6 gennaio, non solo Befana materiale

epifania2

di Rocco Boccadamo

 

Sin da domenica 5, giorno della vigilia, ho puntualmente avvertito intorno a me l’atmosfera caratteristica e, in certo senso, unica, della ricorrenza: insistiti concerti di discorsi, immagini e manifestazioni su calze e doni, con la classica vecchietta a cavallo della scopa.

In aggiunta, anche questo è ormai un rito, le anticipazioni promozionali sull’evento, in programma nella serata del 6, relativo all’estrazione dei premi della Lotteria Italia, fra cui il primo pari a ben 5 milioni d’euro.

Tuttavia, nonostante siffatto coinvolgimento, all’improvviso, mi sono sentito preso da un pensiero e da una riflessione, se si vuole banali, che, però, non mi hanno lasciato più.

In sostanza, ho osservato, anzi ho maturato la convinzione, che per me, ragazzo di ieri, mentre appaiono lontanissime le calze della Befana gonfie di doni, invero frammisti, sovente, a pietre di nero carbone, adesso il regalo più bello e la Befana maggiormente gradita e preferita m’arrivano direttamente nelle mani ogni giorno, con naturalezza, semplicità e serenità, compiendo un gesto semplice e umile, ossia nell’atto di ritirare dal negozio alimentare sotto casa, al corrispettivo di un euro, gli sparuti etti di pane fresco da consumare a tavola.

E, ancora, mi son domandato: “In fondo, che cosa c’è di più gustoso e appagante di una fetta o di un tozzo di pane fragrante? Quali altri cibi succulenti e/o dolciumi invitanti si pongono alla pari, giustappunto, del pane?”.

chiesa greca

Dopodiché, nella mattinata del 6, ho deciso e proposto a mia moglie, anche in questo caso all’improvviso, di andare ad ascoltar Messa non in un tempio comune, bensì in una Chiesa particolare, ossia a dire in quella di S. Niccolò dei Greci, correntemente nota come Chiesa greca, nel centro storico di Lecce, dove ha sede una minuscola parrocchia, dedicata a San Nicola di Mira, in cui si pratica il rito cattolico greco bizantino. Parroco pro tempore è il proto presbitero Nik Pace.

L’istituzione religiosa in parola è gerarchicamente incardinata nella diocesi, o meglio eparchia, di Lungro, in Calabria, avente giurisdizione su una ventina di altre parrocchie stabilite nei paesi della zona, vera e propria piccola enclave di popolazioni di origine albanese: i loro antenati, svariati secoli addietro, fuggirono dalla terra natia per motivi politici e religiosi.

Le più nutrite comunità arbereshe in Italia si trovano, com’è noto, giustappunto, in provincia di Cosenza, in prossimità del Parco e dei rilievi del Pollino e in Sicilia, nei pressi di Palermo, con centro principale a Piana degli Albanesi, pure sede di diocesi cattolica di rito greco bizantino.

Composta e graziosa è la facciata della Chiesa greca di Lecce e ancora più attraente l’interno, con la caratteristica galleria di icone, sulle quali primeggiano le immagini del Creatore, della Madonna e di S. Nicola.

All’inizio della celebrazione, è stato proclamato che, secondo il rito greco bizantino, si festeggiava non soltanto l‘Epifania – Teofania di Nostro Signore, detta anche Festa delle Luci, ma pure Il Battesimo di Gesù nel Giordano, evento che, in base al rito cattolico romano, si svolge, invece, nella prima domenica dopo l’Epifania.

teofania

Il rito, nella seconda parte, ha compreso la Grande Benedizione (in greco, Mègas Aghiasmnòs) delle acque, con il gesto dell’immersione della croce nell’acqua benedetta contenuta in un apposito artistico recipiente, sovrastato da un serto di fiori e tre candele; acqua da utilizzarsi per la benedizione delle case delle singole famiglie della parrocchia.

Di particolare intensità, verso la fine, la lettura di alcune profezie; in particolare, nel contesto di un brano riconducibile a Isaia, ho sentito declamare, dal ministrante, questa frase: “ Perché spendete il denaro per ciò che non è pane?”.

Nell’udire ciò, per la mia sensibilità, è successo come se si fosse affacciata un’eccezionale, inspiegabile e misteriosa coincidenza in rapporto al pensiero e alla riflessione venutimi in mente, ben prima e fuori da ogni sospetto, a proposito del significato e valore del pane acquistato per il fabbisogno familiare.

Non ci sarebbe potuto essere un dono più bello, da parte di una Befana, nella mia stagione dei capelli bianchi.

Quando la befana smise di portarmi le sue calze

befana

di Alfredo Romano

Negli anni Cinquanta del secolo scorso bastava poco per far contento un bambino. Una caramella era già un dono prezioso e, se la ricevevi da un estraneo, dovevi prima cercare l’assenso del genitore che ti faceva cenno col capo. A Collemeto, paese prossimo in linea d’aria al campo d’aviazione militare di Galatina, era facile incontrare degli avieri che frequentavano l’osteria dei Petrelli (la più vecchia che ricordi) che stava a pochi metri da casa mia in Via Padova n. 31. Noi bambini li aspettavamo gli avieri perché si divertivano a lanciarci le caramelle e noi a rotolare per terra per raccattarle con tutto il cuore fino a escoriarci le mani e le braccia.

 

La stessa cosa capitava quando una coppia se spusava te carbu (si sposava in bianco) in chiesa con tanto di cerimonia, codazzo, confetti e cannellini lanciati in aria. Anche qui a rotolarci sulla terra battuta (non c’era l’asfalto allora) per riempirci le tasche e tornare a casa vantandoci del bottino. Accadeva raramente, però, perché, ahimé, la maggior parte delle coppie se nde fucìanu (fuga d’amore) non solo per contrasti familiari, ma soprattutto per non affrontare le spese delle nozze in pompa magna.

Nel giorno di Natale allora non c‘erano regali per i bambini, ma, a cominciare dalla prima elementare, era d’uso porre una letterina sotto il piatto di papà, letterina che era stata preparata a scuola con l’aiuto della maestra. Papà sapeva della letterina, ma faceva finta di niente e aspettava la fine del pranzo per scoprirla. Quindi l’apriva e me la porgeva per leggerla. In poche righe dichiaravo i miei buoni propositi di diventare più buono e ubbidiente e di voler sempre più bene ai miei cari genitori. Finita la lettura, papà si metteva le mani in tasca e ti porgeva 10 lire: ci potevi comprare 2 caramelle con 10 lire, oppure 10 monachelle di liquirizia dalla putea te lu nunnu Vitu Sparpaja. Eppure per noi bambini bastavano a farci provare la gioia del Natale.

Ma l’attesa più grande per noi era quella della Befana, quando arrivavano dei regali veri. Eravamo quattro fratellini e la sera della vigilia c’era un certo trambusto alquanto inspiegabile dentro casa: si trattava dei miei genitori che si davano da fare per cercare i posti più assurdi per nascondere i doni da mettere nelle calze. Noi sapevamo che la vecchia Befana sarebbe scesa dal cielo passando per lo stretto del focalìre (caminetto). Aspettarla era sicuramente un evento carico di attese, ma anche di paura per l’arrivo in fondo di una misteriosa vecchia strega che arrivava chissà da dove e si fermava nel buio a un passo da noi per depositare i suoi doni. Sapevamo che i bambini più buoni sarebbero stati premiati; quelli cattivi, invece, avrebbero avuto solo carboni.

Naturalmente la sera della vigilia bisognava andare a letto presto e guai ad alzarsi nel corso della notte: occorreva attendere l’alba almeno per levarsi: rischiavi senò di far fuggire la Befana con tutti i suoi regali. E all’alba era un corri corri a llu focalìre per scoprire le calze lasciate dalla Befana per ognuno di noi fratelli. Io, che ero più grande, trovavo sempre un fuciletto che sparava a càzzule (una specie di triktrak che scoppiettavano), 3-4 arance e, immancabilmente, uno o due carboni. Quindi la Befana era stata sì generosa, ma.. ma… quei carboni stavano a significare che bisognava essere più buoni, più ubbidienti ai genitori, più timorati di Dio.
Si può immaginare sul tardi tutti i bambini in mezzo alla strada con i loro giocattoli: i maschietti con le pistole e i fuciletti, le femminucce con le bambole per lo più. Ma poi ricordo anche tanti bambini di famiglie più indigenti cui la Befana “non portava nulla” e imprecavano per non essersi degnata di scendere nel loro focalìre. E i genitori davano loro manforte incolpando anch’essi la vecchia strega.

Per tutto il giorno era un rincorrersi tra bambini in mezzo alla strada con spari di qua e di là, tanto che i grandi sbottavano nel solito: Vagnuni, ci cu ppuzzati schittunisciàre, spicciàtela! ca sta nne purtati la capu! (Ragazzi, che vi possano uscire getti in tutto il corpo, finitela! che ci fate venire mal di capo!). E dàgli e dàgli, a sera finivano le càzzule, e anche le pistole e i fuciletti erano ormai inservibili: avevano ballato un solo giorno, tanto per parodiare il titolo del romanzo “Ha ballato una sola estate” di Olof Ekström.

Ma arrivò l’anno in cui la Befana smise di portarmi le sue calze. Facevo la terza elementare. Si dà il caso che la sera della vigilia della Befana improvvidamente aprii casualmente un cassetto del comò, e che cosa ti andai a scovare?: pistole e fuciletti per me e per i miei fratellini. Non dissi niente ai miei genitori, ma ci rimasi di stucco: era sparita la magia della Befana, era sparita la bella attesa della vecchia strega carica dei suoi doni che scendeva nel focalìre. E quando il giorno dopo aprii la calza con dentro il mio fuciletto, le arance e i carboni, non esultai più di tanto: s’era rotto l’incantesimo. E sul tardi, appresso a mamma, quasi per fare il saputello:
«Mamma, io so chi è la Befana!».
«E chi è?» mi incalzò lei un po’ perplessa.
«Sei tu,» le dissi sfoderando un mezzo sorriso «l’ho scoperto ieri sera in un cassetto del comò».
«Ah sì? E allora d’ora in poi la Befana non verrà più a portarti i suoi doni!» sentenziò.
Ed è da allora che la mattina di ogni 6 gennaio, appena sveglio, mi affaccio sempre al caminetto della mia vecchia casa di campagna a Civita Castellana, ma nessuna calza, nessun fuciletto a càzzule, arance o carboni dir si voglia riesco a intravedere con gli occhi in su scrutando la canna fumaria: giusto la spenta brace e la graticola usata la sera prima per una cena consumata tra vecchi amici.

 

Quando la befana smise di portarmi le sue calze

di Alfredo Romano

Negli anni Cinquanta del secolo scorso bastava poco per far contento un bambino. Una caramella era già un dono prezioso e, se la ricevevi da un estraneo, dovevi prima cercare l’assenso del genitore che ti faceva cenno col capo. A Collemeto, paese prossimo in linea d’aria al campo d’aviazione militare di Galatina, era facile incontrare degli avieri che frequentavano l’osteria dei Petrelli (la più vecchia che ricordi) che stava a pochi metri da casa mia in Via Padova n. 31. Noi bambini li aspettavamo gli avieri perché si divertivano a lanciarci le caramelle e noi a rotolare per terra per raccattarle con tutto il cuore fino a escoriarci le mani e le braccia.

 

La stessa cosa capitava quando una coppia se spusava te carbu (si sposava in bianco) in chiesa con tanto di cerimonia, codazzo, confetti e cannellini lanciati in aria. Anche qui a rotolarci sulla terra battuta (non c’era l’asfalto allora) per riempirci le tasche e tornare a casa vantandoci del bottino. Accadeva raramente, però, perché, ahimé, la maggior parte delle coppie se nde fucìanu (fuga d’amore) non solo per contrasti familiari, ma soprattutto per non affrontare le spese delle nozze in pompa magna.

Nel giorno di Natale allora non c‘erano regali per i bambini, ma, a cominciare dalla prima elementare, era d’uso porre una letterina sotto il piatto di papà, letterina che era stata preparata a scuola con l’aiuto della maestra. Papà sapeva della letterina, ma faceva finta di niente e aspettava la fine del pranzo per scoprirla. Quindi l’apriva e me la porgeva per leggerla. In poche righe dichiaravo i miei buoni propositi di diventare più buono e ubbidiente e di voler sempre più bene ai miei cari genitori. Finita la lettura, papà si metteva le mani in tasca e ti porgeva 10 lire: ci potevi comprare 2 caramelle con 10 lire, oppure 10 monachelle di liquirizia dalla putea te lu nunnu Vitu Sparpaja. Eppure per noi bambini bastavano a farci provare la gioia del Natale.

Ma l’attesa più grande per noi era quella della Befana, quando arrivavano dei regali veri. Eravamo quattro fratellini e la sera della vigilia c’era un certo trambusto alquanto inspiegabile dentro casa: si trattava dei miei genitori che si davano da fare per cercare i posti più assurdi per nascondere i doni da mettere nelle calze. Noi sapevamo che la vecchia Befana sarebbe scesa dal

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