Tra Fede e Tradizione le confraternite della Diocesi di Nardò- Gallipoli: un lavoro corale

 

di Antonio Epifani

 

“L’originalità del volume è che i curatori si muovono con la delicatezza dell’ape sul fiore, con passione e profondità perchè vivono dentro le confraternite e possono perciò descriverne luoghi e tradizioni con competenza

(dalla presentazione del Vescovo Mons. Fernando Filograna).

 

Interessantissima risulta la recente pubblicazione del testo dal titolo Tra fede e tradizione le Confraternite della Diocesi di Nardò – Gallipoli (Claudio Grenzi editore-Foggia), curato con maestria e in maniera attenta, approfondita e impeccabile da Marcello Gaballo e da Fabio Cavallo. L’opera presenta una varietà tematica stimolante che ha come punto focale la vita, la testimonianza scritta e verbale, le attività delle varie confraternite che da secoli hanno operato e operano sul territorio dell’intera diocesi, forgiando in maniera attenta la vita spirituale e sociale non soltanto dei confrati ma dell’intero territorio su cui manifestano il loro impegno.

L’opera, dopo la presentazione del Vescovo, del Vicario generale e dell’Assistente diocesano per le confraternite, è introdotta dal diacono Luigi Nocita, direttore dell’Ufficio Confraternite dicoesane. Segue un’interessante e approfondita ricerca sul fenomeno confraternale, redatta da Marco Carratta, che ripercorre già a partire dall’Alto Medioevo la storia di queste associazioni che nascono per iniziativa dei religiosi o di singoli individui, con lo scopo di svolgere attività caritatevoli, di amministrare il culto, ma soprattutto per combattere la Riforma Protestante e promuovere gli ideali che nasceranno da una chiesa post – tridentina. Nel secondo saggio, sempre di Carratta, emerge invece la componente politica che in maniera attiva partecipava alla vita della confraternita. Il re quando necessario oltre a dare approvazione ai capitoli che regolavano la vita della confraternita concedeva anche l’assenso alla sua fondazione. E a tal proposito ci propone l’esempio della Confraternita della Ss. Annunziata di Nardò, che nel settembre del 1777 ottenne dal re il regio assenso sulle regole e sulla fondazione.

Significativo risulta il patrimonio architettonico e i beni mobili di grande valore conservati nelle varie chiese confraternali, in massima parte inedito, che è possibile gustare e ammirare attraverso il ricchissimo corredo fotografico che il volume ci propone.

 

Il lavoro di stesura, che ha visto coinvolti tantissimi autori delle singole schede, molti dei quali priori o confratelli, interessa ogni paese della diocesi di Nardò-Gallipoli ed è arricchito anche da alcune significative pagine che tracciano la storia e le vicende delle confraternite ormai estinte, con adeguata e ricca bibliografia. Caso emblematico l’assenza dei sodalizi nella città di Copertino e nel piccolo centro di Seclì. A tal proposito risulta significativa e molto gradita dalla piccola comunità di Seclì, la scelta dell’immagine di copertina (foto Lino Rosponi), che ha come raffigurazione una parte della preziosa tela dell’Allegoria del Corpo e Sangue di Cristo, comunemente conosciuta con il titolo di SS. Sacramento. La parte raffigurata mostra i confrati incappucciati in adorazione che seguono la Croce e  il vessillo dell’omonimo sodalizio agli inizi del XVII sec.  Una tela di Donato Antonio D’Orlando, celebre artista neretino. Sulla quarta di copertina una recente foto, anche questa emblematica, di alcuni confratelli incappucciati che escono in processione da una chiesa di Gallipoli (foto Massimiliano De Giorgi).

 

Tra le tante sorprese che riserva il volume di circa 650 pagine, mi preme sottolineare l’esistenza di una pergamena miniata policroma della Confraternita del Ss. Sacramento di Parabita, con stemma civico e del feudatario dell’epoca, dalla quale si apprende che il cardinale De Cupis, già amministratore apostolico e poi vescovo della diocesi di Nardò, fa trascrivere al notaio Mario Capoccinus la copia legale della lettera apostolica in cui si parla delle indulgenze che papa Paolo III concesse alla Cofraternita del Ss. Sacramento di Roma, e quindi l’estensione dei privilegi al locale sodalizio parabitano. Il culto all’Eucarestia risulta quindi attestato a Parabita, così come in altri paesi della diocesi, soprattutto nel XVI sec.

Dalla lettura il testo appare come uno scrigno che custodisce gelosamente i suoi tesori che vengono rivelati al lettore, che ha il compito di leggere in maniera attenta le varie vicende passate e presenti che hanno caratterizzato la vita delle tante confraternite. Il volume inoltre può essere considerato come un vero e proprio manuale sulla storia dei vari sodalizi e come punto di partenza per ulteriori approfondimenti e studi che vadano ad arricchire il già vasto patrimonio che siamo chiamati a custodire e trasmettere alle generazioni future.

In ultimo è importante sottolineare l’attenzione che i curatori e l’Ufficio Diocesano per le Confraternite hanno avuto nell’elaborare due edizioni, una con copertina cartonata e l’altra con copertina flessibile. di maggiori dimensioni e minor costo, distribuita da pochi giorni da Amazon.

Una veduta neretina dell’antica Noyon

di Marcello Gaballo e Armando Polito

Il S. Eligio del pittore neretino Donato Antonio D’Orlando custodito a Nardò nella chiesa della Beata Vergine del Carmine ha ispirato il titolo di questo lavoro1 con un suo dettaglio, anzi con due. Il primo è rappresentato da un paesaggio, il secondo dal testo che vi si legge sovrapposto a mo’ di didascalia. Partiremo proprio da questo facendo notare la sua divisione in due spezzoni: a sinistra la CITTÀ DI NOVI, a destra OME IN BELGI2. La divisione ha lo scopo di evitare che la sovrapposizione invada fino a renderla illeggibile la figura del pastore e del secondo gregge che lo segue, dettagli il cui valore simbolico in riferimento a S. Eligio protettore dei maniscalchi e dalle miracolose capacità veterinarie (si ricordi il miracolo della zampa riattaccata al cavallo, cui allude, forse, proprio il cavallo scalpitante che si nota in basso a sinistra) è, sia pure indirettamente, indiscutibile. Il testo, dunque,  va letto continuativamente: CITTÀ DI NOVIOMI IN BELGI. Noviomi è l’italianizzazione di Noyon, la città appartenente in epoca romana alla Gallia belgica (da qui il successivo IN BELGI) e della quale, com’è noto,  S. Eligio fu vescovo. Il nome latino largamente attestato nel XVII secolo per Noyon  era Noviomum, come mostra, per fare un solo esempio, il Noviomi (genitivo locativo, dunque solo per puro caso formalmente uguale al Noviomi del dipinto) che si legge in Josephus Geldolphus a Ryckel, Vita S. Beddae, Typis Cornelii Coenestenii, Lovanii, 1631, p. 4213. Una forma femminile, Novioma, è attestata in epoca medioevale; per esempio: nel Chronicon Ecclesiae Sancti Bertini di Giovanni Iperio (seconda metà del XIV secolo) in Recueils des historiens des Gaules et de la France, a cura di Martin Bouquet, Aux dépens des libraires associés, Paris, 1741, v. III, p. 5814.

Largamente attestato è pure l’aggettivo Noviomensis, come per Nardò Neritonensis da un nominativo Neriton o Neritonum, da cui le forme volgari Neritone e Neritono. Anche per Novionensis uno dei tanti esempi è in un manoscritto del 1190 pubblicato in Martin Marville, Trosly-Loire ou le Trosly des Conciles, Typographie D. Andrieux, Noyon, 1869, p. 2365.

Quanto fin qui detto basta ed avanza per affermare che lo scorcio paesaggistico raffigurato è proprio una veduta di Noyon. La posizione della didascalia appare anomala, ma, d’altra parte, non poteva essere collocata in posizione diversa, come le altre che si leggono ai piedi del santo, le cui caratteristiche grafologiche non appaiono perfettamente compatibili con quelle della didascalia della veduta.6

È d’obbligo, giunti a questo punto, chiedersi se la rappresentazione è di fantasia o se il D’Orlando s’ispirò a qualche modello e, presumibilmente, a quale. Abbiamo condotto la ricerca su due filoni. quello delle opere pittoriche e quello delle opere a stampa cronologicamente compatibili con il pittore, tali, cioè, che potesse averle conosciute personalmente. Il primo non ha dato alcun esito (nel senso che non siamo riusciti a reperire neppure un dipinto raffigurante Noyon), le cose sono andate un po’ meglio con il secondo, che ci ha offerto i documenti che di seguito riproduciamo, lasciando, comunque, ad altri più esperti il giudizio di probabile plausibilità di rapporto con la veduta neretina.

Cominciamo con un’incisione di Joachim Duwiert (1580 circa-1648), del 1611, pubblicata in Alfred Pontieux, L’Ancien Noyon, A. Sevin & C., Chauny, 1912.

La seconda incisione è di Claude Chastillon (1559/1560-1616), topografo reale dal 1592.  Le sue incisioni sono custodite in parecchi musei prevalentemente francesi; questa fu pure pubblicata postuma, insieme con altre tavole, in Topographie françoise ou représentation de plusieurs villes, bourgs, chasteaux, maisons de plaisance, ruines et vestiges d’antiquitez du royaume de France, designez par dessunst Claude Chastillon et mise en lumière par Jean Boisseau, Paris, 1641. Di seguito il frontespizio e la tavola che ci interessa.

Dello stesso incisore è conservata a Noyon nel Musée Jean Calvin un’altra veduta.


Riportiamo, infine, per completezza documentaria un’ultima tavola, anonima, la cui data di pubblicazione non sembrerebbe compatibile con il D’Orlando. Tuttavia va detto che nulla esclude che detta tavola sia stata pubblicata sciolta precedentemente. È inserita in Les plans et profils de toutes principales villes et lieux considerables de France, Sebastien Cramoysi, Paris, 1638.

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1 Pubblicato in Decor Carmeli.Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò, Mario Congedo editore, Galatina, 2017, pp. 147-150.

2 M. Cesari in La Puglia il manierismo e la controriforma, a cura di Antonio Cassiano – Fabrizio Vona, Congedo, Galatina 2013, p. 255 la riporta, ma legge IMBELGI, ipotizzando che si tratti di una veduta di Nardò.

3 Hunc vitae canonem sequebantur olim Hospitalariae Parisiis et Noviomi in Francia … (Seguivano un tempo questo canone di vita le Ospitaliere a Parigi ed a Noyon in Francia).

4 Intereà decedente Achario Episcopo urbis Noviomae, ad Episcopatum eiusdem urbis venerabilis vir Mummolinus provehitur … (Frattanto alla morte di Acario vescovo della città di Noyon diventa vescovo della medesiuma città il venerabile uomo Mummolino …). Noviomae è genitivo di Novioma e, come giustamente fa notare in nota il curatore, Mummolino non subentrò ad Acario ma proprio ad Eligio, il futuro santo.

5 … ecclesie beate Marie Noviomensis … ( … alla chiesa della beata Maria di Noyon …).

6 Le tre didascalie del bordo inferiore sono prive di riquadri iconologici di riferimento e sono ancora visibili perfettamente le linee-guida.

Nella prima si legge: TRONCATI LI PIEDI DI QUATRO CAVALLI,/[LA] BENEDITIONE LI FÈ SANI; segue un segno interpretabile come un adattamento rettilineo del lau buru (la croce basca), un altro che raffigura un animale (si direbbe un cane) e un altro ancora, articolato in due elementi, di problematica lettura, anche se ci potrebbe essere una valenza araldica. Tuttavia non è da escludere che la sua funzione sia puramente decorativa e che i segni finali delle due altre didascaklie ne rappresentino la progressiva semplificazione. Nella seconda: S. ELIGIO, FÀ TRONCARE IL PIEDE D’UN CAVALLO DEL RÈ DAL/MINISCALCO, CH’ERA FEROCISSIMO LO FÈ SANO ET HUMILE; segue un segno per il quale vedi la precedente didascalia. Nella terza: S. ELIGIO, PREGATO DA MOLTI MASSARI, ET MOLI/SANITÀ AL LOR BESTIAME; segue un segno che appare come l’estrema semplificazione di quello finale della prima didascalia; MOLI e lo spazio libero all’inizio di quest’ultima’ultima didascalia potrebbe essere un indizio, più che della mutilazione, dell’incompiutezza dell’opera.

 

Pubblicato nel volume “Decor Carmeli”:

Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò

Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò

decor

Venerdì 14 luglio, alle ore 20, nella chiesa del Carmine di Nardò verrà presentato il volume edito da Mario Congedo di Galatina, Decor Carmeli. Il convento, la chiesa e la confraternita del Carmine di Nardò.

Un progetto ambizioso che il sacro tempio meritava, per essere una delle chiese più note e frequentate dalla popolazione ed oggi meta preferita dei tanti turisti che stanno riscoprendo la città di Nardò.

L’edizione, di circa 400 pagine, in formato A/4, con tavole e rilievi del complesso, centinaia di illustrazioni bianco/nero e colore, in buona parte eseguite da Lino Rosponi, è l’ottavo dei Supplementi dei Quaderni degli Archivi della Diocesi di Nardò-Gallipoli, diretti da Giuliano Santantonio. Oltre la Confraternita del Carmine hanno promosso l’edizione la Diocesi di Nardò Gallipoli e la Fondazione Terra d’Otranto.

Curato da Marcello Gaballo, contiene numerosi saggi scritti da studiosi ed esperti, che hanno voluto omaggiare la nota chiesa di Nardò con ricerche e nuove fonti di archivio raccolte negli ultimi anni. Tra questi Marino Caringella, Marco Carratta, Daniela De Lorenzis, Anna Maria Falconieri, Paolo Giuri, Alessandra Greco, Maria Domenica Manieri Elia, Elsa Martinelii, Alessio Palumbo, Armando Polito, Maria Grazia Presicce, Cosimo Rizzo, Giuliano Santantonio,  Marcello Semeraro, Maura Sorrone, Fabrizio Suppressa.

Si parte dalle origini della Congregazione dell’Annunziata e insediamento dei Carmelitani Calzati, fino alla loro definitiva soppressione e l’istituzione della parrocchia, soffermandosi sulle vicende del funesto terremoto del 1743, che arrecò danni considerevoli alle strutture, in buona parte ricostruite nel decennio successivo.

Notevoli gli approfondimenti artistici, specie all’interno della chiesa e del convento, senza tralasciare le sorprese dell’insolita facciata cinquecentesca e dei suoi celebri “leoni” posti all’ingresso, che sembrano rimandare al celebre architetto Giovan Maria Tarantino, probabile autore anche dell’altare della Trinità, nella stessa chiesa. Nuove fonti anche per l’altro artista neritino, Donato Antonio d’Orlando, al quale sembra debbano attribuirsi altre opere dipinte, oltre quella firmata del S. Eligio.

Altre sorprese emergono dagli studi sull’altare della Madonna del Carmine, sulla tela dell’Annunciazione, sulla statua lignea dell’Annunziata e su un inedito corpus di manoscritti musicali, conservati nell’archivio della confraternita.

Il ricco corredo fotografico, che rende il volume ancor più interessante, documenta arredi, stemmi, reliquie e suppellettili di cui si è arricchita la chiesa nel corso dei secoli e raramente esposti.

Da ciò l’entusiasmo del priore della Confraternita, Giovanni Maglio, che ha fortemente voluto ed incoraggiato l’iniziativa, con il sostegno dei confratelli e consorelle, inserendola “di diritto nell’attività di valorizzazione del patrimonio culturale civile e religioso, che si sta particolarmente curando in questo ultimo decennio” nella città di Nardò.

Oltre gli Autori, che hanno voluto offrire pagine importanti, mettendo a disposizione di tutti vicende e fonti spesso sconosciute o inesplorate, aiutandoci a leggere nella maniera più corretta ed esaustiva, altrettanto importanti coloro che hanno offerto immagini e foto altrimenti difficili da reperire, tra cui Giovanni Cuppone e don Giuseppe Venneri, Gian Paolo Papi, Clemente Leo e Don Enzo Vergine, il parroco della chiesa matrice di Galatone don Angelo Corvo, Don Domenico Giacovelli e Rosario Quaranta, Emilio Nicolì e Raffaele Puce, Stefano Tanisi, Bruno Capuzzello. Una particolare menzione a Stefania Colafranceschi per aver messo a disposizione parte della sua collezione di santini e immagini antiche, e a Stelvio Falconieri, per due importanti e rarissimi documenti fotografici della chiesa nei primi decenni del ‘900.

All’elenco si aggiungono Pierpaolo Ingusci, Antonio Dell’Anna, Luca Fedele, Emanuele Micheli e Matteo Romano, valido aiuto nell’ordinamento dell’archivio e trascrizione di alcuni documenti. C’è stato anche un silenzioso e paziente lavoro, assolutamente importante, nell’allestimento degli arredi liturgici e nella ripulitura di molte suppellettili in parte desuete ma necessarie per una completa catalogazione. Ed ecco che devono aggiungersi, includendo nel lungo elenco anche Cosima Casciaro, Dorotea Martignano, Teresa Talciano e Anna Violino.

Infine, ma non per minore importanza bensì per sottolinearne il ruolo, la riconoscenza ad Annalisa Presicce, che ha professionalmente rivisto le bozze ed omologato le centinaia di annotazioni per un testo agile, coerente e scientificamente valido, come si spera possa essere.

Il volume sarà presentato dalla Prof.ssa Regina Poso, già docente preso la Facoltà di Beni Culturali dell’Università del Salento.

 

Note sulla chiesa dei Paolotti a Nardò

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di Marcello Gaballo

Sorta su una preesistente chiesetta dedicata a S. Maria di Costantinopoli o del Canneto, fu ricostruita dal duca di Nardò Belisario II Acquaviva d’ Aragona (1569-1623), figlio di Giovanbernardino II, per un evento prodigioso occorso nella sua vita tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, nel giardino annesso al castello ducale.

Lo conferma un atto notarile conservato nell’ Archivio di Stato di Lecce, del notaio Pietro Torricchio, in cui si legge che lo stesso duca Belisario “…tenere et possidere in burgensaticum… jardenum unum cum arboribus communibus et cannito et cum ecclesia sub titulo S. Maria de Costantinopoli, existente intus eodem jardenum, in latere versus boream, et de novo aedificata cum maiori parte espensarum ipsius ducis, sita extra et prope menia et castrus eiusdem civitatis, iuxta tres vias publicas et terras mense episcopalis neritonensem…”.

La chiesa era perciò di patronato della famiglia Acquaviva e lo stesso duca aggiunge nel documento “pro salute eius anima, constituere, erigere et fundare quoddam beneficium ecclesiasticum perpetuum sub titulo S. Maria de Costantinopoli in ecclesia predetta…”.

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interno della chiesa con la tomba di Giovan Bernardino Tafuri

 

Che la chiesa fosse preesistente al convento lo si rileva in un atto notarile del 1606, quando Gio. Battista Serpante da Forlì annulla il suo lascito del 1/7/1606 ad Alessandro delli Falconi, a favore della chiesa di S. Maria di Costantinopoli “extra moenia in jardeno Ducis”. Già nel 1573 la chiesa risulta comunque esistente, sempre dedicata a S. Maria di Costantinopoli. Secondo il Moroni i frati si insediarono a Nardò durante l’episcopato di Girolamo De Franchis (1617-1634).

Ciò che oggi si vede fu ricostruito nel 1745, essendo crollata la maggior parte della struttura originaria per il terremoto del 1743. Ciò è ricordato da un’ epigrafe (DOM/ TEMPLUM HOC/ X. CAL. MARTIAS ANNO D.NI MDCCXLIII/MAGNO CIVITATIS EXCIDIO TERRAEMOTU EVERSUM/ NERITONORUM PIETAS/ S. FRANCISCI PAULANI PATRONI PRAESENTISSIMI/ INNUMERIS COMMOTA MIRACULIS/ A FUNDAMENTIS RESTITUIT/ FRATES MINIMI NE POSTEROS LATERET BENEFICIUM/ GRATI ANIMI MONIMENTUM POSUER./ ANNO MDCCXLV).

A ridosso c’era il convento dei Minimi Riformati o Paolotti, che si stabilirono nel convento nel XVII sec. per restarvi sino al 7/8/1809.

La chiesa, con pianta a croce latina, fu consacrata nel 1706 dal Vescovo Fortunato, ma fu in buona parte ricostruita dopo il terremoto del 20 febbraio 1743, forse nel 1749, quando fu riedificata la sacrestia da Mons. Carafa e suo fratello Antonio, come ricorda l’ epigrafe che ancora si vede.

Il prospetto, sobrio ma elegante e slanciato, secondo il gusto dell’epoca, presenta paraste lisce con capitelli adornati da volute. Sui gradini posti all’ esterno della chiesa è visibile l’ insegna dei frati (sole raggiante caricato della parola CHA-RI-TAS).

altare di San Francesco da Paola
altare di San Francesco da Paola

 

Degno di particolare nota è il bellissimo altare di S. Francesco da Paola, nel transetto destro, realizzato dallo scultore di Alessano Placido Buffelli, e qui trasferito dalla Cattedrale, ove era dedicato a S. Francesco di Sales. Presenta triplici colonne a spirale, con un incredibile animazione di putti in differenti pose. Nella parte superiore vi è la nicchia con la statua del Santo titolare e l’ insegna dei frati, mentre inferiormente sono impresse le armi dei nobili Montefuscoli.

Altrettanto notevoli, dal punto di vista artistico, la tela posta a lato di questo altare e l’affresco originario della Madonna di Costantinopoli. Sempre qui è presente la tela di S. Nicola Pellegrino, del 1615, di Donato Antonio d’ Orlando.

particolare dell altare di S. Francesco da Paola
particolare dell altare di S. Francesco da Paola

 

Sulla chiesa si veda anche:

https://www.fondazioneterradotranto.it/2010/04/20/1607-lavori-nella-chiesa-di-s-francesco-da-paola-in-nardo/

Il dipinto delle sante Maria Maddalena e Francesca Romana del pittore Donato Antonio D’Orlando

 

di Stefano Tanisi

Donato Antonio d'Orlando

Soggetto: Sante Maria Maddalena e Francesca Romana

Epoca: 1618

Autore: Donato Antonio D’Orlando (1560 ca. – 1636)

Tecnica: olio su tela

Misure: cm. 263,5 x 166

Stato di conservazione: recente restauro

Provenienza: Ugento, Museo Diocesano (già nella chiesa delle Benedettine di Ugento)

Iscrizioni: DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618/ S. M. MADALENA / S. FRANCESCA ROMANA / scene lato sinistro: Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem / Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat / Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur / Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret / Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit / scene lato destro: Moltiplica il pane in refettorio / Esce odore soavissimo del suo corpo / Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi / Sana un putto del mal caduco / […]

 

La tela, proveniente dalla chiesa delle Benedettine di Ugento, raffigura le due Sante Maria Maddalena e Francesca Romana. È un’opera autografa del pittore Donato Antonio D’Orlando di Nardò, da come si può leggere dalla firma “DONATO ANTONIO D’ORL.DO PICTORE DI NARDÒ 1618”. Datata dunque 1618, allo stato attuale è l’ultima opera che si conosce con certezza del pittore neretino.

Il dipinto, come spesso si riscontra nelle opere del pittore, ha un carattere devozionale e didattico, grazie all’utilizzo di scenette che ritraggono gli episodi salienti della vita delle due sante accompagnate dalle relative didascalie che permettono ai fedeli una più facile lettura della rappresentazione sacra. Come in altre opere, il pittore utilizza delle bordature in foglia oro per delimitare le scene.

In passato la Chiesa latina accomunava nel culto di santa Maria Maddalena tre donne diverse: 1) la peccatrice perdonata a casa di Simone il lebbroso; 2) Maria di Betania, la sorella di Marta e Lazzaro; 3) l’indemoniata Maria Maddalena (da Magdala, città da dove proveniva) liberata da Gesù che diverrà la sua devota discepola. Essa fu tra le donne che assistette alla crocifissione e divenne la testimone diretta della resurrezione di Cristo. Ed è quest’ultima che va correttamente indicata come la nostra santa.

Nel dipinto ugentino la Maddalena è raffigurata a sinistra in ginocchio con le mani congiunte in segno di preghiera; il suo sguardo è diretto verso il cielo. Alle spalle è un vaso di vetro trasparente contenente il profumo con il quale avrebbe dovuto ungere la salma di Cristo la Domenica di Pasqua. Il lato sinistro è ripartito da cinque scenette con gli episodi della vita della santa, accompagnate da sintetiche didascalie in latino stentato, dove troviamo a partire dall’alto: Gesù mentre è a cena a casa di Simone guarito dalla lebbra, la peccatrice s’inginocchia ai suoi piedi (Christum adit cum Simone leproso mense acumbentem); a casa la santa fa penitenza in ginocchio frustandosi il petto con una catena d’oro di fronte a un tavolo dove è poggiato un crocefisso, il vaso dei profumi e il teschio simbolo della vanitas (Domum reversa aurea catena corpus suum asperrime castigat); Maria con la sorella Marta insieme a un gruppo di donne ascoltano la predica di Cristo posto su di un pulpito (Ad concionem cum Marta se confert ubi amore Dei vehementer accenditur); lo sbarco della Maddalena a Marsiglia, anche se la didascalia allude a una predica con san Pietro a Roma (Romam adeunt a S. Petro inteletum cum Matalena vera pr[A]edicaret); la morte della Maddalena e la gloria tra gli angeli (Madalena indeserium locum abit ubi sacta vitam extremo die claudit).

Donato Antonio d'Orlando

La Maddalena ugentina, pur nella rigidità della posa, ricorda la stessa santa raffigurata nella Crocifissione della chiesa matrice di Galatone. Entrambe, anche se dipinte specularmente, si dimostrano simili nella fisionomia del volto, nell’attacco della testa al lungo tozzo collo, nel modo di trattare la fluente capigliatura, nell’anatomia delle mani.

Donato Antonio d'Orlando

Queste due opere si rivelano assai decisive nell’attribuzione al D’Orlando di un noto dipinto raffigurante la Pietà, conservato nella chiesa dei Carmelitani di Nardò, attribuito nel 1964 da Michele D’Elia e Nicola Vacca al pittore Gian Serio Strafella (documentato dal 1546 al 1573) di Copertino: nonostante il recente restauro che ha evidenziato i colori e le forme, nel 2013, nel catalogo della mostra leccese dedicato ai pittori manieristi (Cassiano-Vona, 2013), gli studiosi hanno confermato tale dipinto al pittore copertinese. È chiaro che la qualità pittorica e coloristica dei tre dipinti menzionati è certamente differente (cosa assai palese nella produzione del pittore), ma mettendo a confronto i tre volti della Maddalena sorprendentemente si richiamano tra loro nella configurazione del naso e delle palpebre dell’occhio, particolari fisiognomici – riscontrabili anche in altri dipinti autografi – che sono peculiari della produzione del D’Orlando. Conferma si ha quando si raffronta anche l’anatomia del corpo esanime del Cristo nel compianto di Nardò con quella del Crocifisso di Galatone (confronta anche con il corpo di Cristo della tela della Madonna della Misericordia della chiesa omonima di Nardò o con quello dell’Allegoria del Sangue di Cristo della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Seclì).

Simmetricamente a destra troviamo raffigurata, sempre in ginocchio, santa Francesca Romana. La santa, vissuta tra il XIV e il XV secolo, fu sposa, madre, vedova e fondatrice a Roma dell’ordine religioso delle Oblate Benedettine di Monte Oliveto. Ha dedicato la sua vita all’unità della Chiesa, ai poveri, malati e morenti. Nel dipinto ugentino l’oblata è raffigurata nella sua consueta iconografia: vestita con abito nero e lungo velo, mentre nelle mani regge il libro delle regole. È affiancata dall’angelo custode – abbigliato con una vistosa dalmatica rossa e tiene in mano una palma con i datteri – che la difese dal demonio. Anche il lato destro è occupato da cinque scene dei miracoli della santa, con le relative didascalie scritte invece in italiano, dove troviamo: santa Francesca che moltiplica il pane nel refettorio di fronte alle consorelle (Moltiplica il pane in refettorio); la salma della santa distesa su un catafalco, dal cui corpo esce un odore soave, mentre le consorelle assistono sorprese e un monaco gli si è inginocchiato ai piedi (Esce odore soavissimo del suo corpo); la santa raffigurata in ginocchio davanti il tabernacolo mentre è rapita in estati dopo la Comunione (Spesso dopuo la Comunione era rapita in estasi); la santa guarisce dall’epilessia un giovane trattenuto da un anziano (Sana un putto del mal caduco); la santa visita un’ammalata distesa nel letto (didascalia consunta).

Lo sfondo, dalle contrastate tonalità fredde grigio-verde, è occupato in alto dal cielo plumbeo che va gradualmente a rischiarirsi sulle vette delle montagne alle cui pendici compaiono dei piccoli nuclei abitativi.

Il recente restauro ha restituito i colori e i dettagli del dipinto, oscurati da numerose ridipinture e strati di sporco. Nella rimozione delle parti ridipinte è emerso che le labbra delle due sante sono state in passato volutamente sfregiate.

 

Bibliografia:

– D’Elia M. (a cura di), Mostra dell’Arte in Puglia dal tardo antico al rococo, catalogo, Istituto Grafico Tiberino, Roma, 1964, p. 136;

– Vacca 1964 = Vacca N., Nuove ricerche su Gian Serio Strafella da Copertino, in Archivio Storico Pugliese, XVII, 1964, p. 33;

– Corvaglia F., Ugento e il suo territorio, ristampa, Tipografia F. Marra, Ugento, 1987, p. 110;

– Palese S., Monasteri e società in Terra d’Otranto. Le monache benedettine di Ugento, in «Archivio Storico Pugliese», Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, a. XXXIII, 1980, pp. 271-272;

– Cazzato M., Sulle vie delle capitali del Barocco, Antonio Donato D’Orlando (XVI-XVII Sec.), Aradeo 1986, p. 22

– Cassiano A., Il Museo Diocesano di Ugento, in Antonazzo L., Guida di Ugento. Storia e arte di una città millenaria, Galatina, Congedo Editore, 2005, p. 90;

– Cassiano A. – Vona F. (a cura di), La Puglia il manierismo e la controriforma, catalogo della mostra, Congedo Editore, Galatina 2013, pp. 56-57, 224-225.

 

(Tratto da: Tanisi S., Scheda 6. Sante Maria Maddalena e Francesca Romana, in S. Cortese (a cura di), La fede e l’arte esposta. Catalogo del Museo Diocesano di Ugento, Domus Dei, Ugento 2015, pp. 51-53)

La tela delle Anime Sante nella chiesa madre di Tricase

Tricase

di Luciano Antonazzo

Il dipinto delle Anime Sante che nella chiesa matrice di Tricase adorna l’omonima cappella, di ex patronato della Confraternita dei morti, apparteneva alle monache Benedettine di Ugento. Fu da queste venduto nel 1796 a don Pasquale Piri (procuratore  della stessa confraternita) in seguito alla ricostruzione della loro chiesa (ultimata nel 1793)  intitolata, come il monastero, alla Visitazione della Vergine.

Dai documenti  pervenutici risulta che nell’antica chiesa, tra gli altri, oltre l’altare intitolato alla Visitazione e quello dedicato al fondatore dell’Ordine, vi erano le cappelle  della Madonna di Costantinopoli e quella di s. Anna,  erette entrambe (coi relativi benefici) a cavallo dei secoli XVI e XVII, da Donna Anna Fernandez Pandone, nipote del conte di Ugento, Vincenzo[1], e quella della Madonna del Carmine, fondata nella prima metà del ‘600 da Donna Maria Vaaz de Andrada[2].

Nella rinnovata chiesa di fine ‘700 furono riedificati gli altari della Visitazione, di s. Benedetto e della Madonna del Carmine ed eretto quello della Madonna delle  Vittorie. Per decorarli furono commissionate nuove tele, alcune delle quali furono realizzate dal pittore Onofrio Messina[3]. Quella del Carmine, firmata e datata 1793[4] andò a sostituire  quella originaria che adornava l’antico altare eretto da Donna Maria Vaaz de Andrada.

Quest’ultimo dipinto si era portati a credere che  fosse quello che le Benedettine vendettero alla   Confraternita dei morti di Tricase, mentre, dato che non se ne trovava traccia, si riteneva fosse andato perso il dipinto dell’altare della Madonna di Costatinopoli dell’antica cappella eretta da Donna Anna Fernandez Pandone.

Sembre invece che il dipinto delle Anime Sante di Tricase fosse proprio quello della Madonna di Costantinopoli e che solo successivamente lo stesso fosse stato sottoposto a un rifacimento della parte inferiore, con l’aggiunta delle anime purganti, che lo ha commutato nella raffigurazione della Madonna del Carmine.

Nella tela, recentemente restaurata senza che venisse alla luce alcuna data o firma, è raffigurata la Vergine assisa su un trono di  nubi che con la mano destra stringe la mammella corrispondente dalla quale sprizzano gocce di latte. Sul suo ginocchio sinistro è in piedi il Bambino nudo, con una folta chioma di capelli ricci e biondi, come quelle delle teste alate dei putti che contornano la Madre. La sua mano destra è in atto benedicente, mentre la sinistra regge il globo imperiale.

Nella parte superiore sono effigiati due angeli in atto di posare sul capo della Madonna una corona  con  incastonate delle pietre preziose, mentre in basso sono raffigurati altri due angeli che tendono la mano alle anime purganti sottostanti, rappresentate in primo piano da quattro figure femminili ed un ragazzino, nonché da un quinto volto, sempre femminile, in secondo piano. Al cantone inferiore sinistro del quadro (visto di fronte) si osserva la figura del presunto committente, che si accompagna ad una bastone, con lo sguardo rivolto verso la Madonna e l’indice destro proteso ad indicarla.

Manca nel quadro un elemento classico della rappresentazione della Madonna del Carmine, vale a dire lo scapolare (o abitino) che di norma la Vergine ed il Figlio porgono alle anime sottostanti; al suo posto il Bambino sorregge invece, come detto, il globo imperiale, di solito presente nell’iconografia della Madonna di Costantinopoli.

L’analisi della parte inferiore del dipinto denota una  tecnica ed una cromia diverse rispetto a quelle della parte superiore, come ha evidenziato anche Giuseppe Maria Costantini che ha ne curato il recente restauro.  Egli data la tela al XVII secolo, pur non escludendo la sua risalenza al XVI secolo, e nella relazione finale scrive che la parte superiore è di “buona fattura”, mentre “la fascia inferiore con anime purganti, appare meno accurata e felice rispetto al testo seicentesco, nonché di mano e tempi realizzativi eterogenei”[5].

La pulitura della tela ha evidenziato  che il presunto committente indossa l’abito della Confraternita dei morti, come si evince dal simbolo sodale sulla manica destra raffigurante  il teschio e le due tibie incrociate.  Verosimilmente si tratta del priore, come si evince dal bastone[6], mentre le teste maschili che lo attorniano (nonchè quelle all’altezza della cornice inferiore) sproporzionate e sgraziate, probabilmente raffigurano dei suoi confratelli. Se così è ne deriva che tali figure  non possono che essere state dipinte dopo l’acquisto della tela nel 1796.

Anteriore alla raffigurazione del priore e dei confratelli, ma posteriore alla rappresentazione della Vergine col Bambino e degli angeli, è invece la raffigurazione delle donne e del bambino che fungono da anime purganti. Lo si desume da  quanto riportato nel fascicolo di un processetto del 1670 istruito per l’attribuzione dello ius patronatus del beneficio della Madonna di Costantinopoli, fondato da donna Anna Pandone in contemporanea con l’erezione dell’altare sotto lo stesso titolo[7].

Donna Anna, figlia di Carlo, rivestì ininterrottamente per un decennio la carica di badessa prima che mons. Guerrerio nel 1602 le facesse subentrare una consorella,[8] ed è documentato che assieme a lei, almeno dal 1598, dimoravano nel monastero le sorelle Massimilla, Geronima, Costanza e Beatrice[9]. Nel 1603 il fratello Pietro Antonio, UID in Napoli ed erede universale del padre Carlo, mediante procura a Ferdinando Pandone jr., figlio del conte di Ugento, assegnò loro il censo di dieci ducati annui dovuto al suo defunto padre da Marcello de Letteris e Francesco Antonio Rovito, di Ugento, per il capitale di 100 ducati. Stabilì in detta donazione anche che alla morte di una di loro dovessero subentrare le sorelle superstiti e che alla morte di tutte e cinque i dieci ducati dovessero andare a chi si fosse preso cura della cappella della Madonna di Costantinopoli ed impiegarli in “ annuo introito in favore di detta cappella construtta in detto monasterio”[10].

Nel 1608 troviamo ancora come badessa Donna Anna ma tra i nomi delle consorelle elencati nel documento non ritroviamo più quello di sua sorella Beatrice[11]. Questa era evidentemente deceduta, come ci conferma un altro documento del 1615 (contenuto in detto processetto) e  dal quale risulta che  Donna Anna, il 3 marzo del 1610, aveva chiesto ed ottenuto da mons. Guerrerio che alla propria morte il ius patronatus passasse alle sole sorelle Massimilla, Geronima e Costanza e che alla morte di costoro lo stesso ricadesse al monastero[12].

Donna Anna morì probabilmente nel 1629, anno in cui la troviamo menzionata nei documenti per l’ultima volta, ancora nella veste di badessa[13], mentre l’ultima delle sue sorelle rese l’anima a Dio poco prima del 1649, anno in cui furono la badessa, donna Petronilla D’Urso, e le consorelle a  nominare, come cappellano del beneficio di S. Maria di Costantinopoli, l’arciprete di Salve don Tommaso Carluccio, vicario generale[14].

Da allora in poi, nella vacanza della cappellania, si ebbero diversi contenziosi circa la titolarità del ius patronatus del beneficio, tra cui quello che oppose le monache al marchese di Ugento Don Carlo Pandone e conclusosi nel 1653 in favore delle prime.

Ma fondamentale per il nostro assunto riguardo la ridipintura della tela con l’aggiunta delle figure muliebri è quanto riportato in una vertenza che si tenne nel 1711 e che vide contrapposte le monache al procuratore fiscale della Curia, che sosteneva non spettare al monastero alcun diritto in quanto da tempo, a suo dire, il beneficio e le rendite della sua dote erano state devolute alla Mensa vescovile. Il procuratore delle monache, don Mario Gigli, produsse documenti inoppugnabili  e chiamò a testimoniare su diversi articoli, alcuni anziani, laici ed ecclesiastici.

Nel quarto articolo, oltre a dimostrare che la cappella ed il beneficio erano stati fondati da Donna Anna e che il diritto di patronato era successivamente passato alle sue sorelle e quindi al monastero, il procuratore chiedeva conferma di quanto correva per pubblica voce, cioè che “nel quadro dell’altare di S. Maria di Costantinopoli, vi sino pittate tutte dette Signore Pandone”[15].

La conferma la forniva il  settantenne dottore fisico Michele Memmi il quale nella sua testimonianza dell’11 luglio affermava: “nel quadro di S. Maria di Costantinopoli, vi sono pittate alcune figure, che dicono essere le sorelle Bandone”.

Se dunque le sorelle Pandone furono immortalate nel dipinto della Madonna di Costantinopoli è impensabile che i loro volti potessero essere stati ritratti tra i fuggitivi della canonica casa (o città)  in fiamme di norma dipinta ai piedi della Vergine. Da qui l’idea di ridipingere la parte inferiore della tela e raffigurare le sorelle tra lingue di fuoco richiamanti l’originale edificio in fiamme. Fu in seguito a questo intervento che  venne snaturalizzata la rappresentazione originaria del dipinto e, data  l’impressione che si trattasse di una raffigurazione delle anime purganti, ciò che indusse la Confraternita di Tricase ad acquistare la tela per la propria cappella.

E’ impossibile stabilire l’epoca del ritocco del dipinto, ma il fatto che una delle sorelle fosse stata raffigurata in posizione più defilata potrebbe stare a significare che la stessa fosse già defunta. Si tratterebbe allora della rappresentazione di Beatrice[16] deceduta tra il 1603 ed il 1608, mentre i volti in primo piano riprodurrebbero i lineamenti reali del viso delle sorelle sopravvissutele[17]. Se così effettivamente fosse il ritocco del dipinto non dovrebbe essere avvenuto dopo il 1629, stante la presunta morte di Donna Anna in tale anno.

Ancora più arduo risulta risalire all’autore del ritocco del dipinto; un indizio però potrebbe essere rappresentato dal fatto che tra il 1616 ed il 1618 è documentata la realizzazione di alcuni quadri per il monastero ad opera del pittore di Nardò Donato Antonio d’Orlando, tra cui quello raffigurante s. Maria Maddalena e s. Francesca Romana, commissionatogli nel 1618 da Donna Massimilla Fernandez Pandone, sorella di Donna Anna[18].

S. Maria Maddalena e s. fracesca romana - 1618

 

[1] I conti di Ugento non discendevano direttamente dai Pandone conti di Venafro ma da tale Diego Fernandez (giovane spagnolo venuto in Italia al seguito di un non meglio precisato capitano)  che fu adottato dall’ultimo cavaliere della nobile famiglia Pandone.  Questi alla sua morte (sul finire del XV secolo) lasciò come suo erede il giovane adottato, il quale prese per proprio nome quello della sua famiglia, Fernandez, e per cognome  assunse quello dei Pandone. I suoi successori adottarono il doppio cognome Fernandez Pandone. (Cfr. B. ALDIMARI, Memorie historiche di diverse famiglie, così napoletane come forastiere , Napoli 1691, p. 114.

[2] Maria Vaaz de Andrada, verosimilmente primogenita di Michele, conte di Mola, barone di S. Donato e Signore di S. Michele Salentino, la troviamo ancora in vita nel 1657, nella veste di vicaria del monastero (v. ASLE, Sez, notai, 20/3, not. Marco Antonio Ferocino, protocollo del 17 marzo 1657, cc. 10r-12r).

Per quel che concerne l’erezione dell’altare della Madonna del Carmine in un atto di proprietà privata, del notaio Francesco Carida (di Morciano ma rogante in Ugento) del 16 agosto 1687, troviamo specificato che Donna Giovanna Bartirotti Piccolomini d’Aragona chiese ed ottenne di accrescere la dote della Cappella della Madonna del Carmine fondata nel monastero dalla defunta monaca Donna Maria Vaaz de Andrada “sua zia”.

[3] Pittore quasi del tutto sconosciuto la cui patria, Molfetta,  risulta da un suo quadro autografo raffigurante il vescovo di Ugento mons. Giuseppe  Corrado Pansini (1792 -1811). Nel dipinto  il vescovo  tiene fra le dita della mano sinistra un foglietto sul quale é scritto: Anno 1792Onofrio Messina da Molfetta». Il vescovo, anch’egli molfettese, ricorse verosimilmete al pittore per conoscenza diretta.Di questo pittore  abbiamo rinvenuto una nota biografica in cui si dice: «Egregio pittore che da maestro aveva lo studio. Molti quadri dello stesso sono in Roma onorati di plauso. E’ egli tra viventi; ma da molti anni è cieco». (Cfr. M. ROMANO, Storia di Molfetta – dall’epoca dell’antica Respa sino al 1840, parte sedonda, Napoli 1842, p. 88). [ da Google libri].

[4] Alla base del quadro  si legge: Onofrio Messina / Fece l’Anno 1793. Per lo stesso monastero il Messina realizzò anche il dipinto della presentazione di Gesù al tempio  alla cui base si legge: Onofrio Messina / copiò l’anno 1793.

[5] G.M.COSTANTINI, Tricase, Chiesa Matrice Natività B.M.V., Restauro Madonna Del Latte (olio su tela – ca. cm 240 x 160 –sec. XVII-), Consuntivo Tecnico-Documentario con Piano Manutenzione, pag.37 – 25/10/2013 (Depositato presso: MiBAC-SBSAE PUGLIA, Bari; PARROCCHIA NATIVITÀ B. M. V., Tricase; DIOCESI UGENTO – S.M. di LEUCA, Ugento).

[6] Un segno distintivo del capo della confraternita era il cosidetto “bastone del priore”

[7] Cfr. ASDU, Benefici – Ugento/18 (ben. Madonna di Costantinopoli – 1670). Nel fascicolo, con carte non numerate, la documentazione ultima è della fine del 1700.

[8] Cfr. ASDU, Visite ad limina (mons. P. Guerrerio 1603).

[9] Le cinque sorelle le troviamo menzionate precedentemente in un atto del 1598 (cfr. ASLe, Sez. notai, 96/1, notaio P.Orlando, protocollo del 14 luglio 15987, cc. 38v- 41v.

[10] ASLe, Sezione Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 3 febbraio 1603, cc. 11r-13v.

[11] ASLe, Sezione. Notai, 78/1, not. N. Pici, protocollo del 2 novembre 1608, cc. 75r-76r.

[12] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit. In un atto del 1615 col quale le suore accettano la devoluzione del ius patronatus è detto che  Donna Anna aveva  eretto e dotate le due cappelle “di robbe proprie d’essa ab estra della monicatione e fatighe sue”. Questa espressione fa ipotizzare che la stessa Donna Anna fosse stata un tempo sposata dato che la sua disponibilità economica, indipendente dalla dote monacale, non poteva che derivarle dalla dote matrimoniale o dall’antefato.

[13] ASLe, Sez. Not., 20/1, not. L. De Magistris, protocollo del 9 febbraio 1629.

[14] ASDU, Benefici, Ugento/18, cit.

[15] Ivi.

[16] La sua raffigurazione con i capelli cortissimi fa supporre che fosse deceduta poco dopo aver preso i voti, occasione in cui si procedeva al taglio della chioma dell’ex novizia.

[17] Per quel che riguarda poi la raffigurazione del bambino, inusuale nella rappresentazione delle anime purganti, verosimilmente si tratta, se non di un figlio di Donna Anna (v. sopra nota 10) di un nipote delle stesse sorelle Pandone.

[18]S. LANCILLOTTI, “Mercurio Olivetano – ovvero la Guida perle strade d’Italia per le quali sogliono passare i Monaci Olivetani”, Perugia 1628. [Cfr. P. P. DE LEO (a cura), Viaggi di monaci e pellegrini, Ed. Rubettini, Soveria Mannelli 2001, p. 45, nota 4)].

 

 

1 dicembre. Sant’Eligio. Una tela di Donato Antonio d’Orlando a Nardò

 

di Marcello Gaballo

Le sorprese che riserva la chiesa della Vergine del Carmelo a Nardò, un tempo officiata dai carmelitani scalzi, che dimoravano nell’annesso convento, poi parrocchia, sono davvero tante. I preziosi arredi, i decori, gli stucchi e le opere pittoriche presenti, ne fanno una delle tappe che non possono mancare nell’itinerario del turista, sia esso il più frettoloso e poco attento.

Di impianto cinquecentesco, ampiamente rimaneggiata dopo il funesto terremoto del 20 febbraio 1743,  l’edificio ospita una bella tela raffigurante Sant’Eligio, opera del prolifico ma poco noto pittore Donato Antonio d’Orlando (Nardò, 1562 ca – Racale, 1636), la cui produzione è uniformemente distribuita in Terra d’Otranto (Muro Leccese, Copertino, Seclì, Uggiano La Chiesa, Ugento, Leverano, Martina Franca, ecc.).

Il Santo orefice (Chaptelan 588 ca. – 1 dicembre 669 d.C.) fu controllore dei metalli, maestro della zecca, poi grande argentiere sotto il regno di Clotario II, quindi tesoriere di Dagoberto I, prima di essere eletto vescovo di Noyon nel 641 (nella cui abbazia riposa il corpo). Fu assunto a patrono degli orefici, argentieri e gioiellieri, per la sua abilità di intagliatore.  Prima degli ordini sacri eseguì opere di oreficeria di altissimo livello e ne erano prova i bassorilievi della tomba di S. Germain, vescovo di Parigi e i due seggi intarsiati per Clotario, ancora visibili nel 1789. Delle sue opere oggi restano soltanto, oltre ad alcune monete, un frammento di croce incastonata, conservata nel Gabinet des Médailles a Parigi.

antica immaginetta devozionale del santo
Nardò, masseria Brusca, affresco di S. Eligio

Sant’Eligio è considerato anche patrono di quanti si servono di martelli, tra cui carpentieri,  incisori, orologiai, fabbri, meccanici, calderai, minatori, attrezzisti, doratori, ma anche dei trasportatori, autisti, veterinari, sellai,  produttori di finimenti, garagisti, carrozzieri, carrettieri, commercianti di cavalli, contadini, operai, braccianti.

Chiesa matrice di Casarano, statua di S. Eligio (XVII secolo)

Il dipinto di Nardò, ad olio su una tela di cm. 123×193, si ammira sul primo altare della navata a sinistra di chi entra; la presenza di questo santo collima con l’intitolazione dell’altare allo stesso.
Di aspetto giovanile,  è dipinto a figura intera, in piedi, vestito in abiti vescovili; con il braccio sinistro regge il pastorale argenteo e un prezioso volume profilato in oro, mentre benedice con la mano destra.

particolari della tela nel Carmine di Nadò

Sui due lati sono inginocchiati i donatori, con l’abito e la croce confraternale, e subito dietro di essi una folta compagine di cittadini e nobili, tutti con lo sguardo rivolto al santo. Lo sfondo è caratterizzato dal particolare architettonico di quella che potrebbe essere una delle porte urbiche, porta San Paolo, nelle cui immediate vicinanze sorge la nostra chiesa. La presenza dello stemma civico di Nardò nella parte inferiore della tela fa pensare che tra i committenti ci sia stata anche l’universitas locale o che abbia perlomeno concorso al pagamento delle spese per realizzare l’opera.

Ad esaltare la figura del santo contribuisce il drappo del baldacchino dietro le sue spalle, in broccato nero e oro, nella cui parte superiore si legge a lettere maiuscole e dorate Sa(nc)tus Elicius. Gli arabeschi, i racemi e i fiorellini sono ripresi sulla pianeta marrone che il santo indossa su un ampio camice in seta bianca. Rifulge ovunque il dorato, che è poi una delle caratteristiche salienti della pittura del nostro, particolarmente accentuato nelle ricche bordure e profili dell’indumento e del manutergio. Dorate sono pure le scarpe, le cui punte avanzano dal bell’appiombo delle pieghe del camice, comprendendo la sigla D.A.O.P. (Donatus Antonius Orlandi Pinxit) con cui si firma l’artista.

particolare della tela di Nardò con la firma del santo tra i due piedi

La ricchezza decorativa è ulteriormente manifestata dai guanti gemmati, dagli anelli al secondo e quarto dito della mano sinistra, dalle pietre preziose e dal profilo della mitra.

L’ultimo restauro (eseguito da Francesca Romana Melodia nel 1997) ha ridonato splendore ai colori e specialmente alla doratura, rendendo il dipinto molto apprezzabile. Ha anche evidenziato come la tela sia stata ridotta nelle sue dimensioni originarie (probabilmente in coincidenza con i lavori di risistemazione della chiesa dopo il terremoto del 1743), con la definitiva perdita di brani pittorici che potevano narrare episodi della vita del santo. Non si spiegherebbero diversamente le tre iscrizioni sopravvissute ed ancora ben leggibili sul bordo inferiore, che narrano di miracoli accaduti per l’intercessione di Eligio.

 

il santo in una immaginetta devozionale francese del XVIII secolo

La chiesa madre di Casarano: nuove ipotesi e brevi annotazioni

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, navata principale (ph Maura Lucia Sorrone)

di Maura Sorrone

 

La chiesa madre di Casarano, dedicata a Maria Santissima Annunziata, è da annoverarsi tra i monumenti più rilevanti del barocco salentino.

Tra gli studi sulla chiesa, si ricordano soprattutto le pubblicazioni inerenti le opere pittoriche: il saggio di Mimma Pasculli Ferrara che ha analizzato le sei tele di Oronzo Tiso[1], quello di Michele Paone del 1980[2] e l’inventario dei dipinti curato da Lucio Galante nel 1993[3].

La chiesa fu edificata tra la fine del XVII e i primi decenni del secolo successivo, in seguito all’abbattimento di un edificio precedente, scelta da imputarsi probabilmente alla crescita demografica del paese.

Il progetto, o quantomeno l’esecuzione materiale dei lavori, in precedenza attribuiti ipoteticamente al clan dei Margoleo[4], sembra invece da riferirsi più correttamente alla famiglia De Giovanni, costruttori originari di Galatina. Infatti fu Angelo De Giovanni, ha lasciare il suo nome in un epigrafe ben in vista sulla facciata principale della chiesa.[5] La scelta di maestranze galatinesi ci autorizza a ritenere ancora una volta questo paese del Salento tra i centri più significativi per l’edilizia barocca della provincia[6]. Sicuramente, le tante botteghe presenti sul territorio[7] furono in grado di favorire, in modo diverso, la diffusione di modelli che dai centri principali ben presto entrarono a far parte della cultura architettonica delle periferie, facendo così diventare il barocco da leccese a salentino[8].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di S. Antonio, part. epigrafe dopo il restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

La chiesa, a croce latina, ha una pianta longitudinale. La facciata principale, alquanto semplice, presenta il portale arricchito da una decorazione a punta lanceolata, motivo utilizzato di frequente da Giuseppe Zimbalo e con lui entrato nella cultura tipica dell’arte salentina fino al Settecento inoltrato[9].

All’interno si possono ammirare opere risalenti a periodi diversi quasi a testimoniare il cambiamento di gusto e le scelte operate dai diversi committenti. Innanzitutto, come accennato in precedenza, la chiesa attuale ha sostituito quella precedente, ma alcune opere realizzate per la vecchia matrice furono trasferite nella nuova costruzione. Hanno generato maggior confusione le poche e scarne notizie su un probabile acquisto fatto a Lecce nel 1874 dal Reverendo don Giuseppe De Donatis[10] che portò a Casarano diversi altari provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa a Lecce[11]. Anche se non abbiamo forti testimonianze documentarie che ci permettano di attestare certamente quali siano le opere provenienti dalla vecchia chiesa e neppure precise carte documentarie che attestino l’acquisto del 1874, i restauri degli ultimi anni sembrano dare corpo ad alcune ipotesi, in questa sede soltanto brevemente segnalate[12].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, altare di S. Antonio part. epigrafe prima del restauro (ph Maura Lucia Sorrone)

Ponendoci di fronte all’altare maggiore è facile percorrere con lo sguardo l’intera navata. A sinistra, vicino al portale d’ingresso è collocato l’Altare di Sant’Antonio di Padova (primo decennio del XVIII secolo), nel quale vi è la statua lapidea del santo. Durante gli ultimi lavori di restauro è stata scoperta un’iscrizione prima d’ora completamente sconosciuta. Si tratta di un’epigrafe per ricordare Giuseppe Grasso che restaurò quest’altare, un tempo dedicato ai re magi, intitolandolo al santo di Padova[13]. Nessuno conosceva queste parole completamente nascoste dal responsorio latino, (si quaeris miracula), che si ripete nella preghiera dedicata al santo di Padova e trascritto in un clipeo dell’altare.

A mio avviso, Giuseppe Grasso è lo stesso benefattore che nel 1713 ha lasciato il suo nome sull’altare dell’Immacolata nella matrice di Ruffano. Com’è stato ricordato di recente[14] si tratta di un noto personaggio appartenente ad una famiglia di medici. Da Ruffano ben presto egli si trasferì a Lecce diventando, a quanto ci dicono le fonti, il medico di fiducia del vescovo Pignatelli[15].

È piuttosto insolito che un’ epigrafe in memoria di un illustre benefattore, tanto generoso da impegnarsi a finanziare un intervento di restauro, sia stata volutamente coperta mentre di solito è consuetudine ricordare gli interventi di restauro con epigrafi e iscrizioni ben visibili sulle pareti delle chiese salentine, sugli altari e sulle tele dipinte. Credo che sia più corretto leggere la scelta di modificare l’iscrizione nell’ottica di un vero e proprio riutilizzo dell’altare che, provenendo da un’altra chiesa, doveva essere adattato a un altro luogo entrando nella vita di una nuova comunità di fedeli. Inoltre, nelle carte documentarie dell’archivio parrocchiale non sembrano esserci riferimenti a questo facoltoso medico. Dunque, l’altare potrebbe essere uno di quelli provenienti dalla chiesa di San Francesco della Scarpa. Anche per quanto riguarda l’intitolazione originaria non sembra esserci stato nelle diverse chiese matrici di Casarano alcun altare dedicato ai Magi né al Presepe. Tematiche più solitamente vicine alla religiosità francescana. È possibile dunque che l’epigrafe modificata e la statua di Sant’Antonio siano state assemblate al nuovo altare dopo il 1874[16].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, interno, part. navata e tela di O. Tiso (ph Maura Lucia Sorrone)

Per cercare di capire le scelte fatte, in assenza di precise carte documentarie, credo che si debba considerare la tematica del riutilizzo di parti o intere strutture d’altare che, entrate in questa chiesa devono aver integrato o rinnovato gli altari che qui già esistevano o che si scelse di creare ex novo perché segno di una particolare devozione del territorio, come abbiamo visto per Sant’Antonio.

Tornando alla nostra breve visita in chiesa, segue all’altare del Santo di Padova, quello dedicato all’Immacolata e poi ancora il pulpito ligneo del 1761 e l’organo a canne realizzato dieci anni dopo[17].

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare delle Anime Sante del Purgatorio (sin.) e altare del Rosario (d.) (ph Maura Lucia Sorrone)

Nella navata destra si susseguono l’Altare dell’Incoronazione della Vergine, quello del Rosario che al centro conserva la tela omonima dipinta da Gian Domenico Catalano[18] e l’altare dedicato alle Anime del Purgatorio. Quest’opera, realizzata entro il 1660[19] fu voluta dal Chierico Giovanni D’Astore.

Sebbene realizzato per la chiesa precedente, quest’altare insieme  al dipinto posto al centro, è frutto di una scelta unitaria da parte del committente e, nonostante i diversi spostamenti subiti all’interno della chiesa, il dipinto e la struttura architettonica sono state mantenute insieme. I lavori di realizzazione furono affidati a Donato Antonio Chiarello per la scultura e a Giovanni Andrea Coppola per la tela dipinta[20].

Ricordiamo tra l’altro che lo scultore copertinese in questi stessi anni realizza a Casarano l’altare maggiore nella chiesa della Madonna della Campana.[21]

Altri tre altari sono posti nel transetto: quello dell’Annunciazione, realizzato entro il 1829 dal capomastro Vito Carlucci[22] (a destra), e a sinistra quello dedicato a San Giovanni Elemosiniere, mentre l’Altare dell’Assunta è collocato in cornu epistolae.

L’Altare dedicato al protettore del paese, è frutto di diversi adattamenti. La nicchia posta al centro è stata modificata dall’aggiunta di due colonne, accorgimento utilizzato probabilmente per adattare lo spazio, in precedenza destinato ad ospitare un dipinto, alla statua ottocentesca (fig. 7). Nelle visite pastorali e nello scrupoloso lavoro fatto da Chetry, si cita più volte un altare dedicato al Crocifisso, presente in chiesa dal primo decennio del XVIII secolo fino al 1799[23]. Quest’intitolazione certamente sembra essere più consona agli angeli scolpiti in basso che reggono i simboli della Passione.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare di San Giovanni, part. (ph Maura Lucia Sorrone)

L’altare dedicato all’Assunzione della Vergine, datato 1740, appartiene invece a un altro ramo della già citata famiglia D’Astore[24]. Questa struttura ha sostituito un’altra più antica attestata in chiesa fin dal 1719. L’altare, bell’esempio di scultura barocca, si caratterizza per gli angioletti scolpiti che letteralmente invadono lo spazio della scena, dipinta quasi due secoli prima dal pittore neretino Donato Antonio D’Orlando (fig. 9). La tela sicuramente fu richiesta da un’altra committenza data la discordanza degli emblemi visibili. Quello dei D’Astore presente nella macchina d’altare, precisamente  nei plinti alla base delle colonne, è diverso da quello visibile nel dipinto (fig. 10).

Al 1634 risale la tela del Miracolo di San Domenico di Soriano. Essa è parte restante di un altare documentato in questa chiesa fino al 1910. L’opera è adesso collocata nel transetto sinistro, di fronte all’altare dell’Assunta. L’anno di esecuzione e il monogramma del pittore[25] sono stati recuperati durante il recente restauro. Nel transetto destro, di fronte alla cappella novecentesca in cui è riposto il SS. Sacramento, vi è la tela raffigurante la Pentecoste, attribuita ad un pittore di cultura emiliana[26] probabilmente del XVII secolo.

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, part. Altare di S. Giovanni Elemosiniere (ph Maura Lucia Sorrone)

A questa veloce descrizione si vuole aggiungere la segnalazione di alcune sculture e architetture attualmente collocate nel cimitero comunale. Si tratta precisamente di due trabeazioni decorate con motivi fogliati e di quattro statue. Non c’è dubbio che le due trabeazioni siano parte dell’architettura di un altare così come una delle statue, raffigurante Sant’Oronzo. Quest’ultima, come possiamo vedere dalle fotografie, sembra essere stata staccata da un altare. Infatti, la figura, anche se è molto danneggiata, mostra un intaglio carico di particolari nella parte frontale, a differenza del retro, in cui la pietra, piatta, è lasciata completamente allo stato grezzo.

Si può ipotizzare che, in seguito alle modifiche di fine Ottocento, l’altare sia stato smembrato e alcune parti siano state trasportate nel cimitero comunale edificato proprio alla fine di questo secolo.

Ad ogni modo, dopo i recenti interventi di restauro si spera che un nuovi studi possano chiarire le vicende storico – artistiche di una delle principali chiese del Settecento in Terra d’Otranto[27].

 

Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell'Assunta, tele di D. A. D'Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)
Casarano, Chiesa Maria SS. Annunziata, Altare dell’Assunta, tele di D. A. D’Orlando (ph Maura Lucia Sorrone)

 

Pubblicato su Il delfino e la mezzaluna n°2, cui si rimanda per la bibliografia, fonti archivistiche e sitografia

 


[1] Oltre alle sei tele conservate nella matrice, la studiosa ha analizzato quelle conservate nella chiesa confraternale dell’Immacolata e quelle della cappella della famiglia Valente. M. PASCULLI FERRARI, Oronzo Tiso, Bari 1976.

[2] M. PAONE, I Tiso di Casarano, in A. DE BERNART,  Paesi e figure del vecchio Salento, Casarano, vol. I, Galatina 1980, pp. 258 – 272.

[3] Regione Puglia Assessorato Pubblica Istruzione C.R.S.E.C. LE/46 Casarano, Pittura in Terra d’Otranto, (secc. XVI – XIX), Inventario dei dipinti delle chiese di Acquarica del Capo, Alliste, Felline (fra. di Alliste), Casarano, Matino, Melissano, Parabita, Presicce, Racale, Ruffano, Torre Paduli (fraz. di Ruffano), Supersano, Taurisano, Ugento, Gemini (fraz. di Ugento), a cura di L. Galante, Galatina 1993.

[4] Questa ipotesi probabilmente nasce per la somiglianza della chiesa casaranese con la vicina chiesa madre di Ruffano realizzata dai fratelli Ignazio e Valerio Margoleo. Sulla chiesa di Ruffano: A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano: una chiesa, un centro storico, Galatina 1989; V. CAZZATO – S. POLITANO,  Topografia di Puglia: atlante dei monumenti trigonometrici : chiese, castelli, torri, fari, architetture rurali, Galatina 2001, cit. p. 238.

[5]M. L. SORRONE, Alcune note sulla chiesa madre di Casarano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 23 novembre 2012 https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/11/23/annotazione-sulla-chiesa-madre-di-casarano/.

[6] M. CAZZATO, L’area galatinese: storia e geografia delle manifestazioni artistiche, in: M. CAZZATO, A. COSTANTINI, V. ZACCHINO, Dinamiche storiche di un’area del Salento, Galatina 1989, pp. 260 – 366.

[7] Si ricordano tra gli altri: l’artista neretino Giovanni Maria Tarantino che nel 1576 firma il portale della chiesa di San Giovanni Elemosiniere a Morciano, Pietro Antonio Pugliese, che lavorò alla chiesa di Santa Caterina Novella di Galatina intorno al 1619 e l’architetto leccese Giuseppe Cino, autore  di numerose opere a Lecce e nel Salento che, a quanto dicono i documenti, aveva stretti legami lavorativi con i suoi fratelli, che ricoprivano il ruolo di <<costruttori>>, cfr. M. PAONE, Per la storia del barocco leccese, estr. da “Archivio storico pugliese”, 35 (1982), fasc. 1, cit. p. 141.

[8] M. CAZZATO, L’area galatinese…, cit. p. 330.

[9] F. ABBATE, Storia dell’arte Meridionale, Il secolo d’oro, Roma 2002, p. 267.

[10] Il Reverendo Giuseppe De Donatis commissionò anche il restauro della tela di Oronzo Tiso, San Giovanni che distribuisce l’Eucarestia ai fedeli, (a sinistra, dietro il presbiterio). Intervento ricordato da un’iscrizione posta in basso a sinistra sulla tela, si veda: L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni latine del Salento. Vernole e frazioni, Maglie, Casarano, Galatina 1994, p. 139.

[11] G. BARRELLA, La chiesa di San Francesco della Scarpa in Lecce, Lecce 1921, p. 28; C. DE GIORGI, La provincia di Lecce – Bozzetti di viaggio, Galatina 1975, vol. II, p. 153; A. CHETRY, Spigolature casaranesi, I, La chiesa matrice di Casarano, ed. a cura dell’Amministrazione comunale di Casarano, Casarano 1990, p. 11.

[12] Queste brevi segnalazioni vogliono essere un preambolo ad un lavoro più dettagliato che chi scrive sta svolgendo.

[13] <<DANT. O  PATAVINO/ SERAFICA FAMILIAE P.P SIDERI FULGENTISS.O/ SACELLUM OLIM REGIBUS AD PRAESEPE VENIETIB(US)/ SACRUM IOSEPH GRASSUS VETUSTATE COLLAPS(US)/ DICAVIT: UT SI ILLI QUONDAMSTELLA DUCE IAM/ DEUM HOMINEM NORUNT: TANTI NUNC/ SIDERIS LUMNEM DEUM SIBI NOSCAT/ PROPITIATOREM>>, trad. <<A Sant’Antonio di Padova astro fulgentissimo tra i presbiteri della famiglia serafica Giuseppe Grasso ha dedicato questo altare rovinato dagli anni un tempo (dedicato) ai re (magi) diretti al presepe affinché come loro un tempo guidati dalla stella hanno già conosciuto il Dio uomo, così ora alla luce del Santo Astro, Dio gli si mostri propizio>>.  Traduzione a cura di G. Pisanò, F. Danieli e don Agostino Bove. In queste sede voglio ricordare con affetto il mio prof. Gino Pisanò scomparso nei giorni di revisione di questo saggio.

[14] A. DE BERNART, I Grassi di Ruffano: una famiglia di medici, estr. da “Nuovi Orientamenti”, 12 n. 71, Cutrofiano 1981, A. DE BERNART – M. CAZZATO, Ruffano…, Galatina 1989, p. 37.

[15] S. TANISI, Visita alla chiesa della Natività della Vergine di Ruffano, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 17 luglio 2012,

https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/07/17/visita-alla-chiesa-della-nativita-della-vergine-di-ruffano-lecce/.

[16] A Casarano è ben documentato il culto di Sant’Antonio da Padova, al quale era intitolata una cappella, cfr. ACVN, Atti delle visite pastorali, Mons. Antonio Sanfelice, anno 1711, A/52. È probabile che una volta dismessa questa, la statua in pietra del santo sia stata trasferita nella chiesa madre.

[17] Al centro si legge: D.O.M. / A. D./ MDCCLXXI.

[18] Attivo negli anni 1604 – 1628.

[19] <<[…] per sua devott.ne a sue proprie spese novam.te have eretto, et edificato una cappella sotto il titulo dell’Anime del Purgatorio dentro la Matrice chiesa di […] Casarano dalla parte destra nell’entrare dalla porta grande d’essa chiesa et proprio dove stava prima il quadro di s. Trifone, nella quale anco a sue proprie spese vi ha fatto un quadro delle dette Anime del Purgatorio…>>. ASLe, Protocolli notarili, notaio Marc’Antonio Ferocino, anno 1660, f. 138, 20/3, Archivio di Stato, Lecce.

[20] V. CAZZATO, Il Barocco leccese, Bari 2003, p. 99; V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare barocco nel Salento: da Francesco Antonio Zimbalo a Mauro Manieri, in Sculture di età barocca tra Terra d’Otranto, Napoli e la Spagna, Roma 2007, catalogo della mostra, pp. 107 – 129, cit. pp. 113 – 114. La tela fu inizialmente commissionata a Giovanni Andrea Coppola, ma egli non riuscì a portare a termine l’opera che dopo la sua morte fu completata dal pittore Fra’ Angelo da Copertino. Il dipinto è stato restaurato dalla dott.ssa Luciana Margari. Sulla vicenda si segnala un recente articolo di S. TANISI, La tele delle Anime del Purgatorio di Casarano: due autori per un dipinto, in “Fondazione Terra d’Otranto”, 10 gennaio 2012, https://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/01/la-tela-delle-anime-del-purgatorio-di-casarano-due-autori-per-un-dipinto/.

[21]V. CAZZATO – S. POLITANO, L’altare…, cit. p. 114.

[22] Sull’altare si legge: Vito Carlucci e figli (Muro leccese) mentre sulla tela è presente l’anno di esecuzione: 1829.

[23] ACVN, Atti delle Visite Pastorali, mons. Antonio Sanfelice, anno 1719, b. A/77;  A. CHETRY, Spigolature…, cit. p. 27 e p. 41. Anche quest’altare, nella sua architettura originaria, fu commissionato dalla famiglia D’Astore.

[24]L. GRAZIUSO – E. PANARESE – G. PISANO’, Iscrizioni …, cit. p. 127: << Gentilicium familiae de Astore sacellu[m] hoc/ deiparae in coelum evectae dicatum ac benef[icio]/ [a] notaro qu[o]nda[m] Antonio Vergaro fu[n]d[a]tore donatum/ cl. Vitus Antonius De Astore ex matre pronep.[os]/ excitandu[m] curavit anno reparati orbis/ MDCCXL>>, <<Questo altare gentilizio della famiglia d’Astore, dedicato alla Madonna Assunta in Cielo e dotato di un beneficio dal defunto notaio Vergari, il signor Vito Antonio d’Astore, pronipote da parte di madre, fece erigere nell’anno della redenzione del mondo 1740>>.

[25]ORT. BR. NER. 1634, (Ortensio Bruno Neritonensis). Altri dipinti sono accompagnati da questo stesso monogramma, pensiamo alla tela dell’Immacolata nella chiesa di Santa Lucia a Taviano e al dipinto raffigurante il Miracolo di Soriano nella chiesa matrice di Racale. In queste opere per l’abbreviazione della provenienza si legge “N. US” e non “NER.” (neritonensis), cfr. L. GALANTE, Pittura…, cit. p. 11 e nota n. 23 a p. 20. Si veda anche: A. SERIO – G. SANTANTONIO, Racale: note di storia e costume, Galatina 1983.

[26] L. GALANTE, Pittura…, fig.74 senza numero di pagina.

[27] Ringrazio sentitamente il parroco, don Agostino Bove, per la disponibilità e per avermi permesso di fotografare la  chiesa.

1 dicembre. Sant’Eligio. Una tela di Donato Antonio d’Orlando a Nardò

 

di Marcello Gaballo

Le sorprese che riserva la chiesa della Vergine del Carmelo a Nardò, un tempo officiata dai carmelitani scalzi, che dimoravano nell’annesso convento, poi parrocchia, sono davvero tante. I preziosi arredi, i decori, gli stucchi e le opere pittoriche presenti, ne fanno una delle tappe che non possono mancare nell’itinerario del turista, sia esso il più frettoloso e poco attento.

Di impianto cinquecentesco, ampiamente rimaneggiata dopo il funesto terremoto del 20 febbraio 1743,  l’edificio ospita una bella tela raffigurante Sant’Eligio, opera del prolifico ma poco noto pittore Donato Antonio d’Orlando (Nardò, 1562 ca – Racale, 1636), la cui produzione è uniformemente distribuita in Terra d’Otranto (Muro Leccese, Copertino, Seclì, Uggiano La Chiesa, Ugento, Leverano, Martina Franca, ecc.).

Il Santo orefice (Chaptelan 588 ca. – 1 dicembre 669 d.C.) fu controllore dei metalli, maestro della zecca, poi grande argentiere sotto il regno di Clotario II, quindi tesoriere di Dagoberto I, prima di essere eletto vescovo di Noyon nel 641 (nella cui abbazia riposa il corpo). Fu assunto a patrono degli orefici, argentieri e gioiellieri, per la sua abilità di intagliatore.  Prima degli ordini sacri eseguì opere di oreficeria di altissimo livello e ne erano prova i bassorilievi della tomba di S. Germain, vescovo di Parigi e i due seggi intarsiati per Clotario, ancora visibili nel 1789. Delle sue opere oggi restano soltanto, oltre ad alcune monete, un frammento di croce incastonata, conservata nel Gabinet des Médailles a Parigi.

antica immaginetta devozionale del santo
Nardò, masseria Brusca, affresco di S. Eligio

Sant’Eligio è considerato anche patrono di quanti si servono di martelli, tra cui carpentieri,  incisori, orologiai, fabbri, meccanici, calderai, minatori, attrezzisti, doratori, ma anche dei trasportatori, autisti, veterinari, sellai,  produttori di finimenti, garagisti, carrozzieri, carrettieri, commercianti di cavalli, contadini, operai, braccianti.

Chiesa matrice di Casarano, statua di S. Eligio (XVII secolo)

Il dipinto di Nardò, ad olio su una tela di cm. 123×193, si ammira sul primo altare della navata a sinistra di chi entra; la presenza di questo santo collima con l’intitolazione dell’altare allo stesso.
Di aspetto giovanile,  è dipinto a figura intera, in piedi, vestito in abiti vescovili; con il braccio sinistro regge il pastorale argenteo e un prezioso volume profilato in oro, mentre benedice con la mano destra.

particolari della tela nel Carmine di Nadò

Sui due lati sono inginocchiati i donatori, con l’abito e la croce confraternale, e subito dietro di essi una folta compagine di cittadini e nobili, tutti con lo sguardo rivolto al santo. Lo sfondo è caratterizzato dal particolare architettonico di quella che potrebbe essere una delle porte urbiche, porta San Paolo, nelle cui immediate vicinanze sorge la nostra chiesa. La presenza dello stemma civico di Nardò nella parte inferiore della tela fa pensare che tra i committenti ci sia stata anche l’universitas locale o che abbia perlomeno concorso al pagamento delle spese per realizzare l’opera.

Ad esaltare la figura del santo contribuisce il drappo del baldacchino dietro le sue spalle, in broccato nero e oro, nella cui parte superiore si legge a lettere maiuscole e dorate Sa(nc)tus Elicius. Gli arabeschi, i racemi e i fiorellini sono ripresi sulla pianeta marrone che il santo indossa su un ampio camice in seta bianca. Rifulge ovunque il dorato, che è poi una delle caratteristiche salienti della pittura del nostro, particolarmente accentuato nelle ricche bordure e profili dell’indumento e del manutergio. Dorate sono pure le scarpe, le cui punte avanzano dal bell’appiombo delle pieghe del camice, comprendendo la sigla D.A.O.P. (Donatus Antonius Orlandi Pinxit) con cui si firma l’artista.

particolare della tela di Nardò con la firma del santo tra i due piedi

La ricchezza decorativa è ulteriormente manifestata dai guanti gemmati, dagli anelli al secondo e quarto dito della mano sinistra, dalle pietre preziose e dal profilo della mitra.

L’ultimo restauro (eseguito da Francesca Romana Melodia nel 1997) ha ridonato splendore ai colori e specialmente alla doratura, rendendo il dipinto molto apprezzabile. Ha anche evidenziato come la tela sia stata ridotta nelle sue dimensioni originarie (probabilmente in coincidenza con i lavori di risistemazione della chiesa dopo il terremoto del 1743), con la definitiva perdita di brani pittorici che potevano narrare episodi della vita del santo. Non si spiegherebbero diversamente le tre iscrizioni sopravvissute ed ancora ben leggibili sul bordo inferiore, che narrano di miracoli accaduti per l’intercessione di Eligio.

 

il santo in una immaginetta devozionale francese del XVIII secolo

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