Il latte di calce nell’edilizia salentina

venditore ambulante di calce (archivio Ezio Sanapo)

 

di Mario Colomba

La calce, sotto forma di pasta untuosa, che veniva utilizzata per la produzione del latte di calce,  proveniva da una lunga stagionatura attraverso la quale  acquistava  maggiore consistenza e corposità.

Il latte di calce più o meno denso a seconda della percentuale di acqua, lungamente agitato e filtrato, , veniva usato nella scialbaltura, nella imbiancatura o  nella tinteggiatura.

Queste lavorazioni venivano praticate da due categorie di lavoratori del settore: gli imbianchini e i pittori edili.

La scialbatura e l’imbiancatura venivano praticate dagli imbianchini che applicavano il latte di calce o su superfici rustiche delle murature (scialbatura) o sulle superfici intonacate (imbiancatura), utilizzando pennelli rotondi costituiti più frequentemente da fibra vegetale e, abbastanza raramente da crine animale. Per raggiungere altezze elevate anche di alcuni metri, senza l’uso di scale,  il manico del pennello veniva legato ad una canna o ad una pertica con un sistema particolare, atto a  consentire piccole rotazioni intorno al fulcro, in modo che il pennello si disponesse  sempre in posizione ortogonale rispetto alla superficie del muro, durante i movimenti alternativi, verso l’alto o verso il basso, che venivano impressi dall’imbianchino. L’operazione veniva ripetuta più volte (due o tre mani) ed il risultato finale  era una imbiancatura, che aveva più funzione igienica che decorativa, caratterizzata da evidenti striature dovute alla stesura non uniforme del latte di calce.

I pittori edili eseguivano lavori più raffinati di tinteggiatura con l’uso di pennelli a mano (spatole) e quindi con  interventi sulle superfici più diretti, che permettevano di raggiungere una maggiore cura dei particolari ed una perfetta uniformità nella distribuzione superficiale  della soluzione di calce, il più delle volte colorata.

La coloritura del latte di calce veniva ottenuta con l’aggiunta di pigmenti in polvere (terre minerali) disponibili nelle tinte base che, opportunamente mescolate, producevano tutte le gradazioni di colore richieste.

 

Per le parti precedenti vedi qui:

Libri| L’arte del costruire a Nardò e dintorni – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

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Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Cantiere edile (fondazioneterradotranto.it)

Arte del costruire e riutilizzo presso il popolo salentino – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

Reclutamento di manodopera e approvvigionamento di materiale edilizio nelle costruzioni del Salento – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Il cemento e il conglomerato cementizio – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. Le coperture “alla margherita” – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’intonaco nell’edilizia salentina – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’intonaco nell’edilizia salentina

di Mario Colomba

 

L’intonaco (tunica), come si evince dalla terminologia dialettale, era un rivestimento della muratura che veniva praticato non solo per motivi estetici ma anche per preservare la muratura dal degrado derivante  dall’esposizione diretta agli agenti atmosferici.

Di solito, la malta impiegata nell’intonaco era confezionata con maggior cura sia nella scelta dell’inerte (tufina) che incideva anche sulla colorazione che della calce che si preferiva stagionata.

Generalmente veniva eseguito in due tempi: In un primo tempo si procedeva alla esecuzione dei primi due strati: rinzaffo o arricciatura a secondo dei casi. Il secondo strato, la stuccatura, veniva eseguita dopo un certo periodo di stagionatura. La malta dello stucco era una malta grassa (più ricca di calce) lavorata con cura per evitare la formazione di grumi e setacciata adoperando un setaccio metallico attraverso i cui fori veniva fatta passare, tamponandola con un piccolo frattazzo di legno.

Nel caso in cui la superficie della muratura da rivestire era particolarmente deformata, si realizzava un primo strato di rinzaffo grosso che, se aveva una spessore di oltre un centimetro, veniva ringrossato scagliando sulla malta fresca manciate di detriti minuti di tufo (pipirielli) che vi venivano annegati forzandoli con la cazzuola. La spianatura in piombo ed in piano veniva ottenuta con l’uso di regole di legno che, spesso, a contatto con l’umidità della malta si deformavano e non garantivano la planarità richiesta.

Poiché ancora non era in uso il frattazzo di acciaio, la posa in opera della malta e la sua lisciatura avveniva con l’uso della cazzuola che non consentiva di avere delle superfici perfettamente spianate poiché la pressione che si esercitava con quell’attrezzo non era uniforme. Ma questo rientrava nella normale tollerabilità. Nei casi in cui veniva richiesto, si realizzava l’intonaco “piombato” che si otteneva dividendo la superficie interessata in zone della larghezza di circa due metri distinte da guide verticali verificate in piombo ed in piano, che garantivano la perfetta planarità dell’intera superficie.

Prima dell’applicazione dell’ultimo strato (tonachino) la superficie dell’intonaco fresco veniva uniformata, asportando anche eventuali “bave” di malta lasciate dall’uso della cazzuola, con l’uso di un “fratazzo” di legno

Particolare cura veniva posta nella lisciatura che, quando era praticata con la necessaria energia rendeva lucida la superficie trattata e per questo, si usava anche l’aspersione di albume.

Le superfici esterne colorate si ottenevano aggiungendo, alla malta bianca dello stucco, una soluzione di terra colorata e acqua, nelle proporzioni necessarie per ottenere la tonalità richiesta. I colori più ricorrenti erano il rosso, il giallo ed anche l’azzurro.

Per ottenere particolari effetti decorativi si ricorreva all’intonaco a graffito che consisteva sostanzialmente nella sovrapposizione a fresco di strati di intonaco a colori diversi che venivano rimossi (sgraffiati) secondo le linee del disegno riportato con lo spolvero, facendo riemergere gli strati sottostanti fino a formare un decoro.

Si ottenevano così effetti decorativi di gran pregio che esigevano abilità e competenze artistiche di rilievo con l’uso di attrezzi appositamente studiati (ferri) e abilità manuali molto rare.

 

 

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L’arte del costruire nel Salento. La malta – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)

L’arte del costruire nel Salento. La malta

di Mario Colomba

 

L’attività lavorativa iniziava all’età di circa 12 anni ed il primo impiego era quello di addetto principalmente alla preparazione delle malte che rappresentava l’attività di esclusiva competenza dei garzoni.

Era in’operazione importantissima che influiva non solo  sulla qualità delle murature e sulla produttività ma anche sulla fatica fisica del muratore; infatti, la presenza nella malta di qualche sassolino sfuggito alla cernita della tufina obbligava il muratore a rialzare il concio malfermo,  per rimuoverlo dopo averlo allettato,  con perdita di tempo e sforzo fisico supplementare.

L’impasto doveva essere omogeneo e per questo era necessario un lavoro impegnativo col ruèzzulu per stemperare completamente la calce in pasta, a volte, anche abbastanza indurita da lunga stagionatura.

venditore ambulante di calce (archivio Ezio Sanapo)

 

La malta non doveva essere né troppo grassa per evitare le fessurazioni (spaccature) né troppo magra per evitare che mancasse l’adesione nella stuccatura dei comenti.

IL neofita, che spesso veniva affidato al maestro direttamente dal padre con la raccomandazione di avviarlo alla conoscenza del mestiere, si trovava già dal primo giorno a rispettare una gerarchia precostituita tra i garzoni; infatti ce n’era uno,  un po’ più grande di età,  che aveva la responsabilità di non far mancare mai la malta ai muratori che la richiedevano (conza vagliò!) e che ordinava, agli altri due o tre garzoni  della squadra,  di reperire la tufina dai banchi degli squadratori, di setacciarla, di stemperare il grassello di calce al centro di un conetto di tufina setacciata, di impastare la malta e di portarla, a richiamo, con l’uso di caldarine metalliche troncoconiche, fornite di due asole (maniche), della capacità di circa l. 11.

Con l’aiuto di un altro garzone, l’addetto al trasporto si caricava sulla spalla, nuda d’estate, la caldarina e,  tenendosela in equilibrio con una mano,  provvedeva a raggiungere la postazione del muratore anche inerpicandosi su scale a pioli,  su cui si reggeva facendo scorrere la mano libera lungo il montante della scala e mai sui pioli ( la mano alla sciosca!,  gli urlava il maestro).

Un’altra incombenza dei garzoni era quella di raccogliere i ferri del mestiere a fine giornata lavorativa, al tramonto del sole e spesso anche oltre, di lavarli e riporli al sicuro .

Raramente si procedeva all’approvvigionamento di tufina direttamente dalle cave di tufo se non nei cantieri di dimensioni rilevanti.

 

I detriti e la tufina provenienti dalla squadratura dei conci venivano setacciati dai  garzoni per procedere alla confezione della malta comune.

Per questo, l’altezza del concio veniva squadrata a cm. 24,5 per produrre una maggiore quantità di tufina e per avere l’altezza di cm. 25 dei filari della muratura comprendendovi la malta di allettamento.

Per poter setacciare la tufina, questa doveva essere asciutta e quindi era cura dei garzoni riporla al coperto perché eventuali piogge notturne non ne impedissero l’utilizzo la mattina successiva.

La malta comune era costituita da un impasto di calce spenta allo stato pastoso e tufina che, a secondo degli impieghi (per muratura o per intonaci, ecc.), comprendeva sei calderine di tufo e due di calce oppure quattro calderine di tufo e due di calce. A volte, in mancanza di tufina, si utilizzava la ”rena”, cioè la sabbia  che veniva raccolta sui margini delle strade dove si depositava trasportata dalle acque pluviali e, più raramente, anche il terreno vegetale  sabbioso detto bolo.

L’impasto con acqua veniva ottenuto disponendo la tufina in forma di cono tronco (mureddha) e praticandovi al centro un vuoto in cui veniva versata la pasta di calce nel numero di caldarine proporzionale a quelle di tufina secondo l’impiego; successivamente, con l’aggiunta  dell’acqua necessaria e con l’uso di uno strumento costituito da una specie di zappa con bordo quadro a spigoli arrotondati, munita di un lungo manico, detta ruèzzulu, veniva stemperata la calce e quindi amalgamata man mano  con la tufina circostante  formando la malta.

Una variante della malta comune era costituita dalla malta grossa, utilizzata normalmente per  i massetti di sottofondo dei pavimenti.

L’operazione della setacciatura veniva effettuata con l’uso di un pannello di rete metallica avente fori dell’ordine di circa un centimetro (rezza), munito di telaio perimetrale, disposto in posizione leggermente inclinata rispetto alla verticale, contro il quale veniva scagliata per mezzo della pala, la tutina proveniente dalla cava o dai banchi degli squadratori. Il passante veniva successivanemte setacciato col setaccio a mano (riquadro di assi di legno delle dimensioni di circa cm 50 di lato,  di larghezza di circa cm. 10 – farnaru – con applicazione di rete metallica) che aveva fori quadrati con lato da uno (sitella) a più millimetri,  a secondo del tipo di malta che si doveva confezionare ( per la muratura,  per gli intonaci o  per lo stucco degli intonaci).

Lo scarto più grossolano della setacciatura, costituiva la fricciame, utilizzata nei riempimenti e nella predisposizione dei letti a pendio dei lastrici solari; i detriti tufacei passanti dalla rezza ma non dal farnaro costituivano i pipirielli,  che venivano utilizzati, scagliandoli con violenza sull’intonaco fresco,  quando bisognava aumentarne lo spessore con passaggi successivi per pareggiare mancanze della muratura,  specialmente per il lato posteriore di murature ad una testa.

Una varietà di malta povera era costituita da calce impastata col terreno sabbioso (bolo); la malta  che ne derivava assumeva un  colore rossastro e veniva utilizzata specialmente per il primo strato di intonaci di case rustiche o di campagna e per la posa in opera di pavimenti in pietra.

Un’altra  varietà di malta povera era costituita da un impasto di terra con detriti di calce spenta (ne dirò a proposito dello spegnimento  della calce) detta “murtieri” che veniva utilizzata per spianare il nucleo di riempimento dei muri a due teste (muraglie) o nella “carica” delle volte a squadro  ma anche nella posa in opera di pavimentazioni in basolato.

La malta di cocciopesto, dotata di notevoli caratteristiche idrauliche aveva specifiche applicazioni e veniva utilizzata soprattutto nell’intonaco stagno delle cisterne, nella stilatura dei comenti dei lastrici solari in chianche di pietra di Cursi, ed in tanti altri casi in cui era richiesta la caratteristica di impermeabilità. Questa malta era ottenuta aggiungendo agli ingredienti soliti dei frammenti di coccio provenienti dalla frantumazione sistematica di embrici di terracotta (pizzulame).

 

 

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L’arte del costruire nel Salento. L’ambiente e l’orario di lavoro. L’acqua nell’edilizia

di Mario Colomba

L’orario di lavoro (nominalmente di otto ore) era suddiviso in tre parti da una sosta di circa mezz’ora per la colazione a metà mattinata, e da un’altra  sosta di due o tre ore, a secondo delle stagioni, per il pranzo.

L’alimentazione prevalente era costituita, a colazione, da  pane e pomodoro o frisella; minestra di legumi e verdura lessa  a pranzo con cena anche più frugale. la carne, quasi sempre di pollo o di gallina, era assicurata (non sempre e non per tutti) per il pranzo di natale e di pasqua. Per queste e per le altre festività religiose c’era molta attesa,  mescolando il sentimento religioso con le attrazioni alimentari.

Prima dell’affermazione della civiltà industriale, con i ritmi lavorativi imposti dagli stabilimenti produttivi, non si facevano interruzioni per ferie concentrate in un unico periodo dell’anno. ad eccezione delle domeniche, in cui spesso si lavorava la mattina, si praticavano dei periodi di riposo di circa due o, eccezionalmente,  tre giorni al mese in occasione delle feste religiose scaglionate in tutti i mesi, che, anche per questo,  erano attese con comprensibile interesse.

In sostanza, il ritmo del lavoro e le esigenze della produzione condizionavano completamente la vita delle persone in qualsiasi settore produttivo.

 

Le decisioni più importanti in campo sociale (per es. se si doveva lavorare anche la domenica) erano prese dai titolari della produzione (maestri muratori, maestri falegnami, ecc.) con l’assenso dei capi famiglia.  I giovani, che non esistevano come categoria sociale,  erano considerati semplicemente  ragazzi,  più inclini al tempo libero ed allo svago e perciò non avevano alcuna voce in capitolo. La stessa connotazione legale, figlio di…………., dimostrava che la referenza principale era la paternità,  sia in positivo che in negativo, anche quando era inesistente ufficialmente (figlio di n.n.). Questo status di ragazzi perdurava finchè non si sposavano o non ritornavano in famiglia dopo aver svolto il servizio militare  che li faceva transitare nella categoria degli adulti .

 

L’acqua

Costituiva un elemento fondamentale nella produzione edilizia. Nei luoghi di lavoro era indispensabile provvedere preliminarmente alla disponibilità di fonti di approvvigionamento sia dell’acqua potabile che di quella necessaria per l’esecuzione di impasti, per bagnature, ecc. Quando era presente un cospicuo numero di lavoratori, vi era addirittura un addetto (garzone o anziano – l’acquarulu) che distribuiva periodicamente nel corso della giornata l’acqua da bere,  con una brocca metallica (la menza), prelevandola da fonti pubbliche o da cisterne private di cui erano munite tutte le case di civile abitazione.

Per i fabbisogni ordinari del cantiere l’acqua necessaria proveniva da pozzi , molto diffusi in tutto il territorio, più o meno profondi  a secondo della formazione geologica in cui erano scavati e della falda che emungevano.

 

Nelle campagne, presso le masserie, in corrispondenza del pozzo c’era la trozza costituita da una sorta di portale, a volte artisticamente intagliato, in cui era inserita una carrucola fissata ad un asse ortogonale al piano del portale. Nella gola della puleggia  scorreva una fune chiusa ad anello esteso fino al pelo dell’acqua del pozzo,  alla quale erano applicati degli otri che venivano riempiti e svuotati di acqua con il movimento verticale della fune impresso a forza di braccia.

 

Per lo stoccaggio di deposito temporaneo in cantiere si utilizzavano una o più botti, disposte in posizione verticale e private del coperchio.

Nei casi di fabbisogno di notevoli quantità di acqua,  come per l’operazione di  spegnimento della calce viva,  si ricorreva alla fornitura da parte di trasportatori attrezzati “ad hoc” con le caratizze, botti di forma allungata disposte orizzontalmente sul pianale di carico del traino, munite di saracinesca di scarico sul fondo posteriore, che si rifornivano da numerosi pozzi di cui era dotato il paese, in cui vi era una naturale abbondante disponibilità di acqua.

L’acqua potabile proveniva dalle cisterne di cui erano dotate tutte le case di civile abitazione. L’accumulo della risorsa idrica costituiva una pratica particolarmente accurata, per cui solo in determinati periodi dell’anno l’acqua veniva conservata in deposito. Esisteva sempre un sistema di by-pass che permetteva di scaricare l’acqua piovana al di fuori della cisterna, per esempio, delle piogge primaverili che potevano trasportare le infiorescenze delle piante che andavano in putrefazione rendendo l’acqua  inutilizzabile a fini alimentari. Una pratica molto diffusa era anche quella di ospitare nella cisterna un’anguilla che doveva provvedere  a distruggere eventuali parassiti patogeni.

La struttura delle cisterne era in muratura, particolarmente curata, specialmente quando era a contatto con terreni spingenti. L’impermeabilità del fondo e delle pareti, fino alla quota di imposta della volta a botte di copertura, era affidata all’intonaco di cocciopesto.

 

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L’arte del costruire nel Salento. Strutture murarie di copertura: archi e volte

Immagine tratta da http://culturasalentina.files.wordpress.com/2009/07/suggestiva-casa-a-corte-nel-centro-storico-di-galatone.jpg

 

di Mario Colomba

Il superamento degli spazi vuoti, generati nelle murature dalla presenza di vani porte e finestre, affidato anticamente al sistema trilitico (due piedritti ed un architrave monolitico), veniva risolto, per luci corrispondenti, al massimo, alla lunghezza di due conci con un architrave costituito da tre conci di cui due con testa tagliata soprasquadro, disposti orizzontalmente e simmetricamente parzialmente sporgenti dalle “spalle” del vano e un terzo concio centrale di “chiave” caratterizzato dal taglio “a spalla” delle due teste.

Al disopra, si disponeva spesso un “arco di scarico”, costituito da due conci con la testa tagliata leggermente sottosquadro che, lavorando a contrasto, trasmettevano orizzontalmente una parte del carico verticale superiore, contribuendo ad una riduzione delle sollecitazioni di taglio in corrispondenza dei limiti (spalle) del vano.

Per luci maggiori o per motivi di ordine estetico ed architettonico si ricorreva, sempre con l’impiego di una centina in legno, ad una vasta tipologia di archi, dall’arco “a tutto sesto”, all’arco “a sesto ribassato”, alla “piattabanda” e, nel periodo di fioritura del Barocco, all’arco trilobato policentrico, tipico dell’architettura neretina.

le volte in muratura

Da quando l’uomo, lasciando grotte e caverne, ha cercato di costruirsi   uno spazio chiuso nei luoghi in cui andava a stabilirsi, la chiusura orizzontale superiore di tale spazio ha rappresentato il momento più impegnativo,

sia   quando ha pensato di farlo con una lastra monolitica e ancor più con la realizzazione di una volta muraria. La meraviglia, lo stupore risultanti dalla constatazione dell’abilità di far rimanere sospesi in aria i conci di pietra che, per gravità, sarebbero dovuti precipitare al suolo, aveva qualcosa di magico, specialmente agli occhi di chi era abituato ad occuparsi soltanto dei lavori dei campi. Questa magia imponeva un festeggiamento che si concretizzava con una medaglia murata con il concio di chiave, come per assicurarsi una protezione soprannaturale, e con un cerimoniale che culminava in un evento conviviale: lu capucanale.

Nell’ambito delle strutture murarie la volta ha rappresentato non solo la manifestazione più alta delle capacità tecniche realizzative ma anche e soprattutto il coronamento dell’impegno delle facoltà creative ed il punto di arrivo della ricerca primordiale del sistema più efficace per la chiusura orizzontale dello spazio.

Ha costituito un sistema perfezionato con il concorso sia delle capacità operative individuali che del materiale disponibile.

In definitiva, la tradizionale mancanza di legname necessario nella realizzazione di coperture piane e di tetti ha imposto la costruzione della volta muraria, peraltro favorita dalla presenza di maestranze dotate di notevole abilità e dalla disponibilità di una pietra particolarmente facile da lavorare e abbastanza resistente: questo tufo di colore giallo paglierino, leggero e resistente, di grana pastosa e morbida, che riflette una luce mai tagliente ma docile e cangiante al variare delle ore del giorno.

La costruzione della volta più semplice, la volta a botte non era altro che la ripetizione di un’altra struttura elementare: quella dell’arco a tutto sesto, che a sua volta rappresentava il punto di arrivo di esperienze plurisecolari iniziate con il superamento del sistema architravato (due piedritti e un architrave) condizionato dal peso del blocco monolitico e quindi dall’estensione delle luci. Con l’esperienza maturata attraverso secoli si comprese che il carico sull’architrave monolitico portato dalla muratura soprastante poteva essere attenuato, se non eliminato, con il posizionamento di conci a sbalzo (v. porta dei leoni di Micene) praticato, per esempio, nelle coperture dei trulli locali (furnieddhi), senza l’ uso di impalcature.

L’arco a tutto sesto ebbe la massima espansione e diffusione nel periodo dell’Impero romano e diede luogo successivamente a numerose variazioni ed applicazioni, dai ponti agli acquedotti, alle gallerie, ecc. con delle sagome via via modificate fino a comprendere nel ‘700 anche l’arco trilobato molto diffuso e tipico di Nardò.

Come l’arco a tutto sesto rappresenta l’elemento originario della volta a botte, analogamente, la volta a botte (che si può considerare generata dalla traslazione di un arco lungo una direttrice ad esso ortogonale) rappresenta l’elemento di base di tutte le variazioni sul tema che hanno prodotto le numerose tipologie di volte in muratura.

Sommariamente, le volte in uso più frequente possono distinguersi in:

  • – volte semplici, costituite da una superficie di intradosso caratterizzata da un’unica generatrice secondo una unica direttrice come per es. la volta a botte;
  • volte composte, formate da più superfici di intradosso provenienti da volte semplici, come le volte a padiglione, a schifo, a crociera. – unghia – parte di volta a botte con superficie a proiezione orizzontale triangolare, segata da due   piani diagonali,   con tre lati curvi;In definitiva, segando una volta a botte con due piani diagonali, si hanno due unghie e due spicchi.Senza entrare nelle numerose tipologie diffuse localmente, dalle volte a schifo alle volte a crociera, alle volte variamente lunettate, si ricordano le due volte leccesi più diffuse localmente:
  • Praticamente, con quattro spicchi si forma una volta a padiglione e con quattro unghie, una volta a crociera.
  • spicchio – parte di volta a botte con superficie a proiezione orizzontale triangolare, segata da un   piano diagonale,   con due lati curvi.
  • In questo ultimo tipo di volta occorre ricordare due tipi di superfici cilindriche provenienti da una volta a botte tagliata da piani diagonali e cioè:
  • volte a squadro e volte a spigolo.venivano generalmente impiegate per la copertura di ambienti dei piani superiori al piano terra, dove si utilizzavano come piedritti anche le murature continue di divisione dei vani, di spessore limitato (20 cm.).La costruzione di una volta a squadro iniziava con l’impostazione delle “appese”. Queste, pur ricomprese nella forma della volta non ne fanno staticamente parte, dovendole considerare più propriamente integrate con i sostegni verticali. Sono costituite da fusi cilindrici le cui linee d’imposta sono disposte a squadro (da cui il nome della volta); la lunghezza dei lati d’imposta dei fusi cilindrici varia da 40 cm. ad un metro, secondo l’ampiezza dell’ambiente; per ambienti di dimensioni correnti è di circa cm. 60. Nel gioco statico della volta a squadro gli elementi portanti sono costituiti dalle unghie e dai cappucci mentre la calotta stellare è portata.
  • I vantaggi derivanti dall’impiego di questo tipo di volta si possono così riassumere:
  • L’apparecchio delle volte a squadro è molto simile a quello della volta a spigolo con la differenza sostanziale della presenza dei cappucci, che sono dei fusi costituiti da conci di forma trapezoidale, chiusi in alto da un pezzo speciale a forma di triedro, detto cappello di prete, e sporgenti, all’imposta, di 4-5 cm. rispetto alla faccia del muro (dente).
  • Nei casi in cui le strutture portanti erano costituite da pilastri si adoperavano le volte a spigolo. Questo avveniva soprattutto nella copertura dei piani terra e interrati e per locali ad uso deposito o stabilimenti di tipo agricolo e industriale.

  • – le volte a squadro
  • le unghie, avendo corda inferiore rispetto alle corrispondenti della volta a spigolo, producono spinta orizzontale minore ed avendo monta più alta possono essere realizzate con sesto acuto o semicircolare evitando sesti ribassati più spingenti;
  • le sollecitazioni statiche non sono concentrate all’angolo dell’ambiente come per le volte a spigoli ma risultano distribuite lungo lo squadro di imposta delle appese;
  • il punto di applicazione delle spinte è arretrato dagli angoli dell’ambiente, per effetto della lunghezza dell’imposta degli squadri. Montate le appese (anche per futuri ampliamenti) fino all’ultima mano (4° o 5° corso) caratterizzata dall’assetto a spalla (piano alle reni – ncunigghiatu) con le relative “cariche” e completate le murature perimetrali del vano, veniva “segnata” la volta cioè la traccia dell’intradosso delle quattro unghie (dette “formate”) sui muri d’ambito. Seguendo la traccia segnata, si praticava nella muratura un incavo a sezione triangolare (palombella o palumbeddhra) della profondità di circa cm. 5-8 e dell’altezza di cm. 15-16, in cui successivamente venivano inseriti “di punta” i conci ( “petre ti gliama quatre”) della formata, con la testa tagliata sottosquadro di alcuni centimetri.partendo dall’ultimo corso delle appese (summarieddru) e procedendo simmetricamente da destra e da sinistra, adoperando conci in coppia di lunghezza variabile per assicurare lo sfalsamento dei giunti, si procedeva alla costruzione della formata (unghia di volta a botte). La prima mano (la prima coppia di conci) veniva messa in opera senza forma. Successivamente, veniva montata la forma operando l’accorgimento di disporre la sommità della forma ad una quota di circa 2 cm. più in alto della quota di intradosso della “palombella” (capuallegra); per questo, anche dopo il naturale assestamento, rimaneva una inclinazione di circa l’1,5% del concio di chiave della formata, rispetto all’arco di testa. I conci del bordo dell’unghia venivano tagliati per assumere una forma trapezia in cui le basi avevano una differenza di lunghezza di circa cm. 14 detta “sporgiu” e la testa corrispondente al profilo dell’unghia veniva tagliata con un sottosquadro di circa 2 cm. su cui poi si dovevano reggere gli archetti delle vele. Esaurita la costruzione delle quattro formate, si passava alla costruzione delle vele in cui si adoperavano “petre ti gliama tonde” che, cioè, avevano un profilo longitudinale arcuato con una curvatura di circa il 2%. La testa dei conci veniva tagliata con una inclinazione che veniva ricavata con la “mezza croce” che doveva essere impostata, sul concio da preparare con la faccia rivolta in alto, avanti (‘nnanzi) cioè aderente allo squadratore (quindi la testa destra) o fuori (fore) cioè dalla parte opposta (quindi la testa sinistra). Superato il punto più sporgente dell’unghia di volta si procedeva, con corsi successivi ad anello, in senso orario, fino al completamento della calotta con il concio di chiave che, a volte, portava scolpita in rilievo la figura di un fiore al cui centro veniva praticato un foro passante per l’applicazione di un anello metallico di sostegno della catena del candelabro. tra l’intradosso della calotta ed il profilo dei cappucci, si operava una differenza di piano di circa 4-5 cm. con un risalto che contribuiva ad esaltare la leggerezza delle parti curve. in alcuni casi, specialmente nelle costruzioni rurali, in sede di “sprofilatura” della volta, questo risalto veniva quasi completamente spianato tagliando parzialmente la sporgenza e confrontando la superficie con ringrossi di malta. Nella operazione della sprofilatura della volta poteva capitare il caso di dover ritoccare anche il profilo delle appese; ciò avveniva specialmente nel caso in cui le appese erano state predisposte in tempi precedenti, per tener conto di futuri ampliamenti, quando ancora non era stata determinata la luce del vano adiacente e quindi il profilo o la centina delle formate. Alla stabilità della volta concorreva non solo la “carica” ma anche il rinfianco delle formate che a volte veniva realizzato con una malta di detriti tufacei grossi, impastati con terreno vegetale e calce (murtieri).
centro storico di Galatina

 

  • Tutti questi accorgimenti non potevano prescindere dalla realizzazione del successivo intonaco che, a volte, nascondeva anche inevitabili approssimazioni che venivano operate nella messa in opera di conci delle formate e dei cappucci e che per questo non ha senso metterle in vista, stonacandole, perché in tal modo si perde quell’obbiettivo di esaltazione del senso di unitarietà e leggerezza che viene trasmesso da una volta a squadro, anche in rapporto ad una volta a botte: quest’ultima sì, se piace, può essere portata a vista perché non nasconde quasi mai approssimazioni di sorta.
  • In altri casi, per esaltare l’aspetto delle vele, il risalto veniva raccordato con una sezione curvilinea che contribuiva a evidenziare la leggerezza della calotta.
  • Nel caso di volte di vani contigui coperti con volta a spigolo, la coppia di formate adiacenti costituiva la “formata volante” che permetteva l’eliminazione del muro di divisione tra i due ambienti per la parte compresa tra le appese.
  • Per procedere alla costruzione della volta, si predisponeva un’impalcatura chiusa, costituita da tavoloni appoggiati a due travi in legno infisse nei fori predisposti nei muri, con una apertura di passaggio al centro in cui veniva appoggiata una scala a pioli in legno. per realizzare la formata si predisponeva la forma in legno, costruita con l’impiego di un murale da 8×8 o 10×10 cm., a secondo della luce dell’ambiente, su cui veniva fissata una poligonale avente press’a poco l’andamento dell’intradosso della formata, ottenuta inchiodando delle assi in legno della lunghezza di 60-70 cm. (“penne ti forma”) sostenute anche da radiali inchiodate al murale. Sulla poligonale così ottenuta si segnava l’andamento dell’intradosso della formata e si regolarizzava il profilo tagliando le differenze con l’ausilio di un’ascia da falegname.
  • Da tutto ciò deriva una migliore ripartizione dei carichi e delle spinte, con conseguente riduzione dei valori unitari delle sollecitazioni, sulle zone di muratura in corrispondenza degli angoli degli ambienti che, nel caso di grandi dimensioni vengono ringrossati formando dei sorta di pilastri a “L” (ricchie o ricchiature).
Torre della masseria Termite in agro di Nardò (ph. F. Suppressa)

 

Tratto dal volume di seguito riportato, per gentile concessione dell’Autore:

L’arte del costruire nel Salento. Gli arnesi del mestiere

di Mario Colomba

Gli arnesi del mestiere (li fierri)

La descrizione delle modalità in cui si sono svolti quei lavori che hanno portato alle realizzazioni che noi oggi ammiriamo non può prescindere dalla conoscenza degli strumenti, delle attrezzature, degli utensili e, in una parola, del cantiere come si presentava, a mia memoria, dagli anni 50 in poi e che praticamente riproduceva le condizioni che si andavano ripetendo da qualche millennio con le stesse modalità.

Per questo è opportuno descrivere preliminarmente non solo l’atmosfera, l’organizzazione produttiva da cui scaturiva il prodotto finale, ma anche gli strumenti e le attrezzature che venivano impiegati nelle varie categorie di lavorazioni che si svolgevano in un cantiere edile:

 

  • per l’estrazione dei conci di tufo veniva adoperato:-   per i lavori di scavo venivano usati:   –   per il confezionamento della malta occorrevano:
  •    Il setaccio (farnaro o sitella o rezza a secondo della dimensione dei fori);
  •    il piccone (lu zappone) e la pala;
  •    il piccone (lu zueccu);

la calderina (recipiente metallico tronco conico della capacità di circa 11l. provvisto di due maniglie contrapposte fissate sul bordo superiore).

la pala, molto simile alla vanga;

Il ruezzulu (sorta di zappa con manico lungo   inclinato, di legno)

–   per lo squadratore occorreva:

una mannaia (mmannara di peso e dimensioni variabili; per la pietra leccese si usava quella più pesante) costituita da un’ascia a doppio taglio (uno più grande “occa” ed uno più piccolo “pinnulu”) con manico in legno leggermente ricurvo;

uno squadro metallico i cui lati misuravano circa 70 e 35 cm;

un metro a stecche ripiegabili;

una taglia (sorta di staggia in legno – tagghia)

–   gli attrezzi del muratore erano:

la cazzuola, (cucchiara –cucchiarottu)

il martello,

il filo a piombo, (costituito da piombo e mazzola)

la corda (firazzulu)

la livella (ma anche l’archipendolo; senza dimenticare che nelle località rivierasche si usava traguardare il piano orizzontale dei cornicioni col livello del mare, quando era calmo, all’orizzonte)

un metro a stecche ripiegabili.

una mannaia (mmannara).

 

Tratto dal volume :

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento. La produzione edilizia

di Mario Colomba

Quello che cercherò di riportare in queste note non sono nozioni tecniche per impegnative verifiche di stabilità o conoscenze di geometria per il tracciamento di curve e sagome dei diversi tipi di manufatto. Mi limiterò a descrivere, quasi esclusivamente, l’insieme di operazioni che concretamente venivano effettuate dalle maestranze e dai collaboratori, cioè cercherò di rispondere alla domanda spontanea: “come facevano?”.

 

La mano d’opera

L’organizzazione della produzione si fondava sulla composizione della squadra che a sua volta era costituita da un numero costante e fisso di addetti che, come forza lavoro, venivano identificati con una sineddoche in base all’attrezzo principale che utilizzavano (cucchiara, mmannara, ecc.) e che generalmente, salvo il caso di lavorazioni particolari, erano:

– un muratore; detto cucchiara (cazzuola)

– uno o più squadratori; detti ‘mmannara (mannaia)

– un manovale;

– uno o più garzoni.

A questi, in alcuni casi, si aggiungevano degli specialisti come gli scalpellini, per la realizzazione di pezzi scolpiti o scorniciati o in bassorilievo di pietra leccese, oppure, , fino oltre la metà degli anni ‘60 del secolo scorso, posatori di pavimenti e rivestimenti dotati di particolare perizia nella costruzione delle cosiddette cucine economiche, in sostituzione degli antichi focolari domestici.

– Il muratore (cazzuola – cucchiara) era l’operatore principale addetto alla posa in opera dei conci (cuzzetti) che allettava con la malta, disponendoli in file regolari e allineandoli con l’uso di una corda. gli utensili personali che adoperava erano la cazzuola, il martello da muratore, il filo a piombo (lu chiumbu), la corda sottile (firazzulu) ed un metro a stecche ripiegabili.

– lo squadratore (‘mmannara) provvedeva a squadrare i conci con le modalità che vedremo separatamente. nelle fasi di costruzione, lo squadratore componente della squadra, al servizio del muratore, provvedeva al taglio dei conci a misura e alla preparazione di pezzi speciali poiché i conci ordinari da murare erano stati già preparati in precedenza e accatastati nei pilieri.

– Il manovale trasportava a spalla i conci necessari, inerpicandosi anche su scale a pioli, al progredire dell’altezza della muratura.

– I garzoni erano addetti alla preparazione della malta che trasportavano nelle vicinanze del muratore adoperando appositi contenitori metallici troncoconici detti calderine, della capacità di circa 11 litri.

Sia i manovali che gli squadratori erano provvisti di un grembiule di tela bianca (antìle), allacciato alla vita ed esteso fin quasi alle caviglie, che i manovali arrotolavano e ripiegavano sulla spalla prima di appoggiarvi il concio da trasportare.

Più unità produttive (squadre) costituivano la forza lavoro dell’attività di impresa guidata dal maestro.

Tutta l’organizzazione produttiva costituiva un sistema in cui non potevano esistere, se non molto raramente, raccomandazioni (limitate generalmente all’offerta di un’opportunità). Si progrediva per abilità, dimostrata anche indipendentemente dai dati anagrafici.

Soprattutto i manovali provenivano spesso dall’agricoltura. infatti, per i giovani, il trasferimento nell’edilizia rappresentava una speranza di avanzamento sociale per un complesso di motivi:

– il passaggio da un settore a scarso reddito legato alla variabilità degli eventi meteorologici ad un altro che conferiva maggiore dignità e certezza del futuro;

  • tipo di rapporto di lavoro quasi mai padronale ;   – la minore precarietà del rapporto di lavoro, Infatti, ai braccianti agricoli il salario veniva corrisposto giornalmente, esattamente la sera in piazza, dove si sperava di ricevere l’incarico di lavoro per il giorno dopo, mentre il salario dei muratori veniva corrisposto settimanalmente, il sabato sera;C’era chi, partendo da garzone della malta, riusciva a diventare cucchiara (cazzuola) anche a vent’anni e chi restava manovale anche in età relativamente avanzata o chi rimaneva a fare lo squadratore a vita.nell’ambiente di lavoro c’era una sorta di spensieratezza e di infantile licenziosità, mai eccessivamente volgare. Si rideva con poco e non erano infrequenti lazzi ed espressioni pesanti di riferimento sessuale, solo quando il “maestro” era assente. Spesso si manifestavano con il canto di stornelli allusivi e canzoni popolari che venivano scandite dal ritmo delle lavorazioni manuali generalmente poco rumorose.Ritengo che non si possa apprezzare la validità di un manufatto edilizio senza conoscerne le modalità realizzative.I conci venivano squadrati secondo precise tipologie che comprendevano:
  • – i tuttuni o legatore – squadrati solo sulle due teste           e sugli assetti;
  • – le curesce – usati nei paramenti delle murature a due teste;
  • – i purpitagni (perpedagni) – usati nei muri ad una testa;
  • – le appese – inizio delle formate delle volte – conci in parte incastrati nella muratura ed in parte sagomati secondo l’andamento dell’intradosso delle “formate”, caratterizzati da una complicata stereotomia (che veniva realizzata solo da alcuni squadratori specializzati) e che richiedevano una particolare perizia sia nella scelta dei conci più adatti allo scopo che nella determinazione delle forme geometriche di ciascun elemento.
  • – i pezzi scorniciati – per le cornici e cornicioni in tufo.                                                                                                             Tralasciamo le lavorazioni esclusive dei conci in pietra leccese ad opera di scalpellini o addirittura di scultori.

Maestri e maestranze nel cantiere edile a Nardò e nel Salento

L’organizzazione del lavoro – Il Maestro

di Mario Colomba

L’organizzazione del lavoro nel settore edile (ma anche nelle altre categorie artigianali) era di tipo gerarchico, piramidale, e faceva capo ad un unico soggetto. Il Maestro era solitamente una persona di notevoli competenze sia specificatamente tecniche che amministrative. In pratica era un imprenditore dotato di facoltà organizzative, capace di direzione tecnica ed amministrativa, spesso acquisite per discendenza familiare, direttamente dal padre o da un parente prossimo e, comunque, da un altro maestro che ne aveva curato la formazione e la crescita culturale.

Le caratteristiche personali tecnico-culturali-morali del maestro erano quelle tramandate da tante generazioni e abbastanza corrispondenti alla connotazione formulata da Vitruvio “…non sia avido o con la mente preoccupata di ricevere gratificazioni, ma tenga con decoro la sua posizione ben curando la propria reputazione. Nessun lavoro può condursi a buon fine senza onestà e incorruttibilità e, sempre secondo le raccomandazioni di Vitruvio. “…e i capicostruttori stessi non avrebbero fatto scuola a nessuno che non fosse loro proprio figlio o parente, ma poi li allevavano in modo che riuscissero buoni uomini “.

Generalmente era una figura carismatica che si faceva carico dei problemi anche personali dei suoi dipendenti, tanto da poter disporre di questi con la stessa ed anche maggiore autorità del padre di famiglia dal quale riceveva ampia delega all’uso ove necessario anche di maniere forti come avveniva normalmente anche per gli scolari che venivano affidati al maestro al quale nessun genitore si permetteva di rimproverare l’uso di qualche scappellotto.

Non era infrequente che il maestro, come datore di lavoro, venisse anche investito della responsabilità di recupero di qualche ex detenuto perché venisse ricondotto al mondo del lavoro, spesso con sorprendenti risultati di integrazione.

La possibilità di ottenere nuove commesse o nuovi appalti dipendeva non solo dalla competenza dimostrata in precedenti realizzazioni ma anche dalle sue qualità morali e dalla stima di cui godeva nella società.

A questi veniva riconosciuta automaticamente una autorevolezza sociale, una rispettabilità ed un prestigio corrispondenti alla qualità ed alla importanza delle opere precedentemente realizzate, cioè alla capacità dimostrata sul campo, alla provata esperienza.

Tuttavia, non era per niente facile immettersi nell’attività produttiva, pur con la necessaria stima della collettività, senza adeguate referenze. Per questo, aver realizzato opere importanti per conto di personaggi celebri o notoriamente conosciuti, che avevano un notevole ascendente sulla cittadinanza, contribuiva ad accrescere l’affidabilità e costituiva una sorta di referenza, come reminiscenza di una sorta di “patronato” di romana memoria, utile anche per proporsi e proporre la propria opera presso nuovi clienti anche di altri paesi.

Il maestro, oltre ad essere il detentore dei beni strumentali necessari alla produzione e di un minimo di capitale che gli permettesse di anticipare le paghe settimanali degli addetti alle sue dipendenze ed il costo dei materiali impiegati, era, certamente, una persona dotata di ingegno e di spiccata sensibilità, non rara nell’ambiente artigianale, dove la ricerca della perfezione e l’apprezzamento dei canoni estetici espressi nelle varie attività creative erano condensate nel bagaglio culturale personale (background).

Pur essendo condizionato dal rispetto e dalla conservazione delle conoscenze tradizionali, era aperto al forte richiamo di tutto ciò che rappresentava il progresso ed era stimolato da quell’ansia creatrice che è propria degli innovatori convinti. Tuttavia nelle sperimentazioni e nell’attuazione delle innovazioni (basta pensare alle innumerevoli varianti delle volte lunettate) non sempre l’esito risultava positivo e per questo veniva accettata una certa tolleranza, condensata nel proverbio dialettale “ci face pane e cofane li sbaglia” (chi fa il pane e il bucato può sbagliare) come dire :solo chi non fa niente non sbaglia mai.

Era, generalmente, una persona dotata di profonda umanità per cui era benvoluto dai suoi dipendenti con cui, nel rispetto dei rispettivi ruoli, sorgevano spesso vincoli di amicizia e familiarità. La sua provata onestà era dimostrata dal fatto che non venivano mai registrati arricchimenti improvvisi e che la mole delle opere, anche notevole, prodotta con il coinvolgimento, senza corrispettivo, dell’intero proprio nucleo familiare, gli procurava una certa agiatezza, non certo la ricchezza. Era dotato di coraggio nell’intraprendere, di passione per l’arte con le sue regole e di una buona dose di ambizione per conseguire il consenso e la stima necessarie non solo per lo sviluppo della propria attività ma anche come mezzo di distinzione e superamento dello stato sociale attraverso il riconoscimento del proprio talento e delle proprie capacità realizzative.

Soprattutto, però, era il geloso custode delle norme e delle tecniche non scritte dell’arte muraria che gli permettevano anche, in assoluta autonomia, di realizzare importanti opere pubbliche e private, utilizzando l’esperienza accumulata dalle precedenti generazioni che gli avevano tramandato, nel bene e nel male (cioè con le esperienze positive e negative), le informazioni orali e le conoscenze su tutto ciò che era stato costruito, necessarie per perseguire il fine ultimo della firmitas – utilitas – venustas ( stabilità – utilità – bellezza), sempre secondo le raccomandazioni di Vitruvio.

Il maestro trasmetteva tutto ciò, insieme ai cosiddetti segreti del mestiere, a quei soggetti (discepoli) che riteneva più dotati non solo di talento naturale ma anche di interesse e curiosità, inclini e capaci di recepire e ritrasmettere successivamente quanto veniva loro rivelato: cioè un apparato di regole generato dalla conoscenza degli effetti (L. B. Alberti: è la conoscenza degli effetti che genera l’apparato di regole cui deve sottostare chi costruisce), dall’esperienza, cioè dalla verifica sul campo della teoria, che in chissà quante occasioni aveva prodotto esiti infelici prima di pervenire a risultati definitivamente positivi.

Per questo c’era da parte degli interessati (discepoli-apprendisti) una grande attenzione nell’apprendere tutto ciò che il maestro insegnava loro giorno per giorno e nel ripeterne non solo gli insegnamenti ma anche i comportamenti morali. poiché l’apprendimento delle regole dell’arte rappresentava un possibile avanzamento anche sociale oltre che professionale; si faceva di tutto per essere nelle grazie del maestro, dimostrando innanzitutto buona educazione, obbedienza e rispetto.

Il rispetto consisteva principalmente nel non mettere in discussione gli apprezzamenti anche negativi del maestro ma nell’accettare lealmente le conseguenze dei propri errori assumendosene le relative responsabilità anche perché non si era ancora affermata la cultura o meglio l’andazzo della giustificazione a tutti i costi col risultato, come avviene ai nostri giorni, di una illimitata impunità.

Non era infrequente, però, il caso di chi, bruciando le tappe, approfittando di favorevoli transitorie occasioni, si organizzava a lavorare in proprio, per poi tornare, a volte, dopo esperienze infelici, al lavoro subordinato (lu discipulu diventa mesciu e ti mesciu torna a ‘mparare) o di chi assumendo una autonoma capacità produttiva non mostrava più alcuna riconoscenza per la formazione ricevuta, disconoscendo anche l’origine della propria competenza, fornendo così, a quanti invece ne erano informati, la dimostrazione della propria profonda ignoranza anche di quei principi di onestà e lealtà che qualcuno aveva tentato di insegnargli, dando così credito a quell’antico adagio “l’ingratitudine umana è più grande della misericordia divina”.

All’interno della struttura produttiva esisteva un’atmosfera di sana competizione in cui emergevano le migliori capacità tecniche ed attitudinali personali, corrispondenti non solo ad una maggiore produttività (destrezza, velocità di esecuzione, precisione, ecc.) ma anche a sensibilità e talenti insospettati che progredivano col tempo e con l’acquisizione di sempre nuove conoscenze alimentate dalla passione per l’arte, da una moderata ambizione e da una inappagata curiosità che resta sempre la base della conoscenza. Sensibilità e talenti che si manifestavano anche nella continua ricerca ed acquisizione del gusto del bello che non era riferito soltanto all’ambito figurativo, per esempio nella scelta della sagoma di una voluta di un capitello o di un pezzo scorniciato, ma anche nella competenza per saper apprezzare un “pezzo” di musica operistica eseguito da una tale banda musicale o tal’altra, per la quale si faceva il “tifo” ai piedi della cassa armonica in occasione delle feste di paese.

Da parte del maestro queste caratteristiche individuali venivano ricercate e recepite come sinonimo di intelligenza e disponibilità all’apprendimento e costituivano l’indispensabile premessa per conseguire quel trasferimento di capacità che si ripeteva di generazione in generazione e che rappresentava la naturale gratifica degli insegnamenti, fino all’orgoglio, specialmente dei maestri di bottega, di vedersi anagraficamente sostituire da chi era stato professionalmente allevato come una propria creatura.

Il cantiere, anche di piccole dimensioni, oltre ad essere una scuola di formazione professionale era una scuola di vita. La prima regola fondamentale era il rispetto. Rispetto non solo per l’anzianità anagrafica ma soprattutto per le capacità tecniche. una parola fuori posto o un comportamento screanzato potevano costituire una bocciatura definitiva ed una emarginazione in ruoli secondari e chiusi a qualsiasi prospettiva di miglioramento nell’organizzazione produttiva o addirittura il licenziamento in tronco.

La fame e una certa dose di ambizione erano le molle che facevano tendere al progresso e all’espansione della capacità produttiva, sempre commisurata alle reali possibilità tecniche ed economiche del maestro. Queste caratteristiche erano il germe naturale originario dal quale   pervenire alla costituzione di una vera impresa industriale intesa come complesso di addetti e beni strumentali razionalmente coordinati ai fini della produzione in cui il maestro-imprenditore aveva trovato, fino agli anni ‘90, il massimo riconoscimento con l’inclusione, nei vari scaglioni, nell’Albo Nazionale dei Costruttori, prima della sua soppressione con la nuova legislazione dei LL.PP., in cui viene privilegiato l’aspetto eminentemente finanziario e capitalistico delle strutture produttive anche nel campo delle costruzioni, eliminando il merito e le capacità individuali e collettive e deresponsabilizzando le persone, con i risultati che sono facilmente riscontrabili sia in termini di qualità che di quantità della produzione, di controllo della spesa e di corruzione dilagante.

 

Il libro può essere acquistato presso la libreria “I Volatori” di Nardò

L’arte del costruire. Il cantiere edile a Nardò e nel Salento

cantiere edile

di Mario Colomba

Nella terminologia corrente dialettale il termine che indicava il cantiere era fatìa (fatica) che esprimeva esaurientemente l’attività prevalente che vi si svolgeva.

Sul luogo di lavoro la struttura organizzativa era fortemente gerarchizzata in rapporto alle specifiche competenze tecniche dei vari addetti, tra i quali si sviluppava un clima di competizione molto leale rivolta a conseguire quel desiderato avanzamento di grado corrispondente alle capacità via via effettivamente raggiunte.

La gerarchia da rispettare era così importante che i vari gradi di competenza professionale superavano anche il rispetto dell’età anagrafica.

Il rispetto di tale gerarchia era rappresentato, per esempio, dalla priorità con cui veniva servita dall’acquaiolo, sul posto di lavoro, la brocca di acqua da bere (prima alla cucchiara, poi alla mannara, quindi al manovale, ecc.) o lo stesso ordine con cui, il sabato sera, i lavoratori venivano chiamati dal datore di lavoro per percepire il salario settimanale.

L’entità della retribuzione del lavoro era fortemente condizionata dalle disponibilità di una committenza pubblica e privata, caratterizzata da endemiche ristrettezze strutturali o, spesso, da eventi atmosferici avversi, vere e proprie calamità, che compromettevano l’intera produzione di un’annata agraria (come ad es. le brinate primaverili che distruggevano i germogli della vite) e che condizionavano tutte le attività produttive della collettività. Per questo, a parte poche qualificate eccezioni, il salario giornaliero rasentava il livello di minima sussistenza. Il capo famiglia anche se qualificato, difficilmente era in grado di sostenere da solo l’onere del sostentamento di una famiglia a volte numerosa. Per questo, spesso la moglie era costretta a procurarsi lavori complementari (sarta, ricamatrice, magliaia, ecc) ed i figli venivano avviati al lavoro anche in età scolare.

In questa situazione il lavoro rappresentava l’unica possibilità di soddisfare, almeno a livello minimo, i bisogni propri e dei propri familiari e quindi l’unica possibilità di fisica sopravvivenza. da qui scaturiva l’impegno e l’interesse con cui venivano svolte le varie mansioni richieste dal ciclo lavorativo (garzone, squadratore, manovale, muratore, ecc.). pertanto, la diligenza, la cura dei particolari, la precisione, la velocità di esecuzione e l’accettazione dei rapporti gerarchici venivano recepiti come elementi indispensabili non solo per assicurarsi gli alimenti, che costituivano, com’è naturale, i mezzi di sostentamento, ma anche per avere una prospettiva di avanzamento sociale e per superare una condizione che, almeno per i garzoni ed i manovali, era molto prossima alla schiavitù di epoca romana.

Tuttavia, l’atmosfera che regnava in un cantiere era di profonda collaborazione e di amichevole solidarietà tra i vari addetti e spesso, i normali rapporti di amicizia costituivano la premessa di successivi vincoli di parentela. Prevaleva un forte senso di responsabilità per esempio del manovale che doveva affrettarsi a disporre i conci sul muro in corso di costruzione, in numero sufficiente perché il muratore (cucchiara) non ne restasse mai sprovvisto, fino alla conclusione del corso (linea ); oppure notevole era la responsabilità dei garzoni addetti a preparare e alimentare la malta che, d’inverno, quando la tufina bagnata era difficile da setacciare, si affannavano a raspare dal terreno i detriti tufacei che man mano si accumulavano al piede dei banchi (anchi) dove operavano gli squadratori.

ricevuta per soggiorno di lavoratori marmisti nell’albergo De Monte a Nardò nei primi anni del 1900 nella cattedrale di Nardò (archivio Fondazione Terra d’Otranto)

 

Il lavoro di squadra era fondamentale anche per alleviare le pesanti fatiche che ricordavano la schiavitù dei secoli passati. vale la pena, per questo, ricordare con quale spirito di collaborazione e solidarietà venivano messi in opera i pezzi di scala cioè i gradini di una scala diritta tipica delle case a schiera del ‘900. I pezzi di scala erano dei conci monolitici delle dimensioni di m. 1.10×0.30×0.20-0.25 e perciò del peso di circa kg.100. I primi 5 o 6 gradini venivano collocati, appoggiandoli per cm. 5 per parte, negli alloggiamenti dei due muri longitudinali che limitavano il vano scale, da due operatori, uno per ciascuna testata, a mano a mano che procedevano le murature in elevato. Ogni gradino successivo al sesto non poteva più essere collocato da operatori che agivano dal piano pavimento e perciò, il pezzo doveva essere trasportato, su per la scala in costruzione, fino al sito di appoggio. Per lo scopo, il pezzo di scala del peso di circa kg. 100 veniva caricato allineandolo alla colonna vertebrale del manovale che si disponeva carponi “a muscia” e che, mentre i compagni di lavoro tenevano in equilibrio il pezzo, avanzava gattoni fino all’ultimo gradino già messo in opera, dove ruotava orizzontalmente di 90° consentendo così ai due muratori (uno per ogni testa) di sollevare il concio, liberando il manovale, e alloggiandolo definitivamente sugli appoggi a dente di sega predisposti.

Il lavoro, anche se pesante, veniva svolto generalmente in un clima giocoso, in cui si incrociavano i discorsi di carattere privato, familiare e personale con battute salaci ed epiteti affibbiati però senza malanimo, che contribuivano a sdrammatizzare ed alleggerire il peso della quotidiana routine.

(da Mario Colomba: Le pratiche dell’arte del costruire nel territorio di Nardò e dintorni. Appunti di viaggio nel mondo dei fabbricatori e degli artigiani nella metà del ’900, per gentile concessione dell’Autore).

Mario Colomba

Sullo stesso Autore vedi:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/12/libri-larte-del-costruire-nardo-dintorni/

https://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/15/95063/

Antichi sistemi di copertura per le abitazioni salentine

Nardò nel 1732

di Fabrizio Suppressa

 

I motivi di una così diffusa tecnica di copertura sono da ricercarsi esclusivamente nell’esiguo costo dei materiali impiegati, rispetto alle ben più costose e complesse volte in muratura; ma ciò non significava affatto che tale tecnica sia stata in passato appannaggio delle architetture più semplici e povere. Sovente, anche i palazzi nobiliari possedevano all’ultimo piano tali coperture, anche se mascherate da alti frontoni, come ad esempio Palazzo Castriota a Melpignano, Palazzo Rescio a Copertino o tanti altri esempi, riconoscibili ai giorni nostri per l’ultimo piano a “cielo aperto”.

Anche la campagna non era da meno; nel libro dei conti della masseria S. Chiara in agro di Nardò, leggiamo infatti che nel 1684 si ebbe modo di rifare l’acconcio delle capanne, e per tale scopo venne chiamato un mastro dalla vicina città di Veglie[1]. Le capanne, ovvero gli elementi pertinenziali, quali abitazioni e magazzini, non erano i soli elementi realizzati con tali semplici tecniche costruttive. In alcuni casi, anche la torre, l’elemento fortificato al centro di ogni complesso masserizio, possedeva alla sua sommità due falde inclinate, anche se ciò comprometteva un’abile manovra di difesa piombante. Per rimanere in ambito neretino, questo è il caso della masseria Nucci; dove purtroppo dobbiamo constatare l’introduzione durante i lavori di ristrutturazione di tegole non appartenenti alla nostra tradizione costruttiva, stese al di sopra di una vistosa soletta in cemento armato su di una torre del XV sec. Un ultimo esempio è una particolare architettura spontanea nata dalla fusione degli elementi tipici di città e campagna: la caseddhra. Una costruzione a secco a pianta rettangolare con una stretta somiglianza all’immagine dei nostri trulli, ma al contrario di questi ultimi, non coperta da una falsa cupola bensì da un tetto formato da una rustica struttura di legno, canne e tegole.

caseddhra
Caseddhra (dis. F. Suppressa)

 

Le caratteristiche di deperibilità e fragilità dei materiali impiegati erano tali che ciclicamente si doveva provvedere allo smontaggio e alla ricostruzione del tetto. E’ difficile quindi trovare ai giorni nostri opere che abbiano più di cento anni. Forse l’unica eccezione è racchiusa all’interno delle mura del Santuario di San Giuseppe da Copertino; la costruzione eretta dal maestro Adriano Preite nel 1754 conserva intatta l’umile stalletta dove nel 1603 il Santo venne alla luce.

La tecnologia, come già detto, era semplice e rapida. Un sistema di travi di legno chiamati murali poggiante sulle esili pareti di tufo, ospitava in senso ortogonale un assito di tavole su cui gravitava il manto di tegole. Solitamente a causa del costo più elevato, si ricorreva ad un “surrogato” delle tavole di legno, ovvero un cannizzo su cui veniva posta della malta (mista a paglia o pula di grano) per uno spessore di circa cinque centimetri. Nonostante la tecnica era ad uso di ambienti più umili, la copertura incannucciata garantiva un apprezzabile isolamento termico (le canne palustri e la malta mischiata con paglia, sono infatti materiali sostenibili impiegati oggi nella bioedilizia). In caso di ampia superficie da coprire, la struttura lignea diveniva molto più elaborata, l’Arditi nel suo “L’Architetto in Famiglia”, edito a Matino nel 1894, ci ricorda le varie parti dell’intelaiatura, che a seconda della funzione prendono il nome dialettale di monaco, braccia, razze, asinello e panconcelli.

Copertura Incannucciata
Copertura incannucciata, masseria Sarparea de’ Pandi (ph. F. Suppressa)

 

Altrettanto curioso è il termine dialettale usato per indicare la tegola, ovvero l’imbrice (irmice o ‘mbrice in alcune varianti). L’assonanza ricorda la parola embrice, tegola piatta diffusa nell’area tirrenica nella tradizionale copertura alla romana, eppure la nostra tegola dalla forma concava corrisponde alla parola italiana coppo. In soccorso interviene il Marciano (anch’egli abitava in una casa con tetto a capanna), che nel capitolo del suo libro dedicato al regno minerale ci scrive quanto segue:

“Si trova anche in questa Provincia la Rubrica Sinopia eccellentissima, e la fabbrile dell’una e dell’altra specie in abbondanza, e l’argilla, ovvero creta bianca, della quale si lavorano e fanno i tetti per coprire le case, che il volgo chiama imbrici, imitando l’etimologia ed il nome latino Imbrices, ab imbrium defensione, (..)”[2].

Tali laterizi venivano realizzati in centri urbani specializzati nelle produzioni ceramiche, come Cutrofiano, Grottaglie, Lucugnano e San Pietro in Lama; non a caso, quest’ultima località era conosciuta in passato anche con il nome di San Pietro degli èmbrici[

A fine Ottocento, con l’aumento dell’attività estrattiva dei materiali edilizi e il perfezionamento delle tecniche costruttiva inizia la rapida scomparsa dallo scenario urbano di questo tipo di copertura. Il cocciopesto, un impasto di malta e cocci finemente triturati, utilizzato per secoli per impermeabilizzare i terrazzi di edifici di notevole importanza, viene rapidamente sostituito dalla tecnica del lastrico composto da chianche in pietra di Cursi e cemento; tuttora abilità fiore all’occhiello delle maestranze salentine.


[1] Antonio Costantini, Le masserie fortificate del Salento meridionale, Galatina, 1984, p. 74

[2] Spero in una conferma Prof. Polito!

 

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