Tradizioni ed edilizia funerarie a Spongano

di Giuseppe Corvaglia

 

Nel 1600, come in tutti i paesi di Terra d’Otranto, a Spongano non c’erano cimiteri e i defunti venivano seppelliti nelle chiese. La Chiesa Madre aveva le tombe della comunità che, successivamente, saranno differenziate in: quelle per i sacerdoti, poste vicino all’altare maggiore, quelle per i nobili (sepulchra nobilium) anch’esse poste in prossimità dell’altare o vicino agli altari della famiglia, quelle delle vergini (tumbae virginum), quelle dei bambini (parvulorum sepulchrum) e quelle degli altri abitanti. La prima a essere sepolta in Chiesa Madre, nel 1604, fu una certa Domenica Gallona.

Ancora oggi si può osservare il pavimento della sacrestia, in parte ristrutturato, ma in parte ancora irregolare, deformato dalla pressione dei gas, formati dai processi di decomposizione dei corpi.

I nobili, come detto, avevano urne vicino agli altari, di cui avevano jus patronato, o una tomba vicino all’altare maggiore, ma alcuni di essi potevano essere sepolti nelle cappelle patrizie di proprietà.

Accadeva per gli Scarciglia e i Riccio, ad essi imparentati, che tumulavano i propri defunti nella Cappella di San Teodoro, fatta erigere da Don Pomponio Scarciglia, e per i Bacile che costruirono la propria cappella, prospiciente il Palazzo e dedicata alla Madonna dei sette dolori, grazie all’opera di Don Giuseppe Bacile, Arcidiacono della Cattedrale di Castro. In essa il primo ad esservi tumulato fu Giovanni Antonio, fratello del prelato.

Ricordiamo pure che nella piccola comunità era attiva una Confraternita della Buona morte che garantiva un funerale ai poveri che non potevano permetterselo e pregava in suffragio delle anime, avendo patronato su un altare della chiesa che, in seguito, verrà dedicato a Santa Vittoria.

Quando le fosse della chiesa si riempivano e quando la chiesa fu chiusa, per i lavori di restauro nel XVIII secolo, i defunti furono tumulati nella Chiesa della Madonna delle Grazie che oggi conosciamo come Congrega.

Se il numero dei morti diventava elevato, come accadeva in occasione di epidemie, quali: il colera nel 1836, il vaiolo nel 1880, la difterite nel 1886, la scarlattina, il morbillo nel 1888… si ricorreva al cimitero epidemico (Agro Sancto Epidemico) che si trovava sulla via per Surano, in Contrada Taranzano. La rivoluzione francese aveva affrontato il problema delle sepoltura con l’uso delle tombe comuni poste a distanza dai centri abitati.

A Spongano, come in tutto il Regno delle Due Sicilie, si comincia a parlare di Cimitero solo nel 1817, quando una legge, “per garantire la salute pubblica, ispirare il rispetto dei morti, e conservare la memoria degli uomini illustri”, dispose che i defunti venissero inumati o tumulati in luoghi appositi, chiusi da mura e da un cancello, distanti almeno un quarto di miglio dal centro abitato. A Spongano e nei comuni associati, Surano e Ortelle, si cercarono i siti per la costruzione del cimitero locale. Per Spongano si individuò un luogo detto “Vignamorello”, posto fra l’attuale piazza Diaz e la ferrovia, dove c’era una grotta, usata come neviera in disuso, che avrebbe consentito di inumare le salme più agevolmente.

L’iter fu travagliato e furono proposti, negli anni, altri luoghi, ma senza mai decidersi a realizzarlo, nonostante un altro dispositivo, il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840, reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840.

A questo contribuì l’opposizione, più o meno palese, del Clero, che traeva benefici economici dal tumulare i morti nelle chiese, la credenza dei fedeli che la tumulazione in Chiesa, vicino alle reliquie dei santi e luogo di preghiera, fosse migliore e, soprattutto, la necessità delle varie amministrazioni di stornare i fondi destinati ai cimiteri per spese più necessarie e urgenti, differendo la soluzione del problema.

Nel 1880 la Regia Amministrazione Sabauda ritorna alla carica con leggi apposite e stimola decisamente i Comuni a dotarsi di un Cimitero. In questa temperie, i Decurioni, nel 1883, decidono di costruire il nuovo cimitero acquistando all’uopo un fondo denominato “Campo San Vito” sulla via per Ortelle. Il progetto fu fatto dall’Ingegner Pasanisi e fu approvato dal Genio Civile nel 1885.

Il Camposanto fu inaugurato l’11 maggio 1885 e già il giorno dopo vi fu sepolto il primo sponganese, Ruggero Alamanno. Da allora non furono più seppelliti morti in chiesa (l’ultima salma fu tumulata in Chiesa il 1° maggio 1885).

Ingresso del cimitero di Spongano

 

Architettonicamente possiamo dire che, nel complesso, la parte più antica risente di quel gusto architettonico, molto in voga nell‘800 fino agli inizi del ‘900, chiamato Eclettismo, qui particolarmente evidente, che utilizza in libertà tutti gli stilemi architettonici del passato, come modelli di riferimento, per progettare edifici esteticamente belli che colpiscono il gusto del fruitore ancora oggi.

La facciata, austera, si ispira a un’architettura classicheggiante; in alto al centro è scolpito il chrismon con ai lati l’alfa e l’omega, all’apice una croce (caduta e non più ripristinata) con due fregi ai lati.

Statua di Cristo risorto di A. Marrocco

 

Sempre all’ingresso sono situate due epigrafi in latino che ammoniscono gli umani.

Una riporta “La mia carne riposa nella speranza” (CARO MEA REQUIESCET IN SPE) e l’altra dice “Il corpo corruttibile e mortale dell’uomo conduce all’immortalità”  (MORTALE INDUET IMMORTALITATEM).

 

 

Alcuni anni fa è stata posta, nel piazzale antistante, una bella statua bronzea dell’artista contemporaneo Armando Marrocco che rappresenta Gesù risorto.

Anche la tomba comune, dove trovavano sepoltura tutti i cittadini che non avessero una tomba propria, si ispirava a un sobrio classicismo. L’ingresso, sormontato da un timpano con un bordo modanato in pietra leccese, aveva due nicchie laterali e una porta centrale che conduceva a un semi-ipogeo, che ricordava le catacombe, dove vi erano i loculi che accoglievano le salme e una fossa comune (a carnara). In fondo, al centro, vi era un altare dedicato alla Madonna del Carmine, oggi restaurato. Negli scorsi anni è stata restaurata la tomba comune ricavando al piano terreno dei colombari nuovi e un ampio ambiente coperto; la nuova facciata riecheggia la forma della vecchia struttura.

Più o meno coeve sono diverse cappelle gentilizie, costruite con stili diversi, anch’essi liberamente ispirati all’Eclettismo.

Anche a Spongano, come in quasi tutti i comuni del Salento, le famiglie nobili, borghesi o benestanti, sentivano la necessità di costruire la propria cappella funeraria per custodire le spoglie dei propri cari, ricordarne la memoria, ma anche per ostentare il proprio stato.

La materia usata, prevalentemente, è la pietra leccese che, come dice Gabriella Buffo nel suo articolo su Fondazione di Terra d’Otranto, “Edilizia funeraria a Nardò e nel Salento”, “diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte”.

Entrando si può ammirare, sulla sinistra, la tomba della famiglia Rizzelli che sfoggia uno stile classico arricchito, da ghirlande di fiori, scolpite nella pietra leccese. La facciata è abbellita da due colonne sovrastate da un timpano semicircolare che si ripete sui quattro lati. Lo stesso stile classico si può osservare nella più discreta tomba dei Rini.

Cappella della famiglia Rizzelli

     

Particolare della cappella Rizzelli (lato nord)

  

Di fronte vi è la cappella della famiglia Coluccia che richiama uno stile neoromanico, come la cappella della famiglia Scarciglia che si trova più avanti. In quest’ultima, oltre al raffinato portale, che richiama le decorazioni di Santa Caterina in Galatina e di San Nicolò e Cataldo a Lecce, si nota un bel rosone con al centro una testa di leone.

Cappella Scarciglia

 

particolare con il rosone della cappella Scarciglia

 

Di stile neorinascimentale è la cappella dei Bacile, progettata da Filippo Bacile, architetto e umanista pregevole, sempre seguendo il gusto dell’eclettismo in voga. Il portale è protetto da un elegante loggiato, sormontato da una sorta di baldacchino, con un timpano, sorretto da due colonne, adorne di capitelli corinzi, che reca lo stemma di famiglia e un bordo con gli spioventi decorati a scacchiera, dove si alternano cubetti cavi a cubetti pieni. L’interno della cappella è semplice e le sepolture sono allocante in una parte semi-ipogea.

Cappella della famiglia Bacile

 

Cappella funeraria della famiglia Rini

 

Cappella funeraria della famiglia Coluccia

 

Nel corso degli anni il cimitero è stato ampliato e oggi si possono vedere tombe più moderne, alcune dallo stile essenziale, altre di pregevole fattura come quella che accoglie il Caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya durante una missione di pace. La cappella, progettata dall’architetto Virgilio Galati, presenta sulla facciata uno squarcio che rompe due strati: quello del corpo (pietra leccese) e quello dell’anima (cemento). Un altro squarcio spacca la parete posteriore che, con la sua struttura a lamelle sovrapposte, sembra la corazza di un guerriero e quello squarcio diventa un finestrone irregolare che, orientato a est, accoglie la luce del sole che nasce. All’interno, sulla tomba del giovane milite, si ergono due possenti, ma al tempo stesso elegantissime, ali di angelo in marmo greco. La pavimentazione e la volta riproducono cerchi come pianeti di una costellazione. Il tutto esprime la tensione a volare in cielo, ma, allo stesso tempo, la crudele e dirompente realtà della fine di una giovane vita.

Cappella del caporal maggiore Antonio Tarantino, caduto a Nassirya

                      

particolare della cappella funeraria Tarantino

 

Interessante la cappella di un altro soldato, morto tragicamente mentre era in servizio, Claudio Casarano, figura eclettica di artista prestato all’esercito; in essa è possibile ammirare la riproduzione in marmo di Carrara di una sua scultura in legno d’ulivo, molto suggestiva che esprime il rinchiudersi in se stessi per non vedere la crudeltà del mondo. Interessante anche sulla facciata un sofferente crocifisso in ferro battuto, fatto dal milite nella sua attività artistica.

Particolare della cappella Casarano

 

Pure di interesse è la tomba Polimeno per gli infissi in ferro battuto di Simone Fersino, che si rifanno al mosaico di Pantaleone della Cattedrale di Otranto (l’albero della vita che poggia su due elefanti e Alessandro Magno sui grifoni), e un bellissimo angelo sull’altare, affrescato da Roberta Mismetti in foggia bizantina.

Altra tomba particolare è la tomba Corvaglia, progettata dall’Architetto Sigfrido Lanzilao, posta dietro la tomba Rini. Segno caratteristico è un piccolo arco a tutto sesto che richiama l’arco romano e poggia su due colonne a sezione quadrangolare (o a pilastro) e che, con armonia ed eleganza, sovrasta le tombe e accoglie un crocifisso in legno, ottenuto da un artista ligure con rami rimaneggiati dal mare. Le tombe ai lati sembrano due ali disposte come un abbraccio che accoglie; all’interno ci sono due fioriere una a forma di ciotola votiva e una che richiama un antico mortaio con i simboli della forza e del coraggio (zampa di leone), dell’estro e dell’allegria (uva), del genio e della tecnica (squadra) e della vita ottenuta dalla morte (spiga di grano) opera, come l’arco, di Bruno Polito.

Fino a qualche anno fa c’era un piccolo cenotafio, un vaso commemorativo, in pietra leccese, scolpito e decorato da un genitore affettuoso e valente artigiano, Oronzo Rizzello, per la piccola figlia Graziella, portata via da una malattia e sepolta in una tomba comune. Il vaso (su cui era scritto A GRAZIA RIZZELLO I GENITORI e poco sotto a soli tre anni ti perdemmo, chi ne consolerà) è stato rubato da mani sacrileghe, durante dei lavori di riposizionamento.

Ma il Cimitero non è solo l’insieme di note storiche, stilemi architettonici, lapidi e sculture: il Cimitero è, soprattutto, un crogiuolo di ricordi, talvolta intimi, evocati dai foto-ritratti o dagli epitaffi e di storie, talvolta, solo immaginate.

Tipico esempio di questa evocazione è il giro che si fa il giorno dei morti, quando si vaga senza uno scopo preciso, oltre le solite visite, per cercare un parente più lontano che ci ha lasciato o un amico che non c’è più e, talvolta, ci si perde a immaginare la vita della persona raffigurata in un ritratto antico.

Di quei giorni e di tante domeniche mi vengono in mente le discese veloci dalla copertura della scala della tomba comune, un piano inclinato, pavimentato di chianche, su cui ci si arrampicava e si scendeva d’un fiato. Il pensiero oggi mi fa rabbrividire per il rischio che correvamo, ma all’epoca chi ci pensava?

Anche un luogo così mesto poteva diventare divertente, come le coccole dei cipressi che diventavano biglie … o pallottole.

Io, poi, ogni volta che varco il portale dell’ingresso e vedo la porta sulla sinistra, non posso fare a meno di ricordare il mio bisnonno, Donato, che, come capomastro, partecipò alla costruzione di quel camposanto e, una volta ultimati i lavori, ebbe anche l’incarico di custode notturno che svolgevano a turno i figli i quali, per farlo, dormivano in una cameretta al primo piano sopra la camera mortuaria a cui si accedeva, appunto, da quella porticina.

Quando c’era un morto, gli si legava alle mani una cordicella che saliva fin nella cameretta e si collegava a una campanella che avrebbe suonato in caso di risveglio del trapassato, come accade nei casi di morte apparente (nell’architrave dell’ufficio del custode che una volta era camera mortuaria, è possibile vedere ancora la carrucola e il foro che portava alla cameretta del custode).

Donato Corvaglia capomastro muratore

 

Mi ricordo pure di un altro Donato Corvaglia, un caro amico. Era una persona speciale che, come impiegato comunale, svolse diversi ruoli: netturbino, archivista, messo comunale e alla fine custode del cimitero e “precamorti”. Di lui ricordo la bontà e la bonomia, la cura nell’insegnarci il catechismo, la semplicità e la sensibilità delle sue poesie che amava comporre in quella pace, ma anche la delicatezza e la discrezione nei momenti della sepoltura, quando il distacco fra il defunto e i familiari diventava lacerante. Lui mostrava sempre umana pietà, sensibilità, solidarietà e la giusta fermezza, tutte viatico per l’addio. Ha lasciato in eredità ai suoi colleghi un attrezzo da lui inventato che loro chiamano, affettuosamente, Mangone (era il soprannome patronimico) che serve a scardinare la lastra di pietra murata nelle dissepolture.

E poi, ai più attempati verrà in mente un altro Precamorti mitico: u Paulu.

“Paulu” viveva, praticamente, nel cimitero anche se aveva una sua casa in paese. Vestiva abiti dimessi, era solo e, spesso, accettava la carità di un pasto, offerto per “l’anima dei morti”, o anche solo un bicchiere di vino, due, tre….*

Lui accettava volentieri, ma veniva considerato uno sventurato e, spesso, i ragazzi lo prendevano in giro. Allora lui, quando si arrabbiava, urlava minaccioso: « A cquai ve spettu tutti!!!» ( Vi aspetto tutti qui!!! intendendo al Camposanto).

Aveva preso parte in una sacra rappresentazione della Passione di Cristo, rimasta memorabile, (quella, per intenderci, in cui Mesciu Carmelu Carluccio, cantore, era Gesù) interpretando un efficace e credibilissimo Cireneo che, su quelle spalle malferme, sbilenche, si caricava il segno della redenzione del mondo senza essere il Messia.

Altri aneddoti si raccontano su di lui. In particolare si racconta di una giovane vedova, innamoratissima del marito, morto prematuramente, la quale, ogni giorno, portava sulla sua tomba delle pietanze, come se fosse vivo. Paolo se le mangiava e lei ogni giorno non mancava di rinnovare il suo gesto affettuoso nei riguardi del marito. Un giorno di estate, nel caldo della canicola, era scesa nel colombario sotterraneo e non poteva immaginare che Paolo precamorti si fosse infilato in un loculo per sfuggire alla morsa di quel caldo soffocante. Quando lo vide uscire, per poco non rimase stecchita. Era una donna forte, molto cara, che non morì per lo spavento, ma concluse la sua vita in tarda età con la compagnia di due cani affettuosi per poi ricongiungersi al suo amato Salvatore.

 

 

*Piccola nota di costume.

Nel Salento si usa offrire delle cose da mangiare, specie a chi è più sfortunato, per ottenere delle preghiere in suffragio delle anime defunte. È quasi come offrirle al caro che non c’è più e, spesso, il cibo o il frutto offerto è quel cibo o quel frutto che piaceva particolarmente al caro estinto.

Talvolta si sogna un caro che manifesta il desiderio di un cibo e si cerca di soddisfarlo, dando quel cibo a qualcun altro che quel cibo può mangiarlo fisicamente. C’è chi racconta di aver regalato dei cibi a qualcuno e che il caro estinto sia andato poi in sogno, esprimendo soddisfazione per quel pasto.

In particolare una conoscente, riferiva di aver preparato e donato delle sagne col sugo da portare a una famiglia benestante che, però, non apprezzava particolarmente quel dono. La domestica, incaricata del servizio, un giorno aveva fame, si sedette e se le mangiò. Dopo aver mangiato si sentì ristorata e soddisfatta e, come si usava, pregò il riposo eterno ai defunti della donatrice. Nei giorni successivi, chi aveva donato il cibo sognò il defunto che mangiava le sagne, seduto su alcuni gradini. Quando la donna rivide la domestica, per ripetere il dono, le chiese se le sagne erano arrivate a destinazione. Di fronte alle domande insistenti, la donna raccontò la verità e il posto dove le aveva mangiate era lo stesso dove, nel sogno, il caro defunto si era seduto a mangiare. Da allora le sagne, quando preparate, furono destinate alla domestica.

Un’altra volta, un’altra massaia aveva mandato del pesce fritto da portare in dono e chi lo portava, inciampando, ne fece cadere, accidentalmente, alcuni. Non poteva rimetterli nel piatto, ma non voleva buttare quel ben di Dio. Così li pulì dalla polvere e se li mangiò con gusto pregando un Recumaterna alli morti sentito.

Giorni dopo la massaia sognò il defunto che raccoglieva del pesce da terra e se lo mangiava. Indagò e scoprì l’accaduto.

Come diceva il Commedantore del Don Giovanni Mozartiano: “Non si pasce di cibo terreno chi si pasce di cibo celeste…” e per noi uomini moderni è difficile credere che ci possano essere dei legami reali e sostanziali diversi da quella che può essere solo una suggestione.

Anche una richiesta, oggi domandata per favore, un tempo veniva perorata chiedendola “per l’anima de li morti toi”. Magari, se la richiesta era particolarmente importante, per meglio ottenerla, si chiedeva il favore per l’anima di un defunto particolarmente caro (Pe l’anima de lu Tata tou, o pe l’anima de la Mamma tua).

Inoltre ogni volta che si voleva ringraziare qualcuno si usava dire “Recumaterna alli morti toi” (in segno di ringraziamento, prego il riposo eterno per i tuoi cari defunti) o anche Ddhrifriscu de i morti, che vuol dire la stessa cosa oppure Ddhrifriscu de Diu che voleva dire che il Signore Iddio misericordioso conceda il riposo eterno ai tuoi defunti. Anche questo andava a consolare le anime che, secondo gli insegnamenti cristiani, potevano stare in Purgatorio in attesa della beatitudine.

Per contro, se si voleva offendere qualcuno in modo estremo, ci si rivolgeva a lui imprecando contro i suoi defunti.

 

Si ringraziano per le foto Mirella Corvaglia e Antonio Corvaglia

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (II parte)

Cimitero di Nardò, progetto del nuovo cimitero

Le cappelle gentilizie costruite tra fine ‘800 e primi ‘900

 

di Gabriella Buffo

Il cimitero, ideato e costruito come un’ideale città dei morti, cinto dalle nuove mura, si isolava così dalla realtà circostante, anche se dal punto di vista morfologico richiamava paradossalmente l’immagine stessa della città dei vivi con i viali, le piazzette, i palazzi isolati e i blocchi condominiali a cui si aggiungono anche tutte quelle norme, regolamenti e prescrizioni che regolano ogni sistema sociale. E, come avviene nel tessuto urbano, anche qui si presenta la zonizzazione per classi sociali: gli spazi riservati agli infettivi – relegati nella parte più retrostante del camposanto – , ai non cattolici, ai non battezzati, al campo della pietà o cimitero dei poveri, in cui la nuda croce rileva appena il nome, alle cappelle di confraternite, infine gli spazi più rilevanti alle edicole gentilizie.

Cimitero di Nardò – cappella Rizzo particolare della clessidra con le ali spiegate

Infatti, sul finire del XIX secolo e nei primi anni del XX secolo, alla crescita della città borghese corrisponde il proliferare di un’architettura funeraria che, seppure in miniatura, ripropone in scala ridotta le medesime soluzioni formali impiegate nelle architetture urbane.

Le famiglie benestanti, l’intera borghesia, ormai consolidatasi nel potere politico ed economico, vogliono esprimere, anche attraverso la costruzione funeraria, il segno del proprio passaggio su questa terra e, dopo aver fatto costruire il proprio palazzo in città e la villa in campagna e al mare per la villeggiatura, commissionano agli stessi ingegneri la loro edicola funeraria con quello stesso gusto eclettico tanto allora di moda.

Le famiglie, ma anche le congreghe, si affrettano a presentare all’amministrazione comunale le loro richieste di acquisto di suolo (in concessione perpetua) per l’edificazione delle tombe private.

Cimitero di Nardò, progetto cappella gentilizia

Nelle richieste, secondo il Regolamento, devono essere specificati i materiali scelti e allegati i grafici dei progetti (alcuni sono firmati da noti progettisti quali Quintino Tarantino, Gregorio Nardò, Luigi Tarantino, Giuseppe Sambati, Benito Leante).

Cimitero di Nardò, progetto della cappella Tarantino

Come avviene per l’architettura civile e religiosa ottocentesca così anche per quella funeraria la ricerca stilistica utilizza l’antichità per trarre motivi e forme architettoniche semantiche e comunicative, tutti gli stili architettonici costituiscono modelli di riferimento da utilizzare in base alle differenti esigenze di rappresentatività. Ogni civiltà conosciuta, ogni forma di conoscenza, acquisita attraverso gli scavi archeologici e la letteratura dei viaggi, fornisce,quindi, tutti quegli elementi stilistici che, in un certo senso, soppiantano i simboli delle catacombe cristiane, le quali avrebbero dovuto, invece, essere il referente più vicino alla cultura religiosa italiana oltre ad essere quello più raccomandato dalle gerarchie ecclesiastiche. Ma l’Ottocento, sappiamo, è stato il secolo di affrancamento dal “dominio religioso”, di istanze politiche di laicizzazione e modernizzazione dello stato, secolo anticlericale per eccellenza, più vicino alle correnti di pensiero europee.

Cimitero di Nardò, progetto del tumulo Zuccaro Tommaso

Lungo tutto il perimetro del vecchio cimitero, una accanto all’altra le cappelle delle famiglie più in vista della città neretina ripropongono un vero revival di stili: dal gotico al rinascimento al barocco a forme dell’architettura classica o a quella di civiltà egiziane e mesopotamiche.

Cimitero di Nardò, progetto della cappella per la congrega dell’Immacolata

Alcune sono posizionate come fondali prospettici, quale punto estremo della crux viarum. Infatti, entrando dall’ingresso del vecchio cimitero al termine del viale a sinistra svetta la cappella in stile neogotico, costruita dall’ing. Antonio Tafuri nel 1902. Sopraelevata su un basamento scalinato e fastosamente decorata con archi ogivali e rosoni, è il sepolcro della famiglia Tafuri, baroni di Persano e Melignano, la cui arme è effigiata al di sopra della porta di ingresso. A pianta quadrata si struttura su ordini e termina con un grappolo di pinnacoli. Il secondo piano è alleggerito da ampie bifore con vetrate colorate.

Cimitero di Nardò – sepolcro Tafuri in stile neogotico

Neogotica è anche la cappella del barone Francesco Personè, il cui prospetto, tripartito da pilastri poligonali, è ritmato da ogive traforate e lateralmente da fiaccole rovesciate con ali.

Cimitero di Nardò – cappella Personè -Bianchi

Un tempio greco-romano, con un pronao sorretto da colonne corinzie e sovrastato da timpano, si trova realizzato nella cappella Gioffreda.

Cimitero di Nardò, cappella Gioffreda

Neorinascimentale è invece la cappella del Capitolo della Cattedrale di Nardò.

Cimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale in stile neorinascimentale

Quasi assente, poiché poco apprezzato dalla storiografia di quegli anni, lo stile Barocco, rinvenibile soltanto in una cappella con il frontone curvilineo e il portale con un arco a doppia voluta in chiave.

Altre tombe si ergono assumendo l’aspetto di piccoli mausolei, come la cappella Conte-Filograna,la cui costruzione fu autorizzata dalla Commissione edilizia del Comune di Nardò nel 1929. Altre non sono altro che palazzi in miniatura, come la cappella Bove, in cui la scala, a doppie rampe contrapposte, con balaustra a pilastrini, conduce al piano sopraelevato.

Cimitero di Nardò, cappella Conte-Filograna
Cimitero di Nardò – cappella Bove

A volte si presentano edicole con compresenza di più stili, veri e propri pastiches architettonici eclettici e retorici, in cui la significazione ridondante di indici escatologici si dibatte tra sacro e profano; ne è un esempio la tomba della famiglia Dell’Abate-De Pandi-Zuccaro- Giulio, dove elementi prettamente neogotici – apertura ogivale con arco trilobato – si uniscono ad elementi neoegizi, quali le colonne angolari fasciate a metà circa della loro altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro.

Cimitero di Nardò – cappella Giulio-Zuccaro – particolare colonna angolare fasciata a metà altezza con motivo a bulbo sovrastato da capitello a canestro

Lo stile egizio, molto in voga sul finire del XIX, è limitato solo ad alcuni elementi architettonici, probabilmente perché non incontra il gusto della committenza neretina, a differenza degli altri cimiteri del Salento (per esempio a Galatina, dove neoegizia è la cappella delle famiglie Galluccio, Venturi, Candido, Greco, Romano) e di Lecce (tombe di M. Piccinni, Stampacchia, Fumarola), in cui “figure quali la piramide, l’obelisco, la mastaba, che hanno conservato nel tempo i propri caratteri originari senza grossi cambiamenti, assumono il valore di elementi astratti, posti al di sopra della storia: simboli eterni dalle forme semplici e solenni”[22]. Sono i resoconti delle spedizioni e i rilievi eseguiti in Egitto da viaggiatori inglesi settecenteschicome Norden, Pocock o Dalton, quindi divulgati attraverso specifiche pubblicazioni in tutta Europa, che contribuiscono alla diffusione di elementi decorativi e architettonici “all’egiziana”[23].

Cimitero di Galatina, cappella Venturi – 1916 – in stile neoegizio

 

Negli anni del XX secolo, accanto agli ornati e logori stilemi dettati dall’Eclettismo, viene a convivere il linguaggio del Modernismo, un nuovo stile che sintetizza l’essenzialità della forma architettonica attraverso volumi puri, carichi di potere evocativo già nella forma geometrica. Qui le suggestioni della pietas cristiana sono enfatizzate dalla morbidezza delle linee decorative del liberty floreale, a cui si aggiunge la forza evocativa della scultura.

La cappella dei baroni Personè, a pianta quadrata, si presenta come un blocco geometrico puro delicatamente decorato, altamente simbolico, con i quattro angoli della terra e le quattro direzioni cardinali, che rimandano sia alla condizione terrena dell’uomo sia alla eternità. Un nastro, intagliato con serti di foglie e fiori, avvolge l’edifico modellandolo e la stessa funzione svolge la finestra laterale in cui un cordone orizzontale definisce l’immagine di un sole che sta per tramontare.

Fiori e foglie, legati dal lenisco, decorano l’ingresso della cappella simboleggiando la vittoria sulle tenebre e sul peccato.

Come nelle loro dimore civili, anche sul prospetto delle cappelle delle famiglie Personè, Baroni di Ogliastro, Carpignano Salentino, Castro e Pallio [24], si osserva un tentativo di ribadire lo status sociale imprimendo nella pietra lo stemma nobiliare “spaccato di azzurro e di verde e sul tutto due atleti di oro ignudi, in atto di lottare, accompagnati nel capo da una testa di Mercurio con il motto et pace et bello”.[25]

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia, particolare con l’uroboro

La simbologia

Nel cimitero di Nardò, come in tutti gli altri del Salento, non è il prezioso marmo la materia prima decorativa delle tombe ma la pietra leccese che diventa il morbido tessuto su cui ricamare tutta la simbologia della morte, tanto eloquentemente rappresentata dallo scheletro con la falce. È un simbolo, questo, creato dall’uomo, che andrebbe indagato perché lo si colga in tutto il suo significato. La falce è il simbolo della morte che recide la vita, come si recide l’erba o il grano. Essa è il simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini. Se la falce in sé richiama l’idea della falciatura del grano, la morte con la falce rimanda a una suggestione di raccolto, di traguardo di un ciclo naturale che inizia con la semina, continua con la fioritura, poi con la maturazione del frutto destinato ad essere raccolto per finire con la morte del grano ormai secco dal quale si estrae la spiga.

Cimitero di Nardò – cappella della congrega di San GiuseppeCimitero di Nardò – cappella Caputo particolare

Altri elementi caratteristici delle edicole funerarie in oggetto sono poi le tibie incrociate, la clessidra, simbolo del lento scorrere del tempo infinito, le ali aperte a simboleggiare la capacità di sollevarsi dal peso della vita, le fiaccole che indicano la redenzione e la speranza nel buio della morte (sei fiaccole ornano il fastigio della cappella della congregazione dell’Immacolata), le ghirlande di fiori e foglie quali segno incorruttibili di fede e di giustizia, i tralci di vite e l’uva simboli eucaristici che indicano il sacrificio e la redenzione.

Cimitero di Nardò – cappella gentilizia con portale neosettecentesco con arco a doppia voluta in chiaveCimitero di Nardò – cappella del Capitolo della Cattedrale – particolare con attributi sacerdotali inseriti nel fregioCimitero di Nardò – cappella Tarantino, particolare degli acroteri

E ancora gli insetti quali l’ape, simbolo dell’anima, segno di sopravvivenza dopo la morte – nella cappella del barone Personè tre api sono intagliate sulla cornice che separa la parte superiore da quella inferiore del prospetto architettonico ;gli animali delle tenebre come il gufo e la civetta con la loro capacità di vedere nel buio e ancora l’uroboro, il serpente che si morde la coda, metafora espressiva della riproduzione ciclica, simbolo ambivalente che collega la vita alla morte, il pesce il cui termine greco Ichthys è l’acrostico di Iesous Cristos Theou Hyios Soter cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare dell’ape

 

Tra le più scenografiche è la cappella della famiglia Tommaso Zuccaro. Il progetto, firmato dal noto ing. Quintino Tarantino, si avvale di un ricco repertorio simbolico.

Il colore è bandito, resta solo il colore neutro della pietra. Un timido accenno di colore possiamo intravedere nella facciata della cappella Borgia, su cui sono dipinte fasce orizzontali bianche e grige.

Cimitero di Nardeò – cappella Tarantino

 

Il motivo delle fasce bicrome viene mutuato dall’architettura civile, per esempio villa Lezzi a S. Maria al Bagno di Nardò, dove però i colori usati sono quelli caldi del rosso e del giallo ocra più  appropriati ad abitazione di villeggiatura.

Certamente nella realizzazione di queste cappelle gentilizie gli architetti, gli ingegneri e le maestranze del tempo si avvalsero dei vari repertori a stampa che subito dopo l’Unità d’Italia iniziarono a circolare su tutto il territorio nazionale. In special modo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, fiorì una serie di scritti e raccolte iconografiche sull’architettura cimiteriale.

L’Arte Funeraria Italiana, raccolta di tavole fotografiche, pubblicata a Milano, rappresentò per i professionisti del tempo il manuale del pratico operare dal quale attingere nuove soluzioni formali e stilistiche. Preziosa guida nell’ambito della progettazione fu anche il Manuale dell’Architetto, in cui l’autore Daniele Donghi aveva dedicato una consistente sezione all’architettura cimiteriale corredata di fotografie e planimetrie dei maggiori cimiteri italiani e stranieri. È anche pregevole l’opera di G.B. Savio Lapidi e monumentini funerari. Progetti con piante e particolari n.40 tavole, edita a Torino da l’Artista moderno.[26]

Cimitero di Galatina, cappella Greco in stile neoegizio

 

In definitiva il cimitero di una città rappresenta la summa degli stili e degli stilemi che si sono stratificati nell’architettura del centro abitato, ed è perciò che non si può fare a meno, al fine di un’analisi esaustiva del tessuto culturale di un territorio, di tenere nella massima considerazione anche queste propaggini, questi luoghi della contiguità fra fisica e metafisica, e dunque ontologicamente affatto lontani dai non-luoghi augeiani [27], i quali son di solito poco reputati dalle trattazioni storico artistiche. Scrive Anna Belardinelli:  “Mai ho visitato un paese  senza cercare di aggiungere al suo mosaico una tessera particolare: quella del luogo riservato ai morti. Spesso questo si è rivelato il tassello risolutivo per ricomporre in un disegno comprensibile tutto ciò che avevo visto fino ad allora. Sempre trovavo l’incastro giusto con tasselli che sembravano appartenere a scene di tutt’altro genere: del tempo operoso, delle relazioni sociali, dei bisogni elementari, dei desideri, in definitiva della vita. Sempre ho riportato dalla visita a questi luoghi speciali e appartati una ricca messe di informazioni e, nello stesso tempo, un’emozione forte, la sola mistura che può produrre conoscenza, entrarti dentro e modificarti”[28].

Cimitero di Nardò – cappella Caputo – particolare dei capitelli

 

È anche molto interessante la prospettiva di sfruttamento economico di queste ulteriori sorprendenti risorse culturali. Nella città di Milano è statisticamente acclarato che, dopo il Duomo, il Cimitero Monumentale (costruito su progetto presentato nel 1860 dall’architetto Carlo Maciachini)  rappresenta la seconda meta frequentata dai turisti stranieri, con “oltre 10 mila visitatori nel periodo marzo 2003 / giugno 2004”[29] .

I cimiteri salentini, opportunamente restaurati, possono, dunque, a buon diritto essere inseriti nel più ampio circuito degli itinerari culturali che, com’è noto, attirano nel nostro lembo di terra migliaia di turisti affascinati dalle straordinarie ricchezze storico artistiche che questa terra conserva.

pubblicato su Spicilegia Sallentina n°7.

Edilizia e arte funeraria a Nardò e nel Salento (I parte)

La città dei morti tra storia e memoria del passato.

Un esempio salentino: il cimitero di Nardò.

di Gabriella Buffo

“E’ da un pezzo che la Filosofia ha intimato il bando alle sepolture, e ai cimiteri non solo fuori delle chiese, ma anco fuori delle città, e lungi dall’abitato per la semplice ragione, che i morti non debbono ammorbare i vivi. Se le nostre Chiese sono pavimentate di cadaveri, qual maraviglia il trovarci spesso desolati da tante malattie pestilenziali”[1].

Così scriveva Francesco Milizia, teorico e critico di Oria, nel suo trattato Principi di Architettura Civile (1781), rilevando il grosso problema igienico sanitario legato alla consuetudine di tenere esposti i morti per lungo tempo nelle chiese e seppellirli poi sotto i loro pavimenti o nei cortili degli ospedali e delle confraternite.

Se il diritto funerario romano aveva respinto, per secoli, con la decima legge delle XII Tavole [2] (homine mortum in urbe ne pepelito neve urito) le sepolture fuori dalle mura delle città, per preservare la sanctitas delle abitazioni è “con il Cristianesimo che avviene il passaggio dalla negazione alla familiarità della morte che porterà in epoca medioevale all’inurbamento dei luoghi di sepoltura”[3].

Cimitero di Nardò – cappella Personè – particolare fiaccole con ali e globo terrestre

Nei primi secoli dopo Cristo, infatti, si afferma la pratica delle sepolture ad sanctos o martyribus sociatus, affinché fosse più facile il cammino del defunto verso la resurrezione: in Christianis mors non est mors, sed dormitio et somnus appellatur, così afferma S.Girolamo nella XXIX epistola, secondo il quale la morte non può più far paura perché è vista come sonno eterno.

Le chiese accoglievano le sepolture dei nobili in ambienti ipogei posti in prossimità o davanti alle cappelle laterali di patronato di una certa famiglia; il clero, invece, aveva sepoltura in un unico ambiente sotterraneo, posto in prossimità del presbiterio e dell’altare maggiore; i popolani erano ammucchiati uno sopra l’altro senza cassa, avvolti solamente in un sudario, all’interno della navata centrale lungo due o più corridoi sotterranei ovvero in fosse molto larghe.

“Il posto più ricercato, e quindi più costoso, che si pagava generalmente tramite lasciti testamentari per le preghiere, era il coro ovvero vicino al punto in cui si celebra la messa e dove sono conservate le reliquie del santo. La scelta del posto di sepoltura da parte dei testatori restava subordinata comunque all’approvazione del clero. Ed era quasi sempre una questione di denaro”[4].

Nelle chiese conventuali  trovavano sepoltura i frati ivi dimoranti e, in linea di massima, eventuali benefattori mentre, nelle chiese confraternali, erano ubicate le sepolture per i confratelli della congrega di pertinenza. In ogni paese, per sovvenire alle esequie dei poveri, c’era quasi sempre una confraternita della Buona Morte (spesso delle Anime Purganti) che provvedeva ai funerali e a fornire una cassa da usarsi solo per il trasporto (una sola cassa per tutti i beneficiati).

Il processo di separazione tra cimiteri e città inizia ad avviarsi già nel 1765 con un decreto promulgato dalle autorità civili parigine e, immediatamente dopo il 1787, con una disposizione austriaca nel Lombardo Veneto.

I Francesi, durante l’occupazione napoleonica (1809-1814), con la loro visione illuministica, che aspirava a rimodellare le città secondo criteri di ordine, bellezza e igiene, misero al bando la pratica medievale della sepoltura ad sanctos o apud ecclesiam.

L’Editto Napoleonico di Saint Cloud del 12 giugno 1804, nell’occuparsi di molti aspetti di convivenza, entrò nel merito delle sepolture imponendo l’obbligo di seppellire i morti in appositi spazi recintati, fuori dall’abitato, allestiti per cura delle amministrazioni pubbliche, (art. 75, 76 e 77) e introducendo un controllo sulle iscrizioni funerarie, che dovevano essere consone allo spirito della rivoluzione francese e, pertanto, non contenere iscrizioni nobiliari. Le sepolture dovevano essere anonime e la collocazione della lapide era relegata ai margini dei cimiteri. La legge venne estesa all’Italia Meridionale con decreto del 5 settembre 1806.

Questa legge, senz’altro valida secondo il più freddo razionalismo, incontrò forti resistenze, perché lesiva di pratiche religiose profondamente sentite ma che impediva anche – come scriveva Ugo Foscolo nel carme dei Sepolcri (composto nel 1806) – quella “corrispondenza d’amorosi sensi” togliendo all’uomo l’illusione che egli potesse sopravvivere almeno nel ricordo dei suoi cari.

“Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro  con lungo amore, e t’appendea corone”; così polemizza il Foscolo a proposito della disumana normativa sulle iscrizioni funebri che non permise al poeta Parini di essere sepolto con una lapide che ne tramandasse almeno il nome.

Cimitero di Nardò, cappella della confraternita delle anime purganti. Sopra la porta il Chrismon costantiniano formato dalle iniziali greche di Cristo

 

Lo stesso disagio culturale è, nel contempo, accusato da una intera generazione poetica europea a partire dall’anglosassone Thomas Gray con l’opera Elegy written in a country churchyard, a Edward Young nei Night Thoughts alle Meditations among the tombs di James Hervey per passare poi agli intellettuali francesi come Jacques Delille.

Sino al 1814 nei cimiteri è prescritta la costruzione di monumenti sepolcrali; successivamente a questa data nuovi emendamenti regoleranno il rilascio delle autorizzazioni per le sepolture private .

Durante il periodo della restaurazione borbonica nel Regno delle Due Sicilie determinante fu l’emanazione della legge nr. 653 dell’11 marzo 1817, che stabiliva la costruzione in ogni Comune di un camposanto fuori dell’abitato “in modo da servire ad un tempo a garantire la salute pubblica, ad ispirare il religioso rispetto dovuto alle spoglie umane, ed a conservare le memorie onorifiche degli uomini illustri”. La legge dava, inoltre, facoltà ai Decurionati di individuare i fondi di proprietà pubblica o privata idonei a tale destinazione procedendo là dove necessario all’esproprio.

Alla legge seguì il Regolamento di attuazione del 21 marzo 1817 che all’art. 2 prescriveva: “la figura dei campisanti sarà un quadrato, o un parallelogramma, avrà una sola porta d’ingresso, chiusa da un forte rastello di ferro, o di legno, e che la posizione sia scelta in un sito a circa un quarto di miglio lontano dall’abitato, nella direzione dei venti settentrionali in modo da evitare gli effetti sgradevoli dei miasmi”[5].

Purtroppo le disposizioni di legge tardarono ad essere applicate. Forti opposizione sia da parte del clero, timoroso di una diminuzione delle “pie elargizioni dei suffraganti”, sia dei ceti popolari, restii ad abbandonare la prassi della tumulazione apud ecclesiam, faticavano a far nascere i cimiteri extraurbani avallando la comune pratica di tumulare all’interno delle chiese con grave detrimento della salute pubblica anche considerando le ricorrenti epidemie di colera, si pensi alla terribile epidemia di colera asiatico del 1836, che flagellò il Regno. A ciò si aggiungeva  una quale inerzia amministrativa e la penuria di fondi per la costruzione dei camposanti.

Cimitero di Nardò, cappella della congrega di S.Giuseppe

Il cimitero in Terra d’Otranto: il caso di Nardò

Il Real Rescritto dell’11 gennaio 1840 fu reso esecutivo in Terra d’Otranto il 25 gennaio 1840. Con la nota del 25.1.1840 sullo “stato progressivo de’ lavori de’ Campisanti” l’Intendente Marchese Della Cerda comunicava  ai Sindaci la “definitiva chiusura delle tombe nelle chiese dell’abitato” e “sollecitava ancora l’edificazione delle città dei morti” [6].

“Il Comune di Lecce non si fa cogliere impreparato e si attiva giungendo a un risultato concreto con la predisposizione di una serie di documenti fondamentali: il primo e più importante di questi è datato 19 febbraio 1840 e contiene la relazione descrittiva del Progetto de’ lavori che occorrono per la costruzione del Cimitero nel locale di S. Nicola in Lecce con allegato lo Stato Stimativo firmato dal suo estensore nonché progettista delle opere, l’ing. Benedetto Torsello[7]. Il cimitero fu aperto ufficialmente il 1° gennaio 1845  ma il popolo leccese, ancora non convinto della necessità ed utilità di questo impianto extraurbano, nel 1848 manifestò aspramente il proprio dissenso con l’abbattimento delle porte e dei muri del Cimitero e con la dispersione delle croci”[8].

Cimitero di Galatina, cappella Galluccio in stile neoegizio

 

Nel territorio salentino il Comune di Galatina nel marzo del 1886 aveva ultimato i lavori per la realizzazione del cimitero ma, già nel 1894, approvava il progetto di ampliamento, presentato dall’ing. Giuseppe Greco, per la costruzione di nuove cappelle gentilizie nell’area prospiciente l’ingresso[9].

Analoga era la situazione a Gallipoli, dove l’ing. Luigi Pinto aveva già redatto nel 1868 un progetto di ampliamento del preesistente camposanto.

“Non manca di Cimitero il Comune di Nardò che si trova provveduto sin dal 1840 ed è posto in apposita località fuori l’abitato, i cadaveri vi si seppelliscono per inumazione ed anche tumulazione essendo permessa la costruzione di tombe particolari. Manca solo il Regolamento […] e quindi vengono adottati gli antichi del 1817” così scriveva il sottoprefetto di Gallipoli il 16 ottobre 1870 alla Prefettura di Lecce[10], alla quale spettava l’obbligo di vigilare sulla salute pubblica[11].

Al 1847 risale, comunque, un tentativo di spostarlo in altra area della città: una relazione, datata 17 gennaio, presenta all’amministrazione comunale il progetto di un nuovo campo santo “da costruirsi ad uno dei lati del Monastero dei P.P. Cappuccini, distante dalla città un terzo di miglio mentre l’attuale Campo Santo è d’un quarto ed alla medesima direzione di Nord Ovest. [   ] Inoltre li P.P. Cappuccini abbraccerebbero quest’occasione per loro peculiare interesse, cederebbero, forse, gratis, parte del di loro giardino pel Campo Santo”[12].

Ma la scelta del luogo è subito contestata dai neretini, come si legge in una missiva, datata 21 dicembre 1847, di un cittadino portavoce, il quale scrive all’Intendente della Provincia di Terra d’Otranto che “l’unica delizia che offre questa Nardò, si è incontrastabilmente il passeggio sulla via che mena al Convento dei PP. Cappuccini, ed al Capoluogo del Distretto, ove la popolazione si accalca, specialmente nei mesi estivi. Ora cercasi avvelenare questo pubblico ed innocente sollazzo ed collocare colà il Campo Santo e rendere così mesto e luttuoso quel luogo che oggi è ridente ed ameno. Né il pubblico diletto è il solo che debbasi tener presente”.[13]

L’antico impianto architettonico del cimitero neretino era tipologicamente definito da uno spazio geometrico regolare in cui due viali perpendicololari dividevano l’aia cimiteriale in quattro parti .

Planimetria del vecchio cimitero di Nardò

Il muro del recinto interno del camposanto, come disponeva l’art.10 dello stesso Regolamento, fu diviso in sezioni per essere acquistato, “ad un prezzo da determinarsi a favore del Comune, dalle famiglie le quali colà avrebbero potuto erigere monumentini, lapidi con bassorilievi ed epigrafi, cippi commemorativi al fine di conservare le memorie onorifiche dei loro trapassati”[14].

Inizialmente il cimitero era limitato da un “puro e semplice muro di cinta di determinata altezza con apposito ingresso su di un pubblico cammino, con dentro un infelice locale coperto con volta semicilindrica a cui dato il nome di Cappella. Tutto ciò praticato mancava non solo di quella decenza dovuta ad uno stabilimento di simil fatta, ma ancora di un locale per la custodia , e di altro pel provvisorio deposito dei cadaveri fino all’ora della inumazione”, così si legge in una relazione dell’arch. Gregorio Nardò.[15].

Incaricato “d’invigilare alla esecuzione delle regole prescritte sul modo della inumazione”[16] era il custode, di certo già in servizio nell’anno 1842, in quanto in una missiva, datata 8 maggio dello stesso anno, il sindaco di Nardò Gian Vincenzo Dell’Abate chiedeva all’intendente di Terra d’Otranto l’autorizzazione ad anticipare di giorni 15 la somma di denaro dalla Cassa Comunale, quale paga per il custode sig. Giuseppe Gioffreda, il quale si trovava in difficoltà economiche[17].

Pianta del vecchio cimitero di Nardò

Alla costruzione del cimitero seguì presto il progetto, datato 10 aprile 1844 e firmato dall’ing. Benedetto Torsello, dei lavori che occorrevano “per la costruzione della nuova strada che dall’abitato di Nardò mena al Campo Santo, uscendo dalla nuova porta sul filo detto Boccaporto”[18].

Cimitero di Nardò. Prospetto dell’antico cimitero

Il 2 maggio 1844 l’Intendente approvò l’esecuzione dei lavori per la realizzazione della strada per la spesa preventiva di 260 ducati cioè ducati 70 di lavori a farsi e ducati 182 di compenso ai proprietari e di ducati 8 per competenze dovute allo stesso ingegnere.

Nella relazione di verifica, datata 8 aprile 1848, l’ing. delle Acque e Strade Vincenzo Fergola accertò che “l’inumazione nel Pio Stabilimento fu incominciata in febbraio 1840 e che fin ad allora vi erano n. 2834 cadaveri e che vi rimaneva ancora un’aia capace a potervi continuare l’inumazione fino a tutto luglio prossimo”[19].

Progetto del nuovo cimitero di Nardò

 

Ma già in una relazione dell’Ufficiale Sanitario Comunale del 13 marzo 1911 si evidenziava che il cimitero era insufficiente ai bisogni del paese e che necessitava di un ampliamento e anche di un nuovo fabbricato con l’alloggio del custode, la cisterna e i locali richiesti dai Regolamenti, nonché di una nuova cappella per le funzioni religiose. La nuova cappella “in cui i fedeli nel giorno della commemorazione dei morti potranno recitare gli uffizi di pietà”, fu costruita al centro del muro opposto all’ingresso “di croce greca come quella che occupando lieve spazio meglio di qualunque altra figura […] nell’esterno saravvi un prospetto di stile greco”[20].

Il 9 gennaio 1915 l’ing. Gaetano Bernardini di Monteroni presentò il progetto di ampliamento del vecchio cimitero “che così ampliato e fornito di tali opere verrebbe a sostituire in parte l’antico, il quale resterebbe destinato in gran parte a tombe gentilizie ed in parte ad inumazione ordinaria”[21].

La zona di ampliamento fu individuata a lato dell’antico muro di cinta a ovest, interessando i fondi del cav. Giovanni Colosso e Benedetto Trotta. Essa confinava a nord con la via nuova detta Carignano, a est con l’antico cimitero, a sud con la proprietà Colosso e a ovest con la via vecchia vicinale Scapiciara. L’intera zona espropriata copriva una superficie totale di metri quadri 11537,98.

Il progetto di Bernardini, già approvato dalle Autorità Superiori il 6 luglio 1915, fu successivamente modificato dall’Ing. Luigi Tarantino.

Il 4 giugno 1916 fu contratto un mutuo di £. 30.000 con la cassa dei Depositi e Prestiti di Roma per l’esecuzione di nuovi lavori nel Cimitero.

Il Comune di Nardò, con delibera del 23 febbraio 1923, affidava i lavori di costruzione delle fondazioni dei muri di cinta del cimitero alla cooperativa dei muratori fascisti, il cui presidente era Vaglio Ermenegildo, anche al fine di contrastare la disoccupazione, che in quel periodo affliggeva gli operai del posto.

 (continua)


[1] F. MILIZIA, Principj di architettura civile, Milano 1847, 289-290.

[2] Le leggi delle XII tavole (duodecim tabularum leges) è un corpo di leggi compilato nel 451-450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, contenenti regole di diritto privato e pubblico. Rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, se si considerano le più antiche mores e lex regia. Sotto l’aspetto della storia del diritto romano, le Tavole costituiscono l’unica redazione scritta di leggi dell’età repubblicana.

[3] L. BERTOLACCINI, Diritto d’asilo e sepolture nelle città medievali, in “I servizi funerari”, n. 4 , Rimini, ottobre-dicembre 2000.

[4] Ibidem

[5] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III,  428-429.

[6] A.S.L, Intendenza di Terra d’Otranto, affari generali, busta 35 fascicolo 718.

[7] G. CATALDO, Il ‘Campo Santo’ di Lecce, ……, pag. 153.

[8] V. MATRANGOLA, Il giardino degli addii, Lecce 2005.

[9] Delibera del Consiglio comunale del 5.12.1893. A.S.L., Prefettura, serie II versamento III busta 24 fasc.307. Sul Cimitero di Galatina cfr. Percorso extraurbano alla riscoperta dei più bei monumenti funebri in “Galatina da scoprire… con la guida degli alunni del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone” di Galatina,” Galatina 2004, pp. 11-25.

[10] A.S.L., Prefettura, II serie I versamento fascicolo 44 – 45 busta 37.

[11] La prima legge sanitaria del Regno d’Italia è contenuta nel Regolamento per l’esecuzione della Legge sulla sanità pubblica presentato dal Governo Lanza e approvato con Regio Decreto n. 2322 dell’8 giugno 1865, il quale fissava le responsabilità dei Prefetti, Sottoprefetti e Sindaci in merito ai problemi riguardanti la sanità pubblica .

[12] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[13] A.S.L., Prefettura, serie II versamento I fascicolo 44 busta 37.

[14] P. PETITTI, Repertorio amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1856, vol. III, pp. 428-429.

[15] Archivio Storico Comune di Nardò (ASCN), Progetto per la nuova Cappella ed Ingresso al Camposanto di Nardò.

[16] Art. 11 della Legge 11/03/1817, in P. Petitti, Repertorio…., op. cit, p. 430.

[17] A.S.L., Prefettura II serie I versamento fascicolo 44 busta 35.

[18] A.S.C.N.

[19] A.S.L., Prefettura II serie I versamento busta 37.

[20] A.S.C.N., Progetto per la nuova Cappella ed ingresso al Camposanto di Nardò.

[21] A.S.C.N.

[22] A. MANTOVANO, Il Cimitero Monumentale di Lecce, in V. Cazzato – S. Politano, Architettura e Città a Lecce. Edilizia privata e nuovi borghi fra Otto e Novecento, Galatina 1997, 32.

[23] L. BERTOLACCINI, Sepolture individuali e tombe di famiglia. Immagini e simboli della morte, in “I servizi funerari”, n.1, Rimini, gennaio-marzo 2001

[24] M. GABALLO, Araldica civile e religiosa a Nardò, Nardò 1996.

[25] Ibidem

[26] O. GHIRINGHELLI, I repertori a stampa fra Ottocento e Novecento, in L’architettura della memoria in Italia,  253.

[27] M. AUGE’, Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità,  Milano, 2005.

[28] A. BELARDINELLI, Lo specchio non effimero, in L’architettura del cimitero tra memoria e invenzione, Perugia 2005, 75.

[29] COMUNE di MILANO, Monumentale Museo a cielo aperto – le migliori 100 foto del concorso, Milano 2004.

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