di Maurizio Nocera
… Vanini, monaco carmelitano col nome di fra’ Gabriele, fu uno studioso accanito che, per la costruzione del suo pensiero filosofico non ebbe altra possibilità che quella di confrontarsi con le idee del suo tempo, che altro non erano se non quelle della Scolastica tomistica e del neoplatonismo plasmato forzatamente sulla dottrina cristiana. Per cui, il suo libertinismo e il suo ateismo non sono il frutto di un’adesione aprioristica alla rinata concezione del mondo naturistica, ma l’inevitabile conclusione di un pensiero fondato sugli scritti di pensatori antichi «come Luciano, Diagora, Protagora, Cicerone, Diodoro Siculo [in altra parte del libro (v. p. 178) a questi aggiungerà anche Lucrezio, Epicuro e Pomponazzi] e gli epicurei e, tra i moderni, Cardano e Machiavelli» (v. p. 106).
Ecco dunque perché, il Raimondi giustamente scrive che «la filosofia vaniniana […] è una filosofia della crisi [del suo tempo] ed è l’espressione di quello sgretolamento degli schemi culturali e mentali consolidatisi nella tradizione che prepara o […] accompagna il radicarsi di uno spirito scientifico moderno. Di qui l’istanza di un’audacia che si spinga fino all’esposizione al pericolo di morte. È questo il senso in cui ricorre più volte nel Vanini l’idea di aver intrapreso una via che non ammette scampo («quid philosopho exoptabilius, quam in literis et pro literis mori?») [che cosa c’è di più desiderabile per il filosofo che morire nelle lettere e per le lettere] e da