindisi che solgono utilizzare tale  intervento, insieme all’uccisione, ove possibile, del ragno per esser sicuri di non patire ciclicamente il ritorno dell’esperienza del male.

 

Le erbe come agente eziologico nel “tarantismo” di Aracne

Concludo questa rassegna sul ruolo e la presenza delle erbe nel tarantismo con la citazione di un mito spesso rievocato quando si va alla ricerca delle origini della credenza e del rito o di collegamenti  tra questi ultimi e tradizioni antiche. Nel ricollegare il fenomeno popolare al mito di Aracne, in genere non si presta molta attenzione ad un particolare: come Athena trasforma Aracne in ragno. Ecco il passo, tratto da Le Metamorfosi di Ovidio, che ci interessa:

“… nell’atto d’andarsene, la cosparse di succhi d’erba infernali, e subito, a contatto col malefico  filtro, le caddero i capelli e con essi il naso e le orecchie; la testa si fa minuscola ed è piccolo anche il corpo, tutto quanto; sui fianchi sottili zampe al posto di gambe spuntano; il resto lo occupa il  ventre, da cui quella emette un filo e, ormai ragno, tesse la tela come faceva”.[47]

Athena non si serve dunque di un ragno e del suo veleno per compire il suo incantesimo (procedimento pure utilizzato in ambito magico e descritto dal Della Porta nella sua Magia Naturalis[48]), né di astratti o mistici poteri: utilizza uno strumento naturale, quelle erbe infernali in grado di provocare alterazioni psicomotorie in chi le assume, assai ricorrenti in ambito stregonesco.

Nel caso del mito di Aracne siamo dunque in presenza di un tarantismo “atipico”: l’agente eziologico non è il veleno del ragno, ma quello contenuto in alcune erbe. Esiste difatti una serie di piante utilizzata in ambito stregonesco per incantesimi finalizzati alla trasformazione di uomini e donne in animali. Tali piante sono identificabili in alcune Solanacee tropaniche che provocano effetti allucinatori e delirogeni (ma su questo argomento mi soffermerò nei dettagli in un prossimo articolo).

 

Note

[1]    Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud in La Voce di Maruggio, 2 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/cirauli-sanpaolari-i-maghi-serpentari-del-sud.html  vedi anche Gianfranco Mele, Il tarantismo e i “cirauli” calabresi. Due casi riportati su L’Osservatore Medico nel 1827, La Voce di Maruggio, 12 ottobre 2021 https://www.lavocedimaruggio.it/wp/il-tarantismo-e-i-cirauli-calabresi-due-casi-riportati-su-losservatore-medico-nel-1827.html

[2]    Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72

[3]    Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Net Nuove Edizioni Tascabili, 2002, pag. 131 (1a edizione Il Saggiartre, Milano, 1961). Come vedremo più avanti, il De Martino cita anche un altro caso nel quale un tarantato (Michele di Nardò) cerca di trarre sollievo da alcuni non meglio identificati “fiori di campo”.

[4]    Mario Salvi, Domenico Caramia,  La pizzica nascosta. L’organetto nella musica e nei canti tradizionali di Villa Castelli, Edizioni Kurummuny, LE, 2010, pag. 25

[5]    Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride,  Pezzana, Venezia, 1744, pag. 332

[6]    Ibidem

[7]    Pietro Andrea Mattioli, op. cit., pag. 333

[8]    Nicholas Culpeper, The complete herbal, 1653 (ried. Milner & Sowerby, 1858, pag. 47)

[9]    Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride, Venezia, Valgrifi, 1555, pag. 359

[10]  Ibidem

[11]  Ibidem

[12]  Pietro Andrea Mattioli, op.cit., pag. 353

[13]  Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264

[14]  recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068

[15]  Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133

[16]  Alfredo Cattabiani, op. cit.,  pag. 231

[17]  Cesare Ripa, op. cit.,  pag. 147

[18]  Cesare Ripa op. cit.,  pag. 148

[19]  Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi

[20]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in:  Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105

[21]  A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57

[22]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, Stamperia Società Filomatica, 1839, pag. 32

[23]  Ibidem

[24]  Salvatore Pezzella, Fitoterapia e medicina tra passato e presente: alcuni ricettari dell’Italia centrale, secc. XV-XVII, svelano i segreti delle piante curative, Orion Edizioni, 1997, pag.159

[25]  Girolamo Marciano, Descrizione, origini e successi della Provincia d’Otranto, Napoli, Stamperia dell’Iride, 1855, pag. 182

[26]  Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230

[27]          Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117

[28]  Sergio Torsello, Storia di Nena la tarantata, Pietre, marzo 1999, pag. 8

[29]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi ne i sei libri della materia medicinale di P. Dioscoride,  Pezzana, Venezia, 1744, pag. 297

[30]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 81

[31]  Ibidem, pag. 131

[32]  I ciraulari (o cirauli, cerauli, ceravoli) sono ( in Calabria e Sicilia)  una sorta di maghi-guaritori-incantatori specializzati nel curare dal morso di serpenti o domare serpenti e scorpioni. Si veda al proposito Gianfranco Mele, Cirauli, sanpaolari:i maghi serpentari del sud, cit.

[33]  Samuele Spizzirri, Osservazioni sul morso della tarantola, del sig. Gaetano Spizzirri, Medico in Marano, in L’ Osservatore Medico, Giornale di Medicina e delle Scienze Affini, Anno V n. XIX, 1 ottobre 1827, pp. 145-146

[34]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo, Valgrifi, Venezia, 1568, pag. 385

[35]  Epifanio Ferdinando, Centum historiae, seu observationes et casus medici, Venezia, 1621, pag. 264

[36]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 265

[37]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 161

[38]  Eipifanio Ferdinando, op. cit., pag. 266

[39]  Epifanio Ferdinando, op. cit., pag. 268

[40]  Gianfranco Mele, Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua, Fondazione Terra d’Otranto, novembre 2019 https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/25/antiche-cure-e-rituali-del-tarantismo-presso-il-mare-le-sorgenti-e-i-corsi-dacqua/

[41]  Traggo il passo del Baglivi cui mi riferisco, dal testo di Arturo Viglione Il Tarantismo, studio clinico della malattia che per secoli aveva sconfitto i Medici, Pacini Editore, Pisa, 2012, pag. 200

[42]  Achille Vergari, op. cit., pag. 32

[43]  Achille Vergari, op. cit., pag. 33

[44]  Achille Vergari, pp. 34-36

[45]  Giovanni Meli, Capitolo di lettera in cui si descrivono gli effetti estraordinari del veleno d’un Ragnatello, in A.M. Spadafora, “Opuscoli di autori siciliani”, t. XII, Stamperia de’ Santi Apostoli, Palermo, 1771

[46]  Paolo Boccone, Intorno la  tarantola della Puglia, in Museo di fisica e di esperienze variato, e decorato di osservazioni naturali, note medicinali, e ragionamenti secondo i princìpi de’ moderni, Venezia, 1621

[47]  Ovidio,  Metamorfosi, IV, vv. 129 – 140

[48]  Giovanni Battista Della Porta, La Magia Naturale, Giunti Demetra Ed., 2008, pag. 158, titolo ed edizione originale Magia Naturalis, sive de miraculis rerum naturalium, libri XX, Napoli, 1859

Antiche cure e rituali del tarantismo presso il mare, le sorgenti e i corsi d’acqua


 

di Gianfranco Mele

Oggi l’immagine più popolare del tarantismo è quella del ballo al chiuso delle mura domestiche, essendo stata una delle due forme rituali più recenti (l’altra, come noto, instauratasi in una fase successiva, è quella del pellegrinaggio nella chiesa galatinese dedicata a S. Paolo, che giunge anche a sostituire del tutto il rituale musicale domiciliare). Ma non sempre è stato così: forme più antiche son descritte da vari autori del passato e hanno come scenario a volte le strade e i crocevia, altre volte, e ancor più anticamente, ambienti arborei e/o acquatici. Come vedremo, il rituale domiciliare ha poi conservato questi elementi introducendoli (sia pur in modo rimaneggiato) all’interno delle mura domestiche. In “La terra del rimorso”, nella parte della trattazione dedicata agli scenari e all’ambientazione del rito, il De Martino ha ampiamente descritto questi aspetti. In questo scritto ripercorreremo e descriveremo in particolare gli scenari legati all’ambiente acquatico (e ai suoi “surrogati” domiciliari) cercando, per quanto possibile, di risalire ai significati e alle motivazioni del rito in acqua o con la presenza dell’elemento acqua.

E’ lo stesso De Martino, a riferirci che lo studioso orietano Quinto Mario Corrado, nel suo De copia latini sermonis (1581) ricorda come i tarantati “ad aquam, ad fontes, ad ramum viridem, ad umbras, ad amaena omnia rapiuntur[1]

Sempre il De Martino, ci fa notare che

“Atanasio Kircher […] attesta che nel luogo destinato alla danza venivano spesso collocate conche colme d’acqua, addobbate con erbe e rami verdeggianti: e dall’acqua e dalle fronde i tarantati traevano grandissimo diletto, sino al punto di tuffarsi nella conca, e di guazzarvi a mò di anitre”[2]

 

Epifanio Ferdinando nel 1621 riferisce una serie di comportamenti dei tarantati, fra cui quelli di “giovani donne che si buttano nei pozzi” e di altri che “si lanciano in mare”;[3] i tarantati sembrano trovare conforto alla vista del mare e dell’acqua, traggono giovamento dall’immergervisi, manifestano desiderio ardente di bagnarsi nel mare, e gioia al solo sentir parlare di mare o di acqua. Epifanio si dà una spiegazione di questo comportamento, sostenendo che

il veleno della tarantola non agisce esso solo in tutto e per tutto, ma essendo la sua costituzione secca, [i tarantati] amano quello che è opposto al secco, cioè l’acqua. Infatti nei tarantati l’immaginazione non è alterata a tal punto, come in quelli che sono stati morsi da un cane rabbioso, i quali hanno l’idrofobia e perciò, rabbiosi, rifiutano quel rimedio che a loro potrebbe giovare[4] 

 

Ma, altra cosa importante, Epifanio è a conoscenza del fatto che già secondo Dioscoride l’acqua del mare sana le persone morse dai ragni (e lo cita), così come cita   il medico persiano Rasis (854-930) il quale raccomanda l’immersione in acqua del mare per le persone avvelenate dai ragni.[5]

I tarantati trovano sollievo dall’acqua in genere, non solo quella del mare ma anche quella di conche e pozzi:

Perché alcune fanciulle tarantate si lanciano nei pozzi, esibiscono le parti intime, si strappano i capelli e gridano? La causa deve ritenersi la stessa, ma più intensa: infatti, quanto più secca sarà la tarantola, più intensi diventeranno questi sintomi.[6]

 

Come le tarantole amano l’umidità, così secondo Epifanio la prediligono le persone che ne son state morse:

Perché alcuni gioiscono a sentire nominare il mare e i canti che fanno riferimento al mare? La causa risiede in quello che si è detto: in conseguenza della secchezza del temperamento, sembrano amare l’umidità sia le tarantole, sia le persone che sono state morse da esse. Noi conosciamo molti che non trovano sollievo se non si immergono nell’acqua delle conche o nei pozzi, legati ad una fune per non annegare.” [7]

 

Epifanio descrive anche i rimedi balneoterapici indicati dal Rasis:

Rasis ha prescritto molti rimedi utili, come il bagno in acqua calda, teriaca, succo di foglie di mora, vino puro, aglio, cumino, agnocasto, l’immersione nell’acqua del mare riscaldata, la sudorazione abbondante”.[8]

 

Cita poi il medico greco Rufo di Efeso (I sec.-II sec. d.C.):

Rufo raccomanda più di tutto la teriaca, il bagno e il vino vecchio”.[9]

 

Ancora, sui bagni:

Ezio, nel libro XIII, cap. 18 e Paolo, libro V, cap. 7, fra gli altri rimedi, lodano molto l’aglio, il vino e i bagni; ugualmente nel libro V, cap. 27.[10]

Anche il medico Giorgio Baglivi parla, nel 1696 (Dissertatio de anatome, morsu et effectibus tarantulae), della presenza dell’acqua nel rituale, e, in questo caso, di fosse scavate all’esterno, nel terreno, nelle quali i “malati” si immergevano. Nell’acqua, i tarantati immergevano anche fronde e rami verdi che poi si ponevano in testa. De Martino ne fornisce sunto:

… il medico dalmata Giorgio Baglivi, non manca di accennare ai pampini e ai rami fronzuti che i tarantati agitavano e immergevano nell’acqua, per adornarsene poi il capo; e accenna anche al ricorrente gesto che i tarantati eseguivano di immergere nell’acqua mani e capo. Non parla a dir vero di tino o conca apprestati al centro dell’ambiente, ma di un fosso scavato nel terreno, e colmato d’acqua, onde l’immergersi in esso richiama al Baglivi non già, come nel Kircher, l’immagine di anitre che starnazzano, ma quella di maiali che si voltolano nel fango”.[11]

 

Dei balli nell’acqua, e in questo caso nel mare, parla dettagliatamente anche il naturalista seicentesco Paolo Silvio Boccone, che scrive:

“Una delle forze, e fatiche incomprensibili, che hanno, e che ci assicura non esservi finzione, si è quella, che per un quarto d’hora, e più di seguito girano intorno, come un Arcolaio, con impeto, e furore; l’altra è di voler ballare in Mare, e però vi si gettano con violenza, e cecità tale, che gli astanti sono obbligati a legare i Pazienti alla poppa della Barca in mezzo alle acque, e li Sonatori di dentro suonano, e in quella forma resta satisfatta l’imaginazione depravata, e corrotta degl’Infermi.” [12] 

 

Il De Martino, proprio in riferimento a questi passi del Boccone, scrive:

“… il suicidio per eros precluso, l’impulso di morte per disperato amore, la corsa verso il mare per scomparire nelle onde trovavano orizzonte in un rito ch’era praticato a Taranto e a Brindisi: il tarantato in crisi, legato con una fune alla poppa di una barca, veniva fatto baccheggiare a suo agio nelle acque del mare, mentre i suonatori in barca cercavano di imporre al disperato il ritmo delle loro melodie[13]

 

Nel passo suddetto il De Martino non sembra sottolineare tanto il ruolo curativo dell’acqua, quanto il gesto disperato della corsa verso il mare, e rispetto al quale i parenti del tarantato si adoperavano a “limitare i danni” legandolo alla poppa o ricreando per lui il contesto acquatico in ambiente più “protetto”: rimarca questo aspetto quando in un passo successivo descrive la presenza delle conche d’acqua come surrogati casalinghi del mare, e, a seguire, parla, riprendendo i Kircher, dell’episodio di un cappuccino di Taranto il quale, morso dalla tarantola, corre con impeto verso il mare e là vi trova la morte:

C’è da chiedersi se la tradizionale conca colma d’acqua nella quale diguazzavano i tarantati non assolvesse almeno in dati casi la funzione di modesto surrogato casalingo in cui spegnere simbolicamente un ardore che nel suo cieco trasporto poteva sospingere a disperate fughe verso il mare e a pericolosi salti in acqua: come fu il caso di quel cappuccino di Taranto, cui i superiori avevano proibito di eseguire l’esorcismo musicale e che un giorno, irresistibilmente stimolato dal suo impulso di immersione, fuggì dal convento come folle e con tanto impeto si inoltrò nel mare da trovarvi non già refrigerio al suo male, ma miserabile morte per annegamento”.[14]

 

Eppure il De Martino, nel capitolo della sua trattazione intitolato “Tarantismo e cattolicesimo”, affronta il tema dell’acqua risanatrice e “miracolosa” del pozzo di San Paolo, ma evidentemente non la mette in stretta relazione con questi altri aspetti del rituale acquatico.

Laddove non era presente o non era immediatamente raggiungibile un ambiente acquatico (ed arboreo, altra caratteristica dell’ambientazione più antica del rito), questo veniva ricreato “artificialmente”, anche tra le mura domestiche: ancora una volta, è il De Martino a notarlo, riportando passi del De Phalangio Apulo di Ludovico Valletta (monaco della congregazione dei Celestini al convento di Lucera). Scrive il De Martino:

“Ludovico Valletta […] conferma che talora i tarantati gioivano «alla vista di limpide acque, e di fonti artificiali che con soave mormorio scorrevano in un tino apprestato alla bisogna», compiacendosi di verdi fronde spiccate di fresco dagli alberi e disseminate qua e là nell’ambiente destinato alla danza, e ciò «per rappresentare in qualche modo una selva».”[15]

 

Successivamente, il Valletta descrive le spese che le famiglie dei tarantati son costrette a sostenere per l’organizzazione dell’intero rituale di cura (compensi in denaro, regali e vitto per i musicisti; ingaggio di giovinette abbigliate in abiti nuziali con il compito di danzare con i tarantati; spese varie per l’arredo – compreso il fitto di armi da appendere alle pareti o l’ acquisto di drappi multicolori -), e fa riferimento anche alle spese per la ricostruzione dello scenario acquatico-arboreo:

E faccio grazia di molti altri sussidi e opportunità di cui si servono gli intossicati sia al fine di sollevare e rallegrare gli animi mesti durante la danza, sia perchè di queste cose hanno bisogno per qualche motivo: come, per esempio, fonti artificiali di limpida acqua congegnate in modo che l’acqua, raccolta, torna sempre di nuovo a versarsi: le quali fonti son ricoperte e circondate di verdi fronde, di fiori e di alberelli […]”[16]

 

Anche il Valletta descrive il rituale della sospensione al soffitto con una fune (pratica che ai tempi delle indagini sul campo di De Martino è già in disuso e della quale, come lui osserva, gli intervistati conservano solo il ricordo): al termine del dondolio con le mani strette alla fune, e ad essa aggrappata con tutto il corpo, la tarantata, sudata, si immergeva in acqua:

A motivo di questa agitazione e dell’incredibile fatica sopportata, tutto il corpo e soprattutto il volto della donna erano coperti di sudore copioso, finchè infiammata da così strenua agitazione correva anelante al gran tino colmo d’acqua apprestato a sua richiesta, e vi immergeva completamente il capo, onde trarre con l’acqua fredda qualche lenimento al dolore che l’avvampava”.[17]

illustrazione dal testo del Valletta

 

Il Serao fa riferimenti sia ai balli in mare che alla presenza dell’acqua nel rituale domiciliare. Riferendosi alla ricerca di Epifanio Ferdinando, scrive:

Cerca egli, verbigrazia, perchè i Tarantati si compiacciano di farsi seppellire fino al mento nella terra: perchè amino di cercar luoghi ermi , e desolati, e sogliano fin anche aggirarsi volentieri intorno a’ sepolcri, e cimiteri : perchè altri si gettino in mare; altri urlino; altri si avventino per mordere questo e quell’altro: perchè il sono delle campane loro ecciti passione, e mestizia: perchè cerchino di esser sospesi da una fune; o messi in una culla, e quivi dimenati, come si fa co’ fanciulli. Perchè le giovinette si sieno talora precipitate nei pozzi; perchè le medesime senza alcuno ritegno facciano altre sconcezze: si strappino i capelli: vogliano sentir le canzoni, in cui sia nominato il mare.[18]

 

In riferimento al rituale domiciliare, il Serao così descrive il ruolo e le funzioni dell’acqua:

Ben credo d’intendere, perchè vogliano che loro si pongano avanti degli specchi; e molto meglio e più facilmente perchè cerchino de tinelli, e de’ bacini pieni d’acqua; o almeno perchè i pietosi spettatori arrechino di questi ordigni in vicinanza de Tarantolati che danzano: poichè vanno essi di tanto in tanto a tuffar la testa nell’acqua, e ripigliano perciò lena, quando sono più trafelati e molli di sudore.”[19]

frontespizio del testo del Serao

 

Il Berkeley, nel suo “Diario di viaggio in Italia” (primi del ‘700), descrive tra le altre cose l’abitudine dei tarantati di gettarsi nel mare di Taranto:

“A Taranto vivono diverse famiglie nobili. Anche qui abbiamo assistito alla danza di un tarantato. […] Il console ci ha detto che tutti i ragni, ad eccezione di quelli con le zampe più lunghe, se ti mordono, provocano i tipici sintomi, benché non così forti come quelli dei ragni più grandi di campagna. Ha poi aggiunto che la tarantola provoca un forte dolore e un livido che si estende su tutta la zona circostante il morso ed anche oltre. Non credo che fingano, la danza è davvero faticosa. Inoltre, ha raccontato che i tarantati siano vittime di una pazzia febbrile e che a volte, conclusa la danza, si gettavano in mare e finivano per annegare se qualcuno non li avesse salvati. “[20]

 

Il leccese Nicola Caputi nel suo De tarantulae anatome et morsu, descrive gli scenari del rito e la presenza costante dell’acqua anche in ambito domiciliare:

“La camera da letto destinata al ballo dei tarantati sogliono adornare con rami verdeggianti cui adattano numerosi nastri e seriche fasce di sgargianti colori. Un consimile drappeggio dispongono per tutta la camera; e talora apprestano un tino, o una sorta di caldaia molto capace, colma d’acqua, e addobbata con pampini di vite e con verdi fronde di altri alberi; ovvero fanno sgorgare leggiadre fonticelle di limpida acqua, atte a sollevare lo spirito, e presso di queste i tarantati eseguono la danza, palesando di trarre da esse, come dal resto dello scenario, il massimo diletto. Quei drappi, quelle fronde e quei rivoli artificiali essi vanno contemplando, e si bagnano mani e capo al fonte: tolgono anche dal tino madidi fasci di pampini, e se ne cospargono il corpo interamente, oppure – quando il recipiente sia abbastanza capace – vi si immergono dentro, e così più facilmente sopportano la fatica della danza.”[21]

 

Questa la descrizione che il ricercatore ottocentesco Giovan Battista Gagliardo offre delle danze delle tarantate presso il podere Malvaseda nei pressi di Taranto:

“Succede al promontorio della Penna il podere Malvaseda nome di un’estinta famiglia Tarentina, il quale è innaffiato da’ varj canaletti di acqua perenne. Qui nelle belle giornate d’inverno concorrono i Tarentini per mangiarvi il pesce fresco, le ostriche, ed altre conchiglie.

Il vedere in quei giorni tutta questa campagna, la quale è piena di agrumi, e di ogni specie di alberi da frutto, popolata da famiglie sparse qua, e la, tutte intente a preparare il pranzo, e quindi sdrajate per terra divorarselo, ricordano le belle adunanze greche che terminavano colla danza, come finiscono anche le moderne. Dopo il pranzo unisconsi le varie compagnie e ballano al suono della chitarra la pizzica pizzica, ballo che esprime tutta la forza dell’entusiasmo, e di quel clima, che diede occasione ad Orazio di chiamarlo molle.

Concorrevano anche qui una volta le Tarantolate. Credevano quelle maniache, e facevano crederlo anche ai loro amanti, che senza rivoltarsi nell’acqua, ciò che dicevano Spupurare, non sarebbero guarite. Grazie alla filosofia, alla quale le femmine debbono ora la libertà che prima era loro negata, non vi sono più tarantolate né in Taranto, né nel resto della Provincia. “[22]

 

La ricercatrice inglese Janet Ross intraprende intorno al 1888 un viaggio in Italia: nella sua tappa pugliese è accompagnata dal manduriano Giacomo Lacaita. Assiste al ballo della “pizzica-pizzica” presso la masseria di Leucaspide a Statte (Taranto), e successivamente conosce un altro manduriano, Eugenio Arnò, al quale rivolge una serie di domande sul tarantismo.[23] La descrizione che Eugenio Arnò offre del tarantismo è molto particolare, come la stessa ricercatrice osserva, poiché l’ Arnò distingue fra “tarantismo secco” e “tarantismo umido”, indicando con quest’ultimo termine l’usanza di ballare presso sorgenti d’acqua. Vediamo, a seguire, uno stralcio del testo della Ross:

“Le informazioni che mi diede Don Eugenio, spettatore di centinaia di casi, differiscono da quelle avute da altri. Egli mi diceva: Esistono varie specie di quest’insetto che ha differenti colori, e vi sono due specie di tarantismo, quello umido e quello secco. Le donne, quando lavorano nei campi di grano, sono più soggette ad essere morsicate a causa delle poche vesti che portano addosso, durante il caldo eccessivo. Il male si annunzia con una febbre violenta, e la persona colpita di dimena furiosamente in tutti i versi gridando e lamentandosi. Allora subito si fanno venire dei musicanti, e se la musica che si suona non incontra la fantasia della tarantata (o tarantato, vale a dire la persona morsicata), la donna ( o l’uomo) si contorce e si lamenta più forte, gridando ”no, no, no questa canzone“. I musicanti allora cambiano immediatamente motivo, e il tamburello strepita e picchia furiosamente per indicare la differenza del tempo. Finalmente quando la tarantata trova la musica che fa per lei, si slancia d’un balzo e si mette a ballare freneticamente.

Se poi si tratta di ”tarantismo secco“, i parenti cercano il colore dell’insetto che l’ha morsicata, e le adornano le vesti e i polsi di nastri dello stesso colore dell’insetto, bianco o celeste, verde, rosso o giallo. Se nessun colore risponde a quello che si cerca, allora vien coperta da strisce di ogni colore, che svolazzano intorno a lei come essa balla, si dimena, si agita con le braccia per aria, da vera indemoniata. La funzione o cerimonia si comincia generalmente in casa; ma va a finire sempre per la strada, sia per il caldo, sia per la tanta gente che si raccoglie. Quando finalmente la “tarantata” si calma, vien messa in un letto caldo, dove dorme qualche volta sino a diciotto ore di seguito. Pel “tarantismo umido“, i musicanti vanno a sedere per lo più vicino ad un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d’acqua, per cui, diceva Don Eugenio, ”è incredibile la quantità d’acqua benedetta che viene consumata“. E ne parlava con vero dispiacere, perché in Puglia non è difficile il caso, che il bestiame muoia in estate per mancanza d’acqua. Pare che il “tarantismo umido” sia quello peggiore, perché talvolta la febbre si prolunga a sino a settantadue ore; ma in tutti e due i casi, fui assicurata che se i musicanti non sono chiamati, la febbre continua indefinitivamente, e viene qualche volta seguita da morte.[24]

 

Albero millenario Leucaspide (disegno Carlo Orsi) dal testo di Janet Ross

 

Antoine Laurent Castellan, riportando osservazioni sul tarantismo compiute durante un suo viaggio a Brindisi nel 1897, scrive:

Qui si crea l’opinione che i malati fuggano dalla società, cerchino l’acqua con avidità e ne approfittino anche se non sono osservati; si crede anche che a loro piaccia essere circondati da oggetti i cui colori sono molto vivaci.[25]

illustrazione dal testo di Antoine-Laurent Castellan Lettres sur l’ Italie (1819)

 

Sempre in un contesto di fine Ottocento, anche il manduriano Giuseppe Gigli riferisce della presenza di acqua durante i balli:

Alcuni usano ballare nelle case; altri nei crocicchi delle vie; alcuni vestiti a festa, altri quasi seminudi; alcuni tenendo in mano i fazzoletti, o simili adornamenti femminili, altri reggendo pesanti arnesi della casa. Uno dei più barbari balli è quello che taluni fanno nell’acqua. E non solamente nell’acqua si agitano per mezza persona, ma continuamente se ne versano con un catino sul capo e sulle spalle. E’ una cosa che muove a pietà, a sdegno per così orribile pregiudizio![26]

 

Esula dal tema di questo scritto l’occuparci in modo approfondito degli altri dettagli tipici dell’ambiente del rito domiciliare, tuttavia ne faremo un accenno, per completezza espositiva: come ci ricorda il De Martino, altri oggetti rituali sono le spade per il combattimento rappresentato durante la danza, gli specchi (nei quali i tarantati di tanto in tanto si contemplavano),[27] i nastri multicolori, i drappi, e fazzoletti, scialli, monili con i quali spesso le tarantate si adornavano.

Un ruolo particolare come abbiamo evidenziato più volte lo avevano anche le fronde e i rami degli alberi (una delle funzioni di questi addobbi posti nelle case dove si svolgeva il rito, era, secondo il De Martino, quella di ricostruire l’ambiente arboreo (insieme a quello acquatico), erbe varie, e/o, come riferisce Anna Caggiano a proposito dei tarantolati tarantini, vasi con piante vive. Nella descrizione della Caggiano, ritorna (e siamo già nel 1931) l’acqua:

tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [28]

 

Le piante poste a “decorazione” dell’ambiente del rito, secondo alcune interpretazioni fungevano anche da stimolo olfattivo, ai fini di una sorta di aromaterapia: è lo stesso De Martino a dedurlo e specificarlo,[29] anche se non specifica che molte di esse, e in particolare quelle che vengono nominate nel passo della Caggiano, nella medicina antica erano impiegate come rimedio specifico contro i veleni e contro i morsi di animali velenosi (ma affronteremo questo tema in altro scritto).

La “cura con l’acqua” (per i morsi delle tarantole, degli aracnidi e degli animali velenosi in genere) sia con l’acqua dolce che con l’acqua di mare, risale alla medicina antica (abbiamo già accennato a Dioscoride), e viene indicata come rimedio specifico sino ai tempi della letteratura medica ottocentesca, e difatti scrive nel 1859 il medico Achille Vergari:

“In certi luoghi la stufa secca forma l’unico mezzo curativo de tarantolati. I bagni d’acqua calda possono adempiere al la stessa indicazione. Si crede che l’acqua di mare sia meglio per più ragioni. […] Quando forti dolori vessano i tarantolati, conviene l’ uso dei bagni d’acqua calda, le stufe secche, e le vaporose. Quindi Mercuriale sull’avviso di Avicenna e di Aezio diceva, che gli avvelenati dalle tarantole con dolori deggiono essere posti ne bagni (Merc. de morbis venenosis. L. Il. C.V. p.39.)” [30]

 

Dunque i bagni nell’acqua (e spesso nell’acqua calda) costituiscono un rimedio e una usanza di tipo strettamente medico contro i veleni, sin dai tempi antichi, e si ritrovano, come abbiamo accennato e come vedremo più avanti, nelle prescrizioni di Dioscoride (I sec. d.C.), Rufo di Efeso (I – II sec. d.C.), Aezio (VI sec.), Avicenna (980-1037), Girolamo Mercuriale (1530-1606), Andrea Mattioli (1501-1578), Ambrogio Parco (XVI sec. anche costui) fino alla medicina ottocentesca.

La medicina popolare, come noto, è fortemente intrisa di conoscenze sia empiriche che nozionistiche, trasmesse e accumulate oralmente attraverso la tradizione, nei secoli, e provenienti, in genere, dalla medicina più antica. Ad una cura contro i veleni a base di balneazioni nota e praticata da millenni, si aggiunge, nel rituale del tarantismo, la musica come complemento, contenimento e rimedio ad uno stato di eccitazione motoria provocato dal veleno (reale o immaginario che fosse), che gradualmente va a soppiantare totalmente la cura balneare (della quale tuttavia restano residuati o reminiscenze simboliche inserite nel rito terapeutico domiciliare).

Come abbiamo anticipato, anche Dioscoride individua i bagni nell’acqua come rimedio contro i veleni. Nelle indicazioni del medico greco si ritrova, fra i vari rimedi, come indicazione per la cura degli avvelenamenti in genere, il bagno in acqua calda. Ma come vedremo più avanti, il Dioscoride indica proprio nei bagni dell’acqua di mare il rimedio specifico per punture di ragni e scorpioni.

La cura per i morsi di animali ritenuti velenosi tramite l’ acqua (in questo caso di sorgenti, aventi anche la caratteristica di essere “calde”) era praticata anche nella Sardegna di alcuni secoli fa. In un manoscritto anonimo (intitolato “Delle tarantole”) della fine del XVII secolo – inizi XVIII, edito da Crsec Galatina si legge:

La Tarantola solfuga, che nasce nell’ isola della Sardegna, ha pure di proprio li sovradetti sintomi, il nome di Serpente, ed il suo veleno ha per controveleno i medesimi medicamenti; afferma Giulio Salino, famosissimo ed antichissimo scrittore, nelle sue Istoriche descrizioni del Mondo, dove tratta dell’Isola di Sardegna: «la Sardegna è priva di serpenti, vi è soltanto, in vari luoghi nei campi della Sardegna, la “solfuga”, insetto molto piccolo privo di ali, simile ai ragni; è chiamata “sol fuga” poiché evita la luce e preferisce stare nelle miniere d’argento: si muove in modo poco visibile e, se uno senza vederla le si siede sopra, ne è morso»; e poco dopo, parlando del modo di curare questo veleno, soggiunge: «in alcuni posti vi sono sorgenti molto calde e salutari, che sono medicamentose: saldano le fratture ossee, annullano gli effetti del veleno della “solfuga” o quelli di punture di varie piante e animali».[31]

 

Lo stesso Epifanio aveva parlato della Solfuga e delle fonti di acqua risanatrice:

Quante sono le specie di ragni? Rispondo che noi troviamo 21 specie, infatti oltre le diciassette enumerate sopra, secondo le Storie delle Indie di Oucto, libro XV, cap. 3, c’è un’altra specie di tarantola che prospera a Ispaniola, isola del Nuovo Mondo, che è tanto grande da gareggiare col cancro gigante, della quale fino ad oggi non abbiamo nessuna conoscenza diretta. La diciannovesima è quella che secondo Solino e Isidoro, cap. 2, libro XI, si chiama solfuga e vive in Sardegna. È una specie di ragno e odia la luce, per questo di chiama solfuga; con il suo morso procura all’uomo un danno mortale, ma la natura o Dio Ottimo Massimo, per non lasciare niente senza uguale, ha prodotto lì delle fonti, la cui acqua bevuta da chi è stato morso funge da bezoartico[32]

 

La Solfuga o Solìfuga cui fanno riferimento questi autori, nonostante il nome generico e improprio, è da identificarsi nel Latrodectus tredigimguttatus, il ragno il cui morso sta probabilmente alle origini delle credenze sviluppatesi attorno alla “tarànta”, al suo veleno e ai sintomi del suo morso, e che ha un suo corrispettivo mitico-rituale nell’ Argia sarda.[33]

Tornando al ruolo dell’acqua, un cenno va fatto anche all’acqua del Fonte Pliniano manduriano, che, sembra di capire dalle parole di un altro medico, il Pasanisi, doveva essere utilizzata, almeno sino al Settecento, per la cura del tarantismo. Il Pasanisi ne accenna, tuttavia, per confutare l’idea che l’acqua del fonte mandurino possa contrastare gli effetti del veleno:

Può essere preservativo del tarantismo? Se il tarantismo, secondo il pensare di molti moderni, anche leccesi (fra gli autori leccesi è il cavalier Carducci nell’ annotazioni sopra il libro intitolato Delizie tarantine), non è effetto del morso velenoso della tarantola, ma un particolare morbo de’ pugliesi e del genere dei deliri melancolici, farebbe certamente un grande preservativo. Ma se poi sia effetto del veleno della Tarantola, come altri sostengono, sarebbe inutile fidarsi all’acqua di Manduria“. [34]

 

Nel Dioscoride del Mattioli si legge:

Dell’acqua marina. […] E’ veramente salutifera alle punture velenose, specialmente degli scorpioni, di quei ragni che si chiamano phalangi, e degli aspidi, i quali inducono tremore, e frigidità nelle membra: il che fa anchora entrandosi in essa calda”.[35]

 

Ancora, Il Mattioli cita Aezio, medico bizantino del VI secolo, scrivendo:

Dei segni universali dei morsi dei Phalangi, e parimenti della cura, scrisse complicatamente il medesimo Aezio nel luogo sopradetto, così dicendo. […] si causa frigidità nelle ginocchia, ne i lombi, nelle spalle: aggravasi alle volte tutto il corpo: i dolori punto non cessano, il sonno si perde, e fassi la faccia non poco pallida, e smarrita. In alcuni nasce nella verga non poco stimolo del coito, con prurito di testa, e di gambe: fanno gli occhi lacrimosi, torbidi, concavi: il ventre inegualmente si gonfia, e gonfiasi oltre a ciò tutta la persona, la faccia, e massimamente quelle parti, che sono intorno alla lingua, di modo che non poco impediscono la loquela. Sono alcuni pazienti, che non possono orinare, quantunque n’habbiano desiderio, se non con dolore: e quantunque pure orinino, fanno l’orina acquosa, nella quale si veggono alcune cose simili alle tele dei ragni: il che similmente si vede nei vomiti loro, e nelle feccie, che vanno del corpo. Messi i pazienti nell’acqua, s’alleggeriscono d’ogni dolore: ma come se ne vengono fuori, si dogliono non pco nelle parti vergognose, e lor tira la verga fuori di modo, come che ne i vecchi intervenga tutto il contrario perciocchè in loro quelle membra del tutto si rilassano. […] Giovano ne i morsi di tutti i continui bagni […]”.[36]

 

Successivamente il Mattioli parla anche della cura del “veleno delle tarantole” “con la musica dei suoni, e col lungo ballare[37] ma risultano particolarmente interessanti le citazioni di cui sopra, per capire come tutta la sintomatologia attribuita al morso e al veleno dei “falangi” non solo abbia un riscontro in quella che nel Salento è attribuita al morso della “tarantola” (nome generico dato a un non meglio identificato ragno: non è assolutamente detto che ci si riferisse alla Lycosa piuttosto che non al Latrodectus oppure a tutte le specie di ragni più o meno velenosi), ma soprattutto che sin dall’antichità i bagni e l’acqua (e in particolare l’acqua calda e l’acqua marina) sono considerati strumenti terapeutici al fine di contrastare gli effetti del veleno.

Continuando con le citazioni sugli elementi acquatici nel rito e nel ballo, facciamo alcuni cenni sulla presenza costante dell’acqua e del mare anche nelle canzoni: a parte i numerosi versi che parlano di malinconiche storie d’amore (in genere perduto) e d’attesa in cui son presenti mari, naufragi, partenze per mare, almeno due canti in particolare sembrano delineare o quantomeno rievocare il quadro del rituale acquatico. Uno è quello pervenutoci tramite il De Simone, l’altro ci perviene tramite il Kircher. Il primo:

Mariola Antonia! Mariola te lu mare!

Taranta Mariola pizzica le caruse tutte quante !

Pisce frittu e baccalà e recotta cu lu mele,

maccaruni de Simulà.

(nota del De Simone): “… la tarantata risponde, esclamando”:

Ohimme! Mueru! Canta! Canta!

 

Il canto “allu mari”, citato dal Kircher nel Magnes sive, è ripreso anche dal De Martino:

Allu mari mi portati,

se volete che mi sanati!

Allu mari, alla via!

Così m’ama la donna mia!

Allu mari, allu mari:

mentre campo t’aggio amari!

 

Come abbiamo già visto, Epifanio Ferdinando nel 1621 ci fa sapere che i tarantati amavano udire il nome del mare, e “canti che narravano episodi in cui aveva parte il mare[38] : “tarantati gaudent audire nomen maris, et cantilenas de mare mentionem facientes”.[39]

In conclusione, l’elemento acqua ricorre sin dall’antichità come cura specifica per i morsi di una serie di animali ritenuti velenosi, così come anche nelle forme e nei riti più antichi ascrivibili al tarantismo.

Il rituale dell’acqua non solo è, dunque, antichissimo e precedente, nella cura del tarantismo, a quello domiciliare (che tuttavia ne conserva elementi come la presenza di tinozze o bacinelle), ma ha evidentemente una origine e una motivazione prettamente “medica”: sin dall’antichità si ritiene che i bagni in acqua, e specie nell’acqua del mare, giovino e siano rimedio alle morsicature da aracnidi e altri animali velenosi o ritenuti tali.

Antidotum Tarantulae, dal Magnes sive de magnetica arte (1644)

 

NOTE

[1]
Q. Marii Corradi Uretani, De copia latini sermonis, libri quinque. Ad Camillum Palaeotum, cum eius ipsius vita & aliis, quae versa pagina indicabit, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, Venezia, 1581, V, pag. 171; vedi anche Ernesto Ernesto De Martino, La Terra del Rimorso, Il saggiatore, Milano, 1961, pag. 127

[2]            Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; qui De Martino traduce e riassume da Athanasius Kircher, Magnes sive de Arte Magnetica opus tripartitum, Colonia, 1643 (1a ed. Roma 1641), pag. 759

[3]            Epifanio Ferdinando, Centum historiae, Venezia, 1621, storia LXXXI “De morsu tarantulae”, trad. da Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002. Epifanio descrive anche altri comportamenti bizzarri, come quello dell’aggirarsi tra i sepolcri, del calarsi in una tomba e stendersi in un feretro in compagnia del defunto, ma anche di donne che mostrano i genitali, si strappano i capelli; riferisce di altri che cantano nenie, son tristi, desiderano essere dondolati in un letto pensile, altri che chiedono di essere ricoperti di terra fino al collo, altri che si rotolano per terra, altri che supplicano di essere frustati

[4]            Silvana Arcuti, Epifanio Ferdinando e il morso della tarantola, Edizioni Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pag. 64

[5]    Ibidem

[6]    Ibidem

[7]    Ivi, pag. 65

[8]    Ibidem

[9]    Ibidem

[10]  Ibidem

[11]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 129; cita qui Giorgio Baglivi, Dissertatio de anatome morsu et effectibus tarantulae, in Opera Omnia, Venezia, 1754; Dissertatio VI, pag. 314. Il De Martino, citando il Baglivi ed Epifanio Ferdinando, evidenzia anche l’utilizzo dell’altalena nel tarantismo antico, e più in generale di funi di sospensione appese agli alberi (nel rito domiciliare appese al soffitto) ricollegandolo (come del resto fa il Kircher) all’imitazione del comportamento del ragno che sta appeso ai fili della ragnatela oscillante al vento. La pratica dell’altalena è ritenuta dal De Martino parte integrante e originatasi dal rito all’aperto (nel duplice scenario arboreo ed acquatico):“La pratica dell’altalena, come è evidente, è legata all’esorcismo all’aperto, presso alberi e fonti; nell’esorcismo a domicilio si cercava di imitare lo scenario vegetale e acquatico e l’altalena si tramutava in una fune sospesa al soffitto, alla quale i tarantati si reggevano nel corso della loro danza...” (De Martino, cit., pag. 129)

[12]  Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 103

[13]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145

[14]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145. Qui il De Martino cita il Kircher, Magnes sive, pag. 768

[15]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128; con citazione di Ludovico Valletta, De phalangio apulo, Napoli 1706, pp. 77 e sgg.

[16]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 92; cit. in Ernesto De Martino, op. cit., pag. 128

[17]  Ludovico Valletta, op. cit., pag. 76

[18]  Francesco Serao, Della Tarantola o sia Falangio di Puglia, Lezioni Accademiche, Napoli, 1742, pag. 156. Sul farsi seppellire nella terra, citato in questo passo, vedi anche paralleli con il rito dell’argia sarda (in De Martino, op. cit. pag. 196): “L’esorcismo è effettuato a suonatori e ballerini, mentre l’avvelenato viene sepolto sino al collo nel letame o in una fossa ricoperta poi di terra, oppure lasciato al suolo in preda alla crisi: in quest’ultimo caso può aver luogo o meno la sua partecipazione al ballo

[19]  Francesco Serao, op. cit., pp. 5-6

[20]  George Berkeley, Diario di viaggio in Italia (1717 – 1718), trad. it. a cura di Nicola Nesta, Ed. Digitali CISVA 2010, pp. 53-54

[21]  Nicola Caputi, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, 1741, pag. 201

[22]  Giovanni Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, pp. 64-65, Napoli, 1811

[23]  Janet Ross racconta di queste esperienze ella sua opera The Land of Manfred prince of Tarentum, edita a Londra nel 1889. Vi riporta anche i testi di tre canzoni popolari che ha raccolto: trascrive tre canzoni: Riccio Riccio, Larilà e La Gallipolina.

[24]          Janet Ross, La Terra di Manfredi ( La Puglia nell’800), trad. I. Capriati, Tip. Vecchi, Trani, 1899, pp. 138- 140

[25]          Antoine Laurent Castellan, Lettres sur l’ Italie, faisant suite aux lettres sur la morée, l’ Hellespont et Costantinople, Tomo I, Parigi, 1819, Lettre IX, pag. 82

[26]          Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto” Firenze 1893.

[27]  Nelle varie descrizioni e interpretazioni relative alla presenza degli specchi, questi oggetti vengono identificati come funzionali a una non meglio specificata auto-contemplazione, a volte specificamente interpretati come funzionali ad una sorta di auto-ammirazione narcisistica; da parte di alcuni autori si dice che nello specchio (e/o anche nell’acqua o nella bacinella d’acqua fungente da specchio) i tarantati “vedevano” la Tarantola che li aveva morsi, ma non è da escludersi una funzione dello specchio di tipo medico-diagnostico: nella antica medicina, difatti, lo specchio (e anche lo specchiarsi nell’acqua) era utilizzato per verificare il grado di avvelenamento e di malattia, e la compromissione delle facoltà del paziente. Nel Sesto Libro di Dioscoride del Mattioli, si legge: “Riferisce Avicenna, che quantunque temano i pazienti l’acqua, si può tenere nondimeno speranza di salute, pur che rimirando nello specchio, riconoscano se stessi. Il che dimostra, che si possa havere speranza di curare nel timor dell’acqua, quando il veleno non sia di tal forte confermato, che restino ancora i pazienti con qualche conoscimento” (Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli, Sanese, Medico Cesareo, nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo della materia Medicinale, Venezia, 1573, pag. 947)

[28]  Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72

[29]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 131

[30]  Achille Vergari, Tarantismo o malattia prodotta dalle tarantole velenose, Napoli, stamperia Società Filomatica, 1859,   pp. 34-35. Il Vergari prosegue citando anch’egli l’uso delle funi, ma in riferimento al morso della tarantola in Dalmazia: “Assicurava il Fortis « che nel Contado di Traù in Dalmazia i contadini che nella stagione ardente agir deggiono in campagna, sono soggetti frequentemente al morso della tarantola, Pauk nell’ idioma illirico; e che il rimedio che usano per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori dal veleno del pauk prodotti, si è il mettere gli ammalati a sedere sopra d’una fune non tesa, ben raccomandata tra due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore (Michelangelo Manicone, Fisica appula, vol. V pag 81. )” (Vergari, cit., pag. 35)

[31]          AA.VV., Sulle Tracce della Taranta, Documenti inediti del Settecento, Crsec Galatina, Crsec San Cesario – Regione Puglia, 2000, pp. 57-58

[32]  Silvana Arcuti, Epifanio Fernando e il morso della tarantola, Pensa Multimedia, Lecce, 2002, pp. 43-44

[33]          Propriamente, con il termine Solifugae si intende, nella attuale classificazione, un ordine di aracnidi (peraltro non velenosi), e non già un genere e tantomeno una determinata specie. Tuttavia il Serao identifica, con una lunga dissertazione, la Solìfuga sarda con la “tarantola di Puglia” (Serao, op. cit., pp. 80-89); e Giovanni Spano, nel suo Vocabolario Sardu-Italianu (1851) riferisce che questo ragno è da identificarsi con la taràntola citata dal Berni nel suo Orlando innamorato (Francesco Berni Orlando innamorato, XLI, ottava 6, vv. 5-8; ottava 7, vv. 1-4 ), e, propriamente, con l’ Arza o Argia sarda ( Giovanni Spano, Vocabolario Sardu-Italianu, a cura di Giulio Paulis, Ilisso Edizioni, Nuoro, 2004, pag. 110 e pag. 119). L’ Argia sarda altro non è che il Latrodectus tredigimguttatus, volgarmente detto malmignatta o anche vedova nera mediterranea.

[34]  Salvatore Pasanisi, Saggio chimico – medico sull’acqua minerale di Manduria, Napoli, Stamperia Nicola Russo, 1790, pp. 32 – 33

[35]  Pietro Andrea Mattioli, I Discorsi di Pietro Andrea Mattioli nei Sei Libri di Pedacio Dioscoride Anarzabeo nella Materia medicinale, Venezia, 1573, V Libro, pag. 825

[36]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 958-959

[37]  Pietro Andrea Mattioli op. cit. pag. 959

[38]  Ernesto De Martino, op. cit., pag. 145

[39]          Epifanio Ferdinando, Centum historie seu observationes, Venezia, 1621, pag. 258

Galatina. “Il peso dei rimorsi”. Ernesto De Martino, 50 anni dopo

tarantismo1

Martedì 1 dicembre 2015

Palazzo della Cultura (Galatina, Le)

CONVEGNO

“IL PESO DEI RIMORSI” – ERNESTO DE MARTINO, 50 ANNI DOPO

La città di Galatina rende omaggio a Ernesto De Martino con la rassegna “Il peso dei rimorsi”, dedicata al grande antropologo italiano nel cinquantesimo anniversario della sua scomparsa. L’appuntamento ricade all’interno di una serie di incontri e dibattiti organizzati in numerose città italiane, curati dall’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani, l’Associazione internazionale Ernesto De Martino, la Fondazione Premio Napoli, l’Università di Ginevra, la Scuola di specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università di Perugia, la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Angelo Celli.

Dopo Lecce, Bari, Salerno, Perugia, Napoli e Matera, le celebrazioni fanno tappa a Galatina, città in cui De Martino dedicò le sue ricerche per studiare a fondo, per la prima volta in maniera organica e multidisciplinare, il fenomeno del tarantismo. Era il 1959 e da quella spedizione scaturì il celebre saggio “La terra del rimorso”, oggi tradotto, conosciuto e studiato in tutto il mondo.

L’incontro galatinese offre l’occasione di conoscere il pensiero dello storico ed etnografo De Martino, nato a Napoli nel 1908 e scomparso nel ’65 a Roma, tracciando il suo pensiero in un quadro letterario più ampio, sempre più attuale, non ridotto al solo fenomeno del tarantismo.

L’iniziativa, promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Galatina e organizzata in collaborazione con Meditfilm nell’ambito del progetto “Luoghi e Visioni – Frammenti di antropologia visuale”, nasce per restituire il giusto lustro alla figura di De Martino, allo studioso che seppe fondere saperi diversi nella ricerca etnografica sulle culture popolari del Sud d’Italia, fino a essere riconosciuto a livello mondiale come il padre della nuova antropologia italiana.

L’appuntamento di Galatina celebra un De Martino meno conosciuto al grande pubblico, aprendo a una riflessione sul percorso ideologico e politico che lo hanno reso protagonista, dagli anni ’40 agli anni ’60, del panorama intellettuale italiano, insieme ad altri personaggi che ne hanno segnato la formazione; con alcuni dei quali, come Antonio Gramsci, Cesare Pavese, Benedetto Croce, intrattenne un’intensa dialettica intellettuale.

“Il peso dei rimorsi” è inserito nelle celebrazioni nazionali che si concluderanno a Roma, nel maggio 2016, per il cinquantenario della morte di De Martino, attraverso una serie di incontri itineranti per ricordare, riflettere e valorizzare le ricerche, il pensiero e l’eredità di una delle figure centrali della cultura italiana del dopoguerra.

Il convegno vedrà la partecipazione dei professori: Pietro Clemente (Università di 2 Firenze), Riccardo Di Donato (Università di Pisa), Carlo Alberto Augeri, Eugenio Imbriani (Università del Salento). A moderare il dibattito sarà il professore Mario Lombardo (Università del Salento).

Tra gli eventi in programma, la mostra fotografica “Il Cattivo Passato”, un suggestivo percorso tra storia, religione, antropologia e società nel pensiero politico-intellettuale di De Martino, e dalla “Breve rassegna Luoghi e Visioni” a cura di Meditfilm, con la proiezione di alcuni importanti documentari etnografici (“Il male di San Donato” di Luigi Di Gianni, “La passione del grano” e “L’inceppata” di Lino Del Fra). Aprirà il convegno la professoressa Daniela Vantaggiato, assessore alla Cultura del Comune di Galatina.

Per l’occasione, sarà presentato in anteprima il corto “Equilibri nel tempo”, scritto e diretto da Fabrizio Lecce, prodotto da Meditfilm nell’ambito del percorso di antropologia visuale “Luoghi e Visioni”. Il film, interpretato da Simone Franco, esplora i megaliti del Salento, dolmen e menhir che, con la loro essenza sacra, rappresentano l’anello di congiunzione tra il terreno e l’ultraterreno, tra la natura e la cultura, facendo emergere un paesaggio rurale arcaico ormai lontano dagli immaginari contemporanei. Il racconto è affidato alle parole di De Martino, estratte dal libro “La fine del mondo, contributo all’analisi delle apocalissi culturali”.

L’intera manifestazione si svolgerà martedì 1 dicembre a Galatina, presso il Palazzo della Cultura, con il seguente programma: alle 16:00 apertura mostra fotografica “Il cattivo passato”, alle 17:00 inizio del convegno “Il peso dei rimorsi”, alle 19:00 proiezione dei film in rassegna con l’anteprima del corto “Equilibri nel tempo”.

 

Link di approfondimento: www.luoghievisioni.it; www.meditfilm.com

Info e Contatti: MEDITFILM  –  info@meditfilm.com  +39 3277305829

UFFICIO STAMPA: Gabriele Miceli

 

 

Anche quest’anno la Notte della Taranta è andata, ma non rinuncio a dire la mia: il tarantismo, ovvero laddove la poesia arrivò prima della scienza …

di Armando Polito

Immagine tratta da http://www.labodeguitalivornese.com/evento/notte-taranta-popularia/
Immagine tratta da http://www.labodeguitalivornese.com/evento/notte-taranta-popularia/

Ogni fenomeno, prima di manifestarsi, ha un periodo più o meno lungo di latenza a seconda della forza delle cause che lo tengono in quiescenza, finché non prevalgono col loro effetto dirompente e, in un certo senso, contagioso quelle di segno opposto che ne hanno costituito la miccia, più o meno lunga, ma inesorabilmente innescata,  esauritasi la quale, arriva l’esplosione. Anche la durata di un fenomeno (inteso e come episodio singolo e come sua ripetizione nel tempo) è legata all’azione di alcune forze che lo favoriscono, finché il prevalere di quelle di segno opposto decreta la fine del singolo episodio e, in alcuni casi, la sua estinzione. Emblematico, mi pare, a tal proposito il tarantismo: la sua sparizione conferma che la tarantola e il suo morso  erano solo un pretesto per liberare, soprattutto nella donna, ataviche pulsioni per secoli represse non certo per sua volontà, conferma, cioè l’origine cultural-ritual-psicologica del fenomeno che gli studi di Ernesto De Martino, com’è noto, hanno messo in evidenza. Il tarantismo, insomma, si è progressivamente spento non perché si è estinta la tarantola o il sistema immunitario ha azzerato gli effetti del suo morso ma perché inesorabilmente col mutare del costume, liberazione sessuale della donna in primis, è venuta meno la necessità di mantenere come pretesto, alibi, copertura, l’animaletto ed il suo morso al fine di uscire dall’isolamento repressivo attraverso un percorso identificativo (alcuni movimenti delle tarantate ricordano quelli del ragno)-liberatorio (i movimenti stessi, eccitati dalla musica, scaricano la tensione e l’energia a lungo represse). Probabilmente tale processo sarebbe stato solo più lento se non fosse stata rivoluzionata, rispetto al passato, l’agricoltura con l’introduzione delle macchine che hanno esonerato uomini e donne dalle operazioni di coltivazione e raccolta, per non parlare dei veleni che di certo hanno ridotto drasticamente il rischio di un incontro ravvicinato di un tipo che in passato, molto probabilmente, era, sia pur inconsciamente ma non troppo, desiderato e, forse, pure cercato …

Tavola di Gustavo Dorè per illustrare il mito di Aracne celebrato da Dante  (Purgatorio, XII, 43-45); immagine tratta da http://www.worldofdante.org/pop_up_query.php?dbid=I301&show=more.
Tavola di Gustavo Dorè per illustrare il mito di Aracne celebrato da Dante (Purgatorio, XII, 43-45); immagine tratta da http://www.worldofdante.org/pop_up_query.php?dbid=I301&show=more.

Per tornare a De Martino: La terra del rimorso non omette di citare in ordine cronologico due autori che possono essere considerati gli antesignani della sua interpretazione. Il primo è, a sorpresa, un poeta, il secondo un medico, rispettivamente Giovanni Pontano (1429-1503) e Giorgio Baglivi (1668-1707).

Dal dialogo Antonius del Pontano riporto di seguito in formato immagine e con la mia traduzione a seguire un brano tratto da un’edizione (integralmente leggibile al link https://books.google.it/books?id=WS1ZAAAAcAAJ&pg=PT197&dq=ioannis+iovanni+pontani&hl=it&sa=X&ved=0CCcQ6AEwAWoVChMI1IbF4LKNxwIVBF0UCh0sswMP#v=onepage&q=antonius&f=false) di sue opere varie uscita a Venezia  nel 1512 per i tipi di Giovanni Rubeo e Bernardino Vercellese.

Amico  -Antonio soleva ripetere che [i pugliesi] sono i più felici degli uomini-

Ospite  -Quelli che hanno la fortuna di abitare in una regione tanto calda?-

Amico  – [Diceva] infatti che gli altri uomini essendo tutti stupidi a stento potevano addurre qualche giustificazione sufficientemente onesta della loro stoltezza e che in verità i soli pugliesi  avevano perfettamente pronto un motivo per scusare la pazzia, cioè quel ragno che chiamano tarantola, per il cui morso gli uomini impazzirebbero; e che il luogo più felice è dove  il massimo della felicità è il fatto che chiunque volesse desiderare il frutto della sua pazzia potrebbe coglierlo  onestamente. [Diceva] poi che ci sono ragni dal veleno diverso e tra questi anche quelli che spingono alla libidine, che essi sono chiamati concubitarie che da questo ragno solo solite essere morse spessissimo le donne e che sarebbe lecito e non vietato che esse cercassero gli uomini liberamente ed impunemente e che questo veleno non può essere neutralizzato in altro modo, sicchè sarebbe un rimedio per le donne pugliesi ciò che per le altre costituirebbe una vergogna. Non ti sembrerebbe questa la più grande felicità?-

Ospite  -Per Priapo1, grandissima!-       

Analogamente dal Dissertatio de anatome, morsibus et effectibus tarantulae del Baglivi scritto nel 1695 riporto un brano tratto dalla p. 617 dell’edizione di tutte le opere uscita per tipi di Posuel a Lione nel 1714 (integralmente consultabile al link http://lib.ugent.be/europeana/900000084459).

Non bisogna qui negare  la possibilità che nelle nostre regioni si presenti realmente il fenomeno del veleno della tarantola e dei tarantati; tuttavia le donne, che sono gran parte dei tarantati, molto spesso simulano questa malattia con sintomi alla donna familiari; infatti sia per piccoli fuochi d’amore, sia per un danno del patrimonio familiare o di altri mali tipici cui le donne sono più sensibili, sono prese dalla noia, per la continua tristezza derivante da tali situazioni degenerano nella disperazione e quasi nella malinconia. A tutto questo s’aggiunge una vita solitaria alla maniera delle monache di clausura, lontana da ogni per quanto onesta possibilità di parlare con gli uomini della famiglia. Si aggiunge parimenti l’aria infuocata, il temperamento caldissimo delle donne, i cibi caldi e molto nutrienti, la vita oziosa, etc. E per questi motivi tanto principali che secondari frequentemente degenerano nella tristezza e in uno stato d’animo malinconico e per la stessa ragione sono rallegrate moltissimo da ogni accordo di musica e dalle danze. Perciò, per servirsi di questa opportuna occasione di musica permessa ai soli tarantati, si fingono tarantate. All’inganno poi ed alla simulazione si aggiungono il pallore del volto, la tristezza, la difficoltà di respiro, l’angoscia, la cattiva immaginazione e gli altri sintomi più del simulato che del vero veleno delle tarantate (ed essendo questa danza estremamente gradita alle donne, presso le nostre passò in modo di dire, il Carnevaletto delle Donne); e, sebbene le sole donne di quando in quando simulino questa malattia, non allo stesso modo tuttavia si deve sospettare che questo succeda anche negli altri tarantati; infatti parecchi uomini, peraltro eruditi e religiosi, non credendo minimamente ai tarantati, si esposero essi stessi al pericolo e, morsi in Puglia dalla tarantola, caddero in imminente pericolo di vita e se non fosse intervenuta subito la musica in breve sarebbero morti, come riporta anche il nostro Epifanio2 nel passo lodato.  

Il De Martino non cita, però, un altro autore e, siccome questi è, come il Pontano, un poeta e devo dare giustificazione del titolo di questo post, lo faccio io.

Di seguito fra breve un brano di Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728) tratto da L’Arcadia, De’ Rossi, Roma, 1708 (integralmente consultabile e scaricabile al link  http://books.google.it/books?id=ez4dFjf-xsMC&pg=PA212&dq=crescimbeni+arcadia&hl=it&sa=X&ei=7RRKVNi1MY7YPMiLgeAJ&ved=0CCwQ6AEwAg#v=onepage&q=crescimbeni%20arcadia&f=false).

Al nostro tema sono dedicate le pp. 68-85 e assicuro il lettore curioso che la loro lettura sarà gradevole anche sotto l’ombrellone o nella hall di un albergo. Susciterà la meraviglia dei bagnanti o degli altri ospiti quando vedranno sullo schermo del tablet non qualche giochino o le solite foto gossippare ma dei caratteri non proprio moderni. E, se sarà salentino, saprà sfruttare meglio ciò che il Crescimbeni gli offre per catturare l’attenzione di quella brunetta, biondina o rossina che sola soletta, appare, senza ombra di dubbio, sensibile solo al fascino del meridionale sì, ma intellettuale …

E così, mescolando Dante, Crescimbeni, tecnologia e vanità maschile basata su presupposti tanto inconsistenti quanto velleitari, qualche poeta moderno particolarmente ispirato potrà far dire alla donna:

Quando leggemmo il disiato morso

esser curato da cotanto ballo,

il salentino ingrifato più che orso, 

mentr’io cotta dicevo -Fallo!, fallo!-,

mi morsicò la gota e quasi svenni.

L’uomo no, ma il tablet era da sballo …

Lascio immaginare il seguito della storia e passo al nostro, comunque beneaugurante …,  Crescimbeni col suo brano che sembra la trascrizione artistica delle affermazioni scientifiche del Baglivi (non a caso con quest’ultimo siamo alle soglie dell’illuminismo, con Crescimbeni agli inizi).  

La fantascienza spesso ha anticipato il futuro e la poesia si è avventurata in esplorazioni di regola riservate alla scienza e non è certo col tarantismo che l’ha fatto per la prima volta, né, per fortuna, è stata e sarà l’ultima …

Anche quest’anno la Notte della Taranta ha celebrato il suo trionfo. Bisognerà aspettare un poeta, prima ancora che un sociologo (sarebbe il compito immediato di un cronista indipendente …) che metta in evidenza come a ben pochi interessava la musica tradizionale salentina, sia pur intesa in senso lato, e che i gridolini sbavati delle giovani e meno giovani (ma anche di qualche giovane e meno giovane …) erano solo all’indirizzo di uno spaesato Ligabue, che, però, aveva fatto già conoscere la sua salentinità d’adozione facendosi ritrarre davanti ad una friseddha? Come non mettere in risalto, per converso, l’onesta intellettuale degli Aramirè che da tempo hanno rinunciato, con tutte le conseguenze negative, soprattutto di natura economica, che la loro scelta comportava, a salire su un palco le cui luci anno per anno si stanno sempre più trasformando  da stroboscopiche in stronzoscopiche (non mi riferisco agli artisti veri o presunti, che in qualche modo devono pur campare, ma al pubblico, attore passivo di un’invereconda e prostituente mistificazione)?

________

1 Poteva in questo caso un umanista del calibro del Pontano, umbro di origine ma napoletano di adozione, coinvolgere Ercole o Giove e non Priapo che con il suo mostruoso attributo bene in vista è stato immortalato in più di un affresco pompeiano?

2) È il mesagnese Epifanio Ferdinando (1569-1635), autore di Centum historiae seu observationes uscito per i tipi di Baglioni a Venezia nel 1621 (integralmente consultabile e scaricabile al link https://books.google.it/books?id=WghBAAAAcAAJ&printsec=frontcover&dq=Centum+historiae+seu+observationes&hl=it&sa=X&ved=0CCAQ6AEwAGoVChMIzYPhjJ6NxwIVwu9yCh0v-wMN#v=onepage&q=Centum%20historiae%20seu%20observationes&f=false), dove sono registrati casi di tarantolati morti per non essere stati sottoposti in tempo alla terapia musicale.

 

La fascinazione nel Salento: una testimonianza

cupid_psyche Edward Burne-Jones
Edward Burne-Jones, Cupido e Psiche

di Alessio Palumbo

 

Sostiene Erberto Petoia: “il fenomeno della fascinazione, del malocchio, prima di essere trattato come fenomeno psicologico, e in alcuni casi psicopatologico, va analizzato dal punto di vista antropologico, come una delle numerose credenze e superstizioni cui è involontariamente sottomesso il genere umano”[1].

Al di là delle priorità nella trattazione, quanto sostenuto da Petoia testimonia, implicitamente, la poliedricità e complessità dell’argomento. Proprio per questo la relativa letteratura è vasta e composita e, sempre per la suddetta complessità, è particolarmente difficile operare qualsiasi tentativo di sintesi esaustiva in poche righe. Ci limiteremo pertanto, nel corso di questo articolo, a esporre un caso reale, cui abbiamo assistito personalmente, più e più volte, nel corso degli anni ‘90, raffrontandolo con le teorizzazioni e le osservazioni di altri autori.

 

Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness
Edward Burne-Jones, The tree of forgiveness

Il tema della fascinazione, della malia praticata per il tramite degli occhi, è estremamente diffuso nelle culture tradizionali e ha avuto, nei popoli e nei secoli, interpretazioni, pratiche e cure estremamente diverse. Allo stesso Petoia dobbiamo il tentativo di una carrellata, nel tempo e tra le culture, sul tema. Volendo tuttavia “trovare nella storia dell’umanità, come sostiene il De Martino, una prima presa di coscienza culturale del fatto che la fascinazione non ha nulla a che fare con forze magiche in senso stretto, ma con fatti che appartengono alla sfera naturale profana, bisogna risalire al pensiero greco”[2]. Precisamente al pensiero sensista ed al materialismo democriteo. Il riferimento a De Martino può essere un ottimo stimolo per raffrontare il nostro caso reale, osservato in un comune del Salento e precisamente ad Aradeo, con quanto studiato e teorizzato dal noto autore de La terra del rimorso.

 

Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)
Edward Burne-Jones, Psiche e Pan (1874)

Fino a non molti anni fa, ad Aradeo era possibile curarsi dalla fascinazione o meglio dallo spascianu[3]. Tale guarigione era operata da donne del posto, che non avevano nulla di magico, ma erano semplicemente le depositarie di un sapere tramandato, fatto di pratiche mediche, paramediche e fitoterapiche che potremmo generalmente ascrivere alla cosiddetta “medicina popolare”[4]. Queste stesse donne erano quindi deputate alla cura di varie disfunzioni e patologie, come ad esempio quelle articolari, per le quali praticavano stuppate e cuppini. Il sapere delle guaritrici aradeine era (ed è) un sapere antico, ampio, sfaccettato, che non di rado superava il confine della medicina per sfociare nella superstizione. Un sapere che tuttavia, è bene ribadirlo, non richiedeva alcuna particolare dote o predisposizione magica.

Nel caso aradeino, dunque, siamo di fronte ad una concezione “greca” della fascinazione. Essa è intesa come una sorta di fenomeno naturale, una malattia come le altre che è possibile curare con una terapia ad hoc. Ma cos’è quindi lu spascianu? Quali sono i suoi sintomi? Quali le cure? La trattazione fatta della fascinazione da De Martino in Sud e Magia ci aiuterà a definirlo, anche se spesso in contrapposizione.

da calitritradizioni.it
da calitritradizioni.it

Sosteneva l’antropologo napoletano, “il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto: fascenatura o affascino). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento, di inibizione, e al tempo stesso un senso di deviazione, un esser agito da una forza altrettanto potente quanto occulta”[5]

Nulla di tutto ciò nel caso aradeino. Sebbene il fattore scatenante dello spascianu sia quello classico della fascinazione, ossia gli sguardi invidiosi, gli eccessivi complimenti e piaggerie, non si parla di alcuna forza occulta, né si riscontrano fenomeni di deviazione ed inibizione. Le cause e le conseguenze dello spascianu sono esclusivamente fisiche. Mal di testa, spossatezza e nausea ne sono i sintomi[6] tipici.

Riscontrati questi ultimi, lo spascianatu, o il sospetto tale, si presentava da una delle donne del paese in grado di curarlo. Nel caso da noi osservato la donna metteva a sedere lo spascianatu e, dopo avergli imposto la mano sulla testa e aver fatto il segno della croce con il pollice, iniziava a recitare mentalmente le formule di rito[7]. L’espressione usata per indicare la terapia era passare lu spascianu o passare lu principiu. Ecco la formula recitata dalla guaritrice aradeina e a lei insegnata da una vicina di casa da giovane:
Sant’Antoniu tenìa nu gigliu

Vene la mamma e vene lu fiju

De do occhi spascianatu

De quattru angeli ‘ccumpagnatu

Su nu monticellu hia tre pignatelle

Una rutta, una sana e una scasciata

Ne pòzzane ssire l’occhi a ci l’ha spascianata.

 

Santu Cosimu e Damianu

‘Cchiara Cristu pe la via

De ddhru sta vieni Cosimu mia?

Sta vegnu de nu malatu

Ci gghe forte spascianatu

Ne passu lu principiu alla capu

Lu malatu ne llenta la capu[8]

 

Sant’Antonio aveva un giglio

Viene la mamma e viene il figlio

Da due occhi spascianatu

Da quattro angeli accompagnato

Sopra ad un monticello c’erano tre piccole pignatte

Una rotta, una sana e una scassata

Possano venir fuori gli occhi a chi l’ha spascianata.

San Cosimo e Damiano

Incontrarono Cristo per la via

Da dove vieni Cosimo mio?

Sto venendo da un malato

Che è molto spascianatu

Gli passo il principiu in testa

Al malato non fa male più la testa

 

Come sostenuto da Petoia è palese la commistione di sacro e profano in queste credenze. “Gli aspetti religiosi che compaiono nei rituali e negli scongiuri contro il malocchio non sono quelli appartenenti alla religione tradizionale cattolica, a quella dottrinaria, ma a quella parte dei pluralismi cattolici”[9].  La formula recitata dalla donna, con i richiami a Cristo ed ai santi guaritori Cosimo e Damiano, lo dimostra chiaramente.

Già durante la pratica il diretto interessato e gli astanti potevano capire, dagli atteggiamenti della guaritrice, se si trattasse o meno di fascinazione. Ciascuna donna aveva infatti un proprio modo di “somatizzare” il malessere della persona curata con sbadigli, conati, lacrime o eruttazioni[10].

Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)
Edward Burne-Jones, Perseo e le Ninfe (1877)

Non sempre l’intervento della donna si rivelava sufficiente ed era essa stessa ad ammetterlo, indirizzando lo spascianatu verso altre donne capaci di curarlo, quantificando il numero di mani di spascianu necessarie per la guarigione definitiva. Il tutto prima del sabato, in quanto, se lo spascianu fosse sabbaticiatu, avrebbe potuto causare anche febbre alta.

Nel congedare lo spascianatu la guaritrice raccomandava tutti i rimedi esperibili per difendersi da future fascinazioni, come ad esempio indossare un ciondolo di “fede, speranza e carità” (croce, ancora e cuore) o mettendo la “mano a fica” (pollice tra indice e medio) nel caso di eccessivi complimenti o sospette invidie.


[1] E.Petoia, Il malocchio: note storico-antropologiche,  in  A. De Spirito e I. Bellotta (a cura di) Antropologia e storia delle religioni: saggi in onore di Alfonso M. di Nola, Roma, Newton Compton, 2000, p.260

[2] Ivi, p.261

[3] Nel termine, pressoché unico nel Salento, è chiaro il riferimento al fascino.

[4] Siamo dunque estremamente lontani dalle fattucchiere galatinesi descritte da Alessandro Tommaso Arcudi alla fine del ‘600 e capaci di guarire persino col proprio sputo (A.T.Arcudi, Anatomia degl’ipocriti, Venezia, G.Alberizzi, 1699)

[5] E. De Martino, Sud e Magia, Milano, Feltrinelli, 2004, p.15

[6] Per altro lo stesso De Martino riporta sintomi simili  parlando di “cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento” (Ibidem)

[7]“ La rimediante comincia col tracciare col pollice un piccolo segno di croce sulla fronte del paziente” (Ivi, p.16)

[8] Le due strofe devono essere ripetute in coppia per tre volte, ogni volta cominciando con un segno della croce

[9] E.Petoia, cit., p.271

[10] De Martino parla di un’immedesimazione della fattucchiera nello stato di fascinazione che comporta il prodursi dello stato oniroide che porta a sbadigliare, o la condivisione del patire, che spinge a lacrimare

Tarantismo salentino e antico culto ellenico di Asclepio

Le sorprendenti analogie di rito presenti nel tarantismo salentino e nell’antico culto ellenico di Asclepio

di Romualdo Rossetti

Alla luce delle ultime ricerche storiche ed archeologiche risulta evidente che il tarantismo salentino, a differenza di quanto sostenuto da Ernesto De Martino nella sua Terra del Rimorso, affonda le sue radici nella prima storia del bacino del Mediterraneo. Se ci si sofferma ad analizzare con spirito sereno la particolarissima ritualità di questo fenomeno antropologico, ormai in via d’estinzione, non si possono non cogliere le numerosissime corrispondenze di culto che lo legano intimamente agli antichi riti di guarigione praticati in tutti i santuari di Asclepio della Magna Grecia e delle zone ad essa culturalmente contigue.

Ernesto De Martino interpretò il tarantismo quasi esclusivamente in chiave sociologica individuandone la causa nel malessere sociale dei poveri del Mezzogiorno d’Italia, nella condizione subordinata all’uomo della donna contadina, nella società rurale salentina retrograda e culturalmente arretrata, nella diversità fisico-psichica e sessuale mal vissuta e/o socialmente mal tollerata e soprattutto in uno spaccato esistenziale ingenuo e sottomesso all’autorità religiosa.

Per quel che concerne l’origine del fenomeno sociale, nel quinto paragrafo del commentario storico della sua Terra del Rimorso l’etnologo collocò l’atto di nascita del tarantismo nell’alto Medioevo, durante gli scontri tra la civiltà cristiana e quella musulmana in occasione delle Crociate, uno spazio temporale ben preciso che, a ben vedere, escludeva drasticamente la possibilità che esso si fosse generato nella protostoria dell’Occidente. Un’indagine, quella demartiniana, che finì per porre in essere un’interpretazione riduttiva del tarantismo perché frutto di una visione personale del marxismo vissuto soprattutto in chiave esistenzialista, una lettura antropologica, dunque, vittima del tempo (anni 50 del XX secolo) in cui il fenomeno venne studiato, etichettato e proposto al pubblico.

Galatina, cappella di San Paolo, particolare della tela del santo omonimo

Ciò che lascia oggi sorpresi è però, come mai, uno studioso delle religioni attento, intelligente ed intuitivo come Ernesto De Martino abbia trascurato di esaminare il culto di una importantissima pratica medica delle origini e la sua probabile sovrapposizione sincretica in un altro rito nel corso degli anni. Probabilmente ciò fu dovuto proprio dalla formazione culturale dell’etnologo, una formazione culturale fedele all’indirizzo imposto da Benedetto Croce, da sempre poco incline ad analizzare ciò che poteva fuorviare il dato storico da analizzare. In realtà, però, gli sarebbe bastato interpretare con più attenzione le stesse critiche del medico settecentesco Francesco Serao, da lui più volte menzionate nella Terra del Rimorso, quando affermava che la fenomenologia del tarantismo non dipendeva affatto dal morso della tarantola quanto, piuttosto, dall’indole congenita dei pugliesi.

L’indole di un popolo, è notorio che non la si costruisce dall’oggi al domani, ma è un sovrapporsi di simboli, significati e vissuti sociali che si tramandano nei secoli nei costumi, soprattutto in quei contesti culturali arretrati come possono esserlo quelli propri del mondo contadino. Gli sarebbe bastato poco per intuire che il tarantismo come forma di catarsi dall’oistros, come esorcismo coreutico-musicale, affondava le sue radici nella protostoria della Magna Grecia. Se soltanto avesse disatteso le proprie radici crociane e si fosse soffermato ad osservare lo Zodiaco, la prima mappa sapienziale dell’uomo, avrebbe di sicuro intuito che l’Oistros deteneva, non a caso, un posto d’onore anche tra le stelle dove compariva altresì il nome divino della sua risoluzione. Poco sopra la costellazione dello Scorpione difatti, gli antichi scrutatori e denominatori degli astri, avevano posto la costellazione dell’Ofiuco, detto anche Anguitenens o Serpentario che col calcagno pare schiacciare lo Scorpione che a sua volta, pare, volerlo pungere. A quel punto la chiave di risoluzione del mistero dell’origine del tarantismo poteva essere facilmente risolta rifacendosi ad un’unica antichissima divinità, ad Asclepio il signore e demone colui il quale fu da Zeus predisposto alla guarigione fisica e psichica dei mortali.

Se De Martino non si fosse soltanto soffermato a catalogare in maniera quasi ossessiva, come stabiliva il metodo storicistico, il comportamento dei tarantolati durante l’esorcismo nella piccola cappella sconsacrata della casa di S. Paolo a Galatina ma si fosse soffermato ad esaminare l’ubicazione del pozzoomphalos dalle acque emetico-curative all’interno del complesso architettonico della cappella avrebbe sicuramente colto la corrispondenza strutturale che la associava ad un antico asclepeion.

Anche i tanti simboli della città di Galatina, a partire dal nome della stessa, furono trascurati e non furono vagliati con la dovuta accuratezza filologica e semantica. Ad onor del vero ciò è accaduto non unicamente con l’indagine demartiniana ma anche con le altre numerose successive indagini antropologiche che, pur volendo distanziarsi dalla lettura del fenomeno operata tramite la Terra del Rimorso, hanno continuato a trascurare l’evidente inoltrandosi in un indirizzo di ricerca alla “moda”, (interpretazione nietzscheana) con tanto di eccessivi ed azzardati rimandi al dionisismo ed al menadismo.

Esculapio

Asclepio, il protagonista nascosto del tarantismo salentino, veniva rappresentato solitamente come un uomo maturo, il più delle volte munito di  barba con in pugno un bastone e con l’altra mano appoggiata sulla testa di un

I cinquant’anni della spedizione etnografica di Ernesto de Martino in Salento

di Gino L. Di Mitri

 

Il cinquantenario della spedizione etnoantropologica di Ernesto de Martino a Galatina, avvenuto nel 1959, è annunciato dall’arrivo nelle librerie della quinta edizione italiana de La terra del rimorso. Si tratta della prima volta che la casa editrice il Saggiatore ricorre a una soluzione redazionale ex novo dopo le precedenti che furono, in realtà, delle ristampe anastatiche della princeps pubblicata nel 1961.

Il volume è sapientemente prefato da Clara Gallini, insigne antropologa già allieva di de Martino, la quale ricostruisce dal suo punto di vista il dibattito passato e recente sul tarantismo alla luce della letteratura specifica. Il volume è accompagnato da un cd che ripropone sia le raccolte musicali effettuate in Salento da Diego Carpitella al seguito della spedizione di de Martino, sia le immagini scattate nel 1960 dallo stesso etnomusicologo e facenti parte del documentario Meloterapia del tarantismo.

Questa decisione di una riedizione de La terra del rimorso si accompagna a una serie piuttosto lunga e articolata di seminari – organizzati dalla stessa Gallini all’Università La Sapienza – che nella fase del loro avvio hanno conosciuto anche una tappa leccese coordinata da alcuni docenti delle’ateneo salentino. In realtà, questa rievocazione di de Martino non nasce sotto il segno della tarantola, bensì in occasione del centenario della nascita dello studioso napoletano: essa era cominciata nel 2008, a un secolo dalla nascita di de Martino avvenuta nel 1908, ed è proseguita per tutto il corso dei colloqui organizzati dalla Gallini toccando, di volta in volta, temi fra loro molto diversi, quali la teoria delle apocalissi culturali, le basi teoretiche di un pensiero spesso ambivalente se non ambiguo e compreso fra crocianesimo e marxismo, il taglio delle indagini sulla magia nel Sud, il significato di storia religiosa relativo al Mezzogiorno d’Italia e molte altre cose. In ogni caso, a mio modo di vedere, l’iniziativa di riflettere su de Martino da parte dei demartiniani è stata talmente differita in tutti questi anni, da giungere verosimilmente in ritardo rispetto a più di un calendario di studi già fittamente costellati di riflessioni e riconsiderazioni critiche su de Martino a partire dal 1998.

Qualunque sia stata la ragione di questo incredibile ritardo che si aggiunge alla negligenza con cui l’opera preziosa di de Martino e la sua ricerca sul tarantismo è stata diffusa nel mondo anglosassone, va lodato invece l’impegno profuso da Dorothy Louise Zinn, un’americana che ha scelto di vivere a Matera e che dunque conosce bene i luoghi di de Martino, per la sua scientificamente accurata e letterariamente apprezzabile traduzione de La terra del rimorso per la Free Association Books di Londra. Giunge quindi finalmente in porto un’operazione editoriale attesa per decenni dal pubblico dei lettori anglofoni.

Si tratta di un caso librario in cui si coniugano le ragioni del cuore (l’amore di una cittadina straniera residente in Italia meridionale per l’opera di un autore italiano) con quelle della cultura (la volontà di donare alla scena culturale anglosassone un testo preziosissimo e finora noto solo a chi conosceva l’italiano o, attraverso un edizione del 1966, il francese). Purtroppo il volume è privo delle musiche originali, tornate invece a corredare il libro del Saggiatore.

Nell’estate del 1959, in un contesto civile e socioeconomico dai connotati così diversi da quello attuale, Ernesto de Martino compiva la sua spedizione etnografica in Salento alla scoperta del misterioso fenomeno del tarantismo. Da allora, mezzo secolo è volato in un soffio. A ricordarsi di questo particolare capitolo del suo magistero furono per primi, nel 1998 e dopo un lungo silenzio da parte del mondo accademico, gli “outsider” che organizzarono a Galatina il gremitissimo convegno internazionale “Quarant’anni dopo de Martino”. Ma, si sa, le riconsiderazioni intellettuali sovente viaggiano di ricorrenza in ricorrenza: se il decennio intercorrente tra quel primo e questo secondo colloquio ha talora risuonato dell’attrito fra due idee di de Martino e del tarantismo (quella dei fedeli seguaci demartiniani e quella degli “eretici” fautori di una nuova antropologia storica), l’anno appena iniziato si apre in un clima di maggiore rispetto teoretico dovuto a fattori quali l’attenuarsi del glamour mediatico attorno al fenomeno etnomusicale derivato dal tarantismo, il consolidarsi di una letteratura tematica meno improvvisata e più scientifica, l’instaurarsi di una solida codisciplinarità nella ricerca in cui nessuna scienza è ancillare all’altra. Proprio quest’ultimo elemento sembra essere il portato più genuino de La terra del rimorso, libro scaturito da una ricerca sul campo in cui diversi esperti operavano sotto la guida di uno storico delle religioni che aveva saputo reinventarsi etnologo. Concepita in assenza di una antropologia italiana, l’indagine demartiniana sul tarantismo dovette consumarsi in appena tre settimane di residential research. Essa, per quanto all’epoca ben preparata, alla luce delle acquisizioni successive si mostra oggi debole nella ricostruzione del contesto storico. De Martino, per esempio, ignorava il recente passato bizantino della spiritualità e della devozione popolari in quel territorio estremo della Puglia: se gli fosse stato noto, avrebbe avuto ben chiaro il perché della sopravvivenza di un tale rituale sincretico di possessione per così lungo tempo.

Inoltre, la formazione culturale personale di de Martino, da un lato ancorata a Benedetto Croce e dall’altro protesa verso la richiesta politica di una legittima emancipazione e modernizzazione di quelle genti e di quei luoghi, in parte non gli fece tener conto di elementi che la sua acerba scienza antropologica riteneva che fossero “indegni” di studio, in parte lo spinse a sottovalutare – molto più di quanto non farebbe un antropologo contemporaneo – aspetti e indizi attraverso cui operare una riuscita lettura del fenomeno. Ma al di là di questi e altri punti deboli della sua spiegazione del tarantismo, resta fondamentale in de Martino la brillante intuizione che il tarantismo fosse una voce – la più eclatante e fragorosa – della complessa storia religiosa del Mezzogiorno italiano e non un mero fatto di folklore. Se non avessimo un po’ tutti recepito da lui questo concetto, le stesse nozioni di transe e di possessione probabilmente sarebbero rimaste confinate alla letteratura etnologica francese di stampo coloniale: quella dei Marcel Griaule e dei Michel Leiris.

Grazie invece al sapiente apporto dell’etnomusicologo Diego Carpitella che vi scorse i caratteri di un “esorcismo coreutico-musicale”, l’universo caotico e inquietante del tarantismo acquisì nell’opera di de Martino i lineamenti di una creatura chimerica per metà figlia dell’irrazionale degli antichi greci e per metà evocatrice di primitivismi extraeuropei. Dal suocero e antichista Vittorio Macchioro a Ernesto de Martino pervenne l’interesse per il sistema magnogreco del sacro: una suggestione niente affatto peregrina se in precedenza aveva calamitato l’attenzione di Alfred Maury e di Aby Warburg. Ma de Martino non parlò mai esplicitamente di transe né di possessione. Fu piuttosto per tramite di Diego Carpitella che il raffinato etnomusicologo e africanista Gilbert Rouget inserì il tarantismo nello schema generale dei rituali di transe afromediterrai; benché sia stato Georges Lapassade il vero mediatore culturale tra le acquisizioni di de Martino, le scienze etnoantropologiche europee e il grande pubblico di studenti, studiosi, lettori puri e appassionati estemporanei che ha decretato l’inarrestabile fortuna editoriale de “La terra del rimorso”, il libro che da cinquant’anni spinge turbe di viaggiatori provenienti da ogni luogo d’Italia e d’Europa a compiere ogni estate il pellegrinaggio ai luoghi della tarantola sulle orme di Ernesto de Martino.

 

 pubblicato su Spicilegia Sallentina n°5

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