Al via i restauri dell’organo monumentale della Cattedrale di Nardò (1897)

di Marcello Gaballo

In questi giorni si è finalmente dato inizio al restauro del monumentale organo a balcone della Cattedrale di Nardò, del 1897, che da decenni è rimasto inattivo a causa di una grave infestazione di termiti, che avevano gravemente intaccato e corroso in più parti la struttura in legno di noce  di sostegno, compreso il balcone e le parti scolpite di ornamento. Da anni si parlava dell’urgente azione di recupero, al fine di non perdere una delle opere più significative del massimo tempio presente in città.

 

 

Un po’ di storia

Nel corso degli importanti lavori di restauro eseguiti tra il 1892 e il 1899 nella Cattedrale, il vescovo tarantino monsignor Giuseppe Ricciardi (1890-1908) si preoccupò di dotare il sacro tempio di un nuovo organo polifonico a canne, per dare solennità alle cerimonie di inaugurazione e quelle che si sarebbero succedute nel tempo. Tutta la città contribuì alle ingenti spese dell’edificio, ma fra tutti si distinsero i fratelli De Pandi, che fecero realizzare a proprie spese il pavimento, la famiglia Vaglio, che offrì la balaustra del presbiterio, e Luigi Antico che fece restaurare a sue spese l’altare di S. Michele.

Dopo un primo preventivo dell’organaro barese Luigi Mentasti di Paolo, datato 1895, la scelta ricadde sulla ditta del cremasco Pacifico Inzoli, già impegnata per altri organi pugliesi e che lo realizzò nel 1897: PREMIATA E PRIVILEGIATA FABBRICA D’ORGANI/ CREMA/ INZOLI CAV. PACIFICO, come si legge sulla placchetta posta al disopra delle due tastiere.

La trattativa andò a buon fine anche per l’intermediazione del vescovo di Crema Ernesto Fontana (1830-1910), amico del nostro vescovo Ricciardi, del quale si conservano alcune lettere nell’archivio storico diocesano, in cui lo rassicurava circa il valore e la fama goduta dalla Casa d’organi “Pacifico Inzoli” di Crema: “…Fabbricatori d’organi a Crema si trovano quattro; ma Inzóli e Tamborini la vincono sugli altri: Inzoli poi credo che la vinca su tutti e che siasi acquistata una fama molto estesa e molto meritata. Egli è passionato dell’arte sua e costruisce gli organi secondo le esigenze delle leggi liturgiche e della musica sacra… Inzoli è uomo bravo, onesto e cristiano”.

Foto di Pacifico Inzoli

 

La Casa era stata fondata in Crema nel 1867, premiata con medaglie d’oro e diplomi d’onore (all’Esposizione di Bologna nel 1888 e all’Esposizione Eucaristica di Milano nel 1895) e aveva già realizzato oltre 200 organi, tra i quali i monumentali per la Cattedrale di Cremona, per S. Ignazio in Roma, per il  Santuario di Pompei.

In un vano ricavato nella struttura muraria perimetrale della navata destra, accanto alla cappella della Madonna delle Grazie o della Sanità, fu collocato l’organo a balcone su sue piani, dei quali il vano superiore fu riservato ai corpi fonici e la consolle, l’inferiore per la manticeria. L’elegante prospetto in legno di noce, la cassa e la cantoria, furono intagliati in stile neogotico, dagli stessi ebanisti della Scuola d’Arte di Maglie (LE), diretta da Egidio Lanoce (1857-1927), che avevano realizzato il seggio vescovile, le ante dell’altare delle reliquie e i battenti lignei della porta che dalla cattedrale immette alla scala dell’episcopio.

Un’epigrafe marmorea in latino, posta nel 1898 sulla parete muraria, al lato destro della facciata dell’organo, ricorda come l’opera fu donata alla città dalla nobildonna Clementina Personè (1840 ca.-1899), moglie del barone Giovan Bernardino Tafuri di Melignano (1827-1900), che può essere così tradotta: “In questa chiesa dedicata alla Vergine, recentemente riportata al suo primigenio splendore, affinché le divine lodi risuonino alte e muovano i cuori dei fedeli di Cristo ai pietosi affetti, Clementina Personè, moglie di Bernardino Tafuri, curò a sue spese questo campione della musica e della cosa sacra, con solerzia, nell’anno 1898” (traduzione di Elsa Martinelli).

Epigrafe marmorea a lato dell’organo, nella quale sono riportati i nomi dei donatori

 

Primo organista del nuovo organo accordato sotto la diretta revisione dell’Inzoli fu il neritino Giovanni Boccardo, conosciuto col cognome di Manfroci perché allevato ed educato dalla famiglia Manfroci, poco noto ma organista di grande livello. Non da meno fu il successore Maestro Egidio Schirosi (1895-1991), che fu anche direttore e compositore, che amava definirsi “organista dell’insigne Basilica Cattedrale”.

 

Note tecniche dell’organo di Nardò

L’organo, entro tre campate in altrettante cuspidi (7/7/7), mostra n. 21 canne in zinco dalle bocche non allineate, con andamento contrario a quello delle sommità, con labbro superiore a scudo. Nota della canna maggiore: Do1 del Principale 8. Due tastiere originali, a finestra, di n. 58 tasti (Do1-La5): diatonici ricoperti in osso, cromatici in ebano. Trasmissione meccanica a bilico. Gran’Organo al manuale inferiore, Espressivo al superiore. Pedaliera originale, diritta, di n. 27 pedali (Do1-Re3). Trasmissione meccanica con leva pneumatica Barker. Registri azionati da pomoli, a tiro, in quattro colonne ai lati delle tastiere: 5+4 pomoli a lato sinistro, 4+5 pomoli a lato destro.

 

 

 

Giuseppe Manzo (1849-1942) e la cartapesta leccese (prima parte)

Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)
Giuseppe Manzo (riproduzione vietata)

di Cristina Manzo

 

Tantissimi furono gli artigiani che si distinsero per la loro bravura e i loro lavori. Ttra questi alcuni di loro ebbero anche la fortuna di diventare più noti di altri, di veder commissionati i propri lavori al di fuori del Salento e dell’Italia e di ottenere grandi riconoscimenti. Il più celebre tra tutti sarà sicuramente Giuseppe Manzo. Inoltre, cosa molto importante da notare, esiste una precisa sequenza cronologica della loro storia rintracciabile attraverso l’usanza di mandare i ragazzini, ancora giovanissimi scolari, di sette o otto anni, a imparare l’arte alla bottega dei maestri; così abbiamo il Maccagnani che sarà allievo del Surgente, e il De Lucrezi che uscirà dalla scuola del Maccagnani, il Manzo che comincerà a modellare nella bottega del De Lucrezi, il Guacci che lavorerà nella bottega di Giuseppe Manzo e via di seguito, tenendo presente tuttavia che la tecnica artistica di ognuno di loro si evolverà poi in maniera originale, e secondo una direzione propria.

Giuseppe Manzo  (1849-1942)

Nacque a Lecce il 17 marzo 1849, figlio d’arte di Orazio, muratore e scalpellino, e Natalizia Romano. Ebbe una sorella di nome Addolorata e quattro fratelli: Carlo, Domenico, Bartolo e Luigi. In tenera età il padre, essendosi accorto che il figliuolo aveva la propensione all’arte, lo mandò presso Luigi Guerra, un figaro che nel retrobottega, si dedicava alla costruzione di maschere e pupi in cartapesta. Dopo un po’ di tempo, il piccolo Giuseppe si trasferisce nel laboratorio di Achille Castellucci, per poi passare allo stabilimento di ceramica Paladini in S. Pietro in Lama. E’ qui che apprende i primi insegnamenti di modellatura e disegno dai maestri Tobia Strino e Anselmo De Simone,(1875-85). Qui conosce anche  l’amico Andrea  De Pascalis  e insieme cominceranno a modellare in cartapesta nella bottega di Achille De Lucrezi. Nel 1887, conclusasi ormai l’esperienza presso lo stabilimento di Antonio Paladini in San Pietro in Lama, che fu per molti una vera e propria scuola, il Manzo ebbe l’incarico d’insegnare modellato presso la Scuola d’arte applicata all’industria di Maglie, diretta allora dall’esigente Egidio Lanoce. La scelta di quest’ultimo appare alquanto indicativa, considerato il numero dei cartapestai contemporanei del Manzo, che avrebbe potuto fornire un’ampia scelta. La quinquennale esperienza d’insegnamento fu il suo trampolino di lancio.

Nella pubblicistica salentina mancano le tracce necessarie alla ricostruzione della biografia d’uomo e d’artista di Giuseppe Manzo, vista e raccontata dai suoi contemporanei, ma fortunatamente abbiamo la preziosissima testimonianza di suo nipote Dino. Possiamo inoltre desumere importanti particolari da  alcuni libri, come quello scritto da Nicola Caputo a proposito delle statue dei misteri di Taranto, realizzate proprio dal nostro grande cartapestaio, per il quale lo scrittore in questione  nutriva una vera adorazione. Assai utile anche il libro curato da Salvatore  Solombrino, che riprende le memorie di suo padre, Oronzo Solombrino, che fu discepolo del Manzo per tanti anni.

Oronzo Solombrin, nel ricordare  la propria storia (nei primi anni Ottanta), rende note anche importanti notizie sulla vita giornaliera del maestro, che si svolgeva tutti giorni, dalle otto di mattina alle due del pomeriggio nella sua bottega sempre piena di giovani discepoli desiderosi di apprendere la sua arte. Ne ebbe veramente tanti, e tra i sui più bravi  allievi si ricordano Egidio e Attilio dell’Anna, Oronzo Manzo, (omonimo ma non parente) Luigi Guacci, Gabriele Capoccia e lo stesso Solombrino. Questi dice :

“Riuscii, grazie ai buoni uffici interposti da un fratello del titolare, a frequentare il primo di tutti i laboratori di Lecce, quello del cavaliere Giuseppe Manzo (benemerito dei Reali d’Italia, pluridecorato in numerose esposizioni in Italia e all’estero),  il quale, aborrendo la lavorazione della cartapesta su scala industriale, fu sempre proteso a farne un fatto artistico, evidentissimo nei suoi alti e bassorilievi, dove scultura, scenografia e pittura sono le componenti fondamentali.”[1]

 

 


La scuola magliese dell’arte del ricamo

di Emilio Panarese

alto bordo, assai originale e ricco, detto “pupi e stelle”, arricchito a sua volta dai “bordini”, col particolare assai raro del “pupo guerriero” armato di spada

Oltre ad essere un importante centro di cultura e la città di maggiore commercio di tutta la regione del Capo, settant’anni fa Maglie era pure famosa per lo sviluppo dell’artigianato, ma soprattutto per i mobili d’arte, per gli apprezzati lavori di ferro battuto e per i pizzi e i merletti, rinomati in Italia e all’estero.
L’arte del ricamo, già verso la metà dell’800, era assai diffusa a Maglie tra le giovanette del popolo, ma la sua fortuna è legata alla fondazione della scuola d’arte applicata all’industria, quella scuola, una delle prime ad essere istituita nelle province meridionali, che, come sappiamo, fu voluta e creata da Egidio Lanoce. Le lezioni serali di disegno applicato ai merletti iniziarono nel maggio del 1905, quando fu istituita nella scuola, accanto alle sezioni maschili (ferro battuto, intaglio su legno, ebanisteria, scultura, plastica), che funzionavano già da venticinque anni, una sezione femminile, frequentata all’inizio, per un primo esperimento, che durò circa un mese, con ottimi risultati, solo da quattro alunne. Fu subito dopo la visita dell’ispettore E. Venezian, che approvò il progetto di trasformazione delle locande di via C. Vanini per i locali della scuola, che le lezioni serali di disegno applicato alla lavorazione delle trine e dei merletti si svolsero regolarmente.

 

particolare di tovaglia d’altare lavorata dalle alunne della “Regia scuola d’arte di disegno applicata al ricamo” (1906), diretta da Egidio Lanoce

Il primo anno, il 1906, la scuola fu frequentata da 28 giovanette (è di quell’anno la bellissima tovaglia dell’altare del SS. Sacramento della chiesa collegiata di S. Nicola); negli anni successivi, dal 1907 al 1914, da 40 alunne in media.
In seguito, un po’ per la scarsezza dei mezzi finanziari, un po’ per rendere possibile una maggiore partecipazione dei giovani dei corsi maschili, la sezione fu momentaneamente sacrificata. Ma venne ripristinata più tardi, quando venne trasferita nella sede più appropriata dell’Orfanotrofio Annesi-Capece, frequentato soprattutto da fanciulle della media borghesia, che lavoravano il traforo o “punto Maglie”, il “punto siciliano” o “a reticella”, il “traforo” e il “punto reale”, alternato, con tale mirabile precisione, con tale finezza di esecuzione, da lasciare ammirati.
Caratteristici sono i nomi dati ai diversi tipi di traforo (”a muliné”, “a panierino”, “a malota”, “a trifoglio”, “a quadrifoglio”, “ad s stella”, “ad ics”, “a margherita”, “a pupo stella”, “a puntina”) o ai legamenti del traforo (“gigliuccio”, “zippitelli”, “zippitelli a reta”, “zippitelli a maccarruni”, “a spaghetti”, “a sfilatino”, “a dentino”) e ai motivi ornamentali (di cui ricordiamo il “mustazzolu” a forma di rombo come il noto dolce, e i “punti sospesi” o “punti in aria”, detti comunemente “pirichilli”, che si ottengono con cinque o sei giri intorno all’ago e tirando il filo).

Un notevole sviluppo dell’arte del ricamo dette pure in quegli anni e nei successivi l’attiva e intelligente signora donna Carolina Starace De Viti-De Marco, che raccoglieva a Maglie, intorno a sé, oltre 150 ricamatrici, molte delle quali avevano frequentato i corsi serali di disegno. Neppure le mogli dei professionisti disdegnavano allora di dedicarsi, nelle ore libere, al ricamo, lavorando fino a tarda notte, per arrotondare lo stipendio del marito.

 

Dalle gentili mani delle ricamatrici magliesi uscirono lavori artistici del più fine gusto, che ebbero lusinghieri riconoscimenti in varie mostre e soprattutto in quelle di Roma e di New York, lavori pregevoli, riprodotti da antiche pergamene di varie biblioteche, come quelli che servirono per la figlia del celebre miliardario americano Morgan o come le estrose composizioni ornamentali, ideate da Egidio Lanoce, applicate ai lavori di trine, che pure furono fornite alla scuola di ricamo di Casamassella, diretta dalla stessa Starace, in cui lavoravano oltre cinquecento ricamatrici.
Oggi, purtroppo, questa nobile ed antichissima “arte dei merletti” (si pensi che a Lecce si insegnava alle fanciulle povere del Conservatorio di S. Leonardo sin dai tempi della dominazione spagnola, agli inizi del ‘600) è in piena crisi, non solo a Maglie in cui la esercitavano solo alcune ricamatrici anziane (Addolorata Lionetto, discepola della Starace, Rosina De Donno, Vincenza Sticchi, Maria Negro e poche altre), ma in tutto il Salento, come a Galatina, come a Nardò, che di questa nobile arte custodisce preziosi cimeli: arazzi e paliotti in broccato con ricami policromi in oro, di meravigliosa bellezza, di inestimabile valore.In «Tempo d’oggi», I(9), 1974

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