Gallipoli 1856. Disposizioni sanitarie per contagi

Antoine Roux, Brick Schooner (1829)

 

GALLIPOLI. DISPOSIZIONI SANITARIE PER IL CONTENIMENTO DEI CONTAGI IN UN EPISODIO DI COMMERCIO MARITTIMO DEL 1856

 

di Ennio Ciriolo

Anno 1856, marzo[1]

Testimoniale del capitano e verbale di addebiti dei Deputati della salute della Città di Gallipoli Brick-Schooner “Antonino”[2], Capitano: Angelo Caporale di Torre del Greco. Rotta: Palermo-Gallipoli.

Carico: zolfo, caffè e zucchero

 

«Giorno 18 marzo corrente anno 1856 siamo partiti da Palermo, io e la mia ciurma di dodici uomini, con un carico di sacchetti di zolfo in una stiva e altri di caffè e zucchero nella seconda, da consegnare in questa Città di Gallipoli al mercadante Salvatore Filieri, che aveva noleggiato il nostro Scuner denominato Antonino.

Spirando venti di Ovest contrarissimi alla nostra rotta e per cagione dei tempestosi flutti che facevano beccheggiare pericolosamente la nave, fummo costretti a poggiare nel porto di Reggio Calabria.

La mattina del giorno 28, il vento cambia e così, senz’altra novità, fatta vela da Reggio Calabria siamo giunti in questo porto. Faccio perciò richiesta di poter procedere al disbarco della merce».

Questo laconico costituto[3] di approdo apparve sospetto agli ufficiali del porto, ai funzionari della dogana e al Supremo magistrato di sanità marittima della Città di Gallipoli, i quali decisero di indagare sulla condotta del capitano e dell’equipaggio durante il viaggio, ai sensi del nuovo Regolamento di servizio sanitario marittimo nel Regno delle Due Sicilie emanato nel 1853 dal Re Ferdinando II di Borbone.

La lunga permanenza dello Scuner Antonino a Reggio Calabria fu il primo motivo che insospettì le autorità del porto. La sosta imprevista di circa dieci giorni durante un percorso abbastanza breve era difficile da giustificare.

Controllata la patente di sanità[4]dell’equipaggio esibita dal capitano, i magistrati della pubblica salute, attenti ad evitare ogni possibile causa di diffusione di malattie contagiose, trovarono che

«non era a tenore dell’ordinativo delle reali disposizioni, mancandovi in detta patente l’annotazione delle mercanzie a bordo, il luogo di nascita e l’età dei marinai, la bandiera e il tonnellaggio del naviglio, le generalità di un passeggero clandestino presente sul veliero, la provvista di viveri e di acqua necessari all’equipaggio.

Oltre di ciò, ispezionate le stive, scoprirono che nel fondo di detto vascello vi erano armi molto soprannumerarie rispetto a quelle annotate sulle polizze di carico, prive di attestazioni di controlli doganali pregressi e quindi di illecita provenienza».

La nave venne sottoposta a sequestro cautelare per le irregolarità della documentazione, per la presenza di uno sconosciuto a bordo, per le armi non dichiarate, per il sospetto che la loro incerta provenienza potesse essere causa di diffusione di malattie contagiose: peste, febbre gialla, colera, tifo petecchiale o esantematico.

Quelle armi potevano infatti provenire da luoghi infetti o da equipaggi suscettibili di infezioni che, a causa dei commerci illeciti in mare, lontano dai porti, avrebbero trafficato con gente equivoca, capace di sottrarsi al rigido controllo sanitario previsto dai Regolamenti di sanità marittima.

Il capitano dello Scuner Antonino venne richiesto di fornire le sue controdeduzioni riguardo a quanto gli veniva addebitato e di rispondere in maniera chiara e puntuale all’interrogatorio cui era sottoposto.

A discolpa sua e dell’equipaggio, egli addusse le seguenti motivazioni.

«Avendo esso capitano paventato che durante il di lui viaggio il suo Scuner potuto avrebbe incontrarsi con vele nemiche e venire alla pugna, come che a bordo la propria artiglieria di difesa era scarsa assai e debole, saggiamente pensò premunirlo con altre armi con cui potuto avesse far fronte all’inimico.

E data essendosi l’occasione nel porto di Reggio Calabria, allor che si partiva, di far compra di schioppi numero 200, cioè 170 posti già in armeggio e atti all’intutto per dar fuogo all’inimico, e gli altri trenta forniti dei propri ordegni pronti all’impiego per difesa nostra o per respingere i Legni barbareschi che interamente il vasto mare dappertutto infestano».

Ma ormai, alle autorità preposte, non interessavano tanto gli attacchi di pirateria che in effetti erano di molto scemati durante il 1800, quanto le condizioni di salute dell’equipaggio e il controllo della regolarità del carico della nave per evitare ogni eventuale possibilità di contagio che poteva provenire dai traffici marinareschi. Era convinzione comune che i viaggi per mare potessero compromettere la pubblica salute attraverso gli approdi dei bastimenti, i naufragi sulle coste, la tipologia delle merci trasportate, il transito nelle città di mare di gente forestiera sbarcata nel porto, specialmente se provenente dalle coste dell’Africa, dal Levante ottomano, da altri luoghi soggetti al dominio turco, da Tripoli, Tunisi, Marocco.

Possibili portatori di infezioni contagiose erano considerati in primo luogo «l’uomo e tutti gli altri animali pelosi, pennuti e lanuti». Erano poi ritenuti suscettibili di contagio diversi generi di commercio tra cui: lana, cotone, canapa, lino, stoppa, stoffa, tappeti, tabacchi, spugne, carta, libri, qualsiasi tipo di pelli e di cuoi. Anche i metalli, «semplici o manifatturati», potevano risultare contagiosi «per ragion della ruggine e dell’untume che naturalmente concepiscono nell’essere maneggiati»[5].

Nel caso dell’Antonino si giunse facilmente alla conclusione, anche per le reticenti spiegazioni del capitano e dell’equipaggio, che il carico di fucili era stato acquistato illegalmente e che allo stesso modo poteva essere venduto. Per cui, non potendone appurare né la provenienza né le condizioni igieniche, a causa del passaggio nelle mani di organizzazioni clandestine di numerosi trafficanti che inducono condizioni propizie alla ruggine, alla polvere, a germi altamente morbiferi, i Deputati della salute confermarono il sequestro della nave e dell’intero carico.

Al Pretore del Mandamento di Gallipoli venne demandata, per competenza, la valutazione dei risvolti penali dell’intera vicenda e delle sanzioni che andavano applicate.

Il capitano, l’equipaggio e il passeggero rimasto ignoto vennero posti, come richiedevano la prevenzione quarantenaria, la pratica di isolamento e le altre strategie di contenimento dei contagi, entro il recinto del lazzaretto, o ospedale del porto, delimitato da un sicuro cordone di custodia sanitaria, da un alto muro e un fossato.

Certo le malattie contagiose non risparmiavano Gallipoli né le altre città di mare. Basti qui ricordare le infezioni di tifo petecchiale con emorragia cutanea del 1804 e del 1848, che indussero vuoti paurosi nella densità della popolazione, causate, secondo le cronache storiche della città, da partite di grano infestato da petecchia e da altri virus patogeni sbarcate nel porto e panificate per il pubblico consumo. Anche allora, come oggi per il Corona virus, alcuni solerti medici perdettero la vita a causa del morbo che cercavano di debellare. Tra questi, Salvatore Marzo e Salvatore Demitri. Illustre vittima del contagio fu il vescovo Giuseppe Maria Giove, che molto si era prodigato «a pro dei veri poveri minacciati dalla malattia e di una morte quasi inevitabile per difetto di efficaci soccorsi»[6].

In assenza di qualsiasi intervento dello Stato, le imprese commerciali, spinte dalla necessità di sostenere l’economia, mettevano a disposizione della ricerca sanitaria gli indispensabili mezzi finanziari. A Gallipoli, le ditte francesi Auverny & Co. e la Emile Vienot, la Henry Stevens, inglese, la Mac Donald, olandese, sostennero la ricerca medica con propri finanziamenti allo scopo di conoscere meglio il virus del tifo petecchiale e combatterlo in maniera mirata.

L’odierna pandemia del Corona virus fa ripensare, mutatis mutandis, alle strategie sanitarie adottate in altre simili situazioni per arginare le conseguenze devastanti di malattie che, nella storia di lungo periodo, hanno aggredito e falcidiato la vita di intere generazioni. Per cui, senza esprimere giudizi di merito e traendo spunto dalle vicende sopra riportate, ritengo cosa utile riproporre alcune norme sulle urgenze sanitarie imposte dal Regio Decreto del 1853 per il Regno di Napoli. Ognuno può fare confronti e riflettere sugli accorgimenti anticontagiosi posti in essere nel passato e su quelli che vengono proposti oggi.

I reclusi del lazzaretto, sospetti di contagio, venivano sottoposti a diverse visite mediche, comunque non meno di due, una all’inizio e l’altra al termine della quarantena.

I medici, gli assistenti e i custodi del lazzaretto dovevano «essere coperti di una sopraveste di taffettà incerata, con cappuccio e maschera, calzati di zoccoli di legno e non si permetteranno mai di toccare gli infermi, né le loro robe, né i loro letti.

A tal fine porteranno sempre in mano un bastone con punta di ferro uncinato nel fine di scoprire gli ammalati quando occorra osservarli e far sì che nessuno si avvicini a essi.

L’infermiere e le guardie di servizio avranno, invece del bastone, lunghe mollette di ferro onde somministrare agli infermi i cibi ed i medicamenti prescritti, o per raccogliere da terra gli stracci, i fili, le carte e immediatamente bruciarli.

Tutto il personale sanitario, prima e dopo le visite, deve lavarsi le mani e il viso con acqua mista ad aceto antisettico e replicare queste lozioni frequentemente […] anche con soluzioni cloriche e saponate calde.

[…] Se un infermo viene a guarigione se gli debbono far recidere da lui medesimo i capelli ed i peli di tutte le parti del corpo. Indi si deve far passare in una sala di convalescenza ed ivi lavarsi diligentemente con un bagno tiepido e dargli dell’olio tiepido, acciò se ne unga per tutta la superficie del corpo, compresa la faccia e la testa». Doveva inoltre restare in osservazione per 40 giorni.

Le camere dei lazzaretti, a mano a mano che si rendevano libere o per causa di morte o, eccezionalmente, per guarigione dei reclusi, venivano imbiancate e disinfettate con calce. Il pavimento, sottoposto a ripetuti strofinamenti con la sabbia, era poi lavato con acqua di mare, con aceto antisettico e con “fumigazioni” nitriche o cloriche.

Le “robe” dei deceduti, non escluso il letto che avevano occupato, subito venivano date alle fiamme.

Se la morte fosse intervenuta per causa di peste, febbre gialla, colera o tifo petecchiale, il cadavere doveva essere preso con uncini di ferro, riposto nudo in una fossa cosparsa di calce viva, ricoperto ancora con calce e con acqua sufficiente per portarla allo stato di sobbollimento e, quindi, la fossa veniva colmata con almeno otto “palmi” di terra[7].

Poiché siamo in tema di contagi non è superfluo ricordare che la pandemia di Covid 19, che è la prima del XXI secolo, è comparsa puntualmente a distanza di cento anni, un secolo esatto, dall’ultima pandemia dell’età moderna: la Spagnola degli anni 1918-1920, quando le attuali irrinunciabili (o irresponsabili?) movide erano ancora di là da venire.

E diciamo ancora che la Spagnola trovò terreno fertile alla fine del primo conflitto mondiale, che aveva devastato l’intera Europa, mentre il Corona virus è stato preceduto da decenni di violenza sistematica e persistente perpetrata dall’uomo ai danni del pianeta Terra.

Che il Covid 19, come tante altre pandemie, abbia messo in ginocchio l’economia mondiale è fuor di dubbio. Ma è fuor di dubbio anche la nostra colpevole noncuranza riguardo ai livelli di qualità della vita che lasceremo a chi verrà dopo di noi.

 

Note

[1] AS LE, Verbali di avaria in mare, anno 1856.

[2] Scuner in italiano.

[3] «Il costituto è un atto legale, con cui il Capitano di un bastimento è obbligato a deporre innanzi alle Autorità sanitarie su tutte le circostanze della navigazione eseguita dal momento della sua partenza da un luogo fino a quello dell’approdo nel luogo ove se gli domanda il costituto». Dal Regolamento di Servizio sanitario esterno per il Regno delle Due Sicilie, 1853, Titolo II, Capo II, art. 27.

[4] «La patente è una carta autentica che le autorità sanitarie rilasciano ai Capitani o Padroni di bastimenti allorché essi sono per partire da un luogo. La patente deve indicare: il nome e l’età del Capitano del bastimento a cui si rilascia; la denominazione del bastimento e la bandiera di cui è coperto; i nomi e l’età di tutti gli altri individui che vi sono imbarcati, sia come formanti l’equipaggio sia come passeggeri; la specificazione del luogo per cui è diretto; la natura delle merci di cui il carico si compone», cit., Titolo II, Capo I, articoli 17 e 20.

[5] Ibid, Titolo I, Capo II, articoli 9-13.

[6] Cfr., F. Natali, Gallipoli nel Regno di Napoli, Tomo II, Mario Congedo Editore, Galatina 2007, p. 761.

[7] Regolamento generale di servizio sanitario esterno pel Regno delle Due Sicilie, 1853,Titolo III, Capo I, articoli 76-78.

1752. Un assalto di pirati sulle coste di Ugento

UN ASSALTO DI PIRATI SULLE COSTE DI UGENTO DESCRITTO IN UN DOCUMENTO DEL 1752

di Ennio Ciriolo

Una tartana in una incisione del XIX secolo

 

Il 18 aprile del 1752 un grande veliero con un albero a vela latina (tartana), partì dal porto di Manfredonia per raggiungere Napoli, capitale del Regno, con un carico di cinquemila tumuli di orzo. Un tumulo è pari a circa 15 Kg. Quindi, la tartana doveva far arrivare a destinazione circa 75.000 Kg di orzo. La Puglia era considerata il granaio del Regno di Napoli e, infatti, la maggior parte dei carichi mercantili provenienti dalla Puglia, trasportavano frumento.

La tartana si chiamava Immacolata Concezione ed Anime del Purgatorio e l’equipaggio era composto dal comandante Michele Guida e dai mozzi Salvatore di Palma, Egidio Rossano e Michele Visco, tutti provenienti da Vico Equense, una delle più belle città del napoletano affacciate sul mare.

Il percorso più rapido per un’imbarcazione salpata da Manfredonia era quello di arrivare a Capo di Leuca e da qui proseguire per le coste calabresi, passando poi per lo stretto di Messina e risalendo infine per Napoli. La distanza non doveva superare le 600 miglia nautiche. Certamente il tragitto non era dei più lunghi se paragonato alle grandi traversate di ciurme che praticavano il commercio via mare fin dall’inizio dell’Età moderna, toccando i maggiori porti europei come Barcellona, Marsiglia, Genova, Venezia, Napoli, Bari, Taranto, Malta, fino alle coste più a sud del Mediterraneo.

Tuttavia un tragitto più breve non significa certo meno pericoloso.

Il nostro veliero, partito il 18 aprile, dovette già fermarsi il giorno dopo, a pochi chilometri a sud di Otranto, presso Porto Badisco, per il vento poco favorevole. Solo la sera del 24 aprile, dopo cinque giorni, il veliero Immacolata Concezione salpò per proseguire la sua rotta fino a Napoli. Ma per l’imbarcazione comandata da Michele Guida le insidie non erano certo

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