Maglie, un’epigrafe del 1769 dal contenuto millenario ma con l’aggiunta moderna di un errore

di Armando Polito

La seconda foto foto è di Vincenzo D’Aurelio, che qui pubblicamente ringrazio per avermi consentito di utilizzarla per scrivere questo post. L’ho trovata sul suo profilo facebook al link

https://www.facebook.com/photo?fbid=10216317774609541&set=a.1481069759265 e, come tutte le iscrizioni datate, essa ha subito suscitato il mio interesse. Riproduco il dettaglio che ci interessa, opportunamente ingrandito compatibilmente con una definizione che non ne comprometta la lettura.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

L’epigrafe, collocata in via Ospedale1, è datata 1769 ma il suo studio comporta un tuffo nel passato e l’incontro con Teognide, un poeta greco vissuto fra il VI e il V secolo a. C., che in Elegie, I, 24-26 così scrive:

Ἀστοῖσιν δ’ οὔπω πᾶσιν ἁδεῖν δύναμαι·/οὐδὲν θαυμαστόν, Πολυπαΐδη· οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων.

Traduzione: Non posso piacere a tutti i cittadini: nulla di strano, figlio di Polipao, neppure Zeus piace a tutti né quando fa piovere, né quando tiene lontana la pioggia.

Dal tempo di Teognide ci spostiamo ora a quello di Erasmo da Rotterdam (1467-1536) e precisamente all’anno 1508, quando Aldo Manuzio pubblicò a Venezia Adagiorum chiliades2 (di seguito il frontespizio ed il colophon) di colui che forse è più noto come autore dell’Elogio della follia (titolo originale Moriae3 encomium).

Riproduco da p. 157 il brano che ci riguarda.

Trascrivo e poi traduco per poter agevolare la comprensione del commento.

Ne Iupiter quidem omnibus placet.

Theognis in sententiis, Οὐδὲ γὰρ ὁ Ζεύς/οὔθ’ ὕων πάντεσσ’ ἁνδάνει οὔτ’ ἀνέχων. Neque Iuppiter ipse sive pluat seu non unicuique placet. Hodieque vulgo dicunt. Neminem inveniri, qui satisfaciat omnibus. Nam aliis alia probantur. Et tres mihi convivae prope dissentire videntur poscentes vario multum diversa palato. Cui simile est illud evangelicum, quod in operis initio retulimus, cum de paroemiae dignitate loqueremur:  Ὑλήσαμεν ὑμῖν, καὶ οὐκ ὠρχήσασθε, ἐθρηνήσαμεν, καὶ οὐκ ἐκλαύσατε.

 

Traduzione: Neppure Giove piace a tutti

Teognide nelle sentenze: Infatti neppure Giove piace a tutti, sia che piova, sia che non. E oggi popolarmente si dice che non si trova nessuno che soddisfi tutti. Infatti uno approva una cosa, un altro un’altra. E a me sembrano non andare d’accordo tre commensali che chiedono cibi molto diversi per il differente gusto. E mi sembra simile a questo quel detto evangelico che ho riportato all’inizio dell’opera, parlando della dignità del proverbio: Cantammo per voi e non danzaste,  ci lamentammo e non piangeste.

Appare evidente la derivazione della nostra epigrafe dalla traduzione che Erasmo a suo tempo fece del proverbio estratto da Teognide, con l’unica differenza dell’assenza in quella del QUIDEM presente in questa.

NE JUPITER OMNIBUS PLACET A(NNO) D(OMINI) 1769

NE IUPITER QUIDEM OMNIBUS PLACET

Tale assenza non è irrilevante, perché pone una serie di problemi, grammaticali e non.

L’avverbio nemmeno in latino si esprime con nequidem in tmesi, cioè tagliato  nei suoi componenti [nec=e non e quidem=certamente], per cui, ad esempio, nemmeno un uomo in latino è ne homo quidem, vale a dire tra le due componenti risulta sempre inserito un altro termine; infatti correttamente in Erasmo Jupiter funge, per così dire, da inserto.

Nella nostra iscrizione, mancando quidem, che non può essere sottinteso, il ne dev’essere considerato a sè stante. E allora? Intanto in latino di ne ce ne sono diversi: un ne congiunzione con valore finale (=affinché) o dopo verbi che indicano preghiera, rifiuto, timore, condizione negativa, sempre col congiuntivo (nella nostra iscrizione placet è indicativo). Oltre al ne congiunzione, poi, esiste anche un ne con valore di avverbio col significato di davvero ma anche di forse, in entrambi i casi senza alcun rapporto con il precedente e nel secondo solo come enclitica (aggiunta in coda al verbo nelle proposizioni interrogative in cui la risposta è incerta). Nel primo, in cui il significato negativo non compare neppure parzialmente, è ipotizzabile che sia trascrizione del greco ναί (leggi nai)=certamente; nel secondo di μή (leggi me)=forse.                                                                                                                              Visto, come sì è detto, che placet è indicativo, il ne dell’iscrizione può avere solo valore avverbiale e, quindi, la traduzione sarà CERTAMENTE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769 (da escludersi, per quanto s’è detto prima a proposito del ne enclitico nelle interrogative, FORSE GIOVE PIACE A TUTTI. NELL’ANNO DEL SIGNORE 1769. In un caso o nell’altro essa sarebbe, comunque, semanticamente diversa (totalmente la prima, parzialmente la seconda) rispetto a quella di Erasmo. Quando le epigrafi anche moderne, seppur datate, come la nostra, sono delle citazioni, non ci sono molte varianti rispetto al testo originale e, se rimaneggiamento c’è, non è tale da cambiarne o solo renderne equivoco il significato.

Quando poi, come nel nostro caso compare quello che è a tutti gli effetti un errore di grammatica, si può ipotizzare che esso sia da imputare al committente (evento presumibilmente raro in una persona che, appartenendo certamente ad un censo elevato, non avrebbe avuto alcuna difficoltà, ammesso che non conoscesse il latino, a ricorrere all’aiuto di qualcuno competente) o allo scalpellino.

Eppure sarebbe bastato aggiungere a NE una C (le dimensioni dello spazio disponibile avrebbero giustificato l’omissione di QUIDEM ma quel fonema in più sarebbe potuto entrato comodamente4)  e con NEC JUPITER OMNIBUS PLACET (Né Giove piace e a tutti) il significato prima teognideo e poi erasmiano sarebbe stato salvo.

Tuttavia, a parziale discolpa della nostra epigrafe, c’è da dire che quell’omissione assassina di QUIDEM non reca la sua paternità, stando a quanto leggo in L’Esposizione di Parigi illustrata, Sonzogno, Milano, 1878, v. I, p.  22: L’Olanda ha voluto che l’architettura della facciata della sua sezione ritraesse il carattere del suo popolo, che predilige la bellezza solida e seria. Ai Paesi Bassi toccò la sorte di aprire la sfilata imponente e grandiosa delle architetture di tutti i popoli della terra, e l’aperse colla facciata d’un piccolo monumento del Secolo XVI, dove il mattone e la pietra, ammirabilmente uniti, danno l’uno all’altro lustro e splendore. in questa costruzione sono stati impiegati più di 120 mila mattoni d’una piccolissima forma e le fasce che formano si alternano colle pietre bianche scolpite, offrendoci un aspetto veramente gradevole. E una vera casa: la casa di uno di quei ricchi ed eruditi borghesi d’Olanda che vivevano due o tre secoli fa, i quali amavano la simmetria, l’ordine, la squisita pulitezza soprattutto nelle abitazioni. Ha il tetto acuminato, nascosto in parte dal corpo mediano dell’edificio che va decorato di statue e di ornati. Presso alla casa sorge una torricella graziosa, dal cui culmine si spicca l’asta, sulla quale s’arrampica il leone, stemma del paese. E lo stemma si scorge pure sulla parte più elevata della facciata, al disopra del motto: Ne Jupiter omnibus placet.

Ho definito quasi incolpevole la magra figura perché il motto senza quidem lo esibisce, come si legge, un manufatto del XVI secolo, a dimostrazione che Erasmo veniva già allora citato piuttosto disinvoltamente. Chi, poi, ha in antipatia gli Olandesì dirà che gli organizzatori avrebbero fatto meglio a scegliere e ad esporre un altro manufatto …

Anche le opera a stampa non scherzarono di lì a poco: Georg Engelhard von Loeneiss, Aulico-politica, darin gehandelt wird 1, Remlingen,, 1622, p. 101:

Georg Engelhard von Loeneiss (1552-1622) fu uno scrittore ed editore tedesco (l’immagine che segue è un’incisione custodita nella Biblioteca Universitaria di Heidelberg).

Le sue pubblicazioni si distinguono per la ricchezza delle incisioni, ma la sua opera più famosa  Bericht vom Bergwerk (Rapporto dalla miniera) del 1617 appare come un clamoroso plagio (un copia-incolla ante litteram da Lazzaro Ercker e da Giorgio Agricola), pur avendo ricoperto l’incarico di amministratore della miniera e della ferriera di Oberharzer. Con queste credenziali è tutt’altro che inverosimile (anche per un tedesco, ma come lui …) che abbia citato Erasmo a memoria mangiandosi il QUIDEM. Succede, purtroppo, che l’autorevolezza reale o presunta, quando non viene sottoposta a controllo, propizia il perpetuarsi dell’errore, come mostrano i dettagli tratti da pubblicazioni successive e di altri autori.

Jacob Dentzler, Clavis linguae Latinae, König, Basilea, 1709, p. 957:

 

Friedrich Wilhelm Breuninger, Johann Christian Neu , Fons Danubii, A spese degli autori, Tübingen, 1719, p. 2:

 

Joachim Ernst von Beust, Consiliarius in compendio, Mevio, Jahr, 1743, p. 196:

Georg Engelhard von Loeneiss, Hof-Staats und Regier-Kunst, s. n., Francoforte sul Meno, 1679:

La citazione risulta, invece, correttamente incisa in questo bicchiere della prima metà del XVIII secolo come motto (ingrandito nel dettaglio) della famiglia Van Hogendorp, il cui blasone è rappresentato nella parte superiore.

 

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1 Aiutandomi con Google Maps credevo di aver individuato come numero civico il 45 e tale data avevo riportato nel testo. Successivamente, grazie al commento di Andrea Cagnazzo, il 41 ha preso il posto del 45 e, ispirato dal commento di Francesco D’Agostino, ho aggiunto in testa una foto d’insieme. Infine, non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di aggiungere altri documenti emersi nelle ultime ore.

2 Alla lettera: Migliaia di proverbi. Già nel 1500 Jean Philippe a Parigi aveva pubblicato di Erasmo una silloge di proverbi latini col titolo di Adagiorum collectanea (Raccolta di proverbi) ma nell’opera del 1508 risultano inserite parecchie citazioni greche, con la sua traduzione in latino, fra cui quella che qui ci interessa.

3 Non attestato in latino, è creazione erasmiana, trascrizione del greco μωρία (leggi morìa).

4 A tal proposito JUPITER (variante del più ricorrente jUPPITER) da un lato obbedisce a questa esigenza di gestione dello spazio e dall’altro a quella di mantenersi fedele al modello erasmiano.

Rudie e le sue epigrafi funerarie

di Armando Polito

L’inizio, penserà qualcuno, non è dei più incoraggianti, a causa del funerarie sbattuto nel titolo senza un brandello di eufemistico velo. Faccia, se crede, il gesto apotropaico più efficace secondo l’opinione corrente  e se, dopo il tocco e ritocco (per citare l’immenso Totò …) delle scatole ritiene che la loro rottura rimanga un rischio troppo elevato, si dedichi ad altre letture.

Per tutti gli altri (dovessero essere, come temo, non più di due …) è d’obbligo una premessa. Sarò breve; e non vorrei che questa locuzione famigerata, portando a termine la strage iniziata brillantemente con funerarie,  mi privasse pure dei due lettori superstiti che per eccesso avevo ipotizzato in un accesso di presunzione …).

Il presente scritto non ha la pretesa di formulare alcuna ipotesi di natura scientifica (come, d’altra parte, fa capire l’esordio degno di un politico di razza; non dico, con riferimento all’una ed all’altra, chi e quale)  né tantomeno di fornire uno spaccato, sia pur limitato ad alcuni aspetti, di una comunità del passato, né una valenza statistica, che sarebbe improponibile a causa della disomogeneità cronologica dei dati a disposizione e della parziale o assente contestualizzazione di molti di loro. Questi ultimi sono offerti dalle epigrafi funerarie (comprese quelle incerte in questa loro qualifica perché mutile proprio nello spazio in cui molto probabilmente erano indicati gli anni di vita) rinvenute a Rudie o, almeno, così registrate nei repertori specializzati, anche come perdute. A tal proposito credo che nell’anno 2017 sarebbe ora di ovviare una volta per tutte all’attuale frammentazione, compilare un unico repertorio  (suddiviso in quante sezioni si ritenga opportuno) anche e soprattutto in formato digitale, con foto di ciascuna epigrafe qualora non sia andata perduta o prima che lo diventi …, e rendere obbligatoria a livello internazionale la registrazione di ogni futuro ritrovamento solo in quest’ultimo ed unico catalogo, la cui versione digitale consentirebbe un aggiornamento continuo e poco costoso per il carrozzone europeo, perché dovrebbe essere l’Europa a farsi carico di tutto in maniera sistematicamente definitiva e non con iniziative frammentarie come finora è stato,  prima che la stessa cosa venga in mente a qualche istituzione, pubblica o privata, americana, giapponese o cinese …

E non si mettano in mezzo, idiotamente in questo caso, i concetti di sovranità nazionale, libertà della ricerca e della pubblicazione, se il fine ultimo è non il profitto ma la diffusione della cultura e, in questo caso la fruizione gratuita, ribadisco gratuita, di un repertorio o catalogo digitale,  alias, per usare il linguaggio corrente, banca di dati.1

Il numero non imponente delle epigrafi rudine2 mi ha consentito di presentarle in singole schede, per le quali mi sono avvalso dell’utilizzo incrociato di EDCS3 , di EDH4 e di EDR5. Io ho aggiunto di mio la traduzione e le note di commento.

Per chi non volesse sorbirsi la loro lettura sequenziale, ma partecipare più direttamente all’afflato umano che una semplice iscrizione sepolcrale può trasmettere anche con pochissime parole, segnalo la testimonianza della vita più breve (n. 18) e, per contrasto, di quella più longeva maschile (n. 21) e femminile (n. 24), nonché del pericolo incombente sulle spalle di qualche traduttore di ultima generazione (e ancor più di quelli che fra poco usciranno dal liceo classico senza aver tradotto una riga di latino …), vittima inconsapevole di un dissacrante (visto l’ambiente funerario …) equivoco  … (n. 7). E non mancano i casi unici di ricorrenza onomastica (nn. 8, 11, 16, 19, 25, 26 e 32) e di nobilitazione poetica (n. 6).

Particolarmente interessante è poi, a mio avviso, la prevalenza di soprannomi (cognomina) di origine greca (in teoria denoterebbero raffinatezza culturale), anche se il fenomeno è ricorrente nel mondo servile in tutta la romanità; e, a proposito di mondo servile,  la prevalente presenza di un solo elemento onomastico denota la prevalente passata appartenenza a questa classe sociale dei defunti delle epigrafi rudine. Non mancano, d’altra parte, testimonianze relative a pezzi grossi (1, 28, 29 e 33). Ma, per saperne di più (non è un nobile ricatto …), le schede, in ogni caso, andrebbero lette una ad una …

prova

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1 In tal senso Italia Epigrafica Digitale, IV (Febbraio 2017), Regio II. Apulia et Calabria, integralmente consultabile in http://ojs.uniroma1.it/index.php/ied/issue/view/IED%204, costituisce una lodevole iniziativa che, pur non risolvendo il problema di un catalogo unico, tenta una raccolta organica dei dati sparsi in vari repertori aggiungendo informazioni sullo stato dell’epigrsafe (integra, mutila, frammentata, frammento, perduta), sulla sua datazione in base alle risultanze paleografiche, sul nome del luogo di ritrovamento e di attuale conservazione, sulla datazione approssimata in base alle risultanze paleografiche Invito caldamente il lettore a leggere a tal proposito  l’introduzione di Silvio Panciera e soprattutto le sue riflessioni illuminate e lungimiranti sul diritto d’autore.

2 Le rimanenti, prevalentemente onorarie, sono la minoranza: EDR104907, EDR104908 (di essa, catalogata nel CIL IX col n. 23) mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/05/01/lepigrafe-di-rudie-ovvero-cil-ix-23-un-maquillage-ben-riuscito-pero/), EDR 104911 (di essa, catalogata nel CIL IX col n. 21, mi sono occupato in https://www.fondazioneterradotranto.it/2014/06/06/una-sponsorizzazione-femminile-dellanfiteatro-di-rudiae-nella-travagliata-storia-di-una-fantomatica-epigrafe-cil-ix-21-prima-parte/), Ne restano pochissime altre, il cui stato di frammentarietà impedisce di deciderne la funzione. Tra queste ultime io collocherei prudenzialmente anche l’ultima rinvenuta nel corso degli ultimi scavi dell’anfiteatro e pubblicata in Rudiae e il suo teatro, a cura di Francesco D’Andria, Comune di Lecce, 2016. Nell’opuscolo appena indicato a p. 45 è scritto che una prima lettura dell’epigrafe (Aster Filippini) permette di leggere il nome di Otacilia Secundilla, cioé lo stesso personaggio  di EDR104911. A p. 18, poi, quasi la consacrante conferma della lettura: “… la lastra si marmo che attribuisce ad Otacilia Secundilla, una ricca signora …”. Sarebbe stato meglio usare un “probabilmente” o “forse” in più e meglio ancora pubblicare nell’opuscolo l’epigrafe ricostruita con i suoi pochi frammenti e con le ipotetiche integrazioni lasciando al lettore appena appena smaliziato la possibilità di farsi un’opinione circa la sua quanto meno discutibile compatibilità, o, in un certo senso, gemellaggio, con EDR104911. Il metodo deduttivo dal quale, comunque, in alcune fasi non si può prescindere, nasconde delle insidie e stimola suggestioni che con la scienza hanno poco da spartire. Non vorrei che con questa nostra epigrafe (magari esibita con la presunta gemella) succedesse ciò che è successo con  un’epigrafe attica (IG I3 67) probabilmente della prima metà del V secolo a. C. giuntaci in condizioni pietose, che da L. Braccesi è stata ipoteticamente, sottolineo ipoteticamente, collegata col rinnovo del trattato di “antica amicizia” tra Messapi e Ateniesi di cui parla Tucidide (VII, 33, 3-4), con l’introduzione del nome di Artas a riempire una delle numerose lacune. L’ipotesi del Braccesi, ripresa da S. Cataldi, non è stata accolta dagli studiosi successivi, tant’è che essa (ex IG I2 53) è stata registrata nella nuova collocazione con cui l’ho citata nella forma di seguito riprodotta, in cui il nome di Artas non va ad integrare alcuna lacuna.

Ricordando a chi non ha dimestichezza con queste cose che le lettere non incluse in parentesi quadre (58) sono le sole superstiti e che le rimanenti  (181) sono integrazioni, anche il più ingenuo dei lettori può rendersi conto dell’attendibilità di qualsiasi testo ricostruito partendo da una base così lacunosa.  Basterebbe un minimo di fantasia o il condizionamento dovuto alla necessità di provare in qualche modo la bontà di una mia ipotesi perché pure io ci intrufoli qualsiasi cosa.

Mi pare che nemmeno una delle testimonianze addotte autorizzi a far pensare, scientificamente parlando,  ad un’amicizia, in senso restrittivo, militare (in una parola, alleanza) o in senso lato (comunione di sentimenti) tra Pericle ed Artas, esibiti più volte come sicuri (cioè come tali qualificati dalle fonti) amici nelle presentazioni, anche scolastiche, fatte da Fernando Sammarco della sua saga dedicata al messapo. Sarebbe un secondo delitto se a qualcuno venisse in mente l’idea, campanilistica o promozionale …, di fare altrettanto con Otacilla Secundilla, visto che con Artas è bastata un’epigrafe che sembra reduce da uno scontro frontale e che della nostra, invece, avremmo, oltre a qualcosa di simile, anche un’attestazione indiscutibile, pur emersa da un’epigrafe andata perduta.

3 Acronimo di Epigraphik-Datenbank  Clauss/Slaby  (http://db.edcs.eu/epigr/epi.php?s_sprache=it).

4 Acronimo di Epigraphische Datenbank Heidelberg (http://edh-www.adw.uni-heidelberg.de/home).

5 Acronimo di Epigraphic Database Roma (http://www.edr-edr.it/edr_programmi/res_complex_comune.php?lang=it&ver=simp).

 

Anche un’epigrafe può essere un pretesto …

di Armando Polito

Sono trascorsi poco più tredici anni e mezzo da quel fatidico 1 gennaio 2000, anno che qualcuno sicuramente ricorderà per qualche evento piacevole o spiacevole, al di là del clima di attesa che la data prima indicata portò con sé, anche se ben diverso dovette essere lo stato d’animo di chi in prossimità della conclusione del millennio precedente era vissuto tra attese apocalittiche e profezie la cui cripticità creava più terrore di qualsiasi catastrofe chiaramente annunziata.

Pure l’homo tecnologicus non fu indenne dal trambusto da passaggio di millennio: chi, avendo dimestichezza col pc, non ricorda la “maledizione” del millennium bug? La cosa paradossale è che allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 1999 non successe nulla, mentre a scoppio ritardato la Microsoft rilasciava in data 14 settembre 2000 la versione del suo sistema operativo denominata Windows ME (Millennium edition) che non avrebbe avuto lunga vita, soppiantata, come fu, da Windows XP, versione rilasciata il 25 ottobre 2001.

Io, per fortuna, ricordo il 2000 per motivi professionali, più precisamente per un cd su Nardò realizzato prima della fine dell’anno 1999-2000 con la mia quinta ginnasiale.

 

Non è che il laboratorio d’informatica all’epoca potesse definirsi avanzato o adeguatamente aggiornato; ad ogni modo, sfruttando ciò che avevamo, riuscimmo a portare a termine la nostra fatica, pur tra mille contrasti dovuti soprattutto al fatto che non è facile mettere d’accordo 23 teste sulla scelta di uno sfondo o di un font … (per parecchi di loro, beata incoscienza della gioventù, era proprio quella la scelta più importante).

E poi, avrei potuto mandare a monte tutto dopo le innumerevoli foto fatte insieme, sia pure con gruppi diversi, nelle due ore del pomeriggio nei giorni in cui ragazzi potevano “rubare” il tempo allo studio “normale”?

Avrei potuto mandare a monte tutto dopo che mi ero dissanguato (2.100.000 lire) a comprare la mia prima fotocamera digitale che maneggiavo con una cura, con una delicatezza e con mille precauzioni (quando prendevo in braccio le mie figlie ne usavo 999 …)? Certo, avrei potuto spendere di meno, ma sono fatto così: tendo al meglio, ma so aspettare finché non è possibile realizzare la mia aspirazione (certo, se si fosse trattato di una Ferrari, starei ancora ad aspettare il meglio …).

Per sfortuna del lettore ho ritrovato ieri il cd contenente quelle foto, gran parte delle quali confluirono in quel lavoro che, rivisto oggi,  mi sembra certamente ingenuo ma, mi si conceda un attacco di immodestia, dignitoso. Quelle foto le cercavo da quattro anni e ormai mi ero rassegnato all’idea di averle perse per sempre, anche perché due anni è stato fino ad ora  il tempo medio di aspettativa di ritrovamento quando mia moglie mette ordine nelle mie disordinatissime cose nelle quali, però, finché restano tali, vado ad occhi bendati.

La prima foto della serie è proprio quella riproducente l’altare maggiore della chiesa della B. Vergine Incoronata a Nardò.

 

Ha attratto la mia attenzione l’epigrafe (nel 2000 non c’era il tempo per fare approfondimenti, né a scuola o a casa avevamo la connessione alla rete) nel dettaglio della foto sottostante.

 

VOCE CHRISTI

MAGNUS

OMNIUMQUE VOCE

MAGISTER

 

Per voce di Cristo

grande

e per voce di tutti

maestro

 

Da notare la costruzione simmetrica delle due parti ognuna delle quali occupa due linee:  il voce Christi e il magnus della prima corrispondono, rispettivamente, all’omniumque voce e al magister della seconda. Da notare, inoltre, l’inversione dei componenti (ablativo e genitivo) in voce Christi e omniumque voce allo scopo, credo, di far risaltare il più importante (Christi) di fronte al meno importante, anche se collettivo, (omnium).

Le frecce in basso hanno il compito di evidenziare graficamente queste corrispondenze.

Ma i due nominativi MAGNUS e MAGISTER (peraltro entrambi dalla stessa radice mag-; in particolare magister risulta formato dall’avverbio magis=più, il cui originario valore comparativo viene ribadito dal suffisso –ter che indica confronto fra due) a chi si riferiscono? Il primo sospetto in questi casi è che l’epigrafe sia in qualche modo una citazione da qualche scrittura sacra. Un’indagine in rete, però, anche cambiando l’ordine di qualche parola, non ha fornito alcun riscontro.

Non mi restava che consultare qualche testo che se ne fosse occupato. E qui spunta il nostro Marcello Gaballo, curatore, sottolineo curatore, di Nardò Sacra scritto da Emilio Mazzarella e pubblicato da Mario Congedo a Galatina nel 1999. Sono sicuro che l’amico Marcello che tempo fa me ne ha regalato una copia non si pentirà, per quel che dirò, del suo generoso gesto.

Alle pagg. 340-341 leggo: L’altare maggiore, cui si accedeva mediante alcuni gradini in marmo bianco, era tutto in pietra leccese con sculture in bassorilievo e angeli in vari atteggiamenti e nel mezzo, sotto la base del Crocifisso, la scritta:

VOCE CHRISTI MAGNA

OMNIUMQUE VOCE MAGISTER

La traduzione fornita in nota è: Il Maestro con la grande voce di Cristo è quello con la voce di tutti.

Questa traduzione mi pare discutibile (al di là del suo ermetismo) non tanto per il verbo essere sottinteso quanto perché risulta totalmente ignorata l’enclitica que. Tutt’al più si potrebbe tradurre: Il maestro (è tale) per la grande voce di Cristo e per voce di tutti. Il lettore noterà che ho scritto maestro con l’iniziale minuscola perché il Maestro per eccellenza è già in Christi.

Inutile, però, perdere tempo su questa traduzione quando nel testo trascritto cui essa si riferisce compare un MAGNA invece del MAGNUS che la foto inequivocabilmente attesta.

E allora? Riconsiderando il tutto mi viene in mente che qui ci potrebbe essere un’eco (solo un’innocente eco, non intendo dire altro …) del magnus Magister dei cavalieri templari applicato, però,  al rettore (inteso come figura istituzionale e senza alcun riferimento individuale) del tempio, con una scissione concettuale del nesso, per cui tale rettore sarebbe magnus per voce di Cristo e magister per voce di tutti. Per ulteriore slittamento, poi, il tutto potrebbe essere un monito generale rivolto al celebrante: (Tu sei) grande grazie alla voce di Cristo e pastore grazie alla voce di tutti.

Il parallelismo grammaticale all’inizio descritto mi impedisce di considerare l’omnium di omniumque di genere neutro plurale sostantivato e, dunque escluderei quest’ulteriore interpretazione, anche se mi sembra la più suggestiva e cristianamente profonda tra tutte: Tu (sei) grande con la voce di Dio e  maestro con la voce di tutte le cose (cioè con l’esempio).

Anche se tutto ciò che non è connesso strettamente con l’epigrafe è andato esattamente così come l’ho descritto, non posso affermare senza ombra di dubbio che la scrittura di questo post è stata dettata da motivazioni di (basso, visti gli esiti … come al solito incerti) ordine scientifico piuttosto che dalla irrefrenabile nostalgia suscitata da quella foto. E di questo chiedo perdono a chi ha avuto la pazienza di seguirmi fin qui.

Tutino e la contraddizione pragmatica delle epigrafi del suo castello baronale

di Armando Polito

Debbo anzitutto ringraziare Marco Cavalera, autore, sul tema,  del post apparso sul sito qualche giorno fa perché, prima di leggerlo, di Tutino ignoravo pure il nome.

Particolare interesse hanno suscitato in me le iscrizioni riportate e le considerazioni che farò le riguardano in modo esclusivo.

Citerò di ognuna testo e traduzione per non obbligare il lettore ad un continuo andirivieni tra il mio post e quello di Marco.

1) ALOISIUS TRANE PRIMAE PATRlAE NOMEN GAZA VERO COGNOMEN INTER PRIMOS FORTUNAE NATOS FAVENTE MINERVA AD PRlSTINAM NOBILITATEM EJIUS FAMILIAM REDUXIT IMISQUE AB INFIMIS FUNDAMENTIS EREXIT POSTERISQUE SUIS VINCULA(VIT)

(Luigi Trani dal nome della patria di origine, in verità di cognome Gaza, tra i prediletti della fortuna, col favore di Minerva riportò all’antica nobiltà la sua famiglia, lo eresse fin dalle fondamenta e lo destinò ai suoi posteri).

Giustamente è stata citata per prima, perché costituisce la targhetta di riconoscimento del manufatto. Gli ingredienti che la compongono sono quelli che usualmente si leggono in documenti del genere, ma voglio far notare la riconoscenza espressa nei confronti di due divinità pagane: Fortuna e Minerva.

2) VINCE IN BONO MALUM (Vinci il male con il bene).

Si tratta della seconda proposizione di un periodo (12, 21) della lettera di San Paolo ai Romani:

Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Non farti vincere dal male, ma vinci il male nel bene).

Il lettore si sarà accorto della diversa traduzione che ho dato di in bono. Molto spesso la traduzione libera non esprime compiutamente il pensiero come quella letterale che, secondo me, va adottata tutte le volte che si incorre in questo rischio. Nel nostro caso l’originario complemento di stato in luogo (in bono, nel bene) è molto più pregno di significato del complemento di mezzo (con il bene), che in latino avrebbe richiesto la presenza dell’ablativo semplice (bono e non in bono). San Paolo, insomma, esortava non a vincere il male con il bene ma (restando) nel bene, formulazione di un principio generale che privilegiava la continuità di uno stato che, al di là della sua contingente incarnazione temporale, doveva avere anche un’atemporale funzione preventiva (chi sta costantemente nel bene non avrà bisogno di combattere il male perché non esiste neppure il rischio, almeno endogeno, di esserne assalito).

3) MELIOR DIES MORTIS QUAM NATIVITATIS  (Meglio il giorno della morte che quello della nascita).

Si tratta anche qui di una citazione parziale, questa volta  di un proverbio biblico (XXI, 2):

Melius est nomen bonum quam unguenta pretiosa, et dies mortis die nativitatis (È meglio un buon nome che profumi preziosi e il giorno della morte che quello della nascita).

Credo che il motivo ispiratore sia la condanna dell’apparenza (profumi preziosi) rispetto alla sostanza (buon nome), ricalcato nella seconda parte con la contrapposizione tra la morte (tempo di bilancio consuntivo) e della nascita (tempo di bilancio preventivo).

4) CORONA SAPIENT(I)UM DIVITIE(AE) EORUM (Corona dei sapienti è la loro ricchezza).

Citazione parziale di un altro proverbio (XIV, 24): Corona sapientium, divitiae eorum; fatuitas stultorum, imprudentia (Corona dei sapienti, le loro ricchezze; degli stolti, la superficialità e l’imprudenza).

Qui sono in ballo elementi tutti spirituali, come le ricchezze dei sapienti e la superficialità e l’imprudenza degli stolti.

5) MISERICORDIA ET VERITAS CUSTODIUNT REGEM   (Misericordia e verità proteggono il regnante).

Altra citazione parziale dal proverbio XX, 28: Misericordia et veritas custodiunt regem et roboratur clementia thronus eius (La misericordia e la verità proteggono il re e il suo trono è rafforzato dalla clemenza).

6) QUID PRODEST STULTO HABERE DIVICIAS CUM SAPIENTIAM EMERE NON POSSIT (Che cosa giova allo stolto avere la ricchezza se non può comprare la sapienza?)

Si tratta della citazione, questa volta integrale, del proverbio XVII, 16.

7) VERE PRINCIPUM EST SIMULARE (Fingere è proprio dei principi).

A Luigi XI, re di Francia dal 1461 al 1483, è attribuita la frase qui nescit dissimulare, nescit regnare (chi non sa fingere, non sa regnare), della quale la nostra iscrizione sembra la sintesi e che avrebbe trovato la sua sistemazione teorica, vedendo, fra l’altro, nascere il principio della ragion di stato, ne Il Principe (1513) di Niccolò Machiavelli.

8) NON ETS (EST) CONC(S)ILIUM CONTRA DOMINUM (Non sia complotto contro il signore).

Citazione parziale del proverbio XXI, 30: Non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum (Non c’è sapienza, non c’è prudenza, non c’è assennatezza contro il Signore).

E qui mi dissocio dall’interpretazione di Marco, che introduce (a parte est  reso con sia come se fosse sit)  un adattamento ad personam indotto, credo, dal non aver potuto considerare il testo originale nella sua completezza, per cui il consilium diventa complotto e Dominum diventa signore.

A conclusione di questa analisi voglio fare questa riflessione che è un’immonda ma certamente rabbiosa parafrasi di Domande di un lettore operaio di Bertold Brecht (per la sinistra, il centro la destra e per tutte le possibili posizioni trasversali http://www.filosofico.net/brecht83operaio3.htm): le iscrizioni appena esaminate per un imbecille come il sottoscritto andrebbero raccolte in due gruppi: nel primo la 1 (in cui Minerva  diventa quasi un’autocelebrazione pagana della propria sapienza)  e la 7; nel secondo le rimanenti in contraddizione totale con le due del gruppo precedente, che, non a caso, pur essendo in minoranza, prevalgono per i fatti concreti cui danno vita (il palazzo, il mantenimento del potere).

E allora, ben venga qualche atto vandalico o qualche terremoto che faccia piazza pulita di queste (presunte?) vergogne? Tutt’altro! Esse vanno conservate come testimonianza delle nostre contraddizioni e miserie (soprattutto quelle legate al potere in tutte le sue forme) e lette alla luce brechtiana che, in ultima analisi (incredibile per un comunista!), coincide con l’insegnamento cristiano (non cattolico!).

Vuoi vedere che la trascuratezza in cui versano i nostri, così pomposamente definiti, beni culturali non dipende solamente da un comodo principio di priorità connesso con le ristrettezze economiche?

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