Due lettere di raccomandazione di Maria d’Enghien

di Armando Polito

Questo post è l’integrazione di un altro mio sulla contessa di Lecce piuttosto datato (https://www.fondazioneterradotranto.it/2013/06/24/la-condizione-degli-ebrei-a-lecce-al-tempo-di-maria-denghien/) ed è il frutto di un commento allo stesso apparso recentemente a firma di Luigi Leone. A conferma  di quanto per l’occasione ebbi a dire sul suo comportamento equilibrato ed illuminato (oggi, con l’aria che tira, sarei costretto  a dire, umano, nonostante la nebulosità pratica  che sembra avvolgere questo concetto sul quale tutti si dichiarano d’accordo) nei confronti degli Ebrei, propongo oggi due sue lettere pubblicate da Andreas Kiesewetter nel suo L’epistolario di Maria d’Enghien. Nuovi rinvenimenti e precisazioni, in Quei maledetti Normanni, CESN, Ariano Irpino, 2016, pp. 571 e 576-577. Entrambe risultano inviate all’Università (cioè a quello che oggi si dice Comune) di Bari, la prima da San Pietro in Galatina (oggi Galatina) l’11 ottobre 1422, la seconda da Lecce il 10 ottobre 1425. Ne riproduco il testo dal volume citato (dallo stesso è tratta l’immagine di testa, che si riferisce alla seconda), aggiungendo la trascrizione in italiano corrente e qualche nota.

1)

Viri nobiles providi atque discreti carissimi, nobis post salutem. Peroche mastro Christi, figlio di mastro Manu de Simone, marito de donna Dolce, matre de mastro Iacobo, iudeo habitante et morante in Baro, nostri servituri et lu so fratelli, et matre  delo dicto mastro Iacobo, lo quale e medico, nostro vassallo de Lecce, vi volimo pregare, che in nostro placitho li predicti mastro Christi et Simone con la dicta donna Dolce vi siano recomandati, che per vui universalmente per nostro respetto in singulis oportunis siano ben trattati, et di questo ne farete piacere tanto ad nui, quanto allo prencipe, nostro figlio, sincomo a simili facessimo per vui. Datum in Sancto Petro de Galatina, die XI octobris prime indictionis.

Nobili uomini, previdenti e giudiziosi1, a noi carissimi, dopo il salutoa. Poiché mastro Cristo, figlio di mastro Emanuele de Simone, marito di donna Dolce, madre di mastro Iacopo, giudeo abitante e residente in Bari, nostri servitori e i suoi fratelli e madre del detto maestro Iacopo, il quale è medico, nostro vassallo di Lecceb, vi vogliamo pregare che in nostro placito i predetti mastro Cristo e Simone con la detta donna Dolce che vi siano raccomandati, che da voi unanimementec per nostro rispetto nelle singole opportunità siano ben trattati; e con questo farete piacere tanto a noi, quanto al principe nostro figlio, come in circostanze simili avremmo fatto per voi. Emesso in San Pietro di Galatina il giorno 11 ottobre della prima indizione.

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a La virgola dopo carissimi va spostata dopo discreti, come correttamente è nella lettera successiva. Dopo salutem è sottinteso un nesso in latino che in italiano suonerebbe esponiamo quanto segue.

b L’urgenza di presentare i protagonisti ha propiziato l’omissione del verbo di questa dipendente causale, collegando quasi direttamente la principale (vi vogliamo pregare) con i destinatari della missiva (Nobili uomini …)

c “Traduco” così l’universalmente dell’originale, avverbio che non poteva essere più adatto riferito al destinatari della missiva, cioè un’Università, qui, come nella lettera successiva, quella di Bari.

 

2)

Viri nobiles et discreti, devoti nostri carissimi, post salutem. Simone Iudio, vassallo nostro, ny ave informato, che isso ave a rescotere in Bari certi denari e roba; et per tanto piaczia vi de lo avere recomandato et favorirelo  in tucto quello, che bisoghiasse, azocche pocza rescotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ny diche devere rechiperea alcuni denari, imprestati per isso alli sindici vostri de l’anno de la XVa indictione, et foro’li ‘nde dati certi pyghy. Et per tanto piaczave dare’li li sui denari, et esso rendera li dicti pighy, azocche non sdia bisoghio de si vendere, fariti vostro devere, et ad nuy ‘nde placheriti. Dat. in castro Licii, X octobris, IIII indictionis.

Nobili uomini e giudiziosi, nostri carissimi devoti, dopo il saluto. Simone Giudeo, vassallo nostro, ci ha informato che egli ha da riscuotere in Bari certi denari e roba; e pertanto vi piaccia di averlo come raccomandato e favorirlo in tutto quello che bisognasse, affinché possa riscuotere quello che deve avere. Ancora mastro Crissi, vassallo nostro, ci dice dover ricevere alcuni denari prestati da lui ai vostri sindaci dell’anno della quindicesima indizione e gliene furono dati certi pegni. E pertanto vi piaccia dargli i suoi denari ed egli renderà i detti pegni, affinché non ci sia bisogno che siano venduti; farete il vostro dovere ed a noi ne farete piacere. Emesso nel castello di Lecce il 10 ottobre della quarta indizione.

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a Dal latino recipere, da cui il nostro ricevere.

Testimonianze culturali della presenza ebraica in terra d’Otranto tra IX e XVI secolo

di Cristina Manzo

 

Si trovano nel codice ebraico di Parma le più antiche tracce della lingua salentina a noi conosciute. Risalgono al 1072 e qui di seguito ecco alcuni dettagli di quel manoscritto, che è fra i più importanti e anche meno conosciuti della storia (in parte dimenticata) del nostro bel Salento.

Il salentino usato in queste glosse fa riferimento alle consuetudini agricole, ed è scritto in un misto fra latino e volgare, con parecchi messapicismi rilevabili dai nomi di alcune piante come ad esempio nelle citazioni : “lenticla nigra, cucuzza rutunda, cucuzza longa … tricurgu, scirococcu”.

Altre glosse specificano le diverse operazioni che si possono fare nella coltivazione (pulìgane: “tagliano le sporgenze dell’albero”; sepàrane: “staccano le foglie secche”; assuptìgliane: “coprono di terra fine le radici che si sono scoperte”)1

 

Fig.1,Il manoscritto contiene 154 glosse dell’XI secolo scritte con caratteri ebraici, proviene dall’accademia talmudica di Otranto ed è databile intorno al 1072. Probabilmente è il più antico manoscritto completo esistente della Mishnà, talora indicato come manoscritto di Parma A” di quest’opera. Copiato con caratteristiche ortografiche palestinesi in Otranto nel 1072/1073, in scrittura quadrata italiana, con glosse salentine di mano dello scriba principale. Appartenne a Mosheh ben Benjamin Finzi, ed era rilegato insieme al manoscritto Vaticano ebraico 31 contenente il Sifra [2] .

Sembra molto probabile che gli ebrei cominciassero a prendere stabile dimora nell’Italia meridionale quasi nello stesso tempo che a Roma. Per recarsi dall’oriente a questa città dovevano generalmente sbarcare a Brindisi o a Pozzuoli e per la via Appia attraversare l’antica Calabria, cioè Terra d’Otranto, e poi la Puglia, il Sannio e la Campania. Se liberi cittadini e dediti al commercio, potevano, almeno alcuni, restare o tornar subito in altre regioni, allettati dalla fertilità del suolo e dalla floridezza delle città marittime; se prigionieri di guerra e schiavi, potevano invece, anche in parte, esservi mandati a coltivare i latifondi posseduti dai romani.

Come è risaputo nel 70 dopo Cristo, avendo Tito distrutto Gerusalemme, moltissimi palestinesi furono venduti come schiavi sui mercati d’oriente e d’occidente, e di essi una parte venne trasferita in Italia. Infatti Josiffon, o lo pseudo Giuseppe, nel decimo secolo, afferma che Tito ordinò a circa cinquemila prigionieri di guerra di stabilirsi a Taranto, in Otranto e altrove; e il cronista Achimaaz, del secolo undecimo, vede in tali prigionieri palestiniani l’origine della comunità giudaica di Oria, sua patria.

“Nelle varie città di Puglia e di Calabria adunque, gli ebrei costituivano «plurimos ordines», erano quindi numerosi3. Secondo Achimaaz, Oria avrebbe accolto i primi ebrei dopo la distruzione di Gerusalemme e sarebbe stata la culla de’ suoi antenati.

Primo tra questi Amitthai rabbino, poeta e teologo. Inoltre, nell’assedio posto a Oria da’musulmani nel 925, come già a Napoli contro Bellisario, i più strenui difensori della città furono gli ebrei ed essi più che altri subirono gli effetti della sconfitta, fatti schiavi, dispersi, Donolo un fanciullo di dodici anni allora, fu con molti altri condotto schiavo a Taranto o ad Otranto.

Donolo, tuttavia divenne medico illustre e scrisse numerose opere di astrologia e astronomia e fu il primo che nel mondo giuridico trattò di materie scientifiche nell’antica lingua nazionale. Le due città, in una delle quali egli sarebbe stato condotto schiavo da Oria e poscia restituito alla libertà, furono già additate entrambe come asili primitivi di gerosolimitani prigionieri, Taranto riapparirà stanza di ebrei nella prima metà del secolo XI. Meglio ancora, Otranto è accoppiata a Bari, e l’una e l’altra elevate ad una grande importanza da un proverbio che un celebre rabbino francese del XII secolo citava già come sentenza antica. Il proverbio diceva: «Da Bari esce la legge, e la parola di Dio da Otranto»4 .

Tra gli episodi che si conoscono, spiccano per importanza sempre quelli che evidenziano i contatti e le interrelazioni culturali tra Terra d’Otranto e Costantinopoli, o Terra d’Israele e Africa settentrionale. Sembra evidente che in tali contesti i protagonisti delle vicende si trovino perfettamente a loro agio sia che si tratti di emiri islamici che di imperatori greci, sottintendendo quindi che appartenga loro quella naturalezza e quell’attitudine proprie della conoscenza delle molte lingue diverse utili, nella comunicazione scritta e orale. Inoltre, “Shabbetày Donnolo, nell’introduzione al suo Sèfer hakmonì ( cioè il Libro del sapiente, di colui che sa, conosce), afferma di aver tratto ispirazione da opere composte in greco e in arabo5 (degno di nota il fatto che mentre nella prima fonte il Donolo è riportato con una sola n, nella seconda fonte ne ha due, Donnolo).

Questi due centri erano dunque i due focolai della civiltà giudaica. Innegabilmente in Puglia, gli ebrei si estesero di molto durante il periodo normanno-svevo. A Lecce si stabilirono presso la chiesa di S. Irene, ed a Brindisi e a Oria continuarono a spiegare la loro nota attività. Maggiore prosperità godettero a Taranto.

A Bari, poi, data la loro notevole importanza, il duca Roberto ne incluse i redditi nella dote di sua moglie Sigelgaita che, alla morte del duca, li sottopose alla giurisdizione dell’arcivescovo, che fu il secondo, quindi, alla morte di lei, ad ottenere la giudeca, (per la salvezza della sua anima). L’esempio di Bari, avrebbe fatto scuola, e in Puglia vennero poscia, nel 1093, il vescovo di Melfi e l’arcivescovo di Otranto e più tardi quelli di Ascoli e di Trani. A Melfi gli ebrei accorsero numerosi dacché la città fu scelta come capitale della contea di Puglia. Nel 1165 erano 200 e nel medesimo anno ad Otranto 500. Ad Ascoli, cominciarono sotto Guglielmo II a pagare al vescovo i contributi detti plateatici derivanti dalle merci che essi e quanti altri correligionari recavansi dai dintorni vendevano in paese ed a Candela6.

Quindi, tra i più antichi insediamenti della diaspora europea occidentale, le comunità ebraiche sono attestate in Terra d’Otranto fin dall’epoca imperiale romana. La presenza di nuclei ebraici nella Puglia meridionale è in larga parte da associare all’importanza del porto di Brindisi per le comunicazioni con il Mediterraneo orientale. In età medievale il rilievo dei porti pugliesi per il transito di merci e viaggiatori verso la penisola balcanica e l’Oriente (in particolare all’epoca delle Crociate) fu parimenti responsabile della fioritura di numerosi centri di cultura ebraica nella regione adriatica.[…]

Si dovrà ricordare che Terra d’Otranto e Calabria rimasero più a lungo di altre regioni del Meridione d’Italia peninsulare nella sfera diretta d’influenza politica dell’impero Romano d’Oriente e che comunità ellenofone sono rimaste vitali fino ai nostri giorni nel Salento. Le dispute medievali tra cristiani ortodossi ed ebrei nell’area potrebbero essersi svolte appunto in tale lingua. È significativo, tuttavia, che nel dibattito polemico (1220) tra gli ebrei di Otranto e l’abate di Casole, Nicola-Nettario, quest’ultimo sottolinei che i suoi oppositori solevano parlare tra loro in ebraico, indicazione rilevante della persistenza della lingua santa nella comunicazione quotidiana e non solo in quella dotta o nella sfera liturgica.

Certamente l’attività di preghiera e di studio dei testi tradizionali nelle importanti scuole ebraiche locali si svolse sempre in ebraico, come dimostra il numero relativamente ampio di manoscritti, principalmente di carattere scientifico, copiati per uso didattico in Salento. […]

Le più antiche iscrizioni tombali rinvenute nel Salento, così come in altre aree della Puglia e della Basilicata, mostrano la costanza dell’uso affiancato del greco e dell’ebraico. Anche se la lingua ellenica fu impiegata sempre più raramente nell’epigrafia a partire dal VII secolo (in un primo momento a vantaggio del latino) tale fenomeno dovrà spiegarsi più come esito della tendenza degli ebrei europei a sottolineare la loro identità mediante il ricorso esclusivo alla lingua della Scrittura, piuttosto che alla perdita di consuetudine con l’idioma ufficiale dell’impero bizantino, utilizzato nei primi secoli dell’era volgare anche all’interno del rito giudaico7.

Gli ebrei che si insediarono in Puglia si trovarono ad intrattenere fiorenti commerci con gli altri ebrei che si erano stabilizzati nelle terre confinanti con la penisola italica, in base alla loro provenienza, all’interno della diaspora. Questo scambio di affari portò certamente un grande arricchimento culturale e linguistico, oltre a produrre una vicendevole testimonianza del loro passaggio e della loro vita in questi centri. Così a Costantinopoli, in Grecia o nei paesi Balcani o in luoghi dell’Africa settentrionale, sono conservati documenti che testimoniano la loro permanenza nel Salento, quanto nel Salento vi sono documenti che attestano l’inverso. Ed è grazie a questo ricco archivio, derivato dai contatti di scambio, che tutto il meridione può attingere a preziose fonti storiche che ne ricostruiscono le tappe, anche se, permangono enormi lacune in proposito.

A causa di questo scambio di commerci tutti gli ebrei erano costretti a conoscere più lingue, per potersi capire reciprocamente e per la partecipazione alle funzioni religiose, quindi nell’epoca più antica del loro insediamento in Terra d’Otranto è stato indispensabile per essi conoscere oltre al latino, il greco, l’ebraico e l’aramaico.

Nel I sec. e. v. durante l’impero di Augusto e Tiberio, la presenza di nuclei ebraici in Italia meridionale testimonia i rapporti tra Roma e terra d’Israele. La distruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, con la conseguente deportazione di famiglie illustri della capitale della Giudea, fece sì che nuovi gruppi giudaici, costretti a trasferirsi nella nostra penisola, venissero ad insediarsi nei centri portuali adriatici. Da questa migrazione, successiva alla deportazione voluta da Tito, gli ebrei salentini trassero motivo di vanto: essere ebreo pugliese significava discendere dall’aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme.

La notizia dell’esistenza di un centro culturale ebraico nell’Italia del sud era a tal punto diffusa già nel Medioevo che a suo riguardo fu pronunciata quella celebre affermazione, di cui abbiamo già fatto menzione, riportata da Rabbenu Tam: «perché da Bari uscirà la Torà e la parola del Signore da Otranto».

Gran parte delle informazioni che permettono di ricostruire la tradizione liturgica dell’ebraismo salentino ci deriva dalla produzione innografica contenuta nel mahazor di Corfù.

Il minhag (rito) di Corfù si fonda sull’unione di varie componenti liturgico-letterarie che si vennero sovrapponendo nel corso dei secoli a mano a mano che ebrei di varie provenienze si stabilirono sull’isola jonica.

É da tempo nota l’affinità tra produzione innografica pugliese e corfiota, che in genere si ritiene spiegabile tenendo conto della diaspora sull’isola di profughi provenienti dall’Italia meridionale dopo i provvedimenti di espulsione del XVI secolo. Si deve ricordare, tuttavia, che i rapporti tra Corfù e il Salento sono documentabili già dalla fine del XIV e per tutto il XV secolo8.

Per avere un’idea dei canti degli ebrei di Corfù è necessario ricordare per sommi capi la storia dei vari gruppi ebraici che si sono insediati nell’isola nel corso dei secoli. Il gruppo ebraico più antico è quello dei cosiddetti ebrei Romanioti che non sono né aschenaziti né sefarditi e che si stanziarono in Grecia e nelle isole greche, Corfù compresa, più di 2000 anni or sono.

Gli ebrei sefarditi giunsero a Corfù dalla Puglia dopo il 1510, tollerati ancora per qualche anno in Italia dopo l’espulsione dalla Spagna: di livello sociale più alto, formarono una Comunità separata dai Romanioti. Questi ultimi non parlavano il ladino ma un dialetto greco; anche se godevano di particolari privilegi sino al 1660 e la loro comunità era più antica, furono di fatto quasi totalmente inglobati dagli ebrei. Come conseguenza anche il minhag sefardita si affermò rispetto al minhag bizantino più antico della comunità Romaniota. Gli immigrati sefarditi parlavano un dialetto misto di ladino, ebraico e pugliese e, dopo la conquista dell’isola da parte di Venezia nel 1386, anche di veneziano. Gli ebrei di Corfù hanno conosciuto sino a tempi molto recenti continue persecuzioni, discriminazioni e pericoli di ogni sorta. I loro canti si possono ancora ascoltare dal vivo nelle pochissime testimonianze pervenuteci e rivelano la storia travagliata di questa comunità ebraica sopravvissuta sino alle persecuzioni naziste e annientata come la maggior parte delle comunità della Grecia.

Questi canti, nella registrazione di uno degli ultimi ebrei di Corfù, hanno un carattere nettamente sefardita e dimostrano come l’elemento italiano di origine sefardita sia stato predominante a Corfù nei canti e negli usi linguistici corfioti, sopravvissuti oltre che a Corfù, anche a Tel Aviv (nell’unica sinagoga dove ancora è in uso il minhag di Corfù) e in parte a Trieste. Dove vivono ancora gli esuli da Corfù, si possono ritrovare gli echi di tutta la storia degli ebrei di quest’isola9.

La comunità ebraica di Lecce, la cui esistenza è attestata già nell’XI secolo, raggiunse la sua massima fioritura nel Quattrocento. Nonostante la distruzione del quartiere ebraico nel 1463, anno in cui gli ebrei, sottoposti alla pressione ecclesiastica, furono costretti alla fuga, la comunità fu ricostruita pochi anni dopo. Gli ebrei furono nuovamente espulsi a seguito dell’occupazione francese del Regno di Napoli nel 1495. Due anni dopo, la sinagoga di Lecce fu trasformata in chiesa e in ospedale.

Il decreto di espulsione degli ebrei del Regno di Napoli promulgato nel 1510 colpì ovviamente anche gli ebrei leccesi. Nel 1520 uno sparuto gruppo di ebrei si reinsediò nella città rimanendovi fino al 1541, anno dell’espulsione definitiva di tutti gli ebrei dall’Italia meridionale.

Informazioni sulla vita culturale della comunità di Lecce e di altri centri salentini nel corso del XV secolo ci vengono trasmesse dai vari manoscritti ebraici copiati alla fine del medioevo nella città e nei dintorni. Dai pochi dati dei manoscritti è difficile giungere a descrizioni esaustive della vita nell’ambiente ebraico salentino. Ad ogni modo i codici che analizzeremo in questo contributo testimoniano il precipuo interesse degli ebrei locali per la medicina, le scienze e la filosofia.

Si conoscono dieci copisti ebrei attivi a Lecce e nell’area salentina in un periodo che si estende per poco più di un secolo (1384-1494):

1) –‘Eliyyahu ben Dawid nezer Zahav ‘ibn Šoham, di origine bizantina. Di lui si conservano quattro manoscritti copiati negli anni1384-1425: il più antico, copiato a Valona, contiene una miscellanea di opere aggadiche, halachike, omiletiche e cabbalistiche, poi copiò per suo figlio le omelie di Yehošua ‘ibn Šu ‘aib, poi Il Trattato Zikron tov (buona memoria) commento letterale midrašico e cabbalistico al Pentateuco di Natan ben Šemu ‘el ha Rofe e Il Sefer ha-zikronot (libro dei ricordi), commento al Pentateuco di Avraham ibn Ezra.

2) – Dawid ben‘Eliyyahu nezer Zahav‘ibn Mu’allam, figlio del precedente, abitò a Lecce, dove ebbe un incarico significativo nella comunità e in altre città del Salento. Si conservano due manoscritti da lui copiati. Il più antico è una miscellanea medica (copiato a Specchia, nel basso Salento) e il secondo è una raccolta di scritti astronomici.

3) – Crescas Qalonymos di origine iberica, copiò a Lecce per il padre Crescas Me’ir Qalonymos (fine 1437) due opere di ‘Avraham bar Hiyya: I fondamenti della conoscenza e la torre della fede (trattato di filosofia) e Misura lineare e geometria (un’opera di matematica).

4) – Ya’aqov ben ‘Avraham ha-Kohen, copista di origine iberica. Di lui restano due manoscritti copiati a Lecce. Il primo è un’opera astrologica, il secondo comprende due opere mediche: il Canone di Avicenna (primo libro) e i capitoli di medicina di Guglielmo di Saliceto.

5) – Menahem ‘Amon ben Yishaq, copista di origine bizantina. Nel [5]201(1441)copiò a Lecce il secondo libro del Canone di Avicenna, nella versione ebraica di Yosef ben Yehošua’ha-Lorqi.

6) – Yešu’à ben Dawid ha-Kohen, copista di origine iberica. Ci restano undici manoscritti da lui copiati a Lecce e in altre località pugliesi, tra il 1452 e il 1478. Due di questi trascritti a Nardò (Libro dei capitoli di Ippocrate = aforismi, con il commento di Galeno, e due opere di medicina composte da Bernardo di Gordon) e poi completati a Gallipoli, e uno a Taranto (l’Antidotario), opera di medicina.

7) – Šelomo ben Nahman, copista di origine bizantina, copiò a lecce un libro di preghiera, un Siddur.

8) – Yiṣḥac ben Ša’ul, copista di origine iberica, copiò il Libro dei fondamenti di Euclide.

9) – Yiṣḥac ben Natan Kohen, copiò a Taranto tre miscellanee cabalistiche, “Completato qui, nella città di Taranto del regno di Napoli, martedì 3 Kislew dell’anno “voto” [(5)254], nel secondo anno dell’esilio dalla Spagna”.

10) – Un medico anonimo di origine iberica, copiò a Massafra per uso personale Il commento ai salmi di Dawid Qimḥi10.

Degli ebrei più illustri dell’Italia Meridionale è generalmente noto agli studiosi un Abraham, figlio del rabbino Meir o Mayr de Balmes, nato a Lecce, medico valente, filosofo, traduttore, grammatico, e professore nell’università di Padova. Egli contribuì a diffondere tra gli umanisti le dottrine filosofiche arabe, specialmente mediante pregevoli traduzioni dall’arabo in latino di numerose opere di Averroe. Come grammatico poi, dette nuovo e più razionale indirizzo allo studio della lingua ebraica, trattando per primo, tra i suoi connazionali separatamente e in modo speciale della sintassi. Abramo de Balmes, non solo era medico perché chiamato “Magister”, come tutti gli altri medici, ma era anche medico illustre e benemerito, perché godeva dei “privilegi” i quali, combattuti dall’università di Lecce gli furono, dal sovrano, riconfermati. E, si noti bene che, dicendosi essere stati questi privilegi concessi dai predecessori di Alfonso II e confermati da Ferdinando I, si deve risalire, per la data della loro prima concessione agli ultimi Angioini e ad Alfonso d’Aragona. Sicché il Balmes fioriva indiscutibilmente verso la fine della prima metà del secolo XV (il 12 novembre 1472, veniva nominato a vita e con l’annua provvigione di 300 ducati, medico della famiglia reale), estendendo i suoi privilegi anche ai sui successori11. A Lecce, vi è una via a lui dedicata, “Via Abramo Balmes”.

All’interno del Cimitero Monumentale di Lecce, voluta da Tancredi d’Altavilla, conte di Lecce e ultimo re dei Normanni, proprio come ricorda l’epigrafe posizionata sopra il portale è situata, anche, la bellissima chiesa di origine medievale dei santi Niccolò e Cataldo. L’iscrizione ricorda che la chiesa fu edificata in onore del santo patrono della città per sciogliere un voto che era stato garantito in seguito ad uno scampato naufragio nei pressi di Otranto. Si tratta di un magnifico edificio in stile romanico che venne completato nel 1180 e, in seguito, donato ai Benedettini.

All’interno della chiesa dei Santi Nicolò e Cataldo tra le varie manifatture vi sono le cinquecentesche opere di Gabriele Riccardi, come due acquasantiere figurate, incastonate nelle prime due colonne della navata centrale, e la superba statua di San Nicola, alta poco meno di due metri. Come è accaduto ad altri monumenti importanti di Lecce, anche questo gioiello di chiesa ha subito, attraverso il tempo e la storia, innumerevoli interventi e modifiche. Resta, comunque, molto chiaro l’impianto medievale, se pur contaminato dall’arte normanna e da quella araba. Dalla facciata salta all’occhio la severità dell’impronta romanico-pugliese mista alla stravaganza del barocco. Alla fine del XII secolo risale la costruzione dell’annesso convento, edificato sempre per volere di Tancredi. Nel centro del primo chiostro realizzato nel 1559, si erge un pozzo rinascimentale coperto da un’elegante edicola con colonne tortili, mentre il secondo chiostro venne aggiunto nel 1634. Questa statua maestosa del Santo Nicola, alta circa due metri, realizzata dal Riccardi e raccontata nella “Lecce Sacra” (1634) da Giulio Cesare Infantini, è una fonte preziosa oltre che per capire quale fosse lo stato dell’arte sacra sino al periodo della sua pubblicazione, anche per quanto riguarda la cultura iconografica salentina medievale.

La statua del santo ha di insolito, tra i ricchi e fastosi paramenti vescovili, un’effigie, un’occorrenza mutuata dall’ebraico “Adonay”, uno dei nomi di Dio, in genere usato per sostituire l’ineffabile tetragramma. L’ebraismo ci insegna che il nome di Dio, pur esistendo in forma scritta, è troppo sacro per essere pronunciato. A esso ci si riferisce, solo se necessario, attraverso l’appellativo “Adonay” (propriamente, “Nostro Signore”). Tale divieto non era imposto, però, al Sommo Sacerdote. Potrebbe essere, quindi, che il venerabile Santo da Mira, vi fosse per carica e titolo, iconograficamente associato? L’altra cosa che appare molto strana, in questa iconografia, è che la scritta ebraica “Adonay”, sulla statua del santo da Mira sia, tuttavia, impressa in caratteri quadrati e latineggianti. Un vero mistero, non collegabile ad altri casi simili conosciuti, non sufficiente da catalogarlo come fonte preesistente.

Fig. 2, Gabriele Riccardi, San Nicola, dopo il 1531 e prima del 1552, pietra leccese policromata e dorata, lecce, chiesa dei santi Niccolò e Cataldo
Fig. 3, Gabriele Riccardi, particolari iconografici della statua di san Nicola in lingua ebraica latinizzata

 

Inoltre va ricordato che fu proprio il Riccardi ad essere incaricato della riqualificazione urbana di un’area di Lecce ben precisa, cioè quella del ghetto ebraico, che fu cancellato fisicamente intorno al IV decennio del XVI secolo per far posto all’esteso complesso di chiesa e monastero per l’ordine dei Celestini del quale, proprio la Basilica di santa Croce si deve a un suo progetto. Solo la toponomastica attuale serba memoria dello status quo urbanistico precedente agli interventi cinquecenteschi [12].
Fino alla fine del Medioevo Lecce e molti altri paesi del Salento avevano la propria sinagoga, mentre ora la più vicina rimasta in piedi è quella di Trani, la Sinagoga “Scola Nova” edificata nel XIII secolo, trasformata in chiesa nel XVI, con l’espulsione degli ebrei locali e, tornata al suo uso originario, solo dal 2005.

La comunità ebraica era molto fiorente nel Salento, infatti sono molti i paesi di terra d’Otranto che possono annoverare nella loro storia una “Giudecca”: Soleto, Ortelle, Oria, Martina Franca, Otranto, Galatina, Nardò, Ugento, Gallipoli, Alessano e Tricase.

Quando con l’imperatore Carlo VIII ricominciò il doloroso periodo delle persecuzioni contro gli ebrei, questa comunità scomparve definitivamente dal Salento. A Lecce la Giudecca, che occupava tutta la zona del centro storico dove vi è ora Palazzo dei Celestini, la Basilica di Santa Croce, Palazzo Personè, Palazzo Adorno, ed altri ancora, venne presa di mira a cominciare dal 1463.
Anche a Nardò, nella prima metà del secolo XIV aveva preso piede un gruppo di proseliti della fede ebraica che, era per altro, ben favorito dall’abate benedettino di S. Maria, Guglielmo, contro il parere comune contrastante, tanto che questo suo comportamento fu annotato in un corposo elenco di crimini che gli vennero attribuiti, e che fu poi posto all’attenzione di papa Urbano III, nel 1367, dal clero locale.
A quell’epoca e sino al 1485 erano una cinquantina le famiglie ebraiche presenti nella comunità, come si evince dall’elenco dei diritti della chiesa di Nardò compilato in quell’anno. Gli ebrei annotati nell’elenco erano obbligati al pagamento dello “Jus Affidae” alla chiesa, e a molti di loro, la stessa, aveva concesso il beneficio della locazione, sia di abitazioni che di botteghe, per svolgervi i propri mestieri. Essi svolgevano diverse attività, ma prevalevano quelle della concia delle pelli per cui si guadagnavano spesso delle multe a causa dello svuotamento di acque putride, prodotte da questo lavoro, sulle pubbliche vie.

“In Nardò (notisi per quanto dirò) fu prescritto che le 50 case delli giudei contribuiscano come l’altri cetadini (Arch. Prov. di Lecce, Università di Nardò, 1469 e Diplomi del 1465 nell’Arch. Vescovile). In Ostuni nel 1495 (Libro Rosso Ostuni) si trattò di Christiani novelli, cioè ebrei convertiti, e di marrani cioè ebrei convertiti per paura e in apparenza. In Lecce avevano comunità indipendente e finanche la Sinagoga e il cimiter e foro sempre incorporati et uniti cum la dieta Università, contribuendo in omne peso et pagamento, et cussì gaudendo omne previlegio et immunità quali gaudevano li altri cetadini (Libro Rosso di Lecce, anno 1467)”13.

Comportamenti trasgressivi verso le regole della città o nell’ambito del privato erano molto frequenti sia tra gli ebrei stessi che nei confronti dei cristiani, come si evince dalle note nel Registro delle multe inflitte dal capitano nell’anno dell’VIII a indizione (settembre 1489-1490). Molti giudei vi compaiono sia come parte lesa che come accusati, per litigi, ingiurie, minacce, violazioni di bandi, giochi proibiti (carte, dadi). Gli attriti con le autorità locali per motivi fiscali continuarono nel 1494, e questo certamente accrebbe l’animosità contro gli ebrei, che si espresse con violenza l’anno dopo, quando Carlo VIII di Francia invase il Regno.

Gli ebrei, depredati dei beni e costretti a rinunciare ai propri crediti, trovarono scampo nella vicina Gallipoli, le cui autorità ottennero il 7 dicembre 1501 da Consalvo de Cordova, Gran Capitano dell’esercito spagnolo, che potessero recuperare i beni mobili e stabili di cui erano stati privati. Gli ebrei tornarono a Nardò agli inizi del vice regno nel 1503, per poi esulare nuovamente con l’Editto di espulsione emanato da Ferdinando il cattolico nel 1510. Ma in quegli anni, proprio nella comunità neretina, “Una testimonianza dell’apertura all’ebraismo dell’umanità si può desumere da una lettera del 1511 scritta da Antonio De Ferraris Galateo, intitolata “De Neophitys”, in cui l’autore difende la scelta del figlio del duca di Nardò N. Bellisario D’Acquaviva di sposare un’ebrea convertita. Vista l’epoca, l’ingresso di una discendente di giudei in un casato tanto illustre non poteva che suscitare stupori e maldicenze, ma egli, nella missiva esaltò la nobiltà dei giudei e della loro fede”14

Isabella la Cattolica divenuta moglie di Ferdinando II d’Aragona sull’onda della reconquista convinse il marito a espellere gli ebrei. L’espulsione dai regni spagnoli fu, così, decretata nel 1492 con il “decreto di Alhambra”. Unica via d’uscita era la conversione al cattolicesimo. Solo in Sicilia si contavano oltre 90 giudecche con circa 37 mila ebrei, di cui a Palermo e a Siracusa comunità di circa 5 mila ciascuna. Il re Ferdinando, divenuto anche re di Napoli nel 1504, il 23 novembre 1510 emise un ulteriore atto di espulsione degli ebrei da tutta l’Italia Meridionale, però evitabile con il pagamento di 300 ducati. Solo nel 1542 il viceré Pedro di Toledo emise il definitivo decreto di espulsione per gli ebrei dal regno di Napoli.

Le ultime comunità che già dalla grande diaspora del II secolo si erano insediate fra Brindisi e Roma sparirono dalle realtà urbane in cui avevano trovato accoglienza. Fu papa Paolo IV con la bolla “Cum nimis absurdum” del 1555 che forzò gli ebrei a vivere in un’area specifica, prevedendo una serie di restrizioni particolari, il ghetto, e papa Pio V raccomandò che tutti gli stati confinanti istituissero dei ghetti, che sarebbero poi stati in vigore per secoli15.

Così, tornando alla giudecca di Lecce, nel 1495, si arrivò a dare alle fiamme persino la sinagoga e da quel momento tutti gli ebrei privati dei privilegi e spogliati da ogni bene posseduto furono cacciati definitivamente. La Sinagoga si trovava proprio davanti alla chiesa di Santa Croce, accanto a quello che ora è il più bel sito barocco leccese. Nel punto della città in cui oggi pulsa il cuore nevralgico della sua movida, un tempo si ergeva il quartiere ebraico.

All’interno di Palazzo Adorno che, di recente, per volontà dell’assessore Andrea Guido, è stato aperto al pubblico per delle visite guidate, c’è una cosa molto singolare che testimonia il passato: davanti all’architrave che porta, nei sotterranei, verso quello che era lo scarico fognante della casa, se ci si curva e si osservano le chianche di pietra dal basso, si nota una iscrizione ebraica: “Questa non è altro che la casa di Dio”(Genesi, 28, 11-22), che probabilmente avrebbe dovuto continuare con la dicitura “e questa è la porta del cielo!”, la pietra dove è incisa la scritta è un unico blocco che, sembrerebbe lecito presumere provenga dalla sinagoga distrutta, quindi materiale di risulta riutilizzato durante il restauro del palazzo.

A proposito di questa ricollocazione dal “varco di entrata in un luogo sacro” al “varco di entrata, del sotterraneo, che portava alla zona fognante del palazzo”, c’è chi ipotizza che, in quel tempo ciò avvenne non per caso ma, per l’appunto, in segno di disprezzo verso coloro che avevano posseduto quel luogo, prima di essere scacciati dalla città. Ricordiamo che Palazzo Adorno fu, ancora una volta, un’altra delle costruzioni che vennero avviate, intorno al 1568, su disegno dell’architetto Gabriele Riccardi, che era stato incaricato di ricostruire sulla giudecca; la magnificente dimora divenne proprietà della nobile famiglia napoletana dei Loffredo, imparentati con i De Capua, prima di passare di proprietà al genovese Gabriele Adorno, un generale della marina imperiale di Carlo V, residente a Lecce.

Nei sotterranei, all’epoca della giudecca, pare che vi fosse il cimitero ebraico, nonché delle vasche di abluzione, per le funzioni ebraiche che si contemplavano nella bibbia ebraica e che sono elaborate nella Mishnah e nel Talmud. In questi sotterranei infatti, scorre la purissima acqua del fiume Idume, al primo livello della sua falda acquifera, che sicuramente rappresentava la loro cisterna. Il fiume attraversa tutta la città e sfocia nel bacino di Torre Chianca.

Fig. 4-Via della Sinagoga, Lecce.

 

Fig. 5-Via della Sinagoga, Lecce.
Fig. 6, scorcio del sotterraneo di palazzo Adorno
Fig. 7, Pietra, posta all’ingresso della zona fognante, con la scritta ebraica
Fig.8, Pietra posta all’ingresso della zona fognante con la scritta ebraica
Fig.9-Il fiume Idume nel sotterraneo del palazzo
Fig.10- Lecce, Via Abramo Balnes

 

NOTE
1 cfr: Luisa Ferretti Cuomo, Sintagmi e frasi ibride volgare-ebraico nelle glosse alachiche dei secoli XI-XII, pp. 321-334 in Lingua, Cultura E Intercultura: l’italiano e le altre lingue; atti del VIII convegno SILFI, Società internazionale di linguistica e filologia italiana (Copenaghen, 22-26 giugno 2004), a cura di Iørn Korzen, Samfundslitteratur, Copenaghen: 2005.
2 cfr: L. F. Cuomo, Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi 138, «Medioevo Romanzo» IV (1977), pp. 185-271, Gaetano Macchiaroli, Napoli,1977.
http://belsalento.altervista.org/a-parma-il-piu-antico-manoscritto-della-lingua-salentina-del-1072-con-caratteri-ebraici/?upm_export=print

3 P. Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, a cura di S. BERTELLI, 1,2, cap.2. «era al Puglia e la Calabria nei tempi di Onorio molto infestata dai giudei i quali, licenziosamente vivendo, di non poca confusione eran cagione». Stamperia Giovanni Gravier, Napoli, 1770.

4 G. I. Ascoli, Iscrizioni inedite o mal note greche, latine, ebraiche di anctichi sepolcri giudaici del Napoletano, Erm. Loescher, 1880.

5 Shabbatai Donnolo, Sefer Hakhmoni a cura di Piergabriele Mancuso, Giuntina, Firenze, 2009.

6 N. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia Meridionale dall’età romana al secolo XVIII, Edit. Il Vessillo Israelitico, Torino, 1915.

7 F. Lelli, (a cura di) Gli ebrei del Salento, secoli IX-XVI, p.12, Congedo Editore, Galatina, 2013
.
8 http://siba-ese.unisalento.it/index.php/idomeneo/article/viewFile/15290/13286

9https://www.fondazionelevi.it/wpcontent/uploads/2016/08/RRR.sinagoghe.Abstract.Fubini.pdf.

10 F. Lelli, (a cura di) Gli ebrei del Salento, secoli IX-XVI, pp.256-265, Congedo Editore, Galatina, 2013.
11 N. Ferorelli, Abramo De Balmes ebreo di Lecce e i suoi parenti, estratto dall’archivio storico per le prov. nap. Anno XXXI, fasc. IV, Stab. Tip. Luigi Pierro e Figlio, Napoli, 1906.
12 F. Lelli, (a cura di) pp.355-362, 2013
13 E. Vernole, Gli ebrei nel Salento, in Rinascenza Salentina n. s. 1, pp. 17-24. (1933).
14 https://www7.tau.ac.il/omeka/italjuda/items/show/420
15 https://it.wikipedia.org/wiki/Giudecca_(quartiere_ebraico)

Antica presenza ebraica a Grottaglie. L’attività di tintori e conciapelli

 

La festa delle trombe

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare comune. Grottaglie, Bottega Tromba di S. Pietro (bottega Vestita, Grottaglie)

di Rosario Quaranta

 

Stando a una tradizione medievale, la presenza di ebrei in alcune città della Puglia risalirebbe addirittura agli anni immediatamente successivi alla caduta di Gerusalemme del ‘70 dopo Cristo ad opera di Tito e alla conseguente deportazione degli abitanti: “Quelli che (Tito) stabilì in Taranto, Otranto e in altre città della Puglia fu di circa 5.000”si legge nell’opera  Sefer Iosefon risalente al X secolo. Se questa notizia suscita qualche dubbio o perplessità circa la realtà storica dell’avvenimento, non altrettanto si può dire circa la presenza di ebrei nella città bimare a partire dalla fine del quarto secolo dopo Cristo, che è attestata  da una consistente documentazione epigrafica in greco, latino ed ebraico, conservata nel Museo Nazionale di Taranto e da molti altri documenti che Cesare Colafemmina ha studiato e proposto nella monografia Gli ebrei a Taranto: fonti documentarie (Bari 2005).

Per l’illustre studioso quella degli ebrei fu una presenza piuttosto consistente che diede vita a una vera e propria cultura ebraica pugliese e che vide nei secoli VIII-IX una grande fioritura poetica.  Poiché la maggior parte delle iscrizio­ni sono in latino, si pensa che la colo­nia ebraica si identificò con l’elemento latino-longobardo piuttosto tollerante nei loro confronti. I Longobardi presero Taranto tra il 670 e il 680, togliendola a Bisanzio, e la tennero fino all’840, quando venne occupata dagli Arabi, scacciati a loro volta 40 anni dopo dai Bizantini che ripristinarono la cultura greca.

Un riferimento ufficiale alla presenza degli Ebrei a Taranto si ritrova  nel diploma del 1133 di  Ruggero II (confermato poi nel 1195 da Enrico VI di Svevia) in cui il re normanno, accogliendo le richieste del vescovo Rosemanno, concesse a lui e alla sua chiesa le donazioni e i privilegi già fatti dal duca Roberto il Guiscardo, dal prin­cipe Boemondo e dalla madre di questi Costanza. Fra le dona­zioni c’erano molti casali tra i quali Grottaglie, ma c’erano pure i redditi sulle attività dei giudei della città.

Grottaglie. La gravina del Fullonese. Qui gli ebrei, prima di trasferirsi nella Giudecca, esercitarono le loro attività di tintori e conciapelli

Oltre che a Taranto, ebrei e neofiti si impiantarono in alcune località vicine. Altri vi immigravano da sedi più lontane. Talora si trattava di presenze occasionali dovute a motivi commerciali o professionali, come a Massafra. Presenze stabili sono attestate a Grottaglie, Martina Franca, Manduria, Castellaneta. In que­st’ultima cittadina è ancora in uso il toponimo Via Giudea. La vita degli ebrei a Taranto non era fatta solo di commercio, artigianato, prestito bancario. Alcuni codici ebraici del XV seco­lo ci illuminano sugli aspetti più profondi dell’identità ebraica, quella culturale e religiosa (…).

Federico, figlio di Ferrante I d’Aragona, con i Capitoli del 12 giugno 1498 concesse agli ebrei una lunga serie di garanzie e di riconoscimenti di diritti. Successivamente, con la conquista spagnola del regno di Napoli (1503) si assistette al tramonto e alla fine del Giudaismo dell’Italia meridionale, dapprima col bando di espulsione del 1510 di Ferdinando il Cattolico che interessava tutti i giudei e i “cristiani novelli”, salvo poche eccezioni; e infine con Carlo V che “nel maggio 1541 emanò un decreto con cui ordinava senza pietà a tutti i giudei che abitavano nel regno di Napoli di uscire dalle sue terre entro il mese di ottobre. Entro la data stabilita, i giudei pugliesi lasciarono il Regno: alcuni si avviarono alla volta di Roma, gli altri si imbarcarono chi per Venezia, chi per Ragusa, la maggior parte per Corfù e Salonicco. Restarono solo quei neofiti che si erano assimilati alla popolazione cristiana e nella quale poco per volta si dissolsero. Ma le autorità non li dimenticavano, e per parecchio tempo restò loro appiccicata la qualifica, invero poco onorevole e sempre fonte di sospetti, di “cristiani novelli” (Colafemmina).
Secondo alcuni documenti e una tradizione costante, anche a Grottaglie si è registrata quindi una attiva presenza ebraica tra basso Medioevo e primo Cinquecento.

Inizialmente, secondo la ricostruzione fatta da Ciro Cafforio nella monografia La Lama del Fullonese (Taranto 1961), essi si stanziarono nella gravina del Fullonese per esercitarvi la tintoria e la concia delle pelli, come il toponimo lascia intendere: “i giudei venuti in quel tempo, nella nuova dimora trovarono condizioni favorevoli all’esercizio e allo sviluppo dei loro mestieri. La pastorizia e l’allevamento di bovini di razza pregiata, detti dal pelo lom­bardo, erano praticati su larga scala dai naturali del luogo e forniva­no le pelli da conciare; i boschi poi offrivano abbondantemente fo­glie di lentischio e di corbezzolo, cortecce di quercia e noci di galla: vegetali questi che, contenendo grande quantità di tannino, di acido gallico e di mannite, erano usati direttamente come materie concian­ti. In molte antiche scritture una contrada dell’agro di Grottaglie è chiamata «Monte di Giuda seu la strada di Ceglie». Essa veniva a trovarsi al nord-est dell’abitato ed è così precisata nella Platea dei beni della Mensa Arcivescovile di Taranto. Per essere detta località macchiosa con cespugli di corbezzoli e di lentischi, non sembra difficile che i giudei del Fullonese l’abbiano presa in enfiteusi o secondo l’uso longobardo col sistema curtense, donde il nome «corte » per la raccolta della «frasca». Sugli spalti della lama è ancora visibile qualche vasca di macerazione, scavata nella roccia. L’acqua necessaria a tale uso sulle prime fu attinta da pozzi esistenti nel fondo valle; in seguito, per le maggiori necessità, il Pubblico Reggimento fece scavare dei pozzi di acqua viva a po­nente della lama nel luogo che da allora si disse «de puteis novis» (…).

Antichi mestieri a Grottaglie: lu cunzatòri e lu panaràro in un acquerello di Angelo Pio De Siati (1998)

In conseguenza poi del mestiere di tintori, la tradizione ricorda che gli Ebrei diffusero negli orti e nei giardini di Grottaglie la cul­tura del melograno, il frutto del quale, come è noto, dà la corteccia che si usa per tingere di giallo le stoffe e i marocchini. Circa la religione, è superfluo dire che gli immigrati, quando si stabilirono nella lama del Fullonese, professavano il giudaismo, al quale rimasero fedeli ancora per qualche secolo. Il luogo in cui si riu­nivano per pregare e leggerela Scritturaè visibile anche oggi. Sulla fiancata destra della lama e propriamente quasi alla metà, là dove il solco vallivo forma un gomito più accentuato, si aprono due grot­te discretamente conservate (…). Con la costruzione delle mura del paese, le grot­te della lama del Fullonese vennero tagliate fuori e allora gli abitan­ti si ridussero nell’area fortificata. Gli Ebrei ebbero a loro disposizio­ne un rione nella parte sud-ovest del paese, vicino alla porta S. An­tonio. Il rione fu detto «la Giudeca»; la strada di accesso «de li cuoiai » prima, e «delli scarpari» poi. La chiesa ivi esistente fu detta S. Stefano «dei Giudei» (…). La conversione fu una conseguenza naturale  della convivenza col popolo grottagliese e una necessità. Anche a volersi mantenere fedeli alle tradizionali credenze, come è il carattere spiccato dei giu­dei, gl’inevitabili rapporti economici e sociali con i cristiani, annessi e connessi con i mestieri che esercitavano, indebolirono a poco a po­co l’intransigenza dei loro principi religiosi. Ma fu anche una neces­sità : 1) per beneficiare delle concessioni e privilegi che i principi lar­givano agli abitanti di Grottaglie; 2) per sottrarsi alle decime dovu­te all’Arcivescovo di Taranto, che per giunta era feudatario del luogo; 3) per liberarsi dal disprezzo col quale venivano fatti segno nella settimana di Passione, quando cioè la Chiesa commemora la morte di Cristo, dovuta proprio ai giudei.

Questi novelli cristiani nel corso dei secoli esercitarono sempre i mestieri di tintori e di conciapelli; alcuni si elevarono al rango di commercianti, tenendo botteghe di «pannacciari di piazza, propria­mente sottola Ven. Confraternitadel S.S. Rosario». Essi portaro­no la loro attività a sì alto grado da meritare l’esenzione delle tasse, caso unico nella storia ferocemente fiscale di Grottaglie che si di­batteva in deficit e debiti, liquidati solo quando fu abolito il feudalesimo (…) I giudei, entrando dunque ad abitare nella cerchia delle mura di Grottaglie, al principio del secolo XIV si unirono ai Grottagliesi anche spiritualmente, e contribuirono in tutti i tempi a dar lustro alla patria adottiva.”

Censuario del 1417 incui viene riportato il nome di Nicolao, un ebreo “neophita” o “cristiano novello” di Grottaglie

Altre testimonianze documentali sulla presenza degli ebrei a Grottaglie, oltre quelle richiamate dal Cafforio, ho potuto ritrovarle in alcuni codici e pergamene dei secoli XV-XVI conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Taranto e nell’Archivio Capitolare di Grottaglie, e in particolare:
a.    Registro censuario del 1417 in cui si parla di una casa e di un terreno locati rispettivamente per venti anni e in perpetuo  a “Nicolao neophito”, ossia a un giudeo convertito al cristianesimo (Registrum exaratum in anno MCCCCXVII pro Maiori Ecclesia Annunciationis Criptalearum, Ms in Archivio Arcivescovile di Taranto).

La pergamena del 1486 incui figurano i nomi dei due giudei di Grottaglie, Mosè e Giacobbe

b.    Una pergamena del 12 agosto1486, in cui si fa riferimento al diacono Angelo de Gasparro che chiede copia di una sentenza del capitano arcivescovile Darede de Cava, riguardante i giudei Mosè e Giacobbe da Rossano contro Mico de Michi (Archivio Capitolare di Grottaglie, Pergamene, Notaio Cataldo De Tipaldo)

  1. Alcuni riferimenti nel protocollo del notaio Federico Ciracì (Federicus Cirasinus) dai quali si ha notizia di una località extraurbana denominata S. Pietro de Iudeis (Atto del 2 novembre 1531) e dell’esistenza della Giudecca presso le mura (in convicinio de Iudeca iuxta moenia; atto del 24 gennaio 1532). In quest’ultimo documento il venerabile D. Donato Ristaino affitta a mastro Geronimo Manigrasso una casa palazzata con camera e cisterna sita appunto nel rione della Giudecca, per nove anni e per cinque ducati l’anno, per farci una conceria di pelli e per esercitarvi tutte le attività connesse all’arte del conciapelli.

Gli Ebrei avrebbero lasciato il ricordo della loro permanenza a Grottaglie non solo nella onomastica e nella vita economica, ma anche in una manifestazione folcloristica che si svolgeva annualmente il 29 giugno.

Si tratta della festa delle trombe che così viene descritta dal Cafforio: “questa consisteva nell’allietare maggiormente la ricorrenza religiosa col suono delle trombe di argilla, di fabbricazione locale, dai primi vespri della vigi­lia fino alla notte del 29 giugno. Simpatica pratica folcloristica, que­sta, e forse unica nella nostra regione, che fu anche introdotta in Grottaglie dai cristiani novelli. È  noto che gli Ebrei usarono le trom­be da principio nel Tabernacolo nei giorni delle feste solenni, quan­do immolavansi gli olocausti e le vittime di pacificazione; in seguito nel tempio per annunziarvi le feste solenni, l’ingresso del giorno di sabato e i giorni della luna nuova (…) I ragazzi, appena venuti in possesso delle trombe, toccavano, co­me suoi dirsi, il cielo col dito le provavano, tentavano gli acuti da prima con cautela per non impressionare bruscamente gli orecchi dei familiari e poi a gran fiato. Chi poteva uscire all’aperto, sulla strada o in cortile, si sbizzarriva a volontà, e così il frastuono comincia­va. Ma il più alto grado dello strepito si raggiungeva la sera della fe­sta nei pressi della chiesa di S. Pietro (…) A notte alta tornava il silenzio e quei suoni non si sentivano più per un anno preciso, perché a festa finita gli strumenti di argilla anda­vano in frantumi.”

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare ritorto. Grottaglie, Bottega Caretta, Grottaglie

La “festa delle trombe” (e chi scrive la ricorda bene), interrottasi per molti decenni, è stata ripresa con successo da qualche anno grazie al “Piccolo Teatro di Grottaglie”. E così anche quest’anno, il 29 giugno, giorno consacrato ai santi Pietro e Paolo, nella piazzetta antistante la piccola chiesa dedicata al principe degli apostoli, sarà possibile ascoltare, tra canti, poesie e musiche popolari, quel caratteristico, roco suono delle effimere trombe in terracotta che rinnoverà il ricordo di una tradizione che si perde nel buio dei tempi.

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

Antica presenza ebraica a Grottaglie. L’attività di tintori e conciapelli

La festa delle trombe

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare comune. Grottaglie, Bottega Tromba di S. Pietro (bottega Vestita, Grottaglie)

di Rosario Quaranta

 

Stando a una tradizione medievale, la presenza di ebrei in alcune città della Puglia risalirebbe addirittura agli anni immediatamente successivi alla caduta di Gerusalemme del ‘70 dopo Cristo ad opera di Tito e alla conseguente deportazione degli abitanti: “Quelli che (Tito) stabilì in Taranto, Otranto e in altre città della Puglia fu di circa 5.000”si legge nell’opera  Sefer Iosefon risalente al X secolo. Se questa notizia suscita qualche dubbio o perplessità circa la realtà storica dell’avvenimento, non altrettanto si può dire circa la presenza di ebrei nella città bimare a partire dalla fine del quarto secolo dopo Cristo, che è attestata  da una consistente documentazione epigrafica in greco, latino ed ebraico, conservata nel Museo Nazionale di Taranto e da molti altri documenti che Cesare Colafemmina ha studiato e proposto nella monografia Gli ebrei a Taranto: fonti documentarie (Bari 2005).

Per l’illustre studioso quella degli ebrei fu una presenza piuttosto consistente che diede vita a una vera e propria cultura ebraica pugliese e che vide nei secoli VIII-IX una grande fioritura poetica.  Poiché la maggior parte delle iscrizio­ni sono in latino, si pensa che la colo­nia ebraica si identificò con l’elemento latino-longobardo piuttosto tollerante nei loro confronti. I Longobardi presero Taranto tra il 670 e il 680, togliendola a Bisanzio, e la tennero fino all’840, quando venne occupata dagli Arabi, scacciati a loro volta 40 anni dopo dai Bizantini che ripristinarono la cultura greca.

Un riferimento ufficiale alla presenza degli Ebrei a Taranto si ritrova  nel diploma del 1133 di  Ruggero II (confermato poi nel 1195 da Enrico VI di Svevia) in cui il re normanno, accogliendo le richieste del vescovo Rosemanno, concesse a lui e alla sua chiesa le donazioni e i privilegi già fatti dal duca Roberto il Guiscardo, dal prin­cipe Boemondo e dalla madre di questi Costanza. Fra le dona­zioni c’erano molti casali tra i quali Grottaglie, ma c’erano pure i redditi sulle attività dei giudei della città.

Grottaglie. La gravina del Fullonese. Qui gli ebrei, prima di trasferirsi nella Giudecca, esercitarono le loro attività di tintori e conciapelli

Oltre che a Taranto, ebrei e neofiti si impiantarono in alcune località vicine. Altri vi immigravano da sedi più lontane. Talora si trattava di presenze occasionali dovute a motivi commerciali o professionali, come a Massafra. Presenze stabili sono attestate a Grottaglie, Martina Franca, Manduria, Castellaneta. In que­st’ultima cittadina è ancora in uso il toponimo Via Giudea. La vita degli ebrei a Taranto non era fatta solo di commercio, artigianato, prestito bancario. Alcuni codici ebraici del XV seco­lo ci illuminano sugli aspetti più profondi dell’identità ebraica, quella culturale e religiosa (…).

Federico, figlio di Ferrante I d’Aragona, con i Capitoli del 12 giugno 1498 concesse agli ebrei una lunga serie di garanzie e di riconoscimenti di diritti. Successivamente, con la conquista spagnola del regno di Napoli (1503) si assistette al tramonto e alla fine del Giudaismo dell’Italia meridionale, dapprima col bando di espulsione del 1510 di Ferdinando il Cattolico che interessava tutti i giudei e i “cristiani novelli”, salvo poche eccezioni; e infine con Carlo V che “nel maggio 1541 emanò un decreto con cui ordinava senza pietà a tutti i giudei che abitavano nel regno di Napoli di uscire dalle sue terre entro il mese di ottobre. Entro la data stabilita, i giudei pugliesi lasciarono il Regno: alcuni si avviarono alla volta di Roma, gli altri si imbarcarono chi per Venezia, chi per Ragusa, la maggior parte per Corfù e Salonicco. Restarono solo quei neofiti che si erano assimilati alla popolazione cristiana e nella quale poco per volta si dissolsero. Ma le autorità non li dimenticavano, e per parecchio tempo restò loro appiccicata la qualifica, invero poco onorevole e sempre fonte di sospetti, di “cristiani novelli” (Colafemmina).
Secondo alcuni documenti e una tradizione costante, anche a Grottaglie si è registrata quindi una attiva presenza ebraica tra basso Medioevo e primo Cinquecento.

Inizialmente, secondo la ricostruzione fatta da Ciro Cafforio nella monografia La Lama del Fullonese (Taranto 1961), essi si stanziarono nella gravina del Fullonese per esercitarvi la tintoria e la concia delle pelli, come il toponimo lascia intendere: “i giudei venuti in quel tempo, nella nuova dimora trovarono condizioni favorevoli all’esercizio e allo sviluppo dei loro mestieri. La pastorizia e l’allevamento di bovini di razza pregiata, detti dal pelo lom­bardo, erano praticati su larga scala dai naturali del luogo e forniva­no le pelli da conciare; i boschi poi offrivano abbondantemente fo­glie di lentischio e di corbezzolo, cortecce di quercia e noci di galla: vegetali questi che, contenendo grande quantità di tannino, di acido gallico e di mannite, erano usati direttamente come materie concian­ti. In molte antiche scritture una contrada dell’agro di Grottaglie è chiamata «Monte di Giuda seu la strada di Ceglie». Essa veniva a trovarsi al nord-est dell’abitato ed è così precisata nella Platea dei beni della Mensa Arcivescovile di Taranto. Per essere detta località macchiosa con cespugli di corbezzoli e di lentischi, non sembra difficile che i giudei del Fullonese l’abbiano presa in enfiteusi o secondo l’uso longobardo col sistema curtense, donde il nome «corte » per la raccolta della «frasca». Sugli spalti della lama è ancora visibile qualche vasca di macerazione, scavata nella roccia. L’acqua necessaria a tale uso sulle prime fu attinta da pozzi esistenti nel fondo valle; in seguito, per le maggiori necessità, il Pubblico Reggimento fece scavare dei pozzi di acqua viva a po­nente della lama nel luogo che da allora si disse «de puteis novis» (…).

Antichi mestieri a Grottaglie: lu cunzatòri e lu panaràro in un acquerello di Angelo Pio De Siati (1998)

In conseguenza poi del mestiere di tintori, la tradizione ricorda che gli Ebrei diffusero negli orti e nei giardini di Grottaglie la cul­tura del melograno, il frutto del quale, come è noto, dà la corteccia che si usa per tingere di giallo le stoffe e i marocchini. Circa la religione, è superfluo dire che gli immigrati, quando si stabilirono nella lama del Fullonese, professavano il giudaismo, al quale rimasero fedeli ancora per qualche secolo. Il luogo in cui si riu­nivano per pregare e leggerela Scritturaè visibile anche oggi. Sulla fiancata destra della lama e propriamente quasi alla metà, là dove il solco vallivo forma un gomito più accentuato, si aprono due grot­te discretamente conservate (…). Con la costruzione delle mura del paese, le grot­te della lama del Fullonese vennero tagliate fuori e allora gli abitan­ti si ridussero nell’area fortificata. Gli Ebrei ebbero a loro disposizio­ne un rione nella parte sud-ovest del paese, vicino alla porta S. An­tonio. Il rione fu detto «la Giudeca»; la strada di accesso «de li cuoiai » prima, e «delli scarpari» poi. La chiesa ivi esistente fu detta S. Stefano «dei Giudei» (…). La conversione fu una conseguenza naturale  della convivenza col popolo grottagliese e una necessità. Anche a volersi mantenere fedeli alle tradizionali credenze, come è il carattere spiccato dei giu­dei, gl’inevitabili rapporti economici e sociali con i cristiani, annessi e connessi con i mestieri che esercitavano, indebolirono a poco a po­co l’intransigenza dei loro principi religiosi. Ma fu anche una neces­sità : 1) per beneficiare delle concessioni e privilegi che i principi lar­givano agli abitanti di Grottaglie; 2) per sottrarsi alle decime dovu­te all’Arcivescovo di Taranto, che per giunta era feudatario del luogo; 3) per liberarsi dal disprezzo col quale venivano fatti segno nella settimana di Passione, quando cioè la Chiesa commemora la morte di Cristo, dovuta proprio ai giudei.

Questi novelli cristiani nel corso dei secoli esercitarono sempre i mestieri di tintori e di conciapelli; alcuni si elevarono al rango di commercianti, tenendo botteghe di «pannacciari di piazza, propria­mente sottola Ven. Confraternitadel S.S. Rosario». Essi portaro­no la loro attività a sì alto grado da meritare l’esenzione delle tasse, caso unico nella storia ferocemente fiscale di Grottaglie che si di­batteva in deficit e debiti, liquidati solo quando fu abolito il feudalesimo (…) I giudei, entrando dunque ad abitare nella cerchia delle mura di Grottaglie, al principio del secolo XIV si unirono ai Grottagliesi anche spiritualmente, e contribuirono in tutti i tempi a dar lustro alla patria adottiva.”

Censuario del 1417 incui viene riportato il nome di Nicolao, un ebreo “neophita” o “cristiano novello” di Grottaglie

Altre testimonianze documentali sulla presenza degli ebrei a Grottaglie, oltre quelle richiamate dal Cafforio, ho potuto ritrovarle in alcuni codici e pergamene dei secoli XV-XVI conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Taranto e nell’Archivio Capitolare di Grottaglie, e in particolare:
a.    Registro censuario del 1417 in cui si parla di una casa e di un terreno locati rispettivamente per venti anni e in perpetuo  a “Nicolao neophito”, ossia a un giudeo convertito al cristianesimo (Registrum exaratum in anno MCCCCXVII pro Maiori Ecclesia Annunciationis Criptalearum, Ms in Archivio Arcivescovile di Taranto).

La pergamena del 1486 incui figurano i nomi dei due giudei di Grottaglie, Mosè e Giacobbe

b.    Una pergamena del 12 agosto1486, in cui si fa riferimento al diacono Angelo de Gasparro che chiede copia di una sentenza del capitano arcivescovile Darede de Cava, riguardante i giudei Mosè e Giacobbe da Rossano contro Mico de Michi (Archivio Capitolare di Grottaglie, Pergamene, Notaio Cataldo De Tipaldo)

  1. Alcuni riferimenti nel protocollo del notaio Federico Ciracì (Federicus Cirasinus) dai quali si ha notizia di una località extraurbana denominata S. Pietro de Iudeis (Atto del 2 novembre 1531) e dell’esistenza della Giudecca presso le mura (in convicinio de Iudeca iuxta moenia; atto del 24 gennaio 1532). In quest’ultimo documento il venerabile D. Donato Ristaino affitta a mastro Geronimo Manigrasso una casa palazzata con camera e cisterna sita appunto nel rione della Giudecca, per nove anni e per cinque ducati l’anno, per farci una conceria di pelli e per esercitarvi tutte le attività connesse all’arte del conciapelli.

Gli Ebrei avrebbero lasciato il ricordo della loro permanenza a Grottaglie non solo nella onomastica e nella vita economica, ma anche in una manifestazione folcloristica che si svolgeva annualmente il 29 giugno.

Si tratta della festa delle trombe che così viene descritta dal Cafforio: “questa consisteva nell’allietare maggiormente la ricorrenza religiosa col suono delle trombe di argilla, di fabbricazione locale, dai primi vespri della vigi­lia fino alla notte del 29 giugno. Simpatica pratica folcloristica, que­sta, e forse unica nella nostra regione, che fu anche introdotta in Grottaglie dai cristiani novelli. È  noto che gli Ebrei usarono le trom­be da principio nel Tabernacolo nei giorni delle feste solenni, quan­do immolavansi gli olocausti e le vittime di pacificazione; in seguito nel tempio per annunziarvi le feste solenni, l’ingresso del giorno di sabato e i giorni della luna nuova (…) I ragazzi, appena venuti in possesso delle trombe, toccavano, co­me suoi dirsi, il cielo col dito le provavano, tentavano gli acuti da prima con cautela per non impressionare bruscamente gli orecchi dei familiari e poi a gran fiato. Chi poteva uscire all’aperto, sulla strada o in cortile, si sbizzarriva a volontà, e così il frastuono comincia­va. Ma il più alto grado dello strepito si raggiungeva la sera della fe­sta nei pressi della chiesa di S. Pietro (…) A notte alta tornava il silenzio e quei suoni non si sentivano più per un anno preciso, perché a festa finita gli strumenti di argilla anda­vano in frantumi.”

Tromba di San Pietro in terracotta. Esemplare ritorto. Grottaglie, Bottega Caretta, Grottaglie

La “festa delle trombe” (e chi scrive la ricorda bene), interrottasi per molti decenni, è stata ripresa con successo da qualche anno grazie al “Piccolo Teatro di Grottaglie”. E così anche quest’anno, il 29 giugno, giorno consacrato ai santi Pietro e Paolo, nella piazzetta antistante la piccola chiesa dedicata al principe degli apostoli, sarà possibile ascoltare, tra canti, poesie e musiche popolari, quel caratteristico, roco suono delle effimere trombe in terracotta che rinnoverà il ricordo di una tradizione che si perde nel buio dei tempi.

I murales ebrei di Santa Maria al Bagno. Per non dimenticare!

di Gianni Ferraris

Prendendo la litoranea da Gallipoli verso nord si passa per alcune frazioni sulla marina. Sono paesini prevalentemente di seconde case. In estate è un pullulare di turisti, di lingue, di culture diverse. Negli altri mesi invece la calma è immensa. Poche persone, il mare che accompagna con il suo sottofondo di rumori più o meno cupi, pescatori in lontananza. Sono luoghi in cui è bello sedersi e guardare il tempo scorrere con i pensieri che lo accompagnano. Posti battuti dal maestrale che porta freddo, a tratti la roccia è stata tagliata per far passare la strada. Si transita fra due muri nella “montagna spaccata” come la chiamano qui.

Ebrei a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

E subito dopo il mare riappare. E la storia è passata da qui come da ogni luogo e sono racconti ora, quasi fiabe. Gli abitanti locali li danno per scontati, ma per me che ascolto per la prima volta sono evocativi di come la solidarietà sia ovvia, non derogabile, in queste terre. Lo straniero, il diverso, è accolto e spesso protetto, soprattutto se ha gli occhi colmi di terrore. Non importa da dove venga, né importa il colore della pelle o politico, prima si accoglie, poi magari si discute. Santa Maria al Bagno ti viene incontro con le sue Quattro Colonne. Sono i resti di una grande torre di avvistamento, come le altre voluta da Carlo V, danneggiata forse da un sisma che ne ha demolito il centro, lasciando in piedi solo i quattro angoli. È una frazione di Nardò, in questo piccolo luogo sostò a lungo un pezzo di storia.  

Era da poco passato il Natale del 1943 quando il piccolo sobborgo fu scelto dalle autorità inglesi come campo profughi. Arrivarono i primi camion carichi di persone, erano slavi. Furono requisite le case, furono alloggiati gli sfollati. Ma la diffidenza fra i profughi e quelli che solo pochi mesi prima erano considerati nemici era forte. La difficile convivenza durò pochi mesi. Gli slavi lasciarono il luogo. E spesso lasciarono un ricordo non buono. Non sempre trattarono con cura le cose e le abitazioni che vennero loro affidate. Andarono in altri luoghi i profughi, ma rimasero i soldati inglesi. E poco tempo dopo altri camion  arrivarono. Molto più numerosi e con molte più persone.
 
Quando scesero a terra i loro sguardi erano diversi. Timorosi e spesso rivolti in basso. C’era un po’ di diffidenza e paura nei salentini. Ancora le eco dei massacri di ebrei, dei campi di sterminio, non erano arrivate in queste terre, tutto sommato solo sfiorate dalla guerra. Furono sufficienti pochi mesi per sapere, capire, ascoltare storie che si credevano impossibili. E presto nacque quella solidarietà che è spontanea in chi ha conosciuto la fame verso chi ha vissuto gli orrori della storia. Così il cibo dato dall’amministrazione delle Nazioni Unite veniva scambiato dagli ebrei con il pesce dei pescatori locali. Spesso veniva donato in cambio di nulla. 

E i rapporti divennero solidi e solidali. Gli ebrei fecero nascere alcuni negozi, e la vita ricominciò. I bambini andavano a scuola tutti assieme, forse non avevano il grembiulino, però nessuno avanzò mai la pretesa di far frequentare classi diverse a nessun altro. Nonostante si sentisse parlare italiano, salentino, spagnolo, yddish. In quegli anni nel campo passarono circa 100.000 ebrei e furono celebrati circa 400 matrimoni regolarmente registrati allo stato civile di Nardò. In uno di questi la teste fu Golda Meyer. Da qui passarono Moshe Dayan e Ben Gurion. Stavano andando verso quella che sarebbe diventata Israele, ma questa è altra storia.

Nel Salento le esigenze religiose dei nuovi arrivati vennero agevolate. Nacque una sinagoga in alcuni locali sulla piazza, ed un kibbuz poco distante. E ancora sono presenti, fortunosamente salvati dalla distruzione, alcuni murales fatti da Zivi Miller, ebreo polacco che a Santa Maria trovò la compagna della sua vita. Un comitato ne ha preso a cuore la vicenda perché quelle opere erano in una casa abbandonata e fatiscente e si stavano irrimediabilmente danneggiando.

L’amministrazione comunale ha provveduto a staccarli e a dar loro una sede più idonea. Ed è opera meritoria in giorni in cui una destra estrema e quasi eversiva sta rialzando la testa. E lo fa nei modi più criminali. A pochi metri da quella casa e da quella testimonianza è comparsa, a inizio anno, una scritta che dice: 10 100 1000 Anna Frank. L’humanitas trovata nel Salento venne riconosciuta e viene ricordata in Israele. E un riconoscimento è giunto alla città di Nardò dal capo dello stato.

Il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del 27 gennaio 2005, ha conferito motu proprio la Medaglia d’Oro al Merito Civile alla città di Nardò
con la seguente motivazione:

«Negli anni tra il 1943 ed il 1947, il Comune di Nardò, al fine di fornire la necessaria assistenza in favore degli ebrei liberati dai campi di sterminio, in viaggio verso il nascente Stato di Israele, dava vita, nel proprio territorio, ad un centro di esemplare efficienza. La popolazione tutta, nel solco della tolleranza religiosa e culturale, collaborava a questa generosa azione posta in essere per alleviare le sofferenze degli esuli, e, nell’offrire strutture per consentire loro di professare liberamente la propria religione, dava prova dei più elevati sentimenti di solidarietà umana e di elette virtù civiche».

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

È il più grande dei due murales realizzati da Zivi. Rappresenta il grande sogno degli ebrei di raggiungere la Terra Santa. Sulla sinistra le vittime scampate all’olocausto si lasciano alle spalle un’Europa disseminata di filo spinato. Attraversano l’Italia e raggiungono il campo di accoglienza di Santa Maria al Bagno. Da qui il viaggio di una moltitudine allegra e festosa che raggiunge finalmente la Palestina, passando simbolicamente sotto un arco a forma di stella di David.

 

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

 

Questo è il secondo murales di Zivi. È evidentemente meno gioioso dell’altro. In questo caso la Terra Promessa è un fortino, un castello inaccessibile. La porta e le finestra sono chiuse dalle grate: da lì sventolano i simboli dell’ebraismo. Una mamma e i suoi due bambini giungono da lontano, ma la loro espressione è corrucciata, come se per la difficile strada percorsa per arrivare fin lì avessero perso qualcuno di importante. Ad accoglierli non c’è un arco, né le palme del deserto ma un soldato inglese col fucile in mano.

murales ebreo a Santa Maria al Bagno (coll. privata Paolo Pisacane)

Questo è l’unico murales non realizzato da Zivi. È opera di una ragazza ebrea, anch’essa ospite del campo di Santa Maria. In questo caso, l’accezione dei soldati inglese sembra essere diversa da quella datagli dall’artista rumeno. I militari non bloccano gli ebrei in arrivo, ma custodiscono i simboli della loro religione, rimanendo un gradino più in basso, quasi fossero degli umili e discreti servitori della causa ebraica.

 

Libri/ Sulle tracce di IT 113942

IL DOVERE DELLA MEMORIA

di Paolo Vincenti 

Sulle tracce di IT 113942, per non dimenticare l’orrore della guerra, di ogni guerra che, in ogni tempo ed in ogni luogo, devasta le coscienze, spegne la speranza, sottrae giovani vite  all’amore dei propri cari e della propria terra, nega loro  il futuro, cancella ogni  più elementare diritto e spazza via tutto quanto, lasciando solo il vuoto della morte.

Sulle tracce di IT 113942, di Luigi Cataldo, è un piccolo volume edito dal Laboratorio di Aldo D’Antico (2007), in cui l’autore, che dedica il libro alla cara memoria di Rocco Cataldi, ripercorre l’avventura umana e dolorosissima di un suo parente, il parabitano Cesario Cataldo, zio di Luigi, morto giovanissimo durante la seconda guerra mondiale.

L’orrore dei lager nazisti, ancora una volta, ci scuote dalla nostra quotidiana indolenza  e ci costringe a pensare alle aberrazioni cui la belva umana può arrivare. Questa bestia furiosa, dagli occhi di fuoco e dalla bocca schiumante, provoca terrore, miseria, disordini, violenza, si arrotola nell’ odio, prima di bruciare, in uno spasmo infernale, nel fuoco della sua stessa rabbia.

Quello di Luigi Cataldo è un cammino di dolore, alla ricerca dello zio scomparso, che egli ha conosciuto soltanto attraverso i racconti della nonna, che continuava a maledire la guerra che le aveva portato via un figlio così giovane, e del padre, fratello di Cesario, che in gioventù aveva potuto conoscere ed amare il proprio congiunto, prima che questo fosse portato via dal cruento conflitto bellico.

Attraverso le sue  faticose ricerche, l’autore del libro è riuscito infine a ricostruire la storia di Cesario, fatto prigioniero dai tedeschi e internato, dopo il suo rifiuto di diventare collaborazionista, nei campi di concentramento, prima a Bolzano, in via Resia, e poi in Germania, a Mauthausen e a Ebensee, dove, sottoposto ai lavori forzati, il nostro eroe

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