L’EMIGRAZIONE DEI MERIDIONALI

Un incontrollato e inarrestabile fenomeno esploso subito dopo l’Unità d’Italia

L’EMIGRAZIONE DEI MERIDIONALI

Il Meridione, violentato e sfruttato in ogni sua parte vitale, reagì alla difficile situazione economica con un esodo di massa in Europa, nelle Americhe e in Australia

 emigrazione1

di Rino Duma

Premessa

Quello dell’emigrazione è stato un disastroso e sconvolgente fenomeno che ha interessato l’Italia subito dopo la sua unificazione. Una crisi economica devastante e incontrollabile mise in ginocchio intere popolazioni, a partire da quelle meridionali dell’ex Regno delle due Sicilie, in particolar modo la Campania, l’Abruzzo, la Basilicata e la Calabria, sino a travolgere anche quelle del basso Veneto e del Friuli.

Stranamente il fenomeno risparmiò le zone centro-settentrionali del paese, che furono appena appena sfiorate dall’ondata di carestia, sofferenze, malattie e morte.

Il governo non seppe fronteggiare con opportune e tempestive politiche la preoccupante situazione; tentò di arginarla, ma furono solo interventi di facciata e poco efficaci. D’altra parte cosa poteva mai importare al governo centrale se nel Meridione d’Italia intere popolazioni erano state ‘indotte’ a vivere alla stessa stregua degli animali? o se non trascorreva anno senza che si presentasse a Palermo, a Messina, a Napoli o a Bari il colera, il tifo petecchiale, il morbillo, la scarlattina e quant’altro di peggio? Eppure, durante la presenza borbonica, il Meridione, pur vivendo in condizioni precarie, non aveva mai toccato condizioni di vita così tanto estreme!

La verità – nota solo a pochissimi e che la storia non ci ha mai trasmesso – è che le ricchezze dei Borbone e di altre popolazioni servirono a colmare (solo in parte) l’enormità del debito pubblico piemontese (forse superiore a quello attuale italiano), che di fatto fu poi riversato nel bilancio del nuovo stato unitario ed assunto da tutti gli italiani (ancor oggi stiamo pagando interessi su quel debito sabaudo!). Questo è uno dei principali motivi (se non l’unico) per cui fu fortemente voluta l’Unità d’Italia!

L’inarrestabile emorragia dell’emigrazione

Stante una situazione del genere, l’unico rimedio per le genti disilluse, affamate e sfinite fu quello di abbandonare la propria terra e di migrare in uno stato europeo più ricco o in uno extraeuropeo in via di sviluppo. Inizialmente furono scelte la Francia, la Svizzera, la Germania e l’Austria-Ungheria, mentre in seguito furono preferite le Americhe e l’Australia.

Fu un vero calvario verso cui andarono incontro milioni di contadini di mezz’Italia1, per i quali nulla fu fatto di concreto per scongiurare la tendenza all’espatrio. C’è chi ipotizza che il movimento migratorio fu visto come una panacea dalle autorità politiche dell’epoca e che addirittura fu incentivato. I lorsignori governanti, invece, avrebbero dovuto adoperarsi nelle aree interessate con un’efficace e massiccia politica di rinascita e di sviluppo, in modo da attenuare il divario economico tra le due parti d’Italia. Non lo fecero perché l’unificazione dell’Italia non aveva mai trovato posto nella loro mente, se non per realizzare forti e turpi interessi di parte. Anzi il divario andò via via acuendosi senza alcun controllo.

Perciò si decise di partire “per terre assaje luntane”, dove poter ricostruire pian piano una condizione di vita decente e dignitosa.

Spinti dalla miseria e dalla speranza di un futuro migliore, ma vittime della propria ignoranza ed analfabetismo, molti emigranti (veneti e meridionali) furono facili prede di sfruttatori, la cui propaganda fu spietata e scandalosa, tanto da promettere “ricchezze straordinarie e fortune colossali a quanti si dirigevano in America, dove le strade erano coperte d’oro e si mangiava a sazietà”.

Il lavoro degli agenti d’emigrazione fu impietoso, asfissiante ma anche molto redditizio. Questi uomini, senza cuore e con l’unico intento di ingrossare il portafoglio, arrivarono ad offrire anche il biglietto d’imbarco a quei poveri disgraziati, che furono costretti ad abbandonare la propria terra e gli affetti familiari più cari solo per estrema necessità di vita. Furono perfino consigliati a vendere la casa, le masserizie e il piccolo podere, per procurarsi il denaro per il viaggio e per il primo periodo di soggiorno. L’agenzia di emigrazione era solitamente un’impresa privata che aveva la sede principale nelle città costiere, come Palermo, Napoli e Genova. Gli agenti erano avventurieri che si recavano personalmente nelle zone in cui il tasso di espatrio era consistente per reclutare migranti e indirizzarli verso le compagnie di navigazione, disposte ad offrire provvigioni molto alte per ogni migrante arruolato.

Con la legge del 31 gennaio 1901 la figura dell’agente fu finalmente abolita. Prima di tale legge gli agenti privati dell’emigrazione erano ben 13.000! Il compito di arruolare i migranti fu perciò assegnato a una ventina di compagnie di navigazione, previa autorizzazione ministeriale. Naturalmente, per svolgere il loro lavoro, le compagnie avevano bisogno di subagenti e, soprattutto, di gente molto esperta. Ovviamente fu assunta buona parte di coloro che un tempo esercitavano in proprio la professione di agente. In pratica fu soltanto rivoltato il calzino, ma non sostituito.

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La partenza

I due maggiori porti italiani, Napoli e Genova, si divisero tacitamente i porti di destinazione. Il porto di Genova s’interessava del traffico migratorio verso il Sud America (Brasile, Uruguay, Argentina, Paraguay e Cile). Il porto di Napoli, invece, organizzava i viaggi della speranza verso il Nord America e, successivamente, quelli in Australia.

I primi migranti furono inizialmente rappresentati da persone singole e soltanto verso la fine dell’800 furono raggiunti dai loro familiari.

Le tribolazioni per i migranti iniziavano ancor prima della partenza. Infatti, a differenza dei grandi porti europei dotati di “Ricoveri per emigranti”, quelli di Genova e Napoli non erano adeguati a gestire la grande massa di gente in attesa di imbarco. Infatti, «nelle stazioni marittime gli emigranti sono sottoposti a visita medica e i loro bagagli bonificati. Una volta espletate queste operazioni […] gli emigranti restano sulla banchina in attesa di partire». L’attesa era di non meno di dieci giorni e a volte superava anche il mese.

Con l’entrata in vigore della legge del 1901, le spese ‘in attesa dell’imbarco’ furono a totale carico delle Compagnie di navigazione. Ma anche in questo caso gli agenti, pur disponendo di locande autorizzate al ricovero, preferirono tenerle chiuse ed utilizzare case situate nei quartieri più sudici, ospitando i poveri migranti in ambienti con poca aria e luce, senza acqua, con pochissimi servizi igienici e con la gente che dormiva per terra o su appestati e nauseabondi giacigli. La presenza dello Stato era totalmente assente. Solo nel 1911, dopo il colera di Napoli, fu istituito il ‘ricovero obbligatorio di stato’ presso locande autorizzate, continuamente ispezionate e igienizzate.

Il grande traffico migratorio fu gestito soprattutto dalle compagnie di navigazione straniere, più organizzate e tecnologicamente avanzate, le quali già disponevano di confortanti piroscafi, mentre quelle italiane sfruttavano ancora bastimenti a vela obsoleti e poco idonei alle grandi traversate.

Si trattava di imbarcazioni prossime al disarmo, di vere e proprie carrette del mare. Questi “vascelli della morte” non potevano contenere più di 6-700 persone, ma ne caricavano più di 1.000 e partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. Furono in molti a perire in quei tragici viaggi verso la speranza: 576 emigranti, quasi tutti meridionali, nel naufragio dell’’Utopia’, avvenuto nel marzo 1891 davanti al porto di Gibilterra; 549 emigranti, di cui numerosi italiani, nel naufragio del ‘Bourgogne’, avvenuto al largo della Nuova Scozia nel luglio del 1898; 1.198 emigranti, di cui numerosi italiani, nel naufragio dei due ’Lusitania’, avvenuti il primo nelle acque di Terranova nel 1901 e il secondo affondato da un sottomarino tedesco nel 1915; 550 vittime del naufragio del ‘Sirio’, avvenuto nel 1906 sugli scogli della costa spagnola di Cartagena. Ci sono innumerevoli altri casi, ma omettiamo di riportarli per questione di spazio.

In genere i migranti erano stivati in terza classe, in condizioni pietose e con scarsa igiene. In fondo non si trattava che di alcune “tonnellate umane” (così veniva chiamato il carico umano dei migranti) che “accovacciati sulla coperta, presso le scale, col piatto tra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi”.

Per dormire, «l’emigrante si sdraiava vestito e calzato sul letto, ne faceva deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciavano orine e feci; i più vi vomitavano; tutti, in una maniera o nell’altra, l’avevano ridotto, dopo qualche giorno, in una cuccia da cane. A viaggio compiuto, ciò che accadeva spesso, era lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere il nuovo partente».

In tali condizioni, contrarre una malattia era molto frequente ed era inevitabile che alla fine di ogni viaggio si contassero diversi decessi.

Si pensi che molti furono i piroscafi a giungere a destinazione con delle perdite umane considerevoli. Il ‘Remo’, partito nel 1893 con 1.500 emigranti, registrò 96 morti per colera e difterite e fu respinto dal Brasile; l’’Andrea Doria’ nel viaggio del 1894 contò addirittura 159 morti su 1.317 emigranti (oltre il 12%); sul ‘Vincenzo Florio’ nello stesso anno i morti furono 120 su 1.321 passeggeri; nel 1894 sul ‘Carlo Riggio’ alla fine del viaggio si contarono ben 206 morti di cui 141 per colera e morbillo.

Oltre alle pessime condizioni igieniche e alimentari dei migranti, va osservato che, durante le avventurose migrazioni, su ogni nave vi era un solo medico, il quale disponeva di pochi medicinali e, paradossalmente, non vi erano né infermieri, né ambulatorio, né farmacia.

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Finalmente l’arrivo!

Una volta giunti a destinazione, i migranti venivano sottoposti a rigorose visite mediche. Quelle effettuate dal personale sanitario statunitense erano accuratissime e prevedevano, inoltre, un periodo di “osservazione” per coloro che non superavano la prima visita medica. La località che ospitava i migranti “rivedibili” era l’isola di Ellis Island, nel golfo di New York. Al termine della “quarantena”, i migranti venivano sottoposti ad ulteriore visita medica e soltanto dopo ricevevano il nulla osta per entrare negli Stati Uniti. Erano in tanti i migranti che non superavano l’ultima visita, per cui erano costretti a tornare in patria. Le donne sole, anche se fidanzate, non potevano essere ammesse e dovevano celebrare il matrimonio con il proprio compagno, con un parente o un conoscente. I minorenni senza genitori dovevano trovare dei garanti e gli orfani dovevano essere adottati, altrimenti erano respinti.

Questo accadeva negli Usa, ma negli altri porti le visite mediche erano fatte con troppa approssimazione, per cui molti migranti portavano con sé a terra malattie gravi che, a volte, creavano veri focolai di epidemie tra le popolazioni locali.

da "Come eravamo"
da “Come eravamo”

In cerca di lavoro

Non appena i migranti toccavano terra, istintivamente erano portati a genuflettersi e ringraziare il buon Dio per averli fatti giungere a destinazione. Anche se affaticati, sporchi e laceri, quei poveri Cristo formavano compatti una sorta di associazione, che, meglio dei singoli, poteva curare i loro interessi e nel contempo difenderli da spregiudicati avventurieri locali. Insieme chiedevano lavoro, insieme si davano da fare per trovare casa e sistemarsi in quartieri dove già era presente una consistente comunità italiana, insieme facevano istanza alle autorità per essere garantiti nei loro principali diritti. Questo tipo di organizzazione diede il più delle volte ottimi risultati. Ed ecco che nelle grandi città americane si formarono spontaneamente le “Little Italy”, come a New York, Chicago, Montevideo, Buenos Aires, Sao Paolo, Sidney, Toronto.

Con pochissimi soldi in tasca ma con la grande voglia di lavorare, gli emigranti italiani non tardarono a trovare impiego. A loro furono riservate le fatiche più pesanti (rifiutate dai residenti), come le grandi opere stradali o ferroviarie, la costruzione di ponti e canali, la perforazione di gallerie, l’abbattimento di intere aree boschive, attività capaci di garantire un guadagno immediato da spedire alle famiglie rimaste in Italia. In questo modo, secondo il Commissariato dell’Emigrazione, negli anni precedenti la Grande Guerra le rimesse degli emigrati, frutto di risparmi, superarono i 500 milioni di lire l’anno (un’immensa fortuna, soprattutto per le banche italiane!).

I primi anni di lavoro furono durissimi, non tanto per il salario inadeguato al lavoro svolto, ma quanto per le assurde spese per acquistare medicinali, per usufruire del servizio medico-sanitario, per procurarsi un adeguato abbigliamento o per riparare la propria casa.

Molti non ce la fecero e s’indebitarono al punto da essere indotti a passare tra le fila dei malavitosi, ai quali si erano rivolti in precedenza per alcuni prestiti. I più continuarono tra mille stenti a portare avanti il lavoro massacrante e a tentare di trovarne un altro meno faticoso. Pochi furono baciati dalla fortuna, forse perché più intraprendenti e più votati al rischio.

Nell’Ovest americano e in Canada l’emigrazione italiana ebbe risvolti positivi in diversi ambiti: dal lavoro nei campi, alla coltivazione della vite e di altra frutta, alla pesca, al piccolo commercio. Nel 1910 le aziende agricole, di proprietà di italiani, erano già 2.500; in California, nel 1908, c’erano già cinque banche italiane, di cui la più famosa era la ‘Bank of America and Italy’.

Anche in Brasile alcuni migranti, dopo un periodo di sacrifici e stenti, riuscirono a costituirsi in cooperativa e ad acquistare la fazenda presso cui avevano lavorato. In pochi anni trasformarono quelle “colonie per dannati” in piccoli paradisi, dotati di ogni comfort, tra cui una chiesa, un piccolo ospedale, una scuola, una piazza in cui ritrovarsi la domenica, un teatro e, in seguito, un cinematografo.

Vi sono anche brutte storie legate ai migranti che racconterò solo superficialmente per non intristire ancor di più il lettore. Voglio soltanto ricordare che il 6 dicembre 1907, nelle gallerie della miniera di carbone di Monongah, cittadina del West Virginia, ebbe luogo il più grave disastro minerario della storia degli Stati Uniti d’America. Vi perirono ben 425 minatori, di cui 171 italiani. Ben più grave di quella di Marcinelle in Belgio (agosto 1956), in cui persero la vita 262 minatori, 136 dei quali italiani (alcuni erano originari di Casarano).

Conclusioni

Mi preme concludere la breve trattazione ricordando che questi “eroi della vita” hanno rappresentato, almeno per chi scrive, la parte migliore degli italiani; è stata gente autentica, fiera, forte, mai rassegnata a subire le sorti della vita, gente che ha osato sfidare “i tempi, il mare, l’uomo con i suoi innumerevoli tentacoli esiziali, un futuro con poche speranze”. Vanno tutti ricordati con grande rispetto e deferenza.

Coloro che rimasero in Italia e nulla fecero per trattenerli sul suolo patrio e farli vivere con dignità vanno messi all’indice, esposti al pubblico ludibrio della storia e… maledetti per sempre!

1 Precisazione – Dal 1870 sino alla Prima Guerra mondiale i migranti italiani furono ben 14 milioni!

 

Pubblicato su Il Filo di Aracne.

 

 

Marcinelle, 8 agosto del 1956. Per non dimenticare…

di Gianni Ferraris

Ero a Casarano un pomeriggio. Un cartello indicava il “museo del minatore”. Entro, un grande salone che è un circolo ricreativo. 4 signori giocano a carte, altri stanno a guardare. Battute fra loro, risate. Vita da SOMS insomma.  Uno mi avvicina, “siete minatori?” “No, ho visto e sono entrato per il museo” “Avete parenti minatori?” “veramente no “ . Scoprirò poi che lui è stato minatore in Belgio. “Solo 7 anni però, mi sono salvato per questo” “Si, la pensione è buona, chi ha fatto più anni arriva anche a 3000 euro al mese. Sono pochi però, sono tutti morti. La miniera non era solo dura, era l’inferno”. Ho letto che quando entravi là sotto dovevi scegliere una posizione. Di schiena o di pancia nel cunicolo, quella era l’unica possibile per tutto il giorno, non ci si poteva girare perché era troppo angusto. Poi mi accompagna a vedere le centinaia di foto appese ai muri. Minatori neri in volto, fieri in posa spesso. Ogni tanto altre fotografie: i re del Belgio, San Pio da Pietrelcina, Ciampi. Una statua a grandezza naturale raffigura Santa Barbara con un piccolo minatore con il casco. Un bambino come quelli che spesso lavoravano in miniera. “La statua di Santa Barbara era con coi sempre laggiù”  Una fotografia con 4 loculi, sono i morti di Marcinelle che riposano a Racale.

Partirono in molti da queste terre. Troppi non tornarono. Un bellissimo recital di Perrotta dice del postino del suo paese. Quando riceveva un telegramma che annunciava la morte di un minatore non aveva il coraggio di consegnarlo. Andava dalla signora e diceva “ci hanno comunicato che tuo marito non sta molto bene.” Poi lo faceva peggiorare di giorno in giorno fino ad annunciarne la morte. Era poco, però evitava uno choc improvviso. Ci si arrangia come si può nel  mondo dell’assurdo, quello in cui una vita vale quanto un sacco di carbone: 200 kg al giorno.

“Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori  italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.

Terminava con queste parole il manifesto rosa affisso sui muri di tutta Italia per convincere le persone ad emigrare. Era il frutto di un accordo fra il governo italiano e quello belga conosciuto come  “patto uomo – carbone” del  23 giugno 1946. L’Italia doveva inviare persone come merci nel numero di 50.000 con una media di 2000 a settimana, in cambio avrebbe  ricevuto 200 kg di carbone al giorno per ogni uomo inviato . C’era la ricostruzione, era indispensabile il carbone. E uomini in buona salute o in massacrante miseria se ne contavano a migliaia. E funzionò quel patto sciagurato.Partirono 140’000 lavoratori.  18’000 donne e 29’000 bambini. Al loro arrivo trovavano immediatamente i “vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori”. In particolare in quei cartelli appesi fuori dalle case da affittare che dicevano: “ni animaux, ni étranger”: né animali, né stranieri. E senza casa quale famiglia avrebbero potuto chiamare? Però servivano, erano indispensabili. Ci pensò il governo belga a loro. Vennero stipati negli ex campi di concentramento. Nelle identiche  situazioni dei russi prigionieri di guerra. Un gabinetto per 200, 300 persone. Freddo glaciale in inverno, caldo torrido in estate.

…  Uomini giovani, 35 anni al massimo, e in buona salute “deportati” nel fondo di miniere mai ammodernate per permettere all’Italia di acquistare energia e di allentare disoccupazione e tensione sociale. Il reclutamento in Italia cerca di favorire l’ingaggio di lavoratori  raccomandati dalla Chiesa cattolica e quindi cristiani, “considerati più sottomessi e meno esigenti” osserva Anne Morelli. E aggiunge: Dall’annuncio dell’accordo nel 1946 il sindacato cattolico belga Csc (Confédération des Syndicats Chrétiens) prende contatto con le Acli per organizzare i nuovi arrivati. Un accordo è firmato nel 1947 tra i due enti «per evitare che gli emigrati italiani siano attratti da organizzazioni  sindacali straniere». I patronati Acli ed i missionari italiani sono gli unici  autorizzati dal patronato belga ad accogliere i minatori italiani. Nel 1947 viene edito un settimanale cattolico, fortemente anticomunista, “Sole d’Italia” con il finanziamento delle Acli, del sindacato cattolico belga, dello Stato belga, dello Stato italiano e di benefattori che avevano capito l’importanza politica di sostenere una tale iniziativa […] Una trentina di missionari italiani sono inviati in Belgio per «inquadrare» gli emigranti in parrocchie italiane distinte di quelle belghe, in stretta collaborazione con i diplomatici italiani e la Democrazia cristina 8 . Tra i più attivi animatori  religiosi della comunità italiana va ricordato il sacerdote missionario  scalabriniano Giacomo Sartori. Nato a Possagno il 17 aprile 1922, venne ordinato sacerdote nel luglio 1945. Padre Sartori insistette per andare in missione e fu destinato al Belgio, a La Louvière, Maurage e poi a MarchienneauPont dove costruì la prima Chiesa italiana del Belgio, dedicata a Santa Maria Goretti. Collaboratore attivo del settimanale per gli emigrati “Sole d’Italia”, fu assistente nazionale in Belgio delle Acli dal 1956 al 1961, anno in cui lascia il paese per iniziare il suo apostolato in Francia, prima ad Havange nella Mosella e poi a Parigi dove muore il 22 marzo 1967 .”

 

Cfr. Anne Morelli, Gli italiani del Belgio. Storia e storie di due secoli di migrazioni, Foligno, Editoriale Umbra –

Alle otto e dieci del mattino dell’ 8 agosto del 1956 dalla miniera di Marcinelle si alza una colonna di fumo. A 975 metri sotto terra è strage. Muoiono 262 minatori. Di questi 136 erano italiani. Il nucleo  più numeroso, seguiti da 95 belgi. Nell’inferno hanno provato a scendere ancora per cercare salvezza. Li trovarono il 23 agosto, a 1035 metri di profondità. Abbracciati fra loro. Forse cercando un gesto di solidarietà.
Il processo identificherà come unico responsabile  l’italiano Antonio Ianetta, 27 anni. Non comprendeva il francese, Antonio. Ciò nonostante fu assegnato a mansioni che esigevano comunicazione: addetto ai carrelli. Al processo, nel maggio 1959, Ianetta non ci sarà. .”Latitante” in Canada.
I morti di quella tragedia rappresentano l’Italia quasi intera, con punte decisamente più numerose nelle regioni del sud: Molise 7 morti, Abruzzo  60,  Calabria 4, Campania 2, Emilia 5, Friuli 7, Lombardia 3, Marche 12,  Puglia 22, Sicilia 5, Toscana 3, Trentino Alto Adige 1, Veneto 5.  Tutti svenduti per un sacco di carbone al giorno.

i soccorsi sul luogo del disastro (questa e le altre foto sono tratte da http://vergaelen.michel.ibelgique.com/Marcinelle.htm)

 

Tra il 1946 e il 1963 i morti ufficial­mente furono 867 nelle profondità, più di 20 mila si ammalarono gravemen­te e circa 150 finirono la loro vita in manicomio.

Di questa tragedia della miseria e dell’uso delle persone come merce tutto forse è già stato detto, però un ricordo a 53  anni dalla strage serve e ci può insegnare ancora molto. “ni animaux, ni étranger” fa il paio con altri cartelli “non si affitta a meridionali”. E oggi possiamo ricondurlo alla paura del diverso, dell’altro che alcuni ci vorrebbero inculcare. La storia dovrebbe insegnare. Il Salento è terra di emigranti, ogni famiglia ha parenti al nord, moltissimi ragazzi si spostano per cercare lavoro, magari precario. E capita magari ad una giovane professoresa, di andare nel nord più remoto, vicino alle Dolomiti ad insegnare al suo primo incarico. Orgogliosa per il posto guadagnato, certamente con un po’ di timori. Succede che il preside la accolga con queste parole: “Lei è di Lecce, è sicura che i ragazzi la capiranno?”  La risposta non poteva essere che quella data allo sciagurato: “Guardi, a Lecce si parla  un buon italiano, sono certa che i ragazzi avranno un’opportunità in più”  Non ci sono più patti “uomo – carbone” da rispettare, oggi c’è solo il miraggio di una vita normale, magari di un posto di lavoro non precario, Magari la ricerca del rispetto della Costituzione , ma soprattutto del buon senso, siamo tutti uguali. Almeno, dovremmo.

La tragedia è stata  ricordata con molti strumenti: Film, teatro, libri, canzoni.  Voglio riportarne qui una di Ivan Della Mea. “Mangia el carbun e tira l’ultim fiaa”:
Sont in vial Monza, visin a l’ABC gh’è on cartelon 
della benzina Shell,
distributor, garage e gente in tuta,
l’è on gran vosà: sterza, inanz, indree
Gh’è vun che spèta e intant legg el giornal:
«Dusent vint mort» gh’è scritt «a Marcinelle».
 
‘Sti chi lauren, quij là intant a moeuren;
sora dusent, cent trenta hinn italian,
gh’era el paes, el laurà e poeu la vita,
la famm col pan bagnà matina e sera:
ciapa el bigliett, teron, forsa, gh’è ‘l treno!
e va a crepà ind el fumm de la minera…
 
Mangia el carbon e tira l’ultim fiaa
e sara i oeucc e slarga pian i man,
e spera sempre: Nenni e Saragat
s’hin incontraa, silensi a Pralognan…*
Gh’è anmò speransa e fiada, fiada fort
e crepa svelt, che ti te set già mort.

(Sono in viale Monza, vicino all’ABC

C’è un cartellone della benzina Shell

Distributore, garage e gente in tuta,

è un gran parlare: sterza, avanti, indietro

c’è uno che aspetta e intanto legge il giornale:

“220 morti” c’è scritto “a Marcinelle”.

“Questi lavorano, quelli intanto muoiono;

su 200, 130 sono italiani,

c’era il paese, il avoro e poi la vita,

la fame con il pane bagnato mattina e sera:

prendi il biglietto, terrone, forza, c’è il treno:

e va a crepare nel fumo della miniera…

Mangia il carbone e tira l’ultimo respiro

E chiudi gli occhi, e allarga piano le mani,

e spera sempre: Nenni e Saragat

si sono incontrati, silenzio a Pralognan… *
C’è ancora speranza e respira, respira forte

E crepa in fretta, perchè sei già morto).

* Il 26 agosto dello stesso anno a Pralognan (Savoia) si incontrano Nenni e Saragat, con l’intento di fondere PSI e PSDI per contrastare la forza del PCI. L’incontro è auspicato dall’internazionale socialista.

 

Elenco dei salentini morti a Marcinelle

Pompeo Bruno, Racale (LE)

02/04/1928 – celibe

Salvatore Capoccia, Salice Salentino (LE)

– Roberto Corvaglia, Racale (LE)

– Salvatore Cucinell i, Gagliano Del Capo (LE)

11/05/1926 – moglie in Italia

– Santo Martignano, Tuglie (LE)

20/04/1929 – moglie e 3 figli

– Cosimo Merenda, Tuglie (LE)

25/07/1924 – moglie e 3 figli

– Francesco Palazzo, Salice Salentino (LE)

07/05/1913 – moglie e 3 figli in Italia

– Cosimo Ruperto, Alezio (LE)

18/04/1913 – moglie e 4 figli

– Natale Santantonio, Brindisi

08/01/1928 – celibe

– Carmelo Serrone, Serrano (LE)

17/11/1911 – celibe

– Ernesto Spiga, Martina Franca

25/05/1904 – moglie e 2 figli

– Abramo Tamburrana, Crispiano (TA)

26/03/1916 – celibe

– Vito Verneri, Racale (LE)

26/03/1925 – celibe

– Salvatore Ventura, Tuglie (LE)

16/01/1920 – moglie e 3 figl i

– Rocco Vita, Racale (LE)

16/08/1929 – moglie e 2 figli

– Cesario Perdicchia, Melissano (LE)

02/03/1909 – moglie e 2 figli

– Osmano Ruggirei, Martina Franca (TA)

26/03/1923 – moglie

– Donato Santantonio, Racale (LE)

05/01/1927 – moglie e 1 figlio

– Vito Larizza, Laterza (TA)

15/11/1924 – moglie e 4 figli

– Pasquale Sifani, Taurisano (LE)

01/04/1924 – moglie e 2 figli.

  
 
Lunedì 13 agosto si svolgono le esequie dei morti recuperati

 

 

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Irene Mancini intervista Alfredo Romano sull’emigrazione salentina a Civita Castellana. SECONDA PARTE.

di Irene Mancini

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Ma c’erano salentini che abitavano nel centro storico? non stavano tutti nelle campagne?

“Abitare nel centro storico, per i salentini, era una conquista: significava aver rotto i legami col tabacco e aver trovato un lavoro più da cristiani, un lavoro preferibilmente in ceramica, ma anche nelle cave di tufo o nell’edilizia. Tutti miravano a uno di questi traguardi, dipendeva dalla composizione del nucleo familiare. Là dove c’erano figli piccoli, l’unica risorsa era il tabacco, e in tal caso anche i bambini davano una mano, ma, giunti i figli in età da lavoro, e trovata un’occupazione, cambiava il tenore di vita, fino al punto di poter dire addio al tabacco e potersi affittare o comprare una casa nel centro storico. Certo, si trattava di case spesso fatiscenti che i civitonici avevano abbandonato per case o villette più comode in periferia, ma il costo a quei tempi non era eccessivamente caro. Oggi, con gli immigrati stranieri, c’è speculazione, gli affitti sono vergognosi ed è più difficile comprare una casa. Al nostro posto adesso ci sono i rumeni nel centro storico; anche tunisini, marocchini, latino-americani e altri. C’è un avvicendamento. I salentini ormai sono bene integrati, anche loro hanno raggiunto sistemazioni più comode in periferia. A dire il vero c’è anche un fenomeno inverso: quello di civitonici che ristrutturano una vecchia casa e decidono di tornare a vivere nel centro storico. Si tratta di una scelta culturale, perché il centro storico dà il senso della comunità: si apre la finestra e si può parlare col dirimpettaio, ci si può sedere sotto casa e chiacchierare coi vicini, ci si scambiano i primi piatti, il sale, il prezzemolo, una bottiglia di vino. Fuori dal centro storico, invece, ma più in periferia, abbondano case e villette quasi tutte con recinto e cane da guardia. Qui è esclusa la possibilità di comunicare, e ognuno si gode, si fa per dire, la sua piccola isola”.

Chi viveva nel centro storico era privilegiato rispetto a chi viveva nelle case coloniche?

“Lo era soprattutto perché non coltivava più tabacco, perché era finita una maledetta schiavitù, perché, cambiato lavoro, era pure migliorato il suo tenore di vita; in paese poi c’erano più spazi per la socializzazione. Ma qualche rimpianto restava per quella vita all’aria aperta, o per quel pezzo d’orto che era una genuina fonte di frutta e verdura e al tempo stesso di svago; il rimpianto anche per amici e parenti lasciati lassù nella tenuta. C’erano circa 45 famiglie su a Terrano: occupavano altrettanti casali divisi per caseggiati; la distanza tra un caseggiato e l’altro era pressappoco di300 metrie ognuno era intitolato a un santo: il mio si denominava San Massimo. Qui eravamo tutti parenti, il cognome prevalente era Romano, per cui finirono per chiamarlo il ‘casale dei Romani’. D’inverno, quando non si lavorava il tabacco, di domenica pomeriggio, ci si incontrava talvolta con quelli degli altri caseggiati, e allora si ballava, si faceva la pizza insieme, ci si ritrovava a far festa insomma. Era difficile d’altronde

Migranti dalla Puglia

di Gianni Ferraris

Il treno merci è sul binario. Lunga la strada che deve percorrere. Lecce, Brindisi, Taranto, Bari, Foggia, Torino. Il percorso che era dei migranti che dalla Puglia partivano con le loro valigie di cartone, con arance e formaggi e pane. Sicuramente senza gioia, certamente con l’angoscia per quel che si lasciavano alle spalle e la speranza in un futuro che fosse rassicurante, che portasse la certezza della sopravvivenza. La mostra “Migranti”, è organizzata dalla Regione Puglia. Simbolicamente proprio su un treno.

Si entra con curiosità, piano piano scende la malinconia che si trasforma in angoscia e rabbia nel vedere quelle fotografie,  ascoltando la colonna sonora che accompagna i visitatori. Non è musica, non solo. Sono le voci narranti di Michele Placido (Foggiano), di Mario Perrotta (leccese), di Sergio Rubini (da Grumo di Puglia – BA) di Cosimo Cinieri (tarantino) che leggono e narrano storie di migrazione, di lacerazioni, di uomini e donne. E sono spezzoni di film sull’emigrazione. Quelli che hanno fatto la storia del cinema italiano. Passano fotogrammi di “Così ridevano”, di “Rocco e i suoi fratelli”, di “Pane e cioccolata” e si termina con “Lamerica”.

Il percorso nei vagoni si snoda in tre settori:

-L’emigrazione pugliese negli Stati Uniti,

-Quella in Europa e nel nord Italia,

-L’immigrazione.

Arrivando alla fine, al settore immigrazione, successiva alla caduta del muro di Berlino, si vedono immagini di navi stracariche all’inverosimile, in modo disumano, di Persone. E sono le stesse immagini dell’inizio della mostra, quando altre navi portavano altre Persone negli Stati uniti. Stipate nello stesso modo, con sguardi simili, rassegnazione mista e volontà di farcela.

Il catalogo, molto bello e ricco, cita Francesco Compagna e il suo “Terroni in città” (Laterza, 1959) dove dice “Certo, la strada dell’emigrazione è tanto dolorosa quanto antica, dura sempre, rischiosa spesso, qualche volta tragica; ma chi si incammina su di essa lo fa di propria deliberata volontà perché non vuole più restare sulla piazza del paese, intorno alla fontana”.

Così il sogno americano  fa imbarcare migliaia di Persone per il nuovo continente che li accoglie spesso con disprezzo. Già il viaggio era disumanizzante.

“La mortalità infantile, durante la traversata, a causa del morbillo, della scarlattina e della varicella, rappresentava la metà dei decessi… Per non soffrire il freddo e l’umidità, sui materassi si stava vestiti e con le scarpe, e in qualche modo il posto letto si riduceva ad una cuccia per cani. A viaggio compiuto, quando non veniva cambiato, era un sudiciume di insetti pronto a ricevere un nuovo emigrante…. Chi sfuggì al colera a Napoli nel 1911, rischiò la morte per colera durante il viaggio… A bordo si serviva solo un pasto al giorno, cibo appena accettabile, ma per molti era l’aspetto migliore del viaggio, abituati com’erano a patire la fame. La traversata per le americhe poteva durare anche un mese…”

E all’arrivo le visite mediche e le domande di rito:

“Come si chiama? Da dove viene? Perché viene negli USA? Quanti anni ha? Quanti soldi ha? Dove li tiene? Me li faccia vedere. Chi ha pagato la sua traversata? Ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui? Ha degli amici qui? Parenti? Qualcuno può garantire per lei? Che mestiere fa? Lei è anarchico?” 

Non pochi vennero rispediti indietro per sospetti sulla salute fisica, mentale, sulla politica. Quei respingimenti che causarono anche molti suicidi di chi non poteva rientrare sconfitto e decise di gettarsi in mare. La storia che si ripete. Gli ultimi ricacciati a mare da chi, senza ragione alcuna, si crede primo.

Per chi rimaneva iniziava una vita fatta di lavoro duro, di riscossa, di scontri con il razzismo e la xenofobia dilagante.

Gli italiani erano considerati “non white”, una via di mezzo fra la razza bianca e quella nera.

E solo pochi anni fa l’ex presidente guerrafondaio Richard Nixon arrivò a dire  : “Non sono come noi. La differenza sta nel fatto che hanno un odore diverso, un aspetto diverso, un comportamento diverso. Il guaio è che non se ne trova uno solo che sia onesto”

E un suo predecessore:

Abbiamo bisogno che ogni immigrato porti un corpo forte, un cuore robusto, una buona testa e una grande determinazione a compiere bene il proprio dovere. Non vogliamo e dovremmo rifiutare questi italiani, russi ed ebrei sporchi. Abbiamo già abbastanza sporcizia, miseria, crimine, malattie e morte per fatti nostri senza doverci accollare pure questi” (Franklin Delano Roosevelt, presidente USA dal 1933 al 1945).

Per gli americani, i nostri immigrati erano “BAT (pipistrello) perché considerati mezzi uomini e mezzi uccelli, Guinea con chiaro riferimento al fatto che erano visti come negri mezzi africani, WOP dal duplice significato di Guappo e come acronimo di Without Official Permission (senza permesso ufficiale)”.

Non andava meglio nell’America meridionale dove i contadini trovavano lavoro. Portavano con loro la voglia di tornare in Italia. Per questo venivano soprannominati “Golondrinas” (rondini).

E questa voglia di tornare dava diritto ai fazenderos di tenere gli italiani in vera e propria schiavitù. Spesso incatenati, bastonati, le donne violentate nelle piantagioni di caffè del Brasile e del Venezuela dove arrivavano con biglietto prepagato per il ritorno.

 La seconda parte della mostra riguarda l’emigrazione in Europa e nel nord Italia, anche qui Persone stipate in treni stracarichi diretti in Svizzera, Francia, Belgio, Torino, Milano, Genova. Nella sezione dedicata a Marcinelle campeggia il famigerato manifesto rosa e le fotografie di uomini e bambini neri di carbone, di donne che pregano mentre i soccorritori scendono nelle gallerie.  

E ancora la Germania e la Svizzera. Bambini nascosti nei bagagliai delle auto perché il lavoratore non poteva portare famiglia in territorio elvetico fino agli anni 70. Bimbi che non potevano uscire di casa. Che frequentarono scuole elementari e medie clandestine, sotto la protezione delle parrocchie e delle comunità religiose. Gli italiani soprannominati “Cincali” (zingari, dispregiativo) o “Macaroni”. In Germania vivevano in sobborghi. Veri e propri ghetti. Erano poveri, spesso analfabeti.

L’immigrazione è storia recente, attuale. Dopo la caduta del muro di Berlino, la Puglia si trovò ad accogliere navi stracariche di umanità. Il sogno dell’Italia paese libero, delle cinque reti televisive con una scintillante Raffaella Carrà e ballerine seminude, era la meta. La voglia di libertà sta in quella fotografia della ragazza albanese con un cartello  con scritto in pennarello:  “we whant tu be free” (vogliamo essere liberi). Conosceranno l’Italia, quella che accoglie e quella che respinge. Soprattutto conosceranno l’Italia che sta davanti allo schermo, non dietro le telecamere.

Il catalogo si chiude con una citazione dell’antropologo Levi Strauss sulla quale è bene riflettere:  “E’ necessario preservare la diversità delle culture in un mondo minacciato dalla monotonia e dall’uniformità. La tolleranza non è una posizione contemplativa, è un atteggiamento dinamico, che consiste nel prevedere, nel capire, nel promuovere gli sviluppi di ogni cultura. La diversità delle culture umane è dietro di noi, attorno a noi, davanti a noi.”

E’ una mostra da vedere, magari con le scuole. Chi, al nord, vorrà recarsi a Torino, potrebbe adottare per qualche ora un leghista, fargli vedere le sue radici (fra il 1900 e il 1940 il Piemonte era al secondo posto come immigrati con 1.413.589 persone, dopo la Sicilia con 1.624.517). Se capirà sarà una buona azione verso l’umanità intera, se non comprenderà il messaggio vuol dire che ha poche speranze di progredire, con buona pace per l’evoluzionismo.

 n.b. Le parti in grassetto sono citazioni del catalogo.

La visita alla mostra è gratuita. Il catalogo è in vendita a € 15.00.

Le date:

Lecce 20 – 24 febbraio – Brindisi 25 – 28 febbraio – Taranto 1 – 4 marzo – Bari 5-11 marzo

Foggia 12 – 15 marzo – Torino 18 – 21 marzo

Il sito : www.migrantipuglia.it

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