Bon capu d’annu e bon capu de mese…

Strina, Pasca Bbefenìa e šcennaru siccu

di Emilio Panarese

 

La «strina» o strenna (parola sabina che significa salute, buon augurio) è il regalo di Capodanno. 

De Santu Sulivesciu porta la strina allu mesciu.
L’uso dei regali reciproci nel primo dell’anno è antichissimo e risale, secondo alcuni, al re Tito Tazio che andava a raccogliere in quel giorno foglie di verbena, che poi regalava agli amici, nel bosco della dea Strena, la dea della salute. I Romani erano soliti scambiarsi in dono focacce, fichi secchi, miele e datteri o, i più ricchi, tessere di metallo sulle quali facevano incidere la formula augurale «annum novum faustum felicem »: «felice e prospero anno nuovo».

Bon capu d’annu e bon capu de mese
/ apri la ursa e damme nnu turnese, recitavano invece fanciulli e giovanetti del nostro volgo nella case dei signori per fare gli auguri e ottenere regali in denaro o anche in cibarie…

Ci chiange a Ccapudannu, chiange tuttu l’annu; al contrario ‘chi a Capodanno ride, riderà per tutto l’anno’, come canta D’Amelio:
Sienti a mmie ca nu te ‘ngannu / de llegrìa osce è llu puntu / quandu è lliegru Capudannu / l’autri giurni lliegri suntu./ Statte lliegru, canta e ssona, / nu ppenzare a malatìa/ca la prima cosa bbona, / è llu scecu e lla llegrìa.

da http://www.mybefana.it/

L’uso delle strenne creò poi un personaggio simbolico: la Befana, immaginata come una brutta vecchia, sdentata e dal naso adunco, ma benefica e dispensatrice di doni, che va in giro per il mondo cavalcando una scopa e penetra nelle case per la canna del camino. Quest’uso forse è sapravvivenza di qualche rito magico pagano associato poi alla festa cristiana. La parola Befana è corruzione di Epifania, che vuol dire manifestazione divina (adorazione dei Magi, nozze di , etc.).
Fu considerata, insieme con la Pasqua, la festa più solenne dell’anno. Ancora oggi, qui nel Salento, il nostro popolo la chiama prima Pasca o Pasca Bbefenìa. Con essa si chiudono le grandi feste di dicembre, da cui il proverbio:
De Pasca bbefenìa / tutte le feste vannu via.

Tutti i signori in quel giorno si vestivano a nuovo: Te Pasca Bbefenìa se mmuta tutta la Signurìa.

Gennaio è il mese più freddo, anzi è bene che sia freddo, perché se la temperatura è mite, pochi frutti resteranno sugli alberi in primavera: Mandulu ci fiurisce de scennaru / unne ccoji allu panaru.
L’annata sarà buona, invece, se il mese sarà freddo e asciutto: Scennaru siccu, massaru riccu; secondo il suo carattere dovrà essere un mese rigido, perché se scennaru nu scennariscia, febbraru male penza.

Il rigore invernale però non distoglierà i nostri contadini dal lavoro dei campi: essi toglieranno col sarchiello le erbe cattive, perché solo la zappudda de scennaru inchie lu ranaru (il granaio), perché, solo se si zappa e si pota la vigna in gennaio, l’uva nel panaru (cesto) sarà abbondante: zzappa e puta de scennaru: l’ua intru a llu panaru.
 

In «Tempo d’oggi», II (1),1975

Tra i tuoi libri (ad Emilio Panarese)

 

Emilio Panarese nel suo studio - Maglie, 1979 (ph. Roberto Panarese)
Emilio Panarese nel suo studio – Maglie, 1979 (ph. Roberto Panarese)

 

di Titti De Simeis

Sento l’odore di legno e di carta. Una stanza di impronte in bianco e nero e di libri antichi con il prezzo in poche lire. Una libreria di fronte ad un’altra. Cornici sottili e foto di altri tempi in colletti di pizzo e cappelli di feltro.

Fuori è freddo, un inverno audace s’intravede appena. Le luci di Natale scaldano di rosso e nostalgia. Respiro il senso di una vita fatta di pensieri messi tra le pagine, rilegati in contrasto tra colori e pelle bordeaux, tra titoli in oro e manoscritti fotocopiati. Le vetrinette opache proteggono dalla curiosità ma lasciano intendere il valore di ciò che accolgono.

Non ero mai entrata qui. Quanta vita mi pare di intuire. E quanto travaglio. Quanta forza in quella passione e quanto entusiasmo da tramandare. Quanti fogli ancora da leggere, inediti e sconosciuti, accennati da frasi interrotte, cancellate o a matita. E quante attese mai pubblicate. La grande scrivania a fianco a me fa pensare a un vecchio disordine, fogli da inventare, ricerche da confrontare, dizionari l’uno sull’altro con matite per tenere il segno, luci basse a buio inoltrato e notti di letture senza sonno.

I racconti fanno la storia di un vissuto a me ignoto, lo sguardo di un ritratto a colori ne è la voce. Non so bene quale emozione io senta.  Essere lì mi appartiene, mi appartiene il ritrovarmi in un posto riconosciuto senza essere mai stato mio. Somiglia a strade da non tradurre, a un cammino tra ricordi sopiti, tra banchi di scuola vuoti, fuori dall’età per rientrarci. Un luogo che invoglia a domande ma chiede l’ascolto per farsi capire e sapere cosa è stato il percorso di una vita che non ho incontrato.

Leggere, avrei voluto, toccare quelle impronte che della cultura son state maestre ed alunne. Visitare gli spazi tra i libri a scalare, ripercorrere il tempo che li ha riempiti di inchiostro.

Ad esserci prima, cosa avrei detto? Nulla. Avrei taciuto la meraviglia e l’ammirazione. La stessa di adesso. Il pensiero è irrequieto e impaziente, ma sa come stare zitto. Ed io lo assecondo, ne seguo ogni fantasia, ne libero i passi.

Non so quali sensazioni porterò con me. Forse la grandezza di quel silenzio ingiusto o l’infinitezza di un attimo, mio per sempre. La dolcezza mai conosciuta o il desiderio di scriverne.

Le luci di questa grande casa sanno di caldo. Fuori piove quasi e fa ancora più freddo.

Mentre vado via guardo chiudersi il portone. Il lampione sulla strada è fulminato.

Qualcuno qui tornerà. E non solo per farlo aggiustare.

 

 

 

 

Un ritratto di Emilio Panarese

ritratto
quadro di Domenico Panarese
Ciao papà,
in un istante una settimana fa ho perso la speranza di poter passare con te forse l’ultimo Natale, giorno nel quale avresti compiuto novant’anni.
Ho nel cuore questo ritratto che ti fece zio Mimmo da cui traspare maggiormente il tuo sguardo mite dagli occhi dolci, quegli occhi con i quali alla fine solo ormai eri in grado di comunicarmi completamente tutto il tuo amore.
Ogni altra cosa di te ora vive non solo nella memoria delle persone che ti hanno voluto bene ma, soprattutto, nelle pagine che ci hai lasciato.
tuo figlio Roberto
Milano, 2 dicembre 2014

Con la morte di Emilio Panarese il Salento perde un punto di riferimento

 

E’ morto Emilio Panarese, intellettuale schivo, coltissimo e versatile, autore di numerosissime opere importanti e preziose per la Storia salentina e non solo. L’eredità che tramanda non è limitata solo al grande patrimonio culturale che ha lasciato, ma riguarda l’insegnamento di una vita dedicata totalmente allo studio, guidato sempre da rigore  e scrupolosità grandi.

La Sezione di Storia Patria per la Puglia del Basso Salento con la sua scomparsa perde una delle voci più significative ed autorevoli dell’Associazione.

 

Dario Massimiliano Vincenti

Presidente Sezione del Basso Salento della Società di Storia Patria per la Puglia

 

Emilio Panarese

La Domenica delle Palme

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di Emilio Panarese

Un documento manoscritto relativo alle processioni a Maglie, la domenica delle palme e il venerdì santo, risale alla seconda metà del ‘700[1], ma già prima, nel ‘400[2], il popolo di Maglie col barone e col clero si recava in processione, la Domenica delle palme, presso la chiesetta greca di S. Maria della Scala, dov’era un Osanna o Pasca Sannài o semplicemente Sannà per piantarvi un ramo di ulivo benedetto.

Oggi quell’antica processione non si fa più, ma è rimasto intatto il rito della benedizione delle palme e dei rami d’ulivo.

Dalle prime ore della mattina sino all’ultima messa, sul sagrato della chiesa madre (o della Presentazione del Signore, come oggi è ufficialmente denominata) e delle altre due chiese parrocchiali (del Sacro Cuore e dell’Immacolata), gruppi di contadini, di artigiani e di ragazzi si assiepano con fasci di rami e pallido ulivo e di lunghe foglie di tenera palma.

Una volta benedetti e dopo la messa con il Passio cantato, entreranno nelle case e dei rametti saranno appesi alla cornice di un quadro di un Santo o della Madonna, al capezzale del letto, alla porta d’ingresso, custoditi in mezzo alla biancheria o legati alla rocca del camino oppure torneranno nei campi, in mezzo ai prati, agli orti, alle vigne, su una canna o su un cippo, al centro del fondo, sul portone d’ingresso della masseria o della casa colonica, sui traini, nei pagliai, nelle botteghe, nelle officine, nei negozi.

Sono simboli di pace, a cui sino ad alcuni decenni fa i contadini del Basso Salento, secondo antiche tradizioni preistorico-mediterranee e successivamente romano-pagane[2], attribuivano il potere magico di propiziazione delle divinità contro le insidie del male; contro il Sannà o contro un menhir essi erano soliti sbattere i fasci di palme o di rami d’ulivo, convinti di poter scacciare così il diavolo o le streghe (macàre), che vi erano annidati.

Oggi il magico è solo convenzione, formalismo intellettuale. Quel giorno in segno di devozione i nostri contadini usavano recitare tanti pater noster quante erano le foglioline dei rami benedetti e condire la pasta solo con briciole di pane fritto.

Ma la Domenica delle palme era anche giorno di mercato di ramoscelli di ulivo argentato o dorato, di croci, di panierini.

Si confezionavano questi ultimi con foglie di palma legate otto, dieci giorni prima in un grande fascio (massa) e sepolte, per l’imbianchimento e una maggiore flessibilità, nel tufo o nella terra umida, oppure con foglie strappate dalla cima, dal cuore della pianta, che viene così assai danneggiata: sono queste foglie di un giallo pallido, paglierino, perché non esposte prima alla luce, le più tenere e le più adatte ai lavori d’intreccio tanto delle croci quanto dei panierini. Per fare le croci si prendono due o quattro foglie di palma (spade) e si piegano in modo da formare una croce; al punto di intersezione si fissa l’anellu o circhiu, perché le spade non si spostino.

Ve ne sono di vari tipi: intrecciata (o croce Marta), intarsiata o imperiale (arricchita con rametti d’ulivo benedetto), a stella, di tipo semplice e di tipo ricco, se ornate di nastri rossi (il rosso è il colore dominante nella Pasqua) o di fiorellini o arricchiti di confetti e cioccolatini.

Anche di panierini se ne fanno di vari tipi, di varia forma, di diversa grandezza: a globo (a gglobbu), a pannocchia (a ppupu), a ditale o a piramide (a ddiscitale), che è il più diffuso.

Come per la croce, si prepara prima la piattaforma con le spade divise in quattro fili: due vengono piegati (ggirati) uno sull’altro e sotto di questi si fanno sfilare i rimanenti. Si tirano ben bene tutti i fili e si continua, restringendo via via verso l’alto. Infine si uniscono i quattro capi in un solo nodo. Di panieri se ne fanno pure piccolissimi per chi voglia appenderne uno con uno spillo all’asola del petto della giacca, al posto del fiore o del distintivo. Comune è pure il tipo a forma di globo: le spade, unite in fili sottili, vengono intrecciate (a ttrecciuline) ed unite a forma di globo, sormontato dalle punte sfilacciate della foglia (ciuffi).

I panieri di una certa grandezza serrano, a spazi intervallati, varie ghiottonerie: caramelle, cioccolatini, bonbons, piccolissimi agnelli di zucchero o di pasta reale con la bandierina rossa sul dorso, piccole uova pasquali colorate.

I giovani fidanzati se li scambiano come dono di pace.

Note al testo:

[1]“Le processioni che sogliono farsi in questa parrocchia [di S. Nicola] sono quelle di S. Marco, delle Rogazioni, dell’Ascensione di Cristo, della Pentecoste, della Purificazione di Maria SS.ma, della Domenica delle palme e del Venerdì santo” (Risposta dell’arciprete di Maglie don Nicola M.Leonardo Montagna all’arcivescovo di Otranto Giulio Pignatelli, 1775, A.D.O.).

[2]La chiesa durante i primi secoli della diffusione del Cristianesimo non sempre riuscì a sradicare le inveterate usanze del mondo pagano, anzi a volte, pur modificandole in parte, dovette tollerarle per accelerare la conversione delle masse.

  

 

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e inMaglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.363-364]

Osanna e menhir

di Emilio Panarese

Verso l’anno mille circa dell’era cristiana, invalse l’uso di graffire delle croci con pietre o metalli appuntiti sulle facce di un menhir o di piantarvi in alto delle croci di pietra.

Per questo processo di cristianizzazione i menhir erano chiamati impropriamente culonne o croci o in griko sannà, da osanna (che in ebr. significa “salvaci!”) col significato metonimico altomedievale di “Domenica delle palme”.

menhir “Crocemuzza” o delle Franite (Maglie)

Non bisogna però confondere i menhir, benedetti dai papâs bizantini e adattati a sannà, coi sannà veri e propri o culonne cu ccroci commemorative della Passione di Cristo, innalzati, secondo l’usanza medievale di alcuni paesi della Grecìa salentina, alla periferia del paese e, più tardi, nel ‘600/’700, anche nel centro storico.

È molto probabile che pure il sannà sopra ricordato, nei pressi della chiesa greca magliese di S.Maria della Scala, sia stato un menhir.

croci graffite sul menhir (ph R. Panarese)

 

 

Di questo menhir o Crocemuzza, allo Scamata, alla periferia occidentale del paese, non è rimasto che il ricordo nelle antiche carte, com’è avvenuto per l’altro esistente presso la masseria di Maglie o del castello, tra l’ingresso del cimitero e il Palombaro, e quello nei pressi dell’Àviso, a sud della campagna di S. Sidero. E’ andato pure distrutto il menhir detto S. Biagio o Crocemuzza o Croce, al confine tra il feudo di Maglie e quello di Melpignano. Del menhir S. Rocco, poco distante da quest’ultimo, dà notizia solo il De Giorgi. Così di tutti i menhir, esistenti in tempi passati alla periferia più o meno vicina al casale magliese, oggi ne sono rimasti solo tre: quello a S. E., detto menhir Crocemuzza o delle Franite, ad est della strata vecchia di Scorrano, un altro detto Spruno tra la strada ferrata Maglie-Bagnolo,  e quello a N.E. detto menhir Calamàuri (Cfr. gli Inventari di Maglie del 1483/84, A.S.N., “fovea sita et posita in Sannà […] in loco de Scala”, e la cerimonia del 1° gennaio 1585, nella quale i francescani compaiono per la prima volta in Maglie, “piantando la croce appresso il sannà”.

 

(Emilio Panarese, La vicenda storica dei francescani di Maglie, 1585-1982, estr. da “Contributi”, 1982,I,4).

 

San Giuseppe e la tradizione

di Emilio Panarese

 

La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.

cìciri e tria, tipico piatto salentino consumato nella festività di S. Giuseppe

 

LI MÀRTIRI de UTRÀNTU – Analisi strutturale di due sonetti di Nicola G. De Donno

ACUBAT

 

di Emilio Panarese

 

 

Due sono i nostri poeti più validi che hanno cantato, in vernacolo salentino, l’epopea otrantina: De Dominicis e De Donno. Circa ottant’anni fa  il primo col poemetto ‘Li Martiri d’Otranto’ (50 composizioni, 800 versi); otto anni fa e quest’anno De Donno con ‘Li martiri de Utràntu’  (sonetto pubblicato nel ’72, in ‘Cronache e paràbbule’),‘Utràntu’ (sonetto dedicato ad Oreste Macrì, ivi),‘Utràntu de li martiri’ (otto sonetti che usciranno nel prossimo numero de ‘L’albero’, scritti tra il 4 e il 12 agosto 1980, nella ricorrenza del quinto centenario dell’eccidio) ed, infine, i tredici sonetti, inediti, de Li martiri de Utràntu. In tutto 23 sonetti, 312 versi.

Differenti i livelli semantico-stilistici dei due poeti; assai diverso, sul piano connotativo, pure il tono della decifrazione del messaggio poetico: analitico, retorico, a volte ampolloso e declamatorio nel primo; sintetico, pacato e misurato nel secondo.

Fra gli ultimi tredici sonetti inediti di De Donno abbiamo volto la nostra attenzione a due in particolare, perché, a nostro giudizio, strutturalmente più compatti e, più degli altri, rispondenti alla pienezza ideativa del segno lirico.

In essi la struttura sintattica, di tipo paratattico, tutta  asindeti e polisindeti, leganti in unità i vari sintagmi poetici, è la più adatta ad esprimere i particolari effetti di successione psicologica ed emotiva della sintetica rievocazione della cosa ‘enorme […] strepitosa’, dell’azione, cioè del fatto epico, che rapida precipita, come nelle tragedie greche, verso la catastrofe.

Anche il ritmo, spezzato e volutamente cadenzato, quasi a rendere  acusticamente  il sibilo e la rovina delle palle turche, ora incalzante e frenetico, ora solenne e linearmente disteso, contribuisce sia al giuoco delle cesure interne (come nelle terzine dell’VIII sonetto), sia con gli effetti melodici di certe sillabe e di certe rime, anche quelle equivoche, a darci una visione volumetrica degli incalzanti momenti della fine.

Quanto poi alla semanticità dello stile, che è uno stile nominale legato alla enucleazione essenziale della parola-cosa, senza orpelli e senza scarti, c’è da notare il tono altamente drammatico delle due liriche qui esaminate, che colgono, nel codice vernacolare non certo meno dignitoso e vigoroso di quello nazionale di fronte ad una materia popolare cantata con spirito epico, il momento cruciale e conclusivo della resistenza otrantina.

Di fronte a questa materia popolare De Donno non assume il distaccato atteggiamento ironico-satirico, che gli è quasi consueto. Qui non trovi  più le culozze contestatrici che Primaldu à discitate  […] na notte de luna e radunate sulla Minerva, an giru sozzesozze / ssettate a pparlamentu, ma scopri invece un atteggiamento pensoso e meditativo, anche se – bisogna ammetterlo – il sottofondo psicologico resta sempre imbevuto di motivazioni polemiche ed oppositive verso il potere: da una parte lu Rre (Ferrante) indifferente, che nu ss’ave mossu eSsistu papante,che soltanto ave bbiundati contributi / de ‘ndurgenze; dall’altra Utràntu […] ssula an facce a llu mulossu / Sula.    

Persino la significazione delle figure usate, la metaforica e la metonimica, è qui diversa: è più misurata, più parca, non sovrastruttura, non ornato, ma motivazione reale del segno stesso. Ed anche la catena linguistica è diversa: del tutto scarna, ridotta all’essenziale, fatta per lo più solo di strutture minime binarie e di espansioni adnominali, specialmente nel secondo sonetto (l’VIII), in cui la tragedia della fine incalza ineluttabile.

Un’analisi particolare meriterebbe la disposizione delle parole: si pensi alla forza di quel Ca ggiàiniziale (s. VII), alla ripresa  oppositiva  di quel ma, che porta in primo piano la travagliata resistenza della genticedda otrantina abbandonata al suo destino e votata all’estremo sacrificio. Si consideri pure il valore intensivo di quel cu, tre volte ripetuto, dell’ultimo verso: cu ogne arma, cu lle furche, cu lli spiti e la forza semantica dei quattro gerundi martellanti, incalzanti, condensati in una sola terzina dell’VIII sonetto. Si ponga mente all’efficacia stilistica  dell’aggettivo ripetuto, come in Utràntu è ssula […] Sula,  che isolato, all’inizio del verso seguente, si carica di un pathos particolare, e come in L’urtimi mille […] all’assartu, l’urtimu, e parimenti consideri  la potenza melodica di quell’E ppoi, che messo lì dopo tre  enjambements consecutivi, che allargano il ritmo, sta a segnare il netto distacco tra due momenti decisivi: la vana resistenza e la feroce vendetta.

Il poeta ci dà in questi due sonetti una visione chiaramente plastica dell’epopea del 1480, e sintetica insieme, con un segno davvero compendiario che ricorda l’austera sobrietà e la corposità plastica dell’affresco masaccesco: solo quattro pennellate, quattro abbozzi rapidi e decisi, che aprono un’immensa scena di strage.

In primo piano la morte patruna che, prima dei Turchi, ha già occupato la città, le vie, le case, e Utràntu strazzata finu all’ossu.

Più indietro, la folla anonima, ma viva e corposa, dei surdati, de l’urtimi mille, dei Turchi violenti, dei feriti, dei prigionieri e il grande scenario, in cui, attraverso accenni e tocchi fuggevoli, tu vedi con orrore i corpi de li ccisi col particolare di quella carne che mprusciúna e che dà alla morte di quei derelitti un senso di più desolato abbandono, e la muraja che ancora per poco resiste contru le palle e lli trumenti, ed, insieme le furche e lli spiti agitati per l’ultima, inane difesa, e i barbari che, struncunisciànnu Utràntu via pe vvia, stroncano, strozzano, spezzano, fracassano, squartano, rubano, incatenano, violentano, senza pietà alcuna, più feroci di sciacalli da lungo tempo affamati.

La frequenza delle vocali e dei fonemi invertiti sordi dà al verso una lentezza cadenzata, mista di pietà e di terrore: tru /tru /tra/ tra sono colpi di scimitarre che cadono impietosi, scandendo i tempi della tragica fine.

Ma ciò che commuove il poeta sono quei poveri uomini, contadini e pescatori, che amano la pace dei campi e del mare, ma che, violentemente e improvvisamente, son posti di fronte alla dura realtà della guerra, di fronte a scelte decisive, che li trasformano in eroi, tanto più grandi quanto maggiore è in loro l’attaccamento alla propria esistenza e alla fatica quotidiana della zappa e del remo.

Sono dei vinti, che sanno di dover morire, che accettano la morte con austera rassegnazione. L’epicità è tutta lì: nella loro magnanimità e nella coscienza della fugacità della vita.

 

Maglie, 13 novembre 1980

Da Sabato Santo a Pasquetta. La gran settimana a Maglie e nel Salento

di Emilio Panarese 

Sabato santo

Alcuni anni fa la cerimonia della Resurrezione, che oggi si celebra a mezzanotte, si anticipava al mezzogiorno del sabato.

Si disfa il Sepolcro e, se i fiori sono ancora freschi, si adoperano per ornare l’altare maggiore. Chi ha portato il piatto di grano tallito, va in chiesa a riprenderselo: lo seppellirà tra la terra dell’orto o del campo o lo brucerà in casa, perché altrimenti, se profanato, gli sarà negato un buon raccolto. Ma oggi nessuno più è succube di questa superstizione.

Al resurrexit era una gran festa: si sonavano a distesa le campane (se scapulâne: dal lat. excapulare,”si liberavano dal cappio”), si sparavano i fucili in aria o contro la caremma[1]); in chiesa, in casa, per le strade si batteva con gran rumore sulle panche, alle porte, ai portoni, contro le spalliere dei letti e venivano ridotte in più cocci le vecchie stoviglie di casa.

Il fracasso era veramente infernale: tutti si picchiavano a vicenda con forza, de santa raggione, così che, a furia di pacche, molti si snervavano, col vantaggio però di essersi scrollati di dosso, con quei colpi …lustrali, anche i più grossi peccati:

Lu sàbbatu de Pasca a mmenzitìe,

ca te lu campanaru scapulâne

tutte quattru mpacciute le campane,

ci cchiù se scia mbrazzannu a mmenzu vie

e a botta de papagne se sciummâne.

(Nicola G. De Donno)

 

Anche gli apprendisti (discìpuli) le prendevano dal maestro di bottega e le discìpule dalla sarta o dalla maestra ricamatrice e così forte da piangere veramente (cu ttuttu lu core) come nei seguenti quattro endecasillabi a rima baciata:

Sàbbatu santu, currennu currennu

ca le carúse vannu chiangennu,

vannu chiangennu cu ttuttu lu core,

sàbbatu santu cuddure cu ll’ove.

Era ritenuto fortunato chi nasceva o era battezzato in questo giorno, tanto che se era maschio o figlio di povera gente, una volta adulto, veniva incamminato al sacerdozio a spese del Capitolo, perché essere sacerdote in un paese rurale come Maglie significava un tempo godere di franchigie fiscali, del beneficio ecclesiastico, di immunità e sicura promozione sociale.

Anche il sabato santo c’era la processione: durante l’ultima guerra alcune truppe polacche dislocate a Maglie solevano festeggiare la festa di Cristo risorto, portando per le vie del paese su un carro di guerra, seguito da molti fedeli, la statua del Redentore.

Ma il giorno di sabato santo è soprattutto il giorno della cuddura, una delle poche tradizioni magliesi ancora in uso.

La cuddura[2] (dal greco kollùra) è un grosso tarallo o dolce di pasta frolla, intrecciato o no, cotto nel forno, con una o più uova sode in numero dispari[3] nel mezzo o tutt’intorno, che una volta si consumava solo il lunedì o il giovedì in Albis.

 

Anche l’origine di questa tradizione forse è pagana e continuerebbe l’usanza che avevano le cestefore di portare oggetti mitici dinanzi alle statue di Cerere e di Proserpina nelle processioni di febbraio, luglio e novembre, come pagano era l’uso di mangiare, il 17 marzo, nella sagra di Libero Bacco (Liberalia) l’uovo sodo, immagine del mondo, inizio di tutte le cose.

Agnello pasquale di pasta dolce – Santa Cesarea Terme: sagra della cuddura (coll. priv. Nunzio Pacella)

 

Le cuddure hanno forme e nomi vari; appena uscite dal forno, si nascondono in casa per la scampagnata del lunedì. Se ne fanno rotonde, intrecciate, a forma di delta, di staffa, di paniere, di pupa, di stella, di cuore, di angelo, di margherita, di uccello, di galletto, di colomba, di tartaruga, di fischietto, oppure a forma di tromba, con due protuberanze laterali e l’uovo nel mezzo, come quelle, magistralmente lavorate, che si sono esposte nella Mostra della cuddura a S. Cesarea Terme[4].

Molto diffusi a Maglie la pupa e il campanaru.

cuddura con pasta dolce

 

La pupa è una cuddura a forma di bambolina con le treccine di pasta, con due chicchi di caffé e due acini di pepe al posto degli occhi, grani di riso e senape al posto della bocca e del naso. Ha le braccia incrociate nell’atto di portare un uovo sodo che fa capolino dalla pancia; mentre il campanaru ha forma cilindrica e due uova alla base.

Non manca chi ancora si diverte ad ornare agnelli, galletti e colombe con nastrini colorati o con ritagli di panno rosso tagliuzzato (viddusi, “vellosi”) al posto di creste o di ali.

In quanto alla qualità, vi sono quelle di tipo rustico e quelle di tipo dolce. La prima, secondo un’antica tradizione magliese, si fa in questo modo: si prende della farina di grano, si scalda un po’ d’acqua e vi si scioglie un po’ di lievito di birra, si aggiunge un pizzico di sale e si lascia lievitare per circa un’ora. Dopo che la pasta è ben lievitata, si passa all’impasto e, dopo aver dato la forma voluta, dentro si mette un uovo sodo con tutta la scorza. All’ impasto alcuni aggiungono olio e cipolla tritata.

Cuddure magliesi

 

La cuddura di tipo dolce, di pasta frolla, si ottiene invece mescolando farina di grano, strutto, uova, lievito e zucchero. Si lavora bene la pasta, a cui si possono aggiungere pezzi di noce, si dà la forma desiderata e si mette nel forno sino a completa cottura.

Un secolo fa le giovanette solevano donarle ai fidanzati nel giorno di Pasqua.

Se ne vannu prima le cuddure ca lli panetti si diceva una volta per significare che a volte muoiono prima i giovani che i vecchi.

 

Pasqua

Per evitare le più gravi sventure è obbligo per tutti ascoltare la messa e divieto assoluto di recarsi al lavoro: bisogna ad ogni costo intervenire alla benedizione e vestire gli abiti più belli; persino le umili fornaie, per le quali tutti i giorni sono uguali, s’agghindano.

De la strina se mmuta la ricina,

de la Bbifania se mmuta la signurìa.

de Pasca e de Natale se mmútane le furnare.

 

Anche qualche albero, spoglio per tutto l’inverno, ora che è venuta la Pasqua, se mmuta, indossa un nuovo vestito di foglie:

A fica nu ffila e nnu ttesse,

ma te Pasca vistuta se nn’esse.

Tutti, nessuno escluso, in chiesa quel giorno, anche le bestie, se è possibile: Porci a mmissa la mmane de Pasca!, proverbio che si usa anche per indicare un fatto straordinario, inconsueto.

Assai gradita è ai contadini la Pasqua d’aprile (Pasqua alta) [5], specialmente quella rugiadosa o piovosa che fa sperare in un buon raccolto; come nei seguenti ditteri distillati dalla secolare clessidra del tempo:

Natale ssuttu e Ppasca muttulusa.

se oi cu bbegna l’annata graziusa;

Natale lucente e Ppasca scurente,

se oi cu bbegna bbona la simente;

o come in questi altri con qualche piccola variante:

Ci oi cu bbiti l’annata cranosa,

Natale ssuttu e Ppasca muttulosa;

ci oi cu bbegna na bbona ‘nnata,

Natale ssuttu e Ppasca mmuddata.

Se invece essa cade di marzo (Pasqua bassa), quando i terribili danni delle gelate e delle grandinate fanno temere per il raccolto futuro e quando la terra ha pochi frutti da offrire, porta carestia, fame e morte:

Pasca marzotica, o murtalità o famòtica.

 

A mezzogiorno tutti a tavola per gustare l’agnello di pasta di mandorla. Tanto Natale tanto Pasqua, i due giorni più solenni dell’anno, vanno goduti nell’intimità familiare:

De Natale e dde Pasca cu lli toi,

de Carniale cu cci oi.

Bisogna godersela questa festa eccezionale, perché il giorno dopo si tornerà al travaglio usato; i giorni lieti sono fugaci e assai rari e non sempre ci si può godere né astenere dalla dura fatica:

Ca nu ssempre è Ppasca.

 

Finita a llu Riu

Le feste pasquali si concludono, in tutto il Salento, con una scampagnata, una colazione all’aperto, il lunedì o il martedì o il giovedì dopo Pasqua, ai confini del paese o poco fuori, detta finita (dal lat. fines, “confine”), com’erano chiamate le grosse pietre informi che segnavano il confine tra due feudi o tra due estese proprietà.

Una finita

 

Qualche decennio fa i magliesi erano soliti il lunedì di Pasqua fare la finita (talvolta oggi si preferisce darsi appuntamento in qualche ristorante della costa) in alcune campagne o a mezzo miglio da Maglie, sulla via per Gallipoli, in un boschetto posto in una lieve salita, detto lu Riu (Riu, Rio, Ria, Vria, Uria, lo Ria, Loria in loco detto lo Monterone o lo Montarroni, in antichi documenti) [6].

Agli inizi del secolo scorso invece la mangiata o finita o paneiri si faceva, non il lunedì ma il giovedì dopo Pasqua, in un luogo poco distante da lu Riu, sempre in località Muntarrune e precisamente a llu Frabbàlli (dal nome di una cappelletta rurale o grancia di S. Giuseppe, vulgo detto lo Balli de jure patronatus del Rev.do Capitolo di Maglie). L’agiotoponimo Frabballi è poi passato a significare, nel dialetto magliese, ” luogo segreto, nascosto”: “A ddu a teni scusa, ssutta lu Frabballi?”.

 

note al testo 

[1]La caremma o quaresima, dal lat. quadragesima dies, spazio di quaranta giorni dal mercoledì delle ceneri alla Pasqua, immagine della Moira, della parca Cloto, che fila il destino degli uomini, simbolo della penitenza quaresimale, della mestizia, della mortificazione dei sensi, del digiuno, del duro lavoro, viene bruciata in questi ultimi anni su una fascina di sterpi al Largo Madonna delle Grazie. È un fantoccio riempito di paglia coperto da una maglia scura o da un panno nero e da un fazzoletto che fa vedere solo la faccia. Ha in mano il fuso e la conocchia ed è intenta a filare la lana. Sotto i piedi le si mette un’arancia con sette penne infilzate a raggiera quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana se ne toglie una. Il giorno di Pasqua, quando le campane suonano a distesa, “annunziando Cristo tornante ai suoi cieli”, la caremma detta pure zzita caremma, viene bruciata o sparata col fucile. Questo fantoccio, che viene sparato o arso al rogo, non vuole essere altro che l’esorcizzazione, in luogo pubblico, dal male, la ritualizzazione della liberazione di tutto ciò che è simbolo di sterilità della terra, di privazione, sofferenza, carestia, miseria, fame.

Me pari propriu na caremma si dice a donna magra e brutta o fin troppo avvolta nei panni (Emilio Panarese, Folclore Salentino. La Caremma, in “Tempo d’Oggi”,II,6).

[2]In alcune zone intorno a Lecce, ma anche nel brindisino e nel tarantino la cuddura è chiamata puddica dal deverbale puddicare che è il lavorare la pasta coi pugni, premendo col pollice (pollex); mentre nel barese, ma anche in alcuni centri del brindisino e del tarantino, è detta scarcedda, avendo questo pane dolce con l’uovo nel centro la forma di una borsa per denaro (cfr. it. scarsella e fr. escarselle).

[3]In numero dispari, 5 o 7 o 9 o 11 o 17 o 21, perché i numeri in caffo hanno virtù propiziatoria e procurano prosperità e fortuna, essendo graditi agli dei: numero deus impari gaudet.

[4]L’Azienda di soggiorno cura e turismo di S. Cesarea Terme, che nel 1978 aveva patrocinato la Sagra della cuddura, organizzò nel 1987, nella decima edizione della sagra, nel ristorante Lu marinaru, la Mostra della cuddura, a cui parteciparono i più noti panificatori salentini di Maglie, Lecce, Vignacastrisi, Poggiardo, Vitigliano, ecc.

[5]La Pasqua è una festa mobile e cade nella prima domenica dopo il plenilunio equinoziale di primavera; non può cadere mai prima del 22 marzo (Pasqua bassa) né dopo il 25 aprile (Pasqua alta).

[6]Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel). L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina ruscìara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto meno è da accostare al toponimo surbense Aurìo, che R. Buya, attraverso una serie di strampalate congetture, fa derivare nientemeno, spostando l’accento, dal lat. haurio, “assorbo”, “ingoio”. Ignotum per ignotum!

 

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.371-375 –  
 
Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

La processione del venerdì santo a Maglie

di Emilio Panarese

 

Alla cara memoria di mio padre,

che per molti anni diresse

la processione del Venerdì santo

La cerimonia più interessante, che fa più folclore e colore e richiama a Maglie molti abitanti della provincia, è, senza dubbio, la processione del venerdì santo, una processione tipica, che non ha l’eguale nel Salento e che nell’arco di un secolo ha subito parecchie modifiche e rimaneggiamenti.

Della processione di ottanta anni fa ci è rimasta la descrizione di A. De Fabrizio; l’aprivano una ciurma di fanciulli scapestrati, coronati di spine, urlanti l’Ave Maria/ ora pro nobbi/ nobbi/ nobbi o tirantisi dietro un carro col calvario e tre croci.

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Emilio Alessandrì,1908)

 

Un cenno relativo a questo primo gruppo della processione si trova pure in un giornale magliese del 10 aprile 1893 (Il sabato, A. I, n.l): “Aprivano come al solito il funereo corteo mattutino del venerdì santo teneri fanciulli con la corona di spine sulla testa. Alcuni si battevano le reni con funi, altri trascinavano pesanti croci sulle spalle […], ripetuta tre volte la cara invocazione dell’Ave Maria, li ho visti, dinanzi al piazzale di una chiesa, genuflessi a gruppi sull’erba verde, e aspettare il passaggio del resto del corteo”.

Fanciulli genuflessi con croci (foto dell’inizio del secolo scorso)

 

Dietro, a lenti passi, “come i superbi del Purgatorio dantesco”, venivano dei giovani, curvi sotto il grave peso “di grosse pietre o di pesantissime croci o muniti di discipline[1] di ferro: [erano] peccatori pentiti, che un tempo, nudati fino alla cintola, s’insanguinavano le spalle a furia di battiture”; una manifestazione di spettacolo pubblico costituente un momento rituale di risposta alle incertezze della vita quotidiana da parte degli umili, che, “esasperando i concetti di penitenza e di umiltà, giungevano all’autoflagellazione” [2].

Del gruppo cicalante e scomposto dei fanciulli col capo coronato di rovi o di edera, da pochissimi anni, non è rimasto più nulla:

Ma petre a mmanu e nzarti, e ncurunati

d’edere torte, mandra de vagnoni

fiji de maramaja scarrufati

fàcune li ggiudei e li mallatroni

(Nicola G. De Donno)

che, muniti di sassi, battono forte, passando, a tutte le porte e ai portoni dei ricchi, ribelli ai comandi del capogruppo, il banditore Picci:

Lu Picci te cumanna li vagnòni

ca ncurunati cu lle corde a mmanu

vannu bbattènnu a ttutti li purtuni.

(Nestore Bandello)

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Roberto Panarese, 1980)

 

Dopo il vivace, festoso frastuono, a passi gravi, misurati, solenni, incedeva il secondo tronco: “due lunghe file di confratelli con le statue dei Misteri; indi una schiera di fanciulli, vestiti d’angeli, recanti gli strumenti della Passione, e di fan-ciulle che cantano, accompagnate dalla musica, un inno d’occasione; infine la bara di Cristo e la statua della Madonna [Addolorata] intorno a cui si affolla una moltitudine di donne velate di nero”.

 

Il gruppo dell’ora pro nobis (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Questo secondo tronco ha subìto nel tempo notevoli modifiche: sono rimasti tra l’una e l’altra statua, i bambini e le bambine, che con passo incerto e traballante e con viso smarrito, procedono, imitando momenti della Passione o sotto il peso di lignee croci:

La croce an coddu ca pisa pisàra,

li carniceddi cuperti de sacchi

russi, li peticeddi intru lli lacchi,

de spine vere la curona mara.

(Nicola G. De Donno)

Fanciulli con i simboli della passione (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Gruppo delle coriste (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Le fanciulle, invece, velate di nero, che, accompagnate dalle note della banda, cantano il monotono, struggente ritmato lamento, riecheggiante il celeberrimo preludio intensamente melodico del 3°atto della Traviata verdiana, diventate giovanette, e passate dietro la bara di Cristo, rievocano l’abitudine dei virgines lectas puerosque castos, che cantavano il carme in onore degli dei.

Gruppo delle coriste, primo piano (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Delle parole dell’Inno[3]  (…È morto il mio Dio!/ È morto il ben mio!/ Un popolo rio/ tal morte gli die’/. Piangete, o pietre,/ spezzatevi al duolo/ [ … ] Quel sole che in cielo/ fa tanto splendore/ la morte l’ha reso/ già tutto squallore!) fu autore, stando alla testimonianza orale dell’avv. Guido Colucci, il prof. Gioacchino Pelegalli, che negli anni 1885-’86 insegnava nella 3a classe ginnasiale ed era prefetto o istruttore nell’annesso convitto. Luigi Visconti[4], immigrato a Maglie con la famiglia dal Salernitano, compositore e valente direttore d’orchestra della vecchia banda di Maglie, appassionato pucciniano, vi adattò abilmente la musica.

Le statue dei Misteri: Cristo all’orto, Cristo alla colonna, Cristo e Pilato, Ecce homo (opera del noto scultore leccese Eugenio Maccagnani), Cristo sotto il peso della croce incontra la madre, Cristo in croce, introdotte via via, col passare degli anni,

Parrocchia della Purificazione: le statue attendono di essere trasportate in processione; in primo piano La Pietà (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù alla colonna (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù condotto al giudizio tra Pilato ed un pretoriano (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Statua dell’Ecce homo dello scultore leccese Eugenio Maccagnani (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù incontra la Madre (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

Gesù in croce (foto di Roberto Panarese, 1984)

 

sono portate a braccio dai soci dell’Associazione per la processione per il venerdì santo (più semplicemente oggi Organizzazione del venerdì santo), i quali, per l’occasione, indossano nere eleganti giacche da cerimonia sulla camicia inamidata e il cravattino nero a farfalla, così come nei versi del sonetto “La purgissione de li misteri” di Nicola G. De Donno:

Ggente tirata a ccira, ncravattata

e ttreppizzi de prèiti a ssimetrìa

[. .. ]

“ttreppizzi de prèiti a ssimetrìa” (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

E Ccristu, e sette spade de Maria,

cantilenati a nnenia scunzulata

su nn’aria a vvalzerlentu de Traviata

su’ rreliggione e ssu’ bburgheserìa

 

La Madonna Addolorata all’uscita dalla settecentesca chiesa (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

La Madonna Addolorata (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

 

o di Nestore Bandello

 

Cunfraternite in luttu e statue sacre

purtate da Majesi stracallati,

angileddi, cuperte funerarie,

la Croce de Gesù – chiangi ca pati-

Piccoli angeli (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

Piccole Veroniche (foto di Roberto Panarese, 1985)

 

e di Orlando Piccinno

Pàssane stendardi tutti mbardati,

pàssane fratellanze (.)

visciu pòsima, forkrore paisànu

mistu a ccose sante: imu sbajatu?

No! la ggente se carca ai marciapieti,

li bbasta cu sse custa. Pia canzone

le caruse càntane, citti li preti! …

 

La banda della processione al passaggio dalla piazza (foto di Roberto Panarese, 1987)

 

 

e, infine, nel suggestivo quadro di Rina Durante:

[…] “questi ex contadini, con la faccia cotta dal sole, si calano dentro elegantissimi smokings, e sfilano tra due ali di popolo inginocchiato. tra i merletti neri delle donne, i gigli degli angeli e degli aspiratangeli, portando a spalla le figure della passione, livide, allucinate che sembrano uscite dalla fantasia di Goya, con i maggiorenti che marciano avanti, la banda che accompagna il Cristo, che ondeg-gia tra le ali degli angeli e i pennacchi dei carabinieri in alta uniforme, e non sembra più di stare a Maglie, ma a Siviglia. una Siviglia di molti secoli fa”.

La bara di Gesù scortata da quattro carabinieri in alta uniforme (foto di Roberto Panarese, 1986)

 

La processione[5], che nei primi anni del secolo, sotto la gestione di alcuni mercantuoli o ambulanti, era assai scomposta, divenne invece, una volta affidata alle vigili ed attente cure di un Comitato [6]  per la processione del venerdì santo, la più ordinata e la più importante delle processioni magliesi, la più popolare manifestazione della religiosità magliese insieme con quella dei SS. Medici, specialmente quando a dirigerla trovò abili ed esigentissimi presidenti come il maestro artigiano Giuseppe Panarese (padre di chi scrive), che, tranne i dieci anni passati in Africa orientale, fu presidente dal 1924 al 1968, e fu chi introdusse nella processione la divisa di cerimonia: smoking con petti lucidi, colletto inamidato, gilet bianco, cravattino nero a farfalla, bottone gemello, guanti di pelle bianchi, calze nere e scarpe nere lucide[7].

Il gruppo dei soci dell’Associazione della processione del Venerdì santo, che il 20 aprile 1924 firmò la scrittura privata col priore dell’Arciconfraternita delle Grazie (in basso al centro il presidente Giuseppe Panarese)

 

Questo innesto di matrice borghese nel folclore pasquale – come bene ha colto Nicola De Donno – fu storicamente significativo e non violento; un modo nuovo – secondo noi – di continuare e di aggiornare una tradizione e un tentativo, ben riuscito, di nobilitare con l’abito elegante, la scomposta processione di un tempo, di darle dignità e decoro, ed anche una rara occasione, concessa a contadini e ad artigiani e a commercianti, di ostentare la loro ascesa socio-economica con l’ap-propriazione di strumenti borghesi. La compostezza dignitosa dello smoking diventa parte integrante dell’esibizione, dello spettacolo.

Il presidente Giuseppe Panarese precede i soci che portano la bara di Gesù (1962)

 

L’incedere lento e compassato degli attori in abito nero, tra un silenzio funereo, che il lamento ritmato della banda rende estremamente solenne e carico di spetta-colarità, altro non vuole essere che una simbolica esegèsi della gestualità essen-ziale, della muta recita collettiva, della spontanea drammatizzazione popolare, una mimata decodifica dell’esasperata tensione religiosa per la morte di Cristo.

 

Alcune delle usanze magliesi del secolo scorso o dei primi decenni di questo sono cadute ormai in disuso.

Qui ricordiamo quella della sacra rappresentazione in piazza secondo antiche consuetudini diffuse in Umbria e in altre regioni d’Italia nel XV secolo, come riferisce il De Fabrizio: “Molti anni fa la processione si fermava in piazza, e il predicatore della quaresima faceva rappresentare una devozione, che per lo più terminava con una disputa tra l’arcangelo Michele e il demonio”.

Di questa usanza è rimasto il ricordo in un antico strambotto popolare di Muro, tramandata e raccolta da Piero Pellizzari, direttore del Ginnasio Convitto Capece tra il 1879 e 1’84 (La canzune de Vennardìa santu, “Lo studente magliese”, IV, 6-7, dic. 1882).

 

A mmenzu chiazza se cercâa piatate,

mancu la purgissione nci capìa.

Puggiara Ggesù Cristu cu ssoa Matre,

ogn’àngiulu lu jersu sou dicìa.

Sant’Àngiulu s’ìa misu pe’ ‘ucatu

la parte te lu populu facìa:

“Satana, nu ttantàre le persone,

cu nnu ffaci difridda la diuzione!”.

 

Frammento di quest’antica devozione o rappresentazione drammatica (su un palco o talamo, su cui si erigevano le mansioni, costruzioni di legno indicanti i vari luoghi dell’azione) doveva essere pure – secondo noi – il seguente canto popolare magliese, anonimo, in endecasillabi, pubblicato ne ”Lo studente”, III, 6 (4.4.1881), che vuole essere racconto, dramma e preghiera insieme:

 Na chiterra se fice lu meu Diu,

cu quattru corde la ncurdàau,

la prima e la seconda nu ttinìu,

la terza e la quarta se spezzàu.

La prima foe Giuda e llu tradìu,

la seconda foe Pietru e llu nagàu,

la terza foe Toma e nnu cridìu

ci nu vvitte le piaghe e lle tuccàu.

***

Chiange mo’ la Maria, pòara donna,

ca lu fiju è ssciutu a lla cundanna.

Nu llu spettati cchiùi ca nun ci torna,

è ssciutu sse prisenta a ccasa d’Anna.

Mo se partìa chiangennu la Madonna.

cu bbiscia ci lu tròa a quarche bbanna;

lu scìu cchiàu ttaccatu a nna culonna.

cu lla cruna de spine e corde ncanna.

Quattru palore disse la Madonna:

“Fiju, nnu tte canùsce cchiùi la mamma!”.

 

Un’altra usanza magliese scomparsa, forse perché in stridente contrasto con la mestizia e l’ora di penitenza della processione, era quella di esporre la merce davanti all’ingresso delle botteghe durante il passaggio della processione. Anche i macellai, che per tutta la quaresima erano stati costretti a tener chiuso il locale per la prescritta rigorosa astinenza, come nel detto Duminica su lle parme e all’autra duminica pane e ccarne, e che fin da quel giorno, cioè da venerdì, avrebbero potuto macellare la carne, che si sarebbe venduta non prima della resurrezione, ne mette-vano “in mostra  i tagli, fregiati di stellucce e di carta dorata”.

Pure caduto in disuso, nel primo decennio di questo secolo, fu il cosidetto trapasso, “per cui – riferisce sempre il De Fabrizio – si deve star digiuni da giovedì a sabato santo, con questo patto non molto lusinghiero: chi ci  lascia la pelle, si danna l’anima; chi la scampa si guadagna non so quali indulgenze”.

 

note al testo:

[1]Quest’usanza di far penitenza e di espiare le proprie colpe nel giorno di venerdì santo, con la flagellazione ritmica delle spalle con le discipline (cordicelle nodose a forma di frusta che avevano all’estremità stelle taglienti di rame o di acciaio o, come a Maglie e a Muro, anelli di ferro con punte) era assai diffusa in quasi tutta la Terra d’Otranto e risaliva a certe antiche ed insane pratiche dei Flagellanti o Battuti (Vattenti) o Saccati: E ppoi ncìgnane cu sse dèscene cu lle discipline a rretu le spadde, ca le pòrtane tutte spujacate, e ogne bbotta ca se dàune se zzumpane la carne e ssanguinìsciane tutti. E se pe ccasu c’è quarche nnamuratu e ppassa de nanzi a lla zzita, e nnu lu vite bbonu sanguinisciatu, scumbìnane, nu sse òlune cchiùi, ca dice ca nu ss’ave fattu ‘nore, percé ci cchiùi se scorcia, cchiùi ede bbrau. Per questo i Flagellanti, giunti sotto le finestre della loro innamorata, raddoppiavano vigorosamente i colpi, volendo provare che erano disposti a spargere tutto il sangue in suo onore; “Un colpo per il cielo e un altro per la terra!” (cfr. “Lo studente magliese”, IV, 6-7, Archivio Biblioteca Maglie).

[2]Carmelo Caroppo, Lo spettacolo subalterno nel Salento, in “Tempo d’oggi, IV (19)

[3]L’inno, di sedici versi senari, non sempre rimati, è diviso in due parti. Povero e inconsistente il contenuto, ma intensamente drammatica la musica. Dopo un “adagio quasi lento”, seguito da un “crescendo” di ottoni e percussioni e da un angoscioso ritornello, si conclude con malinconici squilli di ottone.

[4]Luigi Visconti, compose in musica nel 1888 anche i versetti dell’ Inno di Natale per la Congregazione di Maria SS.ma delle Grazie. Fu socio onorario, nello stesso anno, della Società operaia magliese “Patria e progresso”. Nel 1893 aprì in Maglie “una scuola di musica” assai frequentata. (Cfr. Emilio Panarese, Ottocento filarmonico magliese, in “Tempo d’oggi”, VII, 5)

[5]Stando ai documenti dell’archivio dell’Arciconfraternita delle Grazie, che si riferiscono agli anni 1849, 1850, 1876, 1906 e 1907 (per i quali rimandiamo all’Appendice), assai semplice è stata sempre la processione del venerdì santo sino al 1924: il trasporto della sola “barella di Cristo morto secondo l’antica consuetudine” e quello, nel 1850, della statua di Cristo all’orto era affidato per pochi ducati a dei devoti. Nel 1901 compaiono, per la prima volta, “quattro splendidi lampioni fatti costruire a Milano, del valore di L. 400” e, nel 1907 , una banda ben organizzata diretta dal maestro Giuseppe Miglietta.

[6] Secondo lo statuto, i soci eleggono il comitato, il quale, a sua volta, si sceglie il presidente, che dura in carica cinque anni e che può essere anche rieletto più volte. I soci, che negli anni 1924-30 erano solo 30, sono oggi 101. Ad essi si sono aggiunti 35 piccoli soci. Dal 1924 ad oggi il Comitato ha eletto come presidenti Giuseppe Panarese (anni 35), Ettore Morelli (anni 10), Otello Spertingati (anni 7), Oronzo Piccinno (anni 8), Mario Puzzovio (anni 5). I soci hanno partecipato, meno che negli ultimi anni, anche alla processione del Giovedì santo (visita ai sepolcri). In questa occasione usavano il cravattino bianco. La processione del venerdì santo si è svolta sempre di mattina; di pomeriggio, dal 1951 in poi. Da alcuni anni al gruppo delle statue si è aggiunta quella di Cristo e Pilato.

[7]Cfr. la scrittura privata del 20.4.1924, firmata dal priore della Confraternita delle Grazie, Augusto De Donno, e dai trenta soci dell’Associazione della processione del venerdì santo: i firmatari si obbligavano dal 30 aprile 1924 sino al venerdì santo del 1930, senza interruzione “di portare il simulacro di Cristo morto, di lasciare a beneficio dell’Arciconfraternita un obolo annuale di L. 300 nella prima domenica di quaresima, di donare tutta la cera portata in processione e la bara nuova montata al completo in quell’anno”. Si addossavano inoltre tutte le spese occorrenti “per la musica e il canto, secondo l’antica tradizione”.

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese; e in “Maglie. L’ambiente, la storia, il dialetto, la cultura popolare”, Congedo editore, Galatina, 1995, pp.366-371 – Bibliografia consultabile alla pagina http://emiliopanarese.altervista.org/pg015.html]

La Domenica delle Palme

di Emilio Panarese

Un documento manoscritto relativo alle processioni a Maglie, la domenica delle palme e il venerdì santo, risale alla seconda metà del ‘700[1], ma già prima, nel ‘400[2], il popolo di Maglie col barone e col clero si recava in processione, la Domenica delle palme, presso la chiesetta greca di S. Maria della Scala, dov’era un Osanna o Pasca Sannài o semplicemente Sannà per piantarvi un ramo di ulivo benedetto.

Oggi quell’antica processione non si fa più, ma è rimasto intatto il rito della benedizione delle palme e dei rami d’ulivo.

Dalle prime ore della mattina sino all’ultima messa, sul sagrato della chiesa madre (o della Presentazione del Signore, come oggi è ufficialmente denominata) e delle altre due chiese parrocchiali (del Sacro Cuore e dell’Immacolata), gruppi di contadini, di artigiani e di ragazzi si assiepano con fasci di rami e pallido ulivo e di lunghe foglie di tenera palma.

Una volta benedetti e dopo la messa con il Passio cantato, entreranno nelle case e dei rametti saranno appesi alla cornice di un quadro di un Santo o della Madonna, al capezzale del letto, alla porta d’ingresso, custoditi in mezzo alla biancheria o legati alla rocca del camino oppure torneranno nei campi, in mezzo ai prati, agli orti, alle vigne, su una canna o su un cippo, al centro del fondo, sul portone d’ingresso della masseria o della casa colonica, sui traini, nei pagliai, nelle botteghe,

Riti e tradizioni pasquali. La fiera magliese dell’Addolorata

di Emilio Panarese

Tradizioni e riti della settimana santa magliese non sono molto dissimili oggi da quelli ancora vivi in tutta la subregione salentina, in quanto in questi ultimi decenni, così com’è avvenuto per i dialetti e la lingua ufficiale, la nostra società consumistica ha assai livellato e uniformato quelle che una volta erano manifestazioni inconfondibili e peculiari di un agglomerato urbano, nel passato, tranne qualche eccezione, assai chiuso, per le rare comunicazioni e gli scarsi scambi culturali, e quindi poco sensibile alle influenze di costume di altri centri urbani della provincia. Le tradizioni pasquali, come le natalizie, con il fluire del tempo, hanno perduto a poco a poco l’antico connotato, il significato originario, non per un involutivo processo di deculturizzazione o di perdita di identità, ma per una normale dinamica di svolgimento, di ammodernamento, di adattamento della tradizione a nuove esigenze, a nuove concezioni di vita e di fede.

Ne parliamo, perciò, non certo per riviverle o, peggio, per recuperarle, in quanto tale pretesa contrasterebbe con la legge stessa della storia, che è incessante svolgimento, e nella vita e nella storia nulla si ripete, né tanto meno ad esse guardiamo, con sentimento nostalgico ed elegiaco, come ad un bene perduto per sempre, ma senza rimpianto le esamineremo, perché rituali storicamente validi della nostra cultura passata, delle consuetudini degli avi, perché espressione autentica della religiosità aggregativa della comunità magliese, vista nella sua unità, al di fuori della distinzione classista ed angusta di due culture contrapposte: l’egemone e la subalterna (oggi complementari e similari), religiosità aggregativa che tuttavia continua, sia pure di parecchio trasformata, e nello spirito e nelle forme spettacolari esteriori.

Non molte le fonti alle quali abbiamo attinto: la tradizione orale, la letteratura vernacolare magliese in versi (canti popolari, poesie di N.G. De Donno, N. Bandello, O. Piccinno), giornali magliesi (Lo studente magliese, Il sabato, Tempo d’oggi), ma, soprattutto, alcune carte d’archivio dell’arciconfraternita di Maria SS.ma delle Grazie e, per quanto attiene al rituale in uso agli inizi del ‘900 o a quello poco prima estinto, al saggio La gran settimana, che ci ha lasciato il dotto e valente professore magliese, poi preside, Angelo De Fabrizio, cultore appassionato, preparato ed attento di studi folclorici salentini. A loro tutti il mio ringraziamento per i contributi e le testimonianze che ci hanno donato.

La fiera magliese dell’Addolorata

Precede di due giorni la Domenica delle Palme e si svolge nel viale che porta alla settecentesca graziosa omonima chiesa, una volta distante dall’abitato, in mezzo ad orti e giardini bene irrigati, oggi in una zona urbana assai frequentata soprattutto il sabato.

Tre ggiurni nnante la simana santa,

ossia lu venerdìa, ven ricurdata cu nna fiera:

Matonna Ndolurata a mmenzu lli rusci!

E diuzzione quanta?

Nnu tiempu la fiera era ‘mpurtante:

vinìne dai paesi a cquai Maje

cu ccàttane campaneddi e minuzzaje

e tante mercanzie, nu’ ddicu quante!

(Orlando Piccinno)

L’antica fiera del bestiame[1] si è trasformata via via in un chiassoso, vivace mercato con banche e bancarelle di dolciumi, di noccioline, di terraglie, di stoviglie e utensili domestici vari, di cesti di vimini, di vasi di argilla per fiori e, soprattutto, di campane e campanelle, di trombe e trombettine, di pupi e di pupe, di lucerne, di animali domestici vari, tutti di terracotta, verniciati o no, di ogni forma e tipo, ed ancora di palloncini, di giocattoli di plastica, di carrettini, di variopinte ruote con l’asta, di rustici mobili in miniatura (giuochi assai ricercati dai bambini una volta), di fischiettid’argilla e di gracidanti raganelle[2] di legno.

Durante tutta la giornata della fiera, soprattutto la sera, la chiesa dell’Addolorata è meta di devoto antico pellegrinaggio e di raccolta preghiera davanti alla statua di cartapesta di Maria SS.ma che ha la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggiera sul cuore.

Lacrime a ggoccia de lucida cira,

la facce chiusa a lla veletta nera

e sette spade a llu core raggera,

vave chiangennu morte e mmorte tira

-stu venerdìa de vana primavera

ca pulanedda d’àrguli rispìra-

cacciata de lu nicchiu a pprima sira

Ndolurata Maria, la messaggera

de l’agnellu Ggesù. Li Grammisteri

de cartapista cu lla purgissione

èssene osciottu tra ale de pinzieri

e Mmaria a rretu, muta a lla passione.

Osci, fischetti an culu carbinieri,

tròzzule e campaneddi ogne vvagnone.

(Nicola G. De Donno)

note al testo:

[1]La fiera dell’Addolorata e quella di S. Nicola vennero istituite nel 1860 con lo stesso decreto borbonico.

[2]Arnese rudimentale di legno a forma di bandiera, costituito da un manico cilindrico rastremato verso l’alto, in cui viene inserita una ruota dentata contro la quale, a contrasto, si fa girare, in senso rotatorio, una sottile lamina (linguetta) che produce un fragoroso gracidìo. Da qui il nome raganella di Pasqua e gli onomatopeici salentini trènula o tròzzula. Allo stesso campo semantico di tròzzula appartengono tròccola, tròttola, trozzella. La troccola “bàttola”, “raganella” o, meglio alla lettera, “ruota dentata che fa rumore” (incrocio del gr. chrótalon “nacchera” con trochilía “carrucola del pozzo”) era anticamente una ruota di ferro a cui erano appesi parecchi anelli, che nel muoversi crepitavano (garruli anuli). Cfr. il caI. tròccula e il nap. tròcula. La tròttola è il giocattolo di legno, simile a un cono rovesciato, con punta di ferro, che si getta a terra, tirando a sé di colpo la cordicella ad esso avvolta. Noi magliesi, con voce aferetica derivata da curru, la chiamiamo urru, bifonema speculare, che imita il suono caratteristico di un oggetto che gira velocemente, producendo lieve rumore. Trozzella “rotella” è voce regionale pugliese, che indica una tipica anfora messapica “di forma ovoidale rastremata al piede, con alte anse nastriformi, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre con quattro rotelline (da lat. trochlea con suff. dim.). I manici ad ansa con nodi a rotella imitano la carrucola del pozzo (trozza). Ma con tròzzula noi salentini indichiamo pure la ruota del telaio, che fa girare il subbio, cioè il cilindro di legno su cui sono avvolti i fili dell’ordito, ed anche, in senso figur. e dispr. la donna di malaffare, la meretrice, la sgualdrina, che va in giro qua e là, destando mormorìo di disapprovazione tra la gente onesta (“giro”+”rumore”).

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese]

Quaresima e caremme salentine

di Emilio Panarese

La «caremma» o «quaremma» (dal lat. «quadragesima (dies)», fr. caréme, sp. cuaresma, prov. caresma) corrisponde all’italiano «Quaresima»: spazio di quaranta giorni, dal Mercoledì delle Ceneri alla Pasqua, periodo dedicato all’astinenza e al digiuno, in memoria dei quaranta giorni di digiuno osservati da Gesù (Mt. IV, 2) prima di iniziare il suo ministero.

Rappresenta la mortificazione dei sensi, la mestizia, il lavoro, il pentimento che vengono dietro al peccato dopo la baldoria del Carnevale.

Ricorda la Moira, la Parca che filava il destino degli uomini. Nel leccese, sino a poco tempo fa, sulle terrazze o sui balconi delle case, rappresentava la «caremma» un fantoccio di panno vestito di nero, che filava la conocchia. Sotto i piedi aveva un’arancia con tante penne disposte in raggio quante sono le settimane della quaresima. Alla fine di ogni settimana si toglieva una penna. Poi il giorno di Pasqua, quando le campane sonavano a distesa annunziando la gloria di Cristo, la «caremma» detta pure «zzita caremma» veniva sparata col fucile o con un mortaretto.
Secondo S. La Sorsa questa tradizione salentina trova origine nei romani «oscilla», ricordati da Virgilio (Georg., l. 2, vv. 389-390), secondo il quale, in ricorrenza delle feste Liberalia, in onore di Libero o Bacco, i pagani usavano appendere agli alberi certe figurine o ‘immaginette’ di cera, le quali, dondolando al vento, propiziavano il dio ed arrecavano prosperità alle vigne.
«Me pari propriu nna caremma» si dice a donna magra o brutta e fin troppo avvolta nei panni.

Ecco come ci dipinge la «Caremma» Francescantonio D’Amelio, il più famoso dei poeti leccesi in vernacolo, in «Lu carnìali de lu 1829, ci se llicenzia de Lecce »: « … la quaremma già sta trase./ Idda stae sutta alla porta,/ nde sta bisciu già le spie; / e le cose ci sta porta/ tutte su’ cuntrarie a mmie.// Porta prèdeche a nna manu,/ e all’autra li celizzi; / e camina chianu chianul sia ca nc’ede scufulizzi.// Ae deòta, e nnu te uarda,/ tene pura la cuscenzia;// ddemazzuta è comu sarda/ pe lla trroppu penetenzia.//
La sta sècuta lu trenu/ de le proprie mercanzìe: // fàe ngrappate cu llu rienu,/ fiche, passule e bulìe;// migghiu, tòleca e pasùli,/ capetune mmarenatu,/ sarde, alici, pampasciùli,/ baccalà e stoccu seccatu.// Ah! li tiempi su’ rreati/cu mme mintu ntorna a bbiaggiu: / stàtiu bbuèni, se campati/ l’annu entùru tornaràggiu.//»
Ne diamo qui la traduzione, soprattutto per ricordare i «cibi quaresimali» dei nostro avi…
« … già è vicina la quaresima. Anzi è già sotto l’arco della porta, vedo già che piglia le mosse; / e le cose che sta portando son tutte contrarie, poco gradite a me.// Porta predicozzi in una mano, e nell’altra i celizi della penitenza;/ e cammina piano piano/ come se ci fossero «scivolizzi» (bucce o cose umide che fanno scivolare)./ / Cammina devota, e non ti degna neppure di uno sguardo,/ ha la coscienza pura;/ ed è magra come una sarda per l’eccessiva penitenza. // Le vien dietro il carro delle proprie mercanzìe:/ fave secche «ngrappate» con l’origano (alle quali, cioè, coi denti è stato tolto l’occhio superiore per impedirne il germoglio),/ fichi secchi, uva passita e ulive;// miglio (che nel leccese, nel secolo scorso, si mangiava bollito e condito con ricotta e olio, dopo. che era stato leggermente pestato ed infornato), «tòleca» (robiglia o cicerchia, lat. cicercula, legume selvatico rampicante, da non confondere con la veccia, coltivato come foraggio), fagioli, capitone marinato,/ sarde. alici, «pampasciùli» (bulbi, lat. hyacinthus comosus, che si mangiano bolliti con olio e aceto o in agrodolce solo nella Puglia),/ baccalà e stoccafisso.//
Povero me! I tristi tempi della penitenza sono già arrivati/ devo mettermi di nuovo in viaggio: / statemi bene in salute, se vivrete / l’anno venturo, a carnevale, tornerò (a tenervi allegri).//»

 

In «Tempo d’oggi», II (6), 1975. Per gentile concessione dell’Autore e del figlio Roberto Panarese

Carnevali magliesi di fine Ottocento: tonnellate di confetti sulla fame dei poveri

di Emilio Panarese

Nel periodo di Carnevale, a cominciare dalla seconda decade di gennaio, c’era in Maglie, alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900, la consuetudine di tenere nelle proprie case delle festicciole con musiche, balli mascherati e rinfreschi o, come si diceva allora, dei pubblici festini. Chi voleva dare queste pubbliche feste doveva chiedere la licenza al sindaco che la concedeva a condizione che non si praticassero giochi di qualsiasi sorta, che non si somministrassero vini o liquori e che i balli non si protraessero oltre la mezzanotte. Il prezzo d’ingresso oscillava da 15 a 20 centesimi.
La media borghesia preferiva, invece, le veglie danzanti, nell’angusto teatro P. Cossa all’extramurale di levante del nuovo borgo (poi Via Mazzini) la cui suppellettile l’intraprendente e coraggioso cittadino Giuseppe Romano (Nnonnu) aveva acquistato dal carpentiere magliese Pantaleo Rainò.
A questi veglioni, di cui era attivo animatore Stefano Ricci, i nostri buoni borghesi accorrevano numerosi, attratti dal buffet squisitissimo e dalle ottime musiche. Per allettare i magliesi a comprare la tessera di lire cinque, che dava diritto all’ingresso al teatro per tutta la durata del Carnevale, don Peppe Nonnu, che nel campo delle iniziative, delle ardite imprese non era secondo a nessuno, aveva escogitato di far girare per le vie della città nelle ore pomeridiane un gran carro, rappresentante il Carnevale, che verso sera faceva il suo ingresso trionfale nel teatro, addobbato elegantemente per l’occasione.
I ricchi proprietari, i professionisti, la gente bene insomma poteva invece sfrenarsi nelle otto sale del circolo (dell’Unione), addobbate per l’occasione con finissimo gusto o, meglio, gustare, i più fortunati, le splendide feste in casa del senatore e della contessa Tamborino-Frisari o in quella di Arcangelina Cezzi e Donato Mongiò: tutte le domeniche essi li accoglievano ospitali nell’ampio salone e nei decorati salotti dove tante belle signore e tante graziosissime elegantissime signorine sino all’alba, mai stanche di intrecciare quadriglie e valzer e polke dopo la succulentissima cena di svariati piatti di ostriche, di pasticcetti di carne, di galantina di tacchino, di arrosti saporiti di vitello innaffiati con Tokaj sincero e di stravecchi vini scelti, di liquori, di champagne e di caffè.

Per qualche altro ricco proprietario il carnevale è anche l’occasione propizia per fare sfoggio di beneficenza come quello offerto l’ultimo giorno del febbraio del 1897 dall’avv. Raffaello Garzia nei locali del’Ospedale M. Tamborino, gentilmente concessi dalla Congregazione di Carità, a ben 200 poveri e servito con squisito pensiero da signore e signorine magliesi.

Nelle ultime due domeniche e nei due ultimi giovedì (dei cumpari e di sciuvedìa crasseddu) ma specialmente nell’ultimo giorno, il martedì, i vicoli della periferia e le vie del centro storico erano attraversati da allegre brigate di cittadini in maschera, da carri graziosamente addobbati, ma anche da rustici carretti con fantocci di paglia e goffe maschere imitanti i mestieri e i personaggi più in vista del paese.

Ma ciò che attirava maggiormente il popolino, assolvendo in un certo qual modo ad una funzione ludico-aggregativa e dando quel qualcosa che doveva sbalordire, era la sfilata degli eleganti carri dei ricchi proprietari del luogo, che dalla periferia richiamavano in piazza una folla numerosa anche dai paesi vicini. Per dare un’idea di come venisse festeggiato a Maglie il Carnevale, alla fine dell’800, abbiamo stralciato da “L’avvenire” del 1 marzo 1897 (I,6) la seguente cronaca:
Verso le 17 si aprì il corso col piccolo ma bellissimo ed elegante carro dei sigg. Gennaro Starace e Pietro Miglietta. Era un canestro di vaghissimi fiori da cui essi uscivano pieni di brio, gettando fiori e confetti. Venne di seguito l’enorme carro rappresentante una corbeille del cav. Oronzo Garzia accompagnato dal notar Gennaro De Donno, Nicolino De Donno, Vittorio Sticchi, Paolo Scarzia e Antonio Cezzi, tutti gettando a profusione confetti ed eleganti bomboniere. Il terzo carro fu quello dell’egregio sig. Vincenzo Tamborino. Rappresentava il ‘corno dell’abbondanza’. Era maestoso addirittura, vestito riccamente di stoffa e guarnito di artistici fiori. Dalla bocca del corno, ch’era in avanti, usciva un nembo di fiori e tra questi si agitavano, quali vispe farfallette, alcuni bimbi dalle guance paffute e rubiconde[…]. Erano seduti sul corno e propriamente al concavo di essi, i sigg. Vincenzo e Salvatore Tamborino, il cav. Egidio Lanoce e il notaio Giuseppe Zocco, che gettavano confetti e bomboniere bellissime.[…]. Seguì il carro dell’avv. Raffaello Garzia, di cui facevano parte i sigg. Nicola De Marco, Nicola Scarzia, il dott. Achille Maggiulli e Filippo Lionetto. Anche questo carro, che rappresentava la stella del nord, fece piovere a dirotto confetti e bomboniere, ricevendo in cambio, come gli altri carri, olezzanti mazzolini di fiori.
Mentre la folla acclamava e teneva dietro, s’intese prima da lontano, poi man mano più da presso, intonare la marcia reale. Era la banda del maestro De Pascalis sopra un carro guarnito di fiori, che precedeva quello dell’avv. Paolo Tamborino, simboleggiante un mulino a vento, lavoro bellissimo e di grande effetto. In esso vi erano, oltre il sig. Tamborino, i sigg. Salvatore Palma di Oronzo, Eugenio Palma di Salvatore, il prof. Pasquale de Lorentiis, Ernesto Sticchi, l’ing. Raffaele Palma, Vincenzo e Nicola Lionetto, tutti vestiti di bianco come altrettanti mugnai. Al loro apparire la folla raddoppiò le acclamazioni, tanto più che giunsero quasi inaspettati, gettando come forsennati fiori e confetti. Ultimo e non meno elegantemente addobbato fu il carro del noto industriale Giuseppe Romano, in cui tra le maschere che gettavano a dritta e a manca confetti eranvi parecchi musici che intonavano marce assai allegre.
Bello era il saluto scambievole dei carri, una vera grandinata di confetti: basti dire che in un paio d’ore ne furono gettati parecchie tonnellate. Il corso si chiuse con una splendida fiaccolata e fuochi di bengala fatta su tutti i carri. Non meno imponente riuscì martedì il corso dei fiori […]
In quei giorni neppure le famiglie più povere sapevano rinunciare alla crapula, ai piaceri della tavola, alle debosce. Si mangiava a crepapelle, si beveva sino all’ubriachezza, si ballava, si cantava, tra risate e scene comiche, tra una quadriglia e l’altra, allietati dal suono di un’orchestrina di pifferi, chitarrini e tamburelli. Il popolino specialmente si divertiva a più non posso, perché dopo la baldoria dell’ultimo martedì, con l’arrivo della quaresima, per molti sarebbero tornati i travagli, la fame, la miseria di sempre: “Carniale meu chinu te doje/ ieri maccarruni e osci foje,/ Carniale meu chinu te mbroje,/ osci maccarruni e ccarne, / e ccrai mancu foje.”

E che fame e che miseria! Gli ultimi anni dell’800 e gli inizi del ‘900 furono a Maglie e nel Salento anni di grave crisi economica, di estrema indigenza, di nera miseria, di continua disoccupazione dei contadini; dietro l’apparente stato di floridezza, dietro la facciata del fasto e dell’opulenza ostentata dai grossi proprietari terrieri il pietoso spettacolo di tanti poveri infelici privi pure di un letto e di una minestra, dei cenciosi scalzi, degli accattoni laceri, denutriti, sostanti ore ed ore presso i portoni delle case patrizie.
All’articolista del giornale borghese questo spettacolo indegno e poco decente degli accattoni ripugna; preferisce non farne menzione e terminare la cronaca con un bravo di cuore a tutti coloro che avevano voluto strappare i magliesi alla monotonia di sempre procurando loro qualche ora di svago, preferisce plaudire ai benemeriti che avevano sbalordito dall’alto dei loro carri elegantemente addobbati col lancio di fiori, di bomboniere, di tonnellate di confetti, che con infinita generosità avevano voluto dare al popolo il panem (il pranzo ai poveri) e i circenses (la sfilata dei carri): la farina e la festa!
Il carnevale è finito – commenta il corrispondente magliese della ‘Gazzetta delle Puglie’, Villanegra – prosit a chi vi ha goduto e a chi non vi ha goduto. E quaresima sarebbe stato tutto il Carnevale se i signori del Circolo non fossero riusciti a tenere qualche festa da ballo. (La Gazzetta delle Puglie, A. III, 10 febbraio 1883).
Quaresima tutto il Carnevale! Ma per questa povera gente la quaresima, una quaresima di fame, di fatica, di lotte e di rinunce continue, non sarebbe fatalmente, senza scampo e senza speranza, tutto l’anno, tutti gli anni, tutta la vita?

In «Tempo d’oggi», V(4), 23 febbraio 1978

Bon capu d’annu e bon capu de mese…

Strina, Pasca Bbefenìa e šcennaru siccu

di Emilio Panarese

 

La «strina» o strenna (parola sabina che significa salute, buon augurio) è il regalo di Capodanno. 

De Santu Sulivesciu porta la strina allu mesciu.
L’uso dei regali reciproci nel primo dell’anno è antichissimo e risale, secondo alcuni, al re Tito Tazio che andava a raccogliere in quel giorno foglie di verbena, che poi regalava agli amici, nel bosco della dea Strena, la dea della salute. I Romani erano soliti scambiarsi in dono focacce, fichi secchi, miele e datteri o, i più ricchi, tessere di metallo sulle quali facevano incidere la formula augurale «annum novum faustum felicem »: «felice e prospero anno nuovo».

Bon capu d’annu e bon capu de mese
/ apri la ursa e damme nnu turnese, recitavano invece fanciulli e giovanetti del nostro volgo nella case dei signori per fare gli auguri e ottenere regali in denaro o anche in cibarie…

Ci chiange a Ccapudannu, chiange tuttu l’annu; al contrario ‘chi a Capodanno ride, riderà per tutto l’anno’, come canta D’Amelio:
Sienti a mmie ca nu te ‘ngannu / de llegrìa osce è llu puntu / quandu è lliegru Capudannu / l’autri giurni lliegri suntu./ Statte lliegru, canta e ssona, / nu ppenzare a malatìa/ca la prima cosa bbona, / è llu scecu e lla llegrìa.

da http://www.mybefana.it/

L’uso delle strenne creò poi un personaggio simbolico: la Befana, immaginata come una brutta vecchia, sdentata e dal naso adunco, ma benefica e dispensatrice di doni, che va in giro per il mondo cavalcando una scopa e penetra nelle case per la canna del camino. Quest’uso forse è sapravvivenza di qualche rito magico pagano associato poi alla festa cristiana. La parola Befana è corruzione di Epifania, che vuol dire manifestazione divina (adorazione dei Magi, nozze di , etc.).
Fu considerata, insieme con la Pasqua, la festa più solenne dell’anno. Ancora oggi, qui nel Salento, il nostro popolo la chiama prima Pasca o Pasca Bbefenìa. Con essa si chiudono le grandi feste di dicembre, da cui il proverbio:
De Pasca bbefenìa / tutte le feste vannu via.

Tutti i signori in quel giorno si vestivano a nuovo: Te Pasca Bbefenìa se mmuta tutta la Signurìa.

Gennaio è il mese più freddo, anzi è bene che sia freddo, perché se la temperatura è mite, pochi frutti resteranno sugli alberi in primavera: Mandulu ci fiurisce de scennaru / unne ccoji allu panaru.
L’annata sarà buona, invece, se il mese sarà freddo e asciutto: Scennaru siccu, massaru riccu; secondo il suo carattere dovrà essere un mese rigido, perché se scennaru nu scennariscia, febbraru male penza.

Il rigore invernale però non distoglierà i nostri contadini dal lavoro dei campi: essi toglieranno col sarchiello le erbe cattive, perché solo la zappudda de scennaru inchie lu ranaru (il granaio), perché, solo se si zappa e si pota la vigna in gennaio, l’uva nel panaru (cesto) sarà abbondante: zzappa e puta de scennaru: l’ua intru a llu panaru.
 

In «Tempo d’oggi», II (1),1975

Il nostro Presepio

di Emilio Panarese

Il Natale, allora, si sentiva nell’aria e nel cuore, quasi due settimane prima, sin dalla festa dell’Immacolata.
Sin da questa festa – ricordo – io e mio fratello andavamo già raccattando qua e là, negli angoli più remoti della spaziosissima bottega artigiana di mio padre, assicelle di legno e ritagli di compensato di varia forma, e, di soppiatto, occultavamo tutto anche i chiodi, una piccola sega, il martello e le tenaglie in un cantuccio del lungo capannone, dove mesciu Totu Pàssaru se ne stava chino, ore ed ore, diligentemente assorto a verniciare i calessini leggeri come piume.

Bisognava subito darsi da fare, perché in dicembre, nel mese di Natale, i giorni camminano lesti e sono scarsi di luce.

Il presepio grande, che occupava tutta una stanza, quello che nostro padre con quattro colpi di martello magistralmente ci allestiva, quello ricco di pastori alti quanto un braccio, e vivi e parlanti, scintillante di luci e di colori, ci sembrava troppo bello, quasi irreale; noi gli preferivamo quello rustico, fatto con le nostre mani inesperte, sconnesso e traballante e miseruccio, con la sola capanna della nascita, la via tortuosa dei Magi, con le montagne di sprùscini (carbone bruciato) e i pupi de crita, il venditore di fichidindia, la lavandaia, il pastore con le pecore zoppe, il massaru con le ricotte.

Ci attraeva perché era il “nostro” presepio, un presepio fatto di niente, che alle deboli luci di due lumini, con quei rametti di mortella e di ginepro, coi pani di molle muschio, assumeva l’aspetto di un paesaggio vero, l’aspetto delle umili cose godute con trepida gioia.

Stavamo a contemplarlo, specialmente la sera della vigilia, incantati, trasognati nell’ora favolosa della nascita del Bambino, quando con candido, innocente fervore noi si canticchiava giulivi il noto ritornello: «Eccu è nnatu lu Mamminu,/ jancu e rrussu comu milu,/ cu lli rasci de lu sule,/ li dicimu ttre palore…».

Poi di colpo il sogno del viaggio a Betlemme veniva infranto dalla voce della mamma che ci invitava a rientrare, noi riluttanti, in casa… nella casa fragrante di miele e di vaniglia… di fumanti pìttule d’oro e di cartellate cosparse di zucchero e cannella…

 

In «Tempo d’oggi», II (26), 1975

Ulivi di Puglia, come maestose colonne tortili…

di Emilio Panarese

…In nient’altro si può trovare il simbolo della nostra provincia se non nei giganteschi e pittoreschi ulivi plurisecolari, che, come maestose colonne tortili, sormontate da larghi capitelli d’argento, tormentate, spaccate o scoppiate, di un vetusto tempio pagano dedicato a Pallade, si perdono, a vista d’occhio, per chilometri e chilometri, da Lecce fino al mare, fino a Finibus Terrae.

Qui, nella nostra terra, l’ulivo ha il suo regno, qui l’ulivo sin dall’epoca messapica è stato spettatore di tante antiche vicende, di tante illustri civiltà, di tutto il nostro glorioso e doloroso passato…

 


da: E, Panarese, Gallipoli, porto europeo dell’olio in «Tempo d’oggi», I (22), 18/12/1974

Gallipoli, porto europeo dell’olio

di Emilio Panarese

In nient’altro si può trovare il simbolo della nostra provincia se non nei giganteschi e pittoreschi ulivi plurisecolari, che, come maestose colonne tortili, sormontate da larghi capitelli d’argento, tormentate, spaccate o scoppiate, di un vetusto tempio pagano dedicato a Pallade, si perdono, a vista d’occhio, per chilometri e chilometri, da Lecce fino al mare, fino a Finibus Terrae.

ph Francesco Tarantino (per gentile concessione dell’autore)

Qui, nella nostra terra, l’ulivo ha il suo regno, qui l’ulivo sin dall’epoca messapica è stato spettatore di tante antiche vicende, di tante illustri civiltà, di tutto il nostro glorioso e doloroso passato.

Qui gli uliveti, con dieci milioni di piante viventi, sono come sterminati boschi coltivati con gran cura, che dominano una superficie di oltre ottanta mila ettari; qui l’ulivo è stato in ogni tempo uno dei tre pilastri della nostra agricoltura.

Oggi l’economia agricola salentina, pur restando l’unica nostra risorsa, ha almeno il conforto di vedere fiorire piccole attività industriali ad essa connesse, ma esattamente un secolo fa l’olio era l’unico serio prodotto delle nostre esportazioni, l’unico che desse lavoro negli anni di carica, nei frantoi, a ottomila trappitari, da novembre fino a marzo-aprile.

Gli anni di scarica, invece, erano anni di nera miseria per tutti, anni di fame, come testimonia il noto proverbio:

 “Quannu la petra màrmura nu ggira,

tutta la gente vàe capu calata”

 Nel ‘700 e anche prima, quando la nostra provincia non aveva una vera e propria viabilità e lo scambio delle merci avveniva a dorso di mulo o con carretti trainati da buoi o da cavalli per le tortuose carrarecce, Gallipoli divenne, anche prima che avesse un vero porto, il punto di concentramento di tutto l’olio della provincia salentina, e l’emporio europeo del commercio dell’olio, che veniva depositato in capaci cisterne scavate nella roccia tufacea. Da queste, secondo le richieste, veniva prelevato e spedito giornalmente all’estero, in parte diretto a Napoli o a Venezia, in parte richiesto dai lanifici  e dalle tintorie inglesi o dalla lontana Russia, per uso votivo, perché nelle chiese e nelle case, ricche o povere, ardesse, giorno e notte, davanti alle sacre icone.

Gallipoli (1642) incisione su rame, Meissner, Sciographia Curiosa [collez. priv. Giorgio De Donno
La richiesta di olio o meglio dell’olio Gallipoli chiaro, giallo lampanteda parte dei mercanti russi non deve meravigliare, se si pensa che nell’800 la provincia di Terra d’Otranto era tra le pochissime che smerciavano olio puro d’oliva e che “il fanatismo russo non poteva tradire i suoi santi con lampade di olio non puro”.

Le frequenti contrattazioni, diverse nelle diverse epoche, vennero per necessità regolate, a Gallipoli, con una fiera annuale, la cosiddetta Fiera del Canneto, della durata di otto giorni: dal 2 all’ 8 luglio, fiera assai importante, soprattutto dagli inizi del ‘700 alla metà dell’ 800, non solo per le contrattazioni dell’olio e per le varie merci che s’importavano, ma anche perché tutte le merci, anche quelle estere, che venivano sbarcate durante la fiera, godevano di franchigia di dazi e balzelli.

La quotazione giornaliera dell’olio Gallipoli alla Borsa di Napoli scaturiva sia dall’entità dello stock esistente in Gallipoli, sia dagli acquisti che ogni giorno si verificavano dai depositi a liquidare, sia dalle fluttuazioni dei prezzi degli altri mercati di olio.

Un secolo fa la nostra produzione olearia, così abbondante, in media 85 mila q.li annui, temeva solo la concorrenza dell’olio di semi di cotone, l’unica che insidiasse i secolari rapporti commerciali tra Gallipoli e l’Inghilterra e la Russia.

Gallipoli (1590 ca., prov. Colonia) incisione in rame, dipinta a mano G. Braun – F. Hogenberg [collez. priv. Giorgio De Donno
Il deposito esistente a Venezia, ad esempio, era composto di tre quarti di olio di cotone e di un quarto di olio puro di oliva, per cui neppure una botte di olio puro usciva da Venezia. Bisogna però ricordare che, per la inveterata abitudine di lasciare depositare le olive raccolte in fosse del frantoio nel Salento (le šciave), queste subivano una fermentazione, che dava olio acido di ingrato sapore ed odore, destinato, com’era quello di Gallipoli, solo ad uso industriale.

Sino alla fine dell’800 i nostri oli furono soltanto oli mercantili.

La trasformazione da olio mercantile ad olio da mensa (l’olio fino di Bari era noto sino dai primi decenni dell’800) avvenne quando la migliore viabilità della provincia, la regolarità, nei porti e nelle rade, degli approdi dei vapori e il diffondersi della rete ferroviaria favorirono il decentramento, quando, cioè, ogni piccolo centro di produzione divenne anche punto di spedizione. E col decentramento calarono sensibilmente, agli inizi del ‘900, la fortuna e l’attività del porto gallipolino.

Un secolo fa: un mare di olio puro di oliva. Da alcuni anni ad oggi, invece, l’olio da mensa è in gran parte sparito o, se c’è, si compra a caro prezzo; spesso oggi sulle nostre mense c’è l’olio di soia, di arachide, di mais… grazie alla moda… di ‘mangiar leggero e mangiar magro’.

Sembra incredibile… quasi uno scherzo della natura. Sembra… eppure, come in una vecchia favola, oggi si potrebbe raccontare: «Nella splendida terra salentina dell’ulivo secolare c’era una volta tanto, tanto olio puro di oliva…».

 

In «Tempo d’oggi», I (22), 18/12/1974

Tessuti salentini

di Emilio Panarese

Spigolando nell’epistolario di mons. Capecelatro, arcivescovo di Taranto alla fine del ‘700, frammenti delle cui lettere abbiamo rinvenuto in una edizione di Nicola Vacca («Terra d’Otranto, fine ‘700-inizi ‘800, Bari 1966») e alcuni riferimenti nelle «Carte Capece-Lopez», che si conservano nella Biblioteca ‘Piccinno’ di Maglie (lettera spedita nel nov. del 1807 da Bartolomeo Ravenna al duca di Taurisano Antonio Lopez y Royo, marito di Francesca Capece), ci siamo fatta un’idea abbastanza chiara dell’alta considerazione in cui erano sempre stati tenuti, sin dall’alto medioevo, non solo dai consumatori locali, ma anche da quelli di altre regioni italiane e dai mercanti stranieri (inglesi, russi etc.) alcuni tessuti lavorati qui nel nostro Salento: le felpe, le calze di ventinella di cotone sopraffino, lavorate a Galatina e a Taranto, le cravatte, i fazzoletti, i guanti, le coperte, i berrettini sfioccati, il pepariello, il barracano.
Si trattava di un artigianato nobilissimo, raffinatosi attraverso molti secoli, e che si distingueva soprattutto per la delicatezza e la rifinitura artistica dei prodotti.

pregiati tessuti salentini

Assai ricercate erano a Gallipoli le nostre pregiatissime, finissime e morbide mussoline, tessuti di cotone o di lana di oro e di argento, specialmente dai mercanti fiorentini, nel periodo dell’importante fiera del Canneto (2-8 luglio), in cui tutte le merci godevano di franchigia di dazi e di balzelli. Così a metà dell’800 cantavano i gallipolini: «Nini, nini, nini,/ mercatanti fiorentini,/ ci anu utandu pe lle fere/ anu ccattandu li musulini»/. In una lettera del 29 aprile 1797 Ferdinando IV scrive alla regina che da Gallipoli le porterà in dono ‘certe bellissime mussoline’.

“camisola” degli anni ’50 del secolo scorso. Manifattura neritina

Non meno celebri e richieste erano le cuperte azzate, cioè a rilievo, di Nardò (ma si lavoravano anche a Galatone e a Gallipoli), di tanto pregio, che se ne spedivano continuamente a Napoli, Genova, Roma, Milano, Livorno, in Inghilterra e in Russia. Per la confezione di ognuna occorreva più di un anno di lavoro. Venivano trattate con filo di bambagia il più delicato e il più sottile e tinte con dei succhi di radici e di erbe, dalle donne escogitate e da niuno nell’arte di tingere istruite.

Pure noti erano i mussolini di Lecce, detti turbanti, e il barracano di Muro Leccese (mantello grossolano tessuto con filo di pelo di capra).
Pregiata assai era inoltre nel ‘700 la ferrandina salentina (così chiamata dal luogo di origine in provincia di Matera), molto resistente all’uso, con cui si confezionavano soprattutto le camisciole, alias corpetti colle maniche, forse in origine importata nel Salento dai Domenicani. Era una pannina bianchissima (ma se ne faceva pure di altri colori) il cui ordito era di cotone fiore e la trama di lana gentile.

mutande femminili su pregiata coperta. Manifattura neritina anni ’30 del secolo scorso

Molto accorgimento e grande abilità richiedeva la preparazione della materia prima e della manifattura, nelle quali eccellevano sulle altre le donne di Nardò, Galatone, Galatina e Tricase.
Per la biancheria da tavola veniva invece usato il pepariello: un tozzo tessuto di cotone, detto pure a pipiriddu o a pipiceddu, cioè ad acini di pepe.

Anche i tessuti di bisso erano celebri e ricercati sin dall’antichità: a Taranto e in molti paesi della provincia di Lecce si confezionavano col fiocco della pinna nobilis. Coi filamenti del bisso (mollusco lamellibranco) lunghi fino a venti centimetri le gallipoline confezionavano con grande maestrìa dei tessuti detti “nebbie di lino” di estrema morbidezza e vaporosità, di bellissima vista e così pomposi di cui si servivano le più aristocratiche nobildonne del regno. Col bisso si preparavano anche calze finissime e guanti di lana pesce e berrettini sfioccati (che tanto piacevano a Ferdinando IV) superiori a quelli di castoro per leggerezza, morbidezza e durata. Se ne spedivano persino a Pietroburgo. Finissime erano pure le “cravatte”, di gran moda nel ‘700, cioè panni assai pregiati con cui le donne si coprivano le spalle.

copritavolo ad intaglio. Manifattura salentina degli anni ’70 del secolo scorso

E che dire infine degli ombrellini in pizzo bianco, a traforo e trasparenti, con motivi ornamentali o con ghirlande floreali di vario colore, o delle borsette in filigrana d’argento con cerniere finemente cesellate, degli eleganti ventagli di madreperla o di seta, indici di squisita eleganza, di buon gusto, di estrema raffinatezza? E che cosa dei ventagli di piume di struzzo con montatura di tartaruga o di osso e velo, strumenti di civetteria, d’istinti e di passioni, armi potenti nelle mani delle donne?
«Giove, re degli immortali,/ agli augelli ha dato le ali./ Alle donne – e non fu sbaglio -/ dié la lingua ed il ventaglio./»

In «Tempo d’oggi», II (15), 1975, per gentile concessione di Emilio Panarese e del figlio Roberto

La scuola magliese dell’arte del ricamo

di Emilio Panarese

alto bordo, assai originale e ricco, detto “pupi e stelle”, arricchito a sua volta dai “bordini”, col particolare assai raro del “pupo guerriero” armato di spada

Oltre ad essere un importante centro di cultura e la città di maggiore commercio di tutta la regione del Capo, settant’anni fa Maglie era pure famosa per lo sviluppo dell’artigianato, ma soprattutto per i mobili d’arte, per gli apprezzati lavori di ferro battuto e per i pizzi e i merletti, rinomati in Italia e all’estero.
L’arte del ricamo, già verso la metà dell’800, era assai diffusa a Maglie tra le giovanette del popolo, ma la sua fortuna è legata alla fondazione della scuola d’arte applicata all’industria, quella scuola, una delle prime ad essere istituita nelle province meridionali, che, come sappiamo, fu voluta e creata da Egidio Lanoce. Le lezioni serali di disegno applicato ai merletti iniziarono nel maggio del 1905, quando fu istituita nella scuola, accanto alle sezioni maschili (ferro battuto, intaglio su legno, ebanisteria, scultura, plastica), che funzionavano già da venticinque anni, una sezione femminile, frequentata all’inizio, per un primo esperimento, che durò circa un mese, con ottimi risultati, solo da quattro alunne. Fu subito dopo la visita dell’ispettore E. Venezian, che approvò il progetto di trasformazione delle locande di via C. Vanini per i locali della scuola, che le lezioni serali di disegno applicato alla lavorazione delle trine e dei merletti si svolsero regolarmente.

 

particolare di tovaglia d’altare lavorata dalle alunne della “Regia scuola d’arte di disegno applicata al ricamo” (1906), diretta da Egidio Lanoce

Il primo anno, il 1906, la scuola fu frequentata da 28 giovanette (è di quell’anno la bellissima tovaglia dell’altare del SS. Sacramento della chiesa collegiata di S. Nicola); negli anni successivi, dal 1907 al 1914, da 40 alunne in media.
In seguito, un po’ per la scarsezza dei mezzi finanziari, un po’ per rendere possibile una maggiore partecipazione dei giovani dei corsi maschili, la sezione fu momentaneamente sacrificata. Ma venne ripristinata più tardi, quando venne trasferita nella sede più appropriata dell’Orfanotrofio Annesi-Capece, frequentato soprattutto da fanciulle della media borghesia, che lavoravano il traforo o “punto Maglie”, il “punto siciliano” o “a reticella”, il “traforo” e il “punto reale”, alternato, con tale mirabile precisione, con tale finezza di esecuzione, da lasciare ammirati.
Caratteristici sono i nomi dati ai diversi tipi di traforo (”a muliné”, “a panierino”, “a malota”, “a trifoglio”, “a quadrifoglio”, “ad s stella”, “ad ics”, “a margherita”, “a pupo stella”, “a puntina”) o ai legamenti del traforo (“gigliuccio”, “zippitelli”, “zippitelli a reta”, “zippitelli a maccarruni”, “a spaghetti”, “a sfilatino”, “a dentino”) e ai motivi ornamentali (di cui ricordiamo il “mustazzolu” a forma di rombo come il noto dolce, e i “punti sospesi” o “punti in aria”, detti comunemente “pirichilli”, che si ottengono con cinque o sei giri intorno all’ago e tirando il filo).

Un notevole sviluppo dell’arte del ricamo dette pure in quegli anni e nei successivi l’attiva e intelligente signora donna Carolina Starace De Viti-De Marco, che raccoglieva a Maglie, intorno a sé, oltre 150 ricamatrici, molte delle quali avevano frequentato i corsi serali di disegno. Neppure le mogli dei professionisti disdegnavano allora di dedicarsi, nelle ore libere, al ricamo, lavorando fino a tarda notte, per arrotondare lo stipendio del marito.

 

Dalle gentili mani delle ricamatrici magliesi uscirono lavori artistici del più fine gusto, che ebbero lusinghieri riconoscimenti in varie mostre e soprattutto in quelle di Roma e di New York, lavori pregevoli, riprodotti da antiche pergamene di varie biblioteche, come quelli che servirono per la figlia del celebre miliardario americano Morgan o come le estrose composizioni ornamentali, ideate da Egidio Lanoce, applicate ai lavori di trine, che pure furono fornite alla scuola di ricamo di Casamassella, diretta dalla stessa Starace, in cui lavoravano oltre cinquecento ricamatrici.
Oggi, purtroppo, questa nobile ed antichissima “arte dei merletti” (si pensi che a Lecce si insegnava alle fanciulle povere del Conservatorio di S. Leonardo sin dai tempi della dominazione spagnola, agli inizi del ‘600) è in piena crisi, non solo a Maglie in cui la esercitavano solo alcune ricamatrici anziane (Addolorata Lionetto, discepola della Starace, Rosina De Donno, Vincenza Sticchi, Maria Negro e poche altre), ma in tutto il Salento, come a Galatina, come a Nardò, che di questa nobile arte custodisce preziosi cimeli: arazzi e paliotti in broccato con ricami policromi in oro, di meravigliosa bellezza, di inestimabile valore.In «Tempo d’oggi», I(9), 1974

La più antica fiera di Maglie: lu panìri

di Emilio Panarese

Tra le cinque fiere annuali di Maglie lu panìri era la più antica, essendo stata istituita nell’ottobre del 1819 dal re di Napoli Ferdinando I di Borbone. Cadeva nei giorni 27, 28 e 29 giugno, giorni dei festeggiamenti in onore dei SS. Pietro e Paolo. Posteriori le altre fiere: S. Oronzo, 1834;  S. Nicola e Addolorata, 1860; SS. Medici, 1891. Oggi l’unica sopravvissuta è quella dell’Addolorata, che si svolge nel viale omonimo il venerdì precedente la Domenica della Palme.

Il panìri dal neogreco πανηγúρι vuol dire “riunione di gente in occasione di particolari festività”. La parola neogreca fu in seguito usata estensivamente e genericamente nel senso di “mercato” oppure “dono che in particolari festività si faceva alla fidanzata o a parenti ed amici”: lu panìri de san Pietru; lu paniri de san Nicola ecc..

A Maglie il mercato boario del panìri, che era esente da imposte, si svolgeva la mattina del 29 al Largo Cuti sul piazzale dei SS. Medici; la sera, per sicurezza di ordine pubblico, era prescritta l’illuminazione di tutti i fanali a petrolio. Gremitissimo il mercato in piazza, che attirava molti acquirenti dei paesi vicini.

I due santi erano venerati nella chiesa di san Pietro (una delle tre esistenti in piazza), che, delle antiche chiese medievali di rito greco, fu quella che resistette di più per le sue buone condizioni statiche. Solo agli inizi dell’800 cominciò a mostrare grosse crepe. Venne abbattuta nel 1880 e trasformata in palazzo (oggi vi è la sede dalla Banca Popolare Pugliese). Nell’interno si vedevano sulle pareti molte immagini di santi e  sull’altare due grandi statue di

Ulivi di Puglia, come maestose colonne tortili…

di Emilio Panarese

…In nient’altro si può trovare il simbolo della nostra provincia se non nei giganteschi e pittoreschi ulivi plurisecolari, che, come maestose colonne tortili, sormontate da larghi capitelli d’argento, tormentate, spaccate o scoppiate, di un vetusto tempio pagano dedicato a Pallade, si perdono, a vista d’occhio, per chilometri e chilometri, da Lecce fino al mare, fino a Finibus Terrae.

Qui, nella nostra terra, l’ulivo ha il suo regno, qui l’ulivo sin dall’epoca messapica è stato spettatore di tante antiche vicende, di tante illustri civiltà, di tutto il nostro glorioso e doloroso passato…

La toponomastica rurale autentica testimonianza stratificata della semplicità del paesaggio salentino

di Emilio Panarese

Foto tratta dal libro «Salento, il paesaggio della semplicità» di Francesco Tarantino, per gentile concessione dell’Autore

Dell’importanza storica che la toponomastica rurale ha avuto sempre dal Medioevo ad oggi come testimonianza del sedimento di secolari interrelazioni geografiche, culturali, economiche e, quindi, sociali, non ci sono dubbi.

A chi sa bene studiarla e interpretarla essa mostra chiaramente le varie tappe dell’humus abitativo-ambientale, delle coltivazioni e delle varie attività umane nel territorio, dai secoli scorsi sino ai tempi più recenti, gli aspetti tipici di una specifica zona del paesaggio e della sua evoluzione nei secoli.

Inventari, catasti, apprezzi, onciari, platee, rogiti notarili ecc. ci offrono una tale abbondanza di materiale che meriterebbe un’indagine più approfondita a più largo raggio in considerazione del fatto che il campo della toponomastica subregionale (in questo caso la salentina) è stato quasi del tutto inesplorato o esplorato solo molto parzialmente. Si tratta di segni secolari, in gran parte integri e vitali e tuttora ricorrenti nei nostri codici catastali, proprio perché non soggetti al graduale e totale deperimento di quelli urbani, segni che soprattutto, oltre alla ricchezza lessicale, ci permettono di cogliere le caratteristiche paesaggistiche e geomorfologiche del mondo rurale salentino in genere.

I toponimi che si riferiscono alla natura del suolo (geonimi) ci parlano chiaramente dei calcari cretacei (cuti), che nella piattaforma salentina, debolmente ondulata, si alternano a calcari teneri miocenici come la finissima petra leccese e a sabbioni e a tufi, a terreni del tutto argillosi (argellari, frasciòle) su un suolo carsico assai bibulo.

Una sterile petraia biancheggiante che ha fornito sempre ai contadini materiale sufficiente per recingere con lunghi muriccioli a secco le coltivazioni (chisùre) e costruire strade di campagna (carrarecce) e rifugi e

Spigolatura linguistica sul toponimo lu riu


 

di Emilio Panarese

Nei tre inventari tardomedievali  e nei catasti dell’Università di Maglie del 1578, del 1608, del 1674 e nell’Onciario del 1752: RIO / RIU / LORIA < [U]-RIA a Monterone  / Francavilla, suffeudo di Maglie: 1484, 29r.: heredes  Nicolai Ceza, pro clausorio uno nom.° Rio et pro terra factiza; e successivi 1578 e 1608 lo Rio, allo Rio, lo Ria, loria; 1674: Loria grande, allo Rio, lo Ria; 1752: la masseria Pezzate [tra Maglie e Scorrano] con la parte di levante montuosa ecc. e le vie vecchie Rio 1° e Rio 2°.

Il toponimo negli antichi inventari e catasti è stato deformato con l’agglutinazione dell’articolo o con la preposizione articolata (LO RIO, ALLO RIO). Fenomeni di aggglutinazione/deglutinazione sono frequenti anche in italiano: uno per tutti ho ricordato l’antico e letterario LUSIGNÒLO / LUSIGNUÒLO diventato poi L’USIGNÒLO.

RIO ha la stessa etimologia di ORIA e, come afferma Ciro Santoro (Toponomastica messapica, «Lingua e storia in Puglia»,1984, 83-84), “ha vari riscontri anche al di fuori del territorio propriamente messapico”.

Come la città brindisina di Oria, il toponimo magliese RIO, come attestato nei documenti antichi, è un oronimo,  in mezzo a tanti altri oronimi: Muntarrune crande e Muntarrune piccinnu, li Munti alle Pezzate, Lo Munte della Guardia (a  Petrore), Li Munti aperti, la Masseria Peschiulli, la masseria Muntagna, la Serrula a s. Isidoro, la Serrula alli Calamauri, lo Muntagna alli Scinei ecc.

Oria, notevole centro messapico, su una piccola altura del Tavoliere di Lecce (Strabone, Geographikà, VI, 282, Oùρíα, con la vocale molle iota accentata; Plinio e  Livio, Uria, senza l’ O iniziale) è ricordata dall’umanista di Galatone:è detta da molti Uria, da altri Orea, oggi si chiama Oria: tutti nomi che indicano città di montagna: montanam urbem sonat”.

La “gran Settimana” a Maglie

di Emilio Panarese

Nei primi tre giorni della Settimana santa, giorni di preparazione, s’apparecchia la tavola della Cena e si costruisce il Sepolcro.

Presso il pulpito della chiesa di S. Nicola, una volta, in questi giorni si allestiva il palco per la rappresentazione della Passione del giovedì.

L’usanza di questa forma drammatica, assai modesta, con apparati scenici del tutto ingenui, pantomimata o a volte dialogata, degli episodi della passione era già scomparso a Maglie alla fine del secolo scorso, mentre rimase vivo sino a circa trent’anni fa nella vicina Muro.

Quest’usanza altro non era che una sopravvivenza della sacra rappresentazione, assai diffusa in molte regioni italiane nel XV secolo e nel Salento: Li giorni santi de la quarantana / cose de santi se representava / molti martíri in rima se dispiana, / in publico per l’ordinarii se cantava [ … ] (Balzino, IV, c. 54 v.).

Giovedì santo

Si entra in lutto stretto: sin dal mezzogiorno si chiude l’organo e si legano (se ttàccane) le campane, che non vengono più sonate sino al resurrexit. Per annunziare le funzioni in qualche chiesa si usa ancora la trènula, come si diceva una volta, o la tròzzula, come si dice adesso, e, invece di usare il campanello, si batte con un bastone di legno sulle panche o sui confessionali.

Anni fa in questo giorno anche i carrettieri legavano i sonagli ai cavalli, i caprai alle capre e finanche il vecchio portiere del Collegio Capece – come ricorda A. De Fabrizio – invece di dare il segnale con la campanella, picchiava forte sul portone, all’ingresso di qualcuno con un grosso martello.

Nelle chiese parrocchiali si svolge la cena: una volta nella chiesa madre i dodici apostoli, vecchi poverelli infagottati in lunghi camici azzurri con la papalina in testa e seduti su dodici scanni,

Osanna e menhir

di Emilio Panarese

Verso l’anno mille circa dell’era cristiana, invalse l’uso di graffire delle croci con pietre o metalli appuntiti sulle facce di un menhir o di piantarvi in alto delle croci di pietra.

Per questo processo di cristianizzazione i menhir erano chiamati impropriamente culonne o croci o in griko sannà, da osanna (che in ebr. significa “salvaci!”) col significato metonimico altomedievale di “Domenica delle palme”.

menhir “Crocemuzza” o delle Franite (Maglie)

Non bisogna però confondere i menhir, benedetti dai papâs bizantini e adattati a sannà, coi sannà veri e propri o culonne cu ccroci commemorative della Passione di Cristo, innalzati, secondo l’usanza medievale di alcuni paesi della Grecìa salentina, alla periferia del paese e, più tardi, nel ‘600/’700, anche nel centro storico.

È molto probabile che pure il sannà sopra ricordato, nei pressi della chiesa greca magliese di S.Maria della Scala, sia stato un menhir.

croci graffite sul menhir (ph R. Panarese)

Di questo menhir o Crocemuzza, allo Scamata, alla periferia occidentale del paese, non è rimasto che il ricordo nelle antiche carte, com’è avvenuto per l’altro esistente presso la masseria di Maglie o del castello, tra l’ingresso del cimitero e il Palombaro, e quello nei pressi dell’Àviso, a sud della campagna di S. Sidero. E’ andato pure distrutto il menhir detto S. Biagio o Crocemuzza o Croce, al confine tra il feudo di Maglie e quello di Melpignano. Del menhir S. Rocco, poco distante da quest’ultimo, dà notizia solo il De Giorgi. Così di tutti i menhir, esistenti in tempi passati alla periferia più o meno vicina al casale magliese, oggi ne sono rimasti solo tre: quello a S. E., detto menhir Crocemuzza o delle Franite, ad est della strata vecchia di Scorrano, un altro detto Spruno tra la strada ferrata Maglie-Bagnolo,  e quello a N.E. detto menhir Calamàuri (Cfr. gli Inventari di Maglie del 1483/84, A.S.N., “fovea sita et posita in Sannà […] in loco de Scala”, e la cerimonia del 1° gennaio 1585, nella quale i francescani compaiono per la prima volta in Maglie, “piantando la croce appresso il sannà”.

 

(Emilio Panarese, La vicenda storica dei francescani di Maglie, 1585-1982, estr. da “Contributi”, 1982,I,4).

 

Riti e tradizioni pasquali. La fiera magliese dell’Addolorata

di Emilio Panarese

Tradizioni e riti della settimana santa magliese non sono molto dissimili oggi da quelli ancora vivi in tutta la subregione salentina, in quanto in questi ultimi decenni, così com’è avvenuto per i dialetti e la lingua ufficiale, la nostra società consumistica ha assai livellato e uniformato quelle che una volta erano manifestazioni inconfondibili e peculiari di un agglomerato urbano, nel passato, tranne qualche eccezione, assai chiuso, per le rare comunicazioni e gli scarsi scambi culturali, e quindi poco sensibile alle influenze di costume di altri centri urbani della provincia. Le tradizioni pasquali, come le natalizie, con il fluire del tempo, hanno perduto a poco a poco l’antico connotato, il significato originario, non per un involutivo processo di deculturizzazione o di perdita di identità, ma per una normale dinamica di svolgimento, di ammodernamento, di adattamento della tradizione a nuove esigenze, a nuove concezioni di vita e di fede.

Ne parliamo, perciò, non certo per riviverle o, peggio, per recuperarle, in quanto tale pretesa contrasterebbe con la legge stessa della storia, che è incessante svolgimento, e nella vita e nella storia nulla si ripete, né tanto meno ad esse guardiamo, con sentimento nostalgico ed elegiaco, come ad un bene perduto per sempre, ma senza rimpianto le esamineremo, perché rituali storicamente validi della nostra cultura passata, delle consuetudini degli avi, perché espressione autentica della religiosità aggregativa della comunità magliese, vista nella sua unità, al di fuori della distinzione classista ed angusta di due culture contrapposte: l’egemone e la subalterna (oggi complementari e similari), religiosità aggregativa che tuttavia continua, sia pure di parecchio trasformata, e nello spirito e nelle forme spettacolari esteriori.

Non molte le fonti alle quali abbiamo attinto: la tradizione orale, la letteratura vernacolare magliese in versi (canti popolari, poesie di N.G. De Donno, N. Bandello, O. Piccinno), giornali magliesi (Lo studente magliese, Il sabato, Tempo d’oggi), ma, soprattutto, alcune carte d’archivio dell’arciconfraternita di Maria SS.ma delle Grazie e, per quanto attiene al rituale in uso agli inizi del ‘900 o a quello poco prima estinto, al saggio La gran settimana, che ci ha lasciato il dotto e valente professore magliese, poi preside, Angelo De Fabrizio, cultore appassionato, preparato ed attento di studi folclorici salentini. A loro tutti il mio ringraziamento per i contributi e le testimonianze che ci hanno donato.

La fiera magliese dell’Addolorata

Precede di due giorni la Domenica delle Palme e si svolge nel viale che porta alla settecentesca graziosa omonima chiesa, una volta distante dall’abitato, in mezzo ad orti e giardini bene irrigati, oggi in una zona urbana assai frequentata soprattutto il sabato.

Tre ggiurni nnante la simana santa,

ossia lu venerdìa, ven ricurdata cu nna fiera:

Matonna Ndolurata a mmenzu lli rusci!

E diuzzione quanta?

Nnu tiempu la fiera era ‘mpurtante:

vinìne dai paesi a cquai Maje

cu ccàttane campaneddi e minuzzaje

e tante mercanzie, nu’ ddicu quante!

(Orlando Piccinno)

L’antica fiera del bestiame[1] si è trasformata via via in un chiassoso, vivace mercato con banche e bancarelle di dolciumi, di noccioline, di terraglie, di stoviglie e utensili domestici vari, di cesti di vimini, di vasi di argilla per fiori e, soprattutto, di campane e campanelle, di trombe e trombettine, di pupi e di pupe, di lucerne, di animali domestici vari, tutti di terracotta, verniciati o no, di ogni forma e tipo, ed ancora di palloncini, di giocattoli di plastica, di carrettini, di variopinte ruote con l’asta, di rustici mobili in miniatura (giuochi assai ricercati dai bambini una volta), di fischiettid’argilla e di gracidanti raganelle[2] di legno.

Durante tutta la giornata della fiera, soprattutto la sera, la chiesa dell’Addolorata è meta di devoto antico pellegrinaggio e di raccolta preghiera davanti alla statua di cartapesta di Maria SS.ma che ha la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggiera sul cuore.

Lacrime a ggoccia de lucida cira,

la facce chiusa a lla veletta nera

e sette spade a llu core raggera,

vave chiangennu morte e mmorte tira

-stu venerdìa de vana primavera

ca pulanedda d’àrguli rispìra-

cacciata de lu nicchiu a pprima sira

Ndolurata Maria, la messaggera

de l’agnellu Ggesù. Li Grammisteri

de cartapista cu lla purgissione

èssene osciottu tra ale de pinzieri

e Mmaria a rretu, muta a lla passione.

Osci, fischetti an culu carbinieri,

tròzzule e campaneddi ogne vvagnone.

(Nicola G. De Donno)

note al testo:

[1]La fiera dell’Addolorata e quella di S. Nicola vennero istituite nel 1860 con lo stesso decreto borbonico.

[2]Arnese rudimentale di legno a forma di bandiera, costituito da un manico cilindrico rastremato verso l’alto, in cui viene inserita una ruota dentata contro la quale, a contrasto, si fa girare, in senso rotatorio, una sottile lamina (linguetta) che produce un fragoroso gracidìo. Da qui il nome raganella di Pasqua e gli onomatopeici salentini trènula o tròzzula. Allo stesso campo semantico di tròzzula appartengono tròccola, tròttola, trozzella. La troccola “bàttola”, “raganella” o, meglio alla lettera, “ruota dentata che fa rumore” (incrocio del gr. chrótalon “nacchera” con trochilía “carrucola del pozzo”) era anticamente una ruota di ferro a cui erano appesi parecchi anelli, che nel muoversi crepitavano (garruli anuli). Cfr. il caI. tròccula e il nap. tròcula. La tròttola è il giocattolo di legno, simile a un cono rovesciato, con punta di ferro, che si getta a terra, tirando a sé di colpo la cordicella ad esso avvolta. Noi magliesi, con voce aferetica derivata da curru, la chiamiamo urru, bifonema speculare, che imita il suono caratteristico di un oggetto che gira velocemente, producendo lieve rumore. Trozzella “rotella” è voce regionale pugliese, che indica una tipica anfora messapica “di forma ovoidale rastremata al piede, con alte anse nastriformi, verticali, che terminano in alto e all’attacco col ventre con quattro rotelline (da lat. trochlea con suff. dim.). I manici ad ansa con nodi a rotella imitano la carrucola del pozzo (trozza). Ma con tròzzula noi salentini indichiamo pure la ruota del telaio, che fa girare il subbio, cioè il cilindro di legno su cui sono avvolti i fili dell’ordito, ed anche, in senso figur. e dispr. la donna di malaffare, la meretrice, la sgualdrina, che va in giro qua e là, destando mormorìo di disapprovazione tra la gente onesta (“giro”+”rumore”).

[estr. da “Riti e tradizioni pasquali in un paese del Salento (Maglie)”, Erreci edizioni, Maglie, 1989, 3° vol. della “Collana di saggi e documenti magliesi/salentini” fondata e diretta da Emilio Panarese]

San Giuseppe e la tradizione

di Emilio Panarese

 

La festa di S. Giuseppe, che a volte precede di poco la Pasqua, è la prima festa di primavera, legata a ricordi di vecchie tradizioni, in parte scomparse, come la taulàte de S. Giseppe* (le tavole col ricco pranzo per nove poveri servito da una padrona devota) e le pagnuttelle benedette con la rituale massaccìciri bbullente/ca fuma de li piatti sbitterrati, consumata la vigilia e chiamata a Lecce cìceri e ttria: taglierini fatti in casa mescolati con ceci e con qualche taglierino fritto spezzettato sopra.

cìciri e tria, tipico piatto salentino consumato nella festività di S. Giuseppe

 

Spigolatura linguistica: lu Riu, pasquetta dei leccesi

La pasquetta dei leccesi è ben nota in tutto il Salento per tenersi il martedì dopo Pasqua e per la denominazione de “lu Riu”. Su questo termine sono state proposte svariate e talvolta azzardate ipotesi. Il  prof. Emilio Panarese chiarisce finalmente l’arcano. 

di Emilio Panarese

Il toponimo Riu/ Ria/ Urìa è senza dubbio un oronimo, indica cioè un “luogo posto su un’altura”, anche modesta, com’è quella in questione (la città di Monteroni, a pochissimi km. da Lecce, non si trova forse ad un’altitudine di 35 m.?), come provano del resto due altri oronimi, vicinissimi a llu Riu, Monterone crande e Monterone Piccinnu (in origine Mont-Oriu, raddoppiamento del lessema oronimico, come Mongibello in Sicilia dal lat. mons e dall’arabo gebel).

L’Oriu, diventato per deglutinazione ortoepica e ortografica (v. in it. l’usignolo da lusignolo) lo Riu/ lu Riu, non ha nulla a che fare né con rio “ruscello”, né con brio, né con layrìon, “cenobio brasiliano” (l’autore di un recente ricettario di cucina rusciara sostiene addirittura che siano stati i leccesi ad estendere il segno lu riu a tutta la provincia!), né tanto

L’albero della manna a Supersano

frassino meridionale (ph Francesco Tarantino)

Studenti del «Capece» trovano il mitico  albero della manna

di Angela Leucci

Gli studenti del liceo “Francesca Capece” scoprono l’albero della manna. È accaduto nel corso di un laboratorio di biologia, che ha coinvolto due corsi dello Scientifico Brocca, per un totale di 60 studenti, guidati dal docente Francesco Tarantino, quando nelle campagne intorno a Supersano si è verificata la scoperta scientifica, ma anche storica.

“Da oltre dieci anni – spiega il docente, che è anche agronomo – cercavo questa pianta, chiamata albero della manna. Era nota la presenza fin dal ‘700 del frassino meridionale nel Bosco Belvedere”.

ph Francesco Tarantino

Si tratta una pianta spontanea citata da alcune fonti, che ama i luoghi umidi e freschi, oltre che il caldo estivo: tra i luoghi privilegiati secondo le fonti, Supersano e i laghi Alimini. “In realtà – continua Tarantino – vi è un altro

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

Cogliamo l’occasione della presentazione dell’evento “Maglie città giardino” per pubblicare l’articolo del prof. Emilio Panarese “Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei” apparso dapprima nel dicembre 1999 su «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie, e successivamente nel 2002  in appendice alla  «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato (Congedo editore).

Diversamente da quanto riportato da taluni autori (V. D’Aurelio, G.L. Di Mitri), fu infatti per primo Emilio Panarese a dare notizia di ceramiche raffiguranti uno scorcio del centro storico magliese con i suoi monumenti più rappresentativi, valorizzando questa rilevante scoperta, indicando i due principali marchi di fabbrica (“Victoria Ware” e “T.KOPEN AGHEN”) che utilizzarono la veduta settecentesca di Maglie del Desprez come modello iconografico per decorare oggetti fittili di varia foggia che vennero poi diffusi nei paesi del nord Europa e, in ultima analisi, aprendo quindi la strada ad ulteriori studi al riguardo.

L.J. Desprez, Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes

 

Il centro storico di Maglie nei paesi nordici europei

di Emilio Panarese

Può sembrare poco credibile che una ‘veduta’, un disegno di un paese dell’estremo Salento, vada a finire sui vasi di fine porcellana, vetrificata, traslucida, fabbricati, tra ‘800 e ‘900, in paesi dell’Europa settentrionale (Svezia, Danimarca, Inghilterra, ecc.). Poco credibile, ma vero.

Vaso di fiori: alt. cm. 35; porcellana bianca, forma esagonale, periodo 1920 ca., provenienza Roma; marchio di fabbrica con le parole “T.KOPEN AGHEN”; propr. Massimo Lionetto

Questa felice veduta (insieme con poche altre salentine come la leccese Piazza di S. Oronzo, Otranto, Soleto, Gallipoli), che riguarda proprio Maglie, è, secondo il parere degli esperti d’arte, tra le più belle e meglio riuscite del secondo Settecento salentino. Si deve al geniale architetto e pittore francese Jean Louis Despréz, che la schizzò a Maglie nel settembre 1778 e la rifinì poi, l’anno dopo a Roma, per l’incisione da realizzare con la tecnica dell’acquaforte.

Si ammira in una delle pregevoli pagine in folio di carta forte, vergellata a mano, della monumentale opera, in cinque grandi volumi, del peso di circa mezzo quintale, «Voyage pittoresque, ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile», Paris, 1781-’86, ossia «Viaggio pittoresco o descrizione dei regni di Napoli e di Sicilia», realizzata dall’abate Richard de Saint-Non con la collaborazione di esperti: scrittori, architetti, disegnatori, pittori e incisori.

Brocca da lavabo: alt. cm. 22; lungh. cm.24; porcellana inglese, Londra, periodo 1880 ca., marchio di fabbrica con le parole “Victoria Ware”; provenienza Modena; propr. Lello Di Gioia

Con questa opera straordinaria, ma costosissima, destinata solo alle famiglie reali e alla grande nobiltà, si concludeva la fase tardosettecentesca dei viaggi eruditi in Puglia e nel Sud d’Italia da parte di colti viaggiatori (tedeschi, francesi, inglesi) attratti in questi paesi, quasi sconosciuti, dai monumenti classici dell’Italia meridionale (Magna Grecia) e dalle recenti scoperte di Ercolano e di Pompei. L’autore della veduta Maglie (“Vue du Bourg ou Village de Moglié dans la Terre d’Otrantes”) si trovava a Roma nel 1777 presso l’Accademia di Francia in qualità di borsista (pensionnaire du Roi), quando venne scelto e assunto dal Saint-Non come architetto-disegnatore del “Viaggio pittoresco”. A Napoli, il 16 dicembre, ritrae – è questo il suo primo lavoro dell’opera grandiosa – l’animata e popolaresca festa di S. Gennaro; poi la carovana si sposta in Puglia, quindi nel Salento e a Maglie e a Soleto. Lo schizzo originale a matita, che reca in alto l’antica grafia del toponimo (‘Mallia’) e che ritrae, con l’armonioso equilibrio dei volumi, alcuni monumenti della città (colonna in primo piano, chiesa della confraternita delle Grazie, matrice) è oggi conservata presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, dove l’artista morì nel 1804. Delle tavole acquerellate che ricordano la vita di quel giorno settembrino del tardo settecento a Maglie, sulla strada e presso gli edifici del centro storico, esistono tre versioni: nella prima, la più conosciuta (n. 31, G.de Grèce) si vedono in primo piano una squadra di sedici muratori al lavoro presso una casa con balcone in costruzione presso la colonna e delle persone che conversano sui gradini della chiesa vicina; nella seconda, i tre monumenti citati, in basso a destra una carrozza tirata da due cavalli e gruppi di persone qua e là; nella terza, persone singole o in gruppo nella via di mezzo; a sinistra due uomini a cavallo; in fondo, in piazza, la grande croce di pietra di fronte alla chiesa greca di S. Pietro.
Dopo aver compiuto il giro delle esplorazioni archeologiche, l’équipe francese tornò a Roma. Qui il brillante ed affascinante re Gustavo III di Svezia nel 1784 invitò l’eclettico architetto J.L. Despréz, della cui arte era invaghito, a lavorare presso la sua corte come paesaggista, disegnatore, scenografo e coreografo di feste.

 

Gli schizzi originali che l’artista aveva fatto in vari paesi dell’Italia meridionale furono da lui portati nella capitale svedese: alcuni vennero donati all’Accademia delle Belle Arti, altri invece, negli ultimi miseri anni della sua vita, furono da lui venduti, come vendute furono alcune varianti acquerellate, montate in passe-partout, che circolarono in vari paesi del Nord Europa (Inghilterra, Norvegia. Danimarca. Olanda, Belgio, Russia settentrionale).
E proprio a queste varianti acquerellate che ritraggono, con l’aggiunta in verità di alcuni stravaganti particolari architettonici, il centro storico di Maglie si sono ispirati i ceramisti inglesi e danesi autori delle porcellane qui riprodotte. Vivace e animato il paesaggio specialmente nel vaso di fiori T. KOPEN AGHEN, in cui tra figure di cavalli, cavalieri e pedoni, c’è pure, davanti al basamento della colonna, ora finalmente restaurata, un cane che scappa. Preziosa la brocca da lavabo di fine Ottocento con ansa lucida e becco merlettato da corolle di fiori, che nel cerchio del “piede d’appoggio” mostra la ‘marca’ di fabbrica con l’impresa reale (‘Victoria Ware’) sostenuta e difesa da tre agguerriti leoni. La fine struttura granulosa, di solito usata per lavori artistici, richiama alla mente le più famose porcellane di Sèvres, di Sassonia, di Worchester, della napoletana Capodimonte.
Così le figure di tre monumenti magliesi, felicemente disegnati nel tardo Settecento da un geniale architetto francese, finirono, per le sue vicende personali, in paesi lontanissimi dal Salento e adornarono alcune case della gente del Nord europeo. in «InformaCittà», periodico di informazione dell’Amministrazione Comunale di Maglie,
A.IV(4), dicembre 1999, pagina 9
e
in «Guida di Maglie. Storia, arte, centro antico» di E. Panarese-M. Cazzato,
Appendice 4 (di Emilio Panarese), pp. 202-203
in “Le guide verdi”, n. 41, 2002, Congedo editore.

Ulteriori contenuti sono consultabili in “Maglie …fuori del comune” http://emiliopanarese.altervista.orgpg014.html 

La via dell’olio a Maglie

La “Via te l’oju” a Maglie

Ricostruito, grazie alle ricerche storiche del prof. Emilio Panarese, il percorso dell’antica “Via te l’oju” a Maglie.

Per iniziativa del dr. Francesco Tarantino (georgofilo, agronomo e paesaggista magliese), che ha avviato il progetto di recupero di questa antica carrareccia, riprende cosi’ vita anche una festa del ‘700.

Tra i lavori intrapresi sono di particolare interesse il consolidamento statico della chiesa rupestre di “San Donato” e l’installazione di un’apposita cartellonistica descrittiva ed informativa dello stato dei luoghi e delle presenze storiche, naturalistiche e paesaggistiche.

Protagonisti di questo lavoro di squadra, un gruppo di appassionati facenti parte del comitato organizzatore fra cui: Fabrizio Licchetta, Luca Leucci, Vincenzo Menavento, Massimo Minosi e Oliver Valentini.

 

 

L’antica carrareccia della “Via te l’oju” (ph Fabio Massimo Conte)

La “via te l’oju”, un’antica mulattiera larga appena due metri, iniziava dai fondi Mùrica e Kamàra (oggi attraversati dalle vie: E. Nisi, N. Macchia, E. Paiano, Ospedale M. Tamborino) col nome di ‘Via di San Donato’ saliva su e, all’inizio della via vecchia per Cutrofiano, volgeva a sinistra passando dietro l’antico (dal 1585) convento dei francescani (dietro l’attuale Ospedale) e davanti alla cappella della Madonna di Leuche[1] cioè all’inizio della via Clementina Palma (circa dov’è oggi la stele della Madunnina), poi di nuovo voltando a sinistra giungeva, per la vie oggi dette ‘Valacca’ e ‘Di Vittorio’, sulla Via vecchia per Gallipoli.

L’antica carrareccia della “Via te l’oju” (ph Fabio Massimo Conte)

Da qui si dirigeva verso la masseria Muntarrune piccinnu[2], dov’era la cappella di san Donato, e di là quindi verso il porto di Gallipoli dove veniva scaricato l’olio portato a dorso di mulo.

[…] « Nel ‘700 il Rev.do Capitolo di Maglie aveva l’obbligo di celebrare ogni anno una messa il 7 di agosto, giorno di san Donato, seguita da una festicciola e da fuochi di artificio»

La chiesa rupestre di “San Donato” (ph Fabio Massimo Conte)

[1] Santa Maria di Leuche, strada dalla cappella alla via vecchia per Gallipoli o “via te l’oju”, cfr. Catasto Onciario di Maglie, 1752, c.270 “Saverio Giannotta, dr. dell’una e dell’altra legge, possiede alli Conventi una chesura seminatoria e olivata nom.ta  la Madonna di Leuche  con cappella della Gloriosissima Vergine avanti”. La cappella, che esisteva ancora nella prima metà del ‘900, era nel luogo che corrisponde a quello dov’è oggi la stele votiva della Madunnina, in fondo alla via C. Palma.

Quella che erroneamente è detta ai nostri giorni chiesetta della Madonna di Leuca, sulla via omonima subito dopo le tribune dello stadio, era anticamente la chiesa di s. Andrea.

[2] «Notizie del 1752: san Donato grande seù Rio/ san Donato Piccinnu con cappella appresso e giardino / per le chiusure nom.te San Donato grande/ lo Palombaro / le Tagliate / li Càrdami / lo Balli / la chiusura seminatoria e olivata nom.ta Montarone nel luogo detto san Donato seù Rio.»

 

Notizie di Emilio Panarese, estr. da “Antica toponomastica salentina dal ‘400 al ‘700 (da fonti magliesi). Dizionario storico-filologico-etimologico” [in corso di stampa]

Libri/ Salento il paesaggio della semplicità

«Salento il paesaggio della semplicità» di Francesco Tarantino, Edizioni del Grifo, Lecce, 2004

Presentazione di Michele Mainardi

Il paesaggio della semplicità di Francesco Tarantino è il frutto della attiva meditazione figlia della passione per la pietra (i “cuti” del calcare durissimo, le “buche di terra rossa” del terreno), per la vegetazione (l’antica sapienza contadina di piantare gli alberi profittevoli al fresco degli interstizi dei muri della corte) e per l’acqua (da utilizzare sino all’ultima goccia conservandola in litici e grezzi contenitori).

Nasce da un insopprimibile amore verso il paesaggio dell’essenzialità, del bisogno e della necessità, costruito intensamente da anonime e generose schiere di antichi faticatori del Salento di ieri: abili edificatori di belle contrade, vivacizzate dall’impianto di alberi che, giunti all’età adulta, robusti e grandi – con le loro chiome raffrenanti gli ìmpeti del sole e dei venti – hanno maternamente protetto gli aranci ed i limoni, corrispondendo, così, all’instaurazione di vividi scambi arborei.

Lo scritto e ancora di più le immagini sono, dunque, il risultato dell’attaccamento ai segni della natura e della cultura scaturenti dal lunghissimo dialogo tra il contadino e il suo spazio di vita, opportunamente domato e portato a felicità dietro il pagamento di un prezzo oneroso e onesto ma – alla fine – sempre remunerativo (anche in termini di valori e di identità).

I dintorni del magliese che Tarantino ci offre con tocco lieve sono, quindi, un pretesto intelligente per discutere sul paesaggio salentino, “oggetto-

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