O tu che passi per questa via, non ti scordar di salutar Maria!

edicola votiva nel centro storico di Copertino

di Armando Polito

La locuzione, con varianti di poco conto, è un classico delle edicole sacre1 che in un passato neppure tanto lontano punteggiavano le strade cittadine e di campagna, emblema di una religiosità semplice e sentita, forse un po’ troppo ingenua, che amava ricordare l’al di là anche se l’al di qua poneva problemi forse peggiori di quelli attuali. Oggi il nostro (di noi italiani…) sguardo si posa con attenzione su costruzioni di enormi dimensioni possibilmente recenti e funzionali allo sport…mentre un giapponese (è solo uno dei tanti esempi) si ferma incantato a guardare quella che a noi sembra una semplice, miserabile pietra corrosa dal tempo. Eppure, anche il giapponese è avviluppato, come noi e più di noi, dal ritmo frenetico della vita di oggi; però ha conservato il culto della cultura (mi si perdoni il gioco di parole che, per chi non lo sapesse, si chiama figura etimologica), l’amore per la conoscenza, il rispetto del passato.  E noi?

L’unica giustificazione per il nostro atteggiamento a dir poco trascurato è che l’enormità del patrimonio culturale di cui siamo gli eredi scialacquatori, nonché il fatto che ce lo abbiamo sempre sotto gli occhi2, ha finito per disorientarci sulla graduatoria d’importanza (è antipatico dover parlare, in campo artistico, di graduatoria ma bisogna pur farlo perché ad essa dev’essere poi correlato, concretamente, il concetto di tutela) dei tanti beni dei quali il destino ha voluto fossimo gli affidatari. Abbiamo fatto della quantità un alibi per non tener conto neppure della qualità, con i risultati catastrofici che sono sotto gli occhi di tutti. E l’ignoranza, non solo della nostra storia, ha finito per dilagare…

Sarebbe utopico, perciò, quanto ingenuo, pretendere che la locuzione del titolo fosse accolta dal frettoloso viandante locale con l’unica variante della perdita, eventuale, della rima e del mutato complemento oggetto finale: la Maria di turno potrebbe essere un qualsiasi manufatto e il saluto avrebbe il significato tutto laico di interesse alla conoscenza, riflessione sul passato non avulso dal presente.

È quanto mi accingo a fare con l’Osanna di Nardò. Per la sua storia evito di ripetere cose ben note già trattate da altri3 ; mi limiterò solo a fare delle osservazioni che abbiano attinenza con il titolo e con le amare riflessioni espresse subito dopo, lasciando al lettore, com’è naturale, la più ampia facoltà di stigmatizzarne  (gli sarei profondamente grato, però, se ne rendesse pubblici i motivi) ogni più o meno sospetta strumentalizzazione.

La rappresentazione più antica che conosco del nostro tempietto risale al 1663, ed è un dettaglio della carta che a Nardò dedicò il cartografo olandese Joan Blaeu (in sequenza la carta nel suo insieme e il dettaglio dell’Osanna con la vicinissima chiesa di S. Maria della Carità).

Per il momento notiamo come il tempietto sembri poggiare su un basamento (si direbbe circolare e senza gradini) piuttosto alto.

Le tre testimonianze successive (due tavole e un brano testuale) risalgono al 1735, anno della prima edizione parziale (primi sei capitoli del primo libro) di Dell’origine, sito ed antichità della città di Nardò di Gio. Bernardino Tafuri, pubblicata nel tomo XI degli Opuscoli scientifici e filologici dedicati da Angiolo Calogierà (così è scritto nella dedica, Calogerà è la grafia ricorrente) al benedettino Bernard Pez, tomo uscito a Venezia per i tipi di Cristoforo Zane4.

Alla pagina 34 seguono le due tavole in basso riprodotte con il dettaglio del tempietto evidenziato in rosso.

Nella prima la fabbrica che ci interessa presenta chiaramente cinque gradini. La seconda, in pratica una mappa, consente con la sua visione prospettica dall’alto di rilevare solo il basamento ottagonale mentre una ricostruzione del numero di gradini tenendo conto della distanza tra il limite esterno delle colonne e quello del basamento stesso (coincidente col perimetro dell’ultimo gradino) appare (almeno a me profano di tali calcoli piuttosto virtuali…) francamente aleatorio.

Passiamo ora alla descrizione della fabbrica fatta dal Tafuri a pag. 41: “Il medesimo è di forma essagona con una cupola sostenuta da sette colonne di Pietra Gentile, detta comunemente Leccese, le quali sono piantate sopra altrettanti gradini della medesima pietra.”

Notiamo la discrepanza tra gli altrettanti (7) gradini e i cinque visibili nella tavola. Fino al 2001 avremmo avuto un buon motivo per credere ad una sbruffonata del Tafuri, anche se qualcuno di gradini ne ha messi in campo addirittura nove5. Ma per lo storico neretino del Settecento, famigerato confezionatore insieme col Pollidori di documenti falsi, potevano pure due semplici gradini in più costituire motivo di maggior vanto e orgoglio per le memorie cittadine? Vada per i ponti sull’Asso di qualche post fa, ma due gradini! Saremmo stati autorizzati comunque, pur nel dubbio, a fargli fare la fine della nota favola del pastore che per burla  gridava a casaccio al lupo! invocando aiuto e che alla fine non ebbe aiuto proprio nell’unica fatale circostanza in cui diceva la verità. Ma, come abbiamo anticipato, la risistemazione dell’area effettuata nel 2001 ha riportato alla luce i due ultimi gradini che erano rimasti coperti dal progressivo innalzamento del livello stradale. La questione dei 5 o 7 o 9 gradini sembrerebbe, dunque, risolta per sempre.

Come spiegare, a questo punto, la discrepanza tra i sette gradini del testo e i cinque della tavola e a quale testimonianza dare più credito? Io privilegerei il testo6 perché è noto che le vedute e le mappe di quell’epoca non sempre erano perfette nel dettaglio e non sempre eseguite da persone del luogo e tenendo innanzi agli occhi il soggetto. Se così non fosse bisognerebbe immaginare che già ai tempi del Tafuri i gradini visibili fossero cinque, come fino al 2001, e che i sette del testo si riferissero a quelli originari. Anche nell’acquerello di J. L. Desprez del 1785, in basso riprodotto, propenderei a riconoscere la presenza più di cinque che di sette gradini.

Torniamo ora all’alto basamento della carta del Blaeu. Anche qui, se non si trattasse di fisiologica infedeltà rappresentativa (basta guardare la rappresentazione mastodontica della vicinissima chiesa di S. Maria della Carità), potremmo ipotizzare che verso la metà del XVII° secolo l’Osanna posasse su un unico alto basamento (questa configurazione, presumibilmente originaria, ben si accorderebbe con la teoria, sostenuta da G. Palumbo7, secondo la quale questi tempietti non sarebbero altro che l’adattamento cristiano di monoliti pagani) che rendeva praticamente impossibile quella fruizione cultuale diretta che avrebbe avuto successivamente grazie all’aggiunta dei gradini.

Se le cose stessero come prospettato nell’ultima, pur discutibile ipotesi, la recente sistemazione dell’area (che ha di fatto prodotto una cavea dovuta al recupero degli ultimi due gradini al di sotto del piano stradale, generando, come giustamente afferma l’amico architetto Giancarlo De Pascalis in Il tempietto dell’Osanna a Nardò, in Il tesoro delle città, Kappa, Roma, 2003, pag. 189, una decontestualizzazione della fabbrica non più direttamente utilizzabile per le funzioni liturgiche come la consueta benedizione delle Palme) avrebbe, sia pure involontariamente, una volta tanto, ripristinato sul piano strutturale un passato più recente (7 gradini) e, forse,  su quello strutturale e funzionale (cavea, aggiungo inversa, che ha lo stesso effetto di un alto basamento) un passato ancora più antico.

Tutto questo, dubbi compresi, non è sufficiente perché il nostro tempietto (e in questo il suo destino è in comune con quello di tanti altri monumenti) meriti un’attenzione, se non religiosa almeno tutta laica ed estetica, maggiore di quella fugacemente riservata ad una semplice rotatoria? Probabilmente sì, ma, intanto, può essere fatto solo passandoci a piedi e senza che qualcuno di mia conoscenza abbia l’infelice idea di apporvi nelle vicinanze un cartello con su scritto: O tu che passi per questa via, non ti scordar di Osanna e (con riferimento alla vicinissima chiesetta di S. Maria della Carità) di Maria, con una sciagurata integrazione non certo disinteressata…

________

1L’aggiunta di quest’aggettivo, superflua per gli addetti ai lavori e per le persone di una certa età oltre che cultura, è per le nuove generazioni che come edicola conoscono solo quella dei giornali (sportivi…) e che a causa del Maria precedente potrebbero essere indotti a credere che il post sia dedicato alla moglie di Maurizio Costanzo.

2 Gli occhi, però, dovrebbero servirci pure a constatare il degrado che, per giunta, non è nemmeno tanto lento…

3 Vedi il post Gli oltre quattrocento anni dell’Osanna di Nardò di Marcello Gaballo su questo sito  e il saggio di  Giancarlo De Pascalis Il tempietto dell’Osanna a Nardò all’indirizzo http://www.scienzemfn.unisalento.it/c/document_library/get_file?folderId=2981496&name=DLFE-34311.pdf

4 L’opera integrale uscì in Opere di Angelo, Stefano, Bartolomeo, Bonaventura, Gio. Bernardino e Tommaso Tafuri di Nardò a cura di Michele Tafuri a Napoli per i tipi della Stamperia dell’Iride nel 1848. In questa edizione le due tavole sono assenti.

5 Emilio Mazzarella, Nardò sacra, Mario Congedo editore, Galatina, 1999, pag. 286: “Vi si accedeva mediante nove gradini; oggi ve ne sono quattro, poiché il livello stradale è stato elevato notevolmente…”. Il computo, probabilmente, è stato fatto sommando i 4 (in realtà erano 5) gradini visibili ai cinque che consentono, scendendo rispetto al piano stradale, l’accesso alla chiesetta di S. Maria della Carità che sorge a poca distanza in posizione frontale defilata a destra (per chi guarda l’’Osanna con le spalle a porta S. Paolo).

6 Anche se le colonne, escludendo dal conteggio quella centrale, sono otto, come appare nella seconda tavola e non sette come si legge nel testo, per cui l’ìncontro di attendibilità testo-tavola di fatto si chiude con un pareggio.

7 Nota 7 del saggio di Giancarlo De Pascalis più avanti citato.

La chiesa di S. Antonio da Padova in Nardò

di Donato Giancarlo De Pascalis

 

Le origini sulla fondazione della chiesa e del convento di S. Antonio da Padova sono strettamente connesse con le vicende della comunità ebraica della città, insediatasi in Nardò fin dall’XI secolo d.C.

Gli Ebrei esercitavano in Nardò l’attività conciaria della lavorazione delle pelli, nonché quello del prestito e dell’usura, e risiedevano nella Giudecca, localizzata all’interno del Pittagio San Paolo, sin quando nel 1495, a causa delle agitazioni antisemite, furono costretti a fuggire ed a riparare nella vicina Gallipoli. L’abbandonata Sinagoga neritina fu affidata all’ordine conventuale dei Francescani Osservanti per essere trasformata in complesso conventuale. Il convento e la chiesa furono edificati ex novo sotto l’auspicio del nuovo duca di Nardò, Belisario Acquaviva, la cui politica a favore della regola francescana era strettamente in linea con quella dei re aragonesi.

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