Libri| La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

La Scuola e l’Arte. Scritti per Bartolomeo Lacerenza (1940-2019)

a cura di Marcello Gaballo, prefazione di Antonio Bini

Mario Congedo Editore, 2021

 

Una collettanea di studi dedicati a Bartolomeo Lacerenza (Monopoli, 1940 – 2019), già dirigente di Istituti d’Arte, poi Licei artistici, curata da Marcello Gaballo.
Contiene numerosi saggi inediti, prevalentemente di storia dell’arte, che riguardano soprattutto le città pugliesi di Galatina, Monopoli e Nardò, dove ha vissuto ed operato il dedicatario, per il cui nome è inserita un’ampia raccolta di raffigurazioni del santo.
Edito da Mario Congedo di Galatina (Lecce) il volume, in quarto, è riccamente illustrato, di circa 350 pagine, con inserti a colori, rilegato in brossura e con alette, dodicesimo dei supplementi della prestigiosa Collana della Diocesi di Nardò-Gallipoli.
Pregevoli le incisioni riprodotte, conservate nella Casanatense di Roma, e le miniature dell’Estense di Modena, ma non da meno sono le diverse pale d’altare poco note e presenti in remoti luoghi italiani.
L’edizione offre altresì immagini e foto di luoghi pugliesi, a corredo dei saggi, molte delle quali poco note al pubblico e di notevole arricchimento per la storia dell’arte italiana.

 

Indice
p. 5 ANTONIO BINI, Meuccio ovvero della scuola, dell’arte, della persona
9 RAFFAELLA LACERENZA, Ex abundantia cordis…
13 FULVIO RIZZO, Bartolomeo Lacerenza e la scuola del territorio Conoscere, curare, valorizzare il patrimonio culturale
17 DON SANTINO BOVE BALESTRA, Il preside, l’amico, il docente, il
pioniere
19 STEFANIA COLAFRANCESCHI, San Bartolomeo tra arte e devozione
49 DOMENICA SPECCHIA, Lineamenti storico-artistici delle architetture
nella città di Galatina nei secoli
65 ANTONELLA PERRONE, L’attività di Giovanni Maria Tarantino presso
la chiesa dei Battenti di Galatina. Appunti di cantiere
81 MICHELE PIRRELLI, Monopoli e il Salento: contatti dal Quattrocento
all’Ottocento
95 DOMENICO L. GIACOVELLI, L’epilogo “monopolitano” della sede di
Mottola e l’infelice sorte del suo palazzo vescovile
107 ARMANDO POLITO, Camillo Querno, l’Arcipoeta di Monopoli alla
corte di Leone X
121 RUGGIERO DORONZO, La giovinezza di “Alessandro Franzino [Fracanzano] Veronese” e l’Assunzione della Vergine a Monopoli
139 CLAUDIO ERMOGENE DEL MEDICO, La reale confraternita del SS. Sacramento di Monopoli e la particolare devozione all’Eucarestia degli
Acquaviva d’Aragona in Puglia
149 MARINO CARINGELLA, Addenda a Fabrizio Fullone, pittore martinese
del ‘600
171 MARCELLO GABALLO, San Bartolomeo dei Marra. Una chiesetta e
una tela secentesche nel cuore della città di Nardò
201 MICHELE MARTELLA, Due opere restaurate dell’oratorio dell’Annunziata di Castelspina di Alessandria
207 FABRIZIO SUPPRESSA, Nardò e i suoi campanili. Tra arte, storia e architettura
221 MARCELLO GABALLO – ALESSIO PALUMBO, La vigilia della rivolta:
Giovanni Granafei e le lotte di potere nella Nardò ante 1647

235 RUGGIERO DORONZO, Per Marianna Elmo. Il San Giovanni Battista
nel deserto a Nardò
243 MARCELLO GABALLO, Tra granai e dimore storiche nel 1600. Inventario dei possedimenti della nobildonna copertinese Elisabetta Ventura, vedova di Giovan Pietro Valentino
265 ARMANDO POLITO, Una “biblioteca” giuridica del 1600 in casa del
copertinese barone Valentino
283 MIRKO BELFIORE, Il sisma del 1743 in Terra d’Otranto nelle testimonianze dirette tra Nardò e Francavilla Fontana
297 PIETRO DE FLORIO, La pittura en plein air di Arturo Santo (1921-
1989)
305 BARTOLOMEO LACERENZA, I cromatismi di Petrelli
309 BARTOLOMEO LACERENZA, La coerenza temporale e ambientale di
Gianfranco Russo
315 BARTOLOMEO LACERENZA, Recuperato a Monopoli un dramma pastorale di Marco Gatti, letterato e riformatore dell’istruzione pubblica nel Regno delle Due Sicilie

Ricordo di Carlo Barbieri

di Domenica Specchia

Tra i nomi degli artisti italiani della prima metà del Novecento, si può annoverare quello di Carlo Barbieri (San Cesario di Lecce, 1910 – Roma, 1938) ricordato, in queste brevi note, per un vivacizzarsi di quella fiamma che, mai spenta, si rianima quasi all’improvviso, al leggero soffio di un anelito di speranza finalizzato – sic et simpliciter – a ridar la giusta considerazione e la meritata valenza a tanta riconosciuta maestria artistica.

Artista polivalente, Barbieri, nel suo breve, ma intenso itinerario di vita, iniziò a percorrere le strade della poesia e della decorazione per giungere poi all’ambito traguardo di un’arte originale, sintesi di scelte grafico – pittoriche oculate, partorite da una mente, dalle singolari capacità di trasformazione, ed impresse sul foglio da una mano tanto abile da lasciare traccia indelebile di un artista di grande personalità, caratterialmente libero di vivere la propria vita, scevro da condizionamenti di sorta, creativo, appassionato. Durante i ventisette anni della sua breve, ma intensa esistenza – peraltro, conclusasi banalmente, in quella tragica notte dell’11 giugno 1938, con l’annegamento nella piscina allo stadio di Roma – l’allora stadio Mussolini -, Barbieri profuse tutto il suo amore e la sua passione per l’arte. Dal suo paese natale, dove egli aprì gli occhi alla luce il 23 ottobre da Luigi, intagliatore di pietra, e da Giuseppa Paternello; Carlo, insieme ai fratelli Francesco, scultore, e Ugo, musicista, trascorse la sua fanciullezza a Lecce, città dove la famiglia si trasferì quando il padre fu assunto come impiegato al dazio. In questa urbs, di secolare tradizione culturale ed artistica, egli, insofferente ai condizionamenti scolastici, si recò a bottega e, intraprendente qual’era, apprese l’arte del modellare la pietra e del plasmare la cartapesta educando anche, da autodidatta, la sua mano al segno grafico.

Ricco di tali sofferte ed indimenticabili esperienze, ancora adolescente, incoraggiato dal maestro Geremia Re (1894 – 1950), e desideroso di migliorare la propria preparazione culturale ed artistica, si trasferì a Roma, a vivere con la zia, Irene Paternello, illo tempore, governante in casa del poeta Francesco Negro. In questa dimora, Barbieri domiciliò per ben quattro anni e furono questi, come scrisse Francesco Negro “di formazione, di fermenti, di sviluppi eccezionali, man mano che il ragazzo si addomesticava, toccava un libro, assisteva a qualche mia lezione, si commentava un poeta  […]  Al tu per tu poi veniva fuori con un’immagine inaspettata, un paragone, un giudizio, che nell’empiricità e involutezza si faceva apprezzare per qualcosa di acuto e di originale, di penetrante ed inventivo, soprattutto di fantastico”.

A diciannove anni, dopo essersi allontanato da casa Negro, Barbieri cercò in tutti i modi, tra difficoltà e sacrifici, di trovarsi una sistemazione, ma la miseria fu la compagna della sua vita poiché la fortuna – come egli stesso, sovente, ripeteva – non gli arrise mai. Con animo combattivo egli però ironizzava e rideva sulla malasorte come se fosse un meccanismo di autodifesa per allontanarla da sé. Pertanto, ironia, sarcasmo, purezza, dolcezza, sentimento sono gli ingredienti che qualificano le sue composizioni grafiche e pittoriche, tutte così diverse le une dalle altre nello stile, ma altrettanto anticonvenzionali e stravaganti nelle loro peculiari dissonanze. In questo periodo, durante gli anni venti e trenta del Novecento, Barbieri, “fulmineo psicologo e narratore istintivo” – come scrisse di lui, nel 1951, Vittorio Bodini (1914 – 1970), suo parente – si trovò a vivere in un ambiente ricco di fermenti culturali, in cui giunse l’eco della corrente espressionista della Neue Sechlichkeit (Nuova oggettività) di M. Beckmann (1884 – 1950), di O. Dix (1891 – 1968), di G. Grosz (1893 – 1959), artisti impegnati socialmente a decantare, rispettivamente, la caduta apocalittica dell’umanità, la stupidità della guerra, la cupa libidine della violenza e del potere.

I suoi interessi artistici furono vivificati però anche dalla metafisica di G. De Chirico ( 1898 –  1967), artefice di un’arte nuova, intesa come realtà diversa da quella che comunemente si conosce; dal movimento “Valori Plastici” di F. Casorati (1886 – 1963) e di G. Morandi ( 1890  – 1964) i quali, uno con la forma plastico – volumetrica e l’altro, con l’intimismo, vollero ricondurre il linguaggio figurativo moderno alla vera tradizione italiana di Giotto e di Masaccio; dalla poetica di  P. Picasso (1881- 1973)  che non esitò a schierarsi con la democrazia contro ogni forma di dittatura. Ma, in un clima, così dinamico a livello culturale, nella Capitale nacque e si sviluppò anche la Scuola Romana di Scipione (1904 – 1933), di M. Mafai (1902 – 1965), di A. Raphael (1990 – 1975), di M. Mazzacurati (1908 – 1969)  che manifestarono, alla maniera degli esponenti dell’Ecole de Paris, la loro libertà di pensiero e di espressione e l’indipendenza della loro cultura artistica dal potere. Proprio per queste motivazioni Barbieri si può ascrivere in quest’ultimo novero di bohémiens, tutti votati a realizzare un’arte moderna, senza un programma ben definito e ben lontani dal coniugare, a livello artistico, i canoni della tradizione accademica.

Il linguaggio figurativo di Barbieri, agli inizi incerto, si affinò – medio tempore – poiché egli si appropriò di accenti diversi che lo proiettarono in una dimensione in cui aspetti, dell’arte di tutti questi esponenti della cultura artistica della prima metà del Novecento, rimasero da lui comparati e selezionati in uno stile sobrio, tipico di un artista sensibile come fu lui, con l’orecchio e l’occhio sempre tesi a cogliere le novità per rielaborarle poi, in composizioni oscillanti tra influssi della Scuola Romana ed altri provenienti dagli artisti espressionisti, ma con accenti talvolta fantastici, addirittura fiabeschi, resi attraverso un uso del colore peculiare fino a conferire, comunque, al suo lunatico dipingere un carattere originale. Le opere: Incontro di Dante con Beatrice (cm. 16×20, pastello, 1932), Contadine (cm. 18×20, pastello, 1932), Poeta morente (cm. 58×81, pastello, 1935), Satiri  (cm. 48×68, pastello, 1935), denotano un lirismo coloristico che degnamente rende esplicito il sentimento dell’artista palesato, soprattutto, nei volti dei diversi personaggi rappresentati, sospesi tra realtà ed astrazione. Osservando attentamente queste opere è possibile riscontrare che, la sua azione pittorica non fu casuale, ma al servizio dei suoi impulsi interiori: dalle velature espanse e trasparenti che, talora, conferiscono alla composizione il senso di una profondità il più delle volte stratificata, a macchie dense di colore le quali sembrano quasi galleggiare sulla superficie di uno spazio fluido. Tinte calde e fredde che si sommano o si contrastano a seconda degli impulsi profondi dell’autore, artifex di sensazioni tattili in immagini visibili, verseggiate talvolta, qua e là, su fogli ingialliti, inchiostrati di parole, con frammentarietà nella forma e nel contenuto. All’esiguità del materiale poetico – attestante la sua vena letteraria – corrisponde l’altrettanta poca disponibilità nell’applicazione alle “arti decorative” che egli, comunque, praticò, ma si presume per puro guadagno e per soddisfare le esigenze ed i bisogni della committenza del tempo, determinata ad imporre il proprio gusto.

Sicuramente il disegno rimane l’espressione grafica più confacente al carattere schivo e solitario  di questo artista  che riuscì a fissare sul foglio tutte le impressioni del mondo circostante come soldati, saltimbanchi, circensi, nomadi, diseredati, ritratti, nudi, nature morte, paesaggi, soggetti che più lo attraevano, probabilmente perché in essi vedeva riflessa la propria esperienza di vita. Sono disegni che comunicano le sue diverse emozioni rese attraverso un segno talvolta marcato ed incisivo, talaltra leggero o veloce, ma pur sempre sintetico ed espressivo dei suoi stati d’animo e del suo ingegno indiscusso. Lo confermano i ritratti di Francesco Negro, Ritratto di Francesco Negro (cm. 16×21, matita, 1937), in cui egli pose in risalto il poeta,  fotografato, attraverso i tratti inquieti della matita, nella sua assorta pensosità, e quelli del fratello Ugo,  Ritratto del fratello Ugo (cm. 23×31, carboncino, 1931), Il fratello Ugo al pianoforte (cm. 50×75, carboncino, 1936) –  peraltro, venuto a mancare in giovane età – qualificati da una carica di espressività che rimane speculare del suo sentimento angosciato e sofferto.

Le indubbie qualità grafico – pittoriche esaltano l’arte di Barbieri che, a cento anni dalla nascita, rimane una meteora dell’arte salentina, da  riscoprire e riportare in auge per le future generazioni, inconsapevoli, probabilmente, della valenza di uno dei maggiori esponenti dell’arte italiana meridionale, poiché – per dirla alla maniera di J. Winckelmann – “l’umiltà e la semplicità furono le vere sorgenti della sua bellezza” di uomo del Sud e di artista del Novecento.

 

 

Un ringraziamento è rivolto all’amico pittore Lionello Mandorino per le notizie cortesemente fornitemi

Galatina. Gli affreschi del chiostro di S. Caterina d’Alessandria

di Marcello Gaballo

Domenica Specchia
Basilica di S. Caterina d’Alessandria-Galatina. Gli affreschi del chiostro
Galatina (Lecce), Editrice Salentina, 2007

 

128 pagine, album a colori con numerose illustrazioni e foto del chiostro e della basilica, tra le quali si segnalano particolarmente quelle riportate alle pp. 28-29-30-31

Presentazione del sindaco di Galatina Sandra Antonica, introduzione di Zeffirino Rizzelli. Fotografie di Oreste Ferriero, progetto grafico di Rossella Vilei.

 

Una monografia dedicata al chiostro quadrangolare della celebre pontificia basilica minore di S. Caterina d’Alessandria in Galatina, voluta dai del Balzo Orsini e custodita dai francescani osservanti fino al 1494. Come noto, da tale anno la reggenza del complesso cateriniano passò, per volere del re Alfonso II d’Aragona, ai monaci olivetani di Pienza e quindi riaffidata agli stessi minori nel 1507.

Furono questi ultimi, oramai aderenti alla Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia, a commissionare all’attivissimo confratello Giuseppe da Gravina gli affreschi che tuttora decorano le pareti del quadriportico, e di recente restaurati. Egli li ultimò nel 1696, ventisei anni dopo quelli realizzati nel chiostro francescano di Nardò. Nel frattempo aveva lavorato nella città natale, dove, nel 1678, nella chiesa di S. Sebastiano, realizzò una tela e ne affrescò il chiostro. Nel 1685 aveva lavorato invece a Lecce, nel chiostro del convento di S. Maria al Tempio, poi a Francavilla Fontana, dove dipinse la tela di S. Giovanni da Capestrano per la chiesa di S. Maria della Croce.

Come per tutti gli altri interventi pugliesi il soggetto è prevalentemente francescano e l’impostazione si ripete, occupando le lunette poste al di sotto delle volte che formano il quadriportico, estendendosi sotto l’imposta delle voltine di copertura e sull’intera parete.

L’Autrice analizza attentamente i cicli, offrendo una esauriente schedatura dei singoli riquadri con le relative iscrizioni, corredata da una storia del soggetto raffigurato e dall’analisi scenico-pittorica. Inusuale ed utile l’esame degli stemmi nobiliari effigiati, che ricordano i generosi benefattori, come era accaduto anche per il ciclo di Nardò, dove invece non compaiono le raffigurazioni delle Virtù.

Note sulla chiesa e sul tesoro di S. Caterina d’Alessandria in Galatina

di Domenica Specchia

Galatina custodisce uno degli edifici storico – monumentali più importanti di Puglia: la Pontificia Basilica Minore di S. Caterina d’Alessandria.

La storia di questa chiesa è legata alla famiglia dei del Balzo Orsini e, precisamente, ad Ugo del Balzo d’Orange che, arrivato nel Salento, al seguito del re Carlo I d’Angiò, per i servigi resi alla corona angioina, ricevette da questi, in dono, la contea di Soleto con l’annesso casalis Sancti Petri in Galatina. Alla sua morte tale contea, con il feudo galatinese, fu ereditata dal figlio Raimondo del Balzo che si prodigò di cingere delle prime mura (1350 ca) il territorio galatinese. Nel 1375, alla morte di Raimondo, la contea di Soleto ed il casalis Sancti Petri in Galatina, furono ereditati per volontà testamentaria, dal nipote Raimondello, si presume secondogenito della sorella, moglie di Nicolò Orsini, conte di Nola. Ma, questi non rispettando le ultime disposizioni del de cuis assegnò l’amministrazione del territorio al primogenito Roberto. Raimondello, non condividendo la decisione paterna, decise di allontanarsi dalla sua terra per andare in Oriente a combattere in difesa del Santo Sepolcro. Durante il periodo di permanenza nella Terra Santa, tra l’altro, Raimondello visitò il monastero del monte Sinai che custodiva il corpo di S. Caterina d’Alessandria.

A tal proposito la leggenda narra che Raimondello, prima di tornare nella sua terra, rimase per tre giorni e per tre notti – in veste di penitente – dinanzi al corpo della Santa e, poi, l’ultimo giorno, prima di ripartire, le strappò con i denti il dito con l’anello – simbolo dello sposalizio di S.Caterina con Gesù Cristo – lo nascose sull’orecchio, tra i capelli, e lo portò con sé, facendolo, in seguito, custodire in prezioso reliquiario d’argento. Tornato nel Salento  ed in possesso delle proprie terre, Raimondello, ormai conte di Soleto e signore di Galatina, decise di costruire in terra galatinese questa chiesa, con l’annesso convento.

I lavori iniziati tra il 1383 ed il 1385 furono ultimati nel 1391, periodo durante il quale, peraltro, Raimondello convolando a nozze, nel 1385, con Maria d’Enghien, divenne anche conte di Lecce.

Ben poco sappiamo dell’originario impianto della struttura religiosa; infatti, l’iscrizione greca sull’architrave del portale minore destro e la presenza dell’abside semicircolare nella navatella destra hanno suscitato non poche perplessità in alcuni studiosi che hanno ipotizzato, più che la costruzione ab imis ed ex novo del tempio, la riorganizzazione di uno spazio preesistente condizionante l’asimmetria della pianta e l’icnografia dei due ambulacri.

Non confutando alcuna tesi ma, mutuando  le opinioni espresse da non pochi studiosi riteniamo che, fin dalla prima redazione, l’edificio doveva avere una pianta a sistema centrale (croce greca) che, nel tempo, fu trasformata in sistema longitudinale (croce latina commissa) . In seguito, l’ampliamento della struttura sacra fu caratterizzato dalle tre navate e dai due ambulacri e, in epoca rinascimentale, dalla costruzione del coro ottagonale, poiché Giovanni Antonio, figlio di Raimondello e Maria d’Enghien,

la navata maggiore di S. Cataerina in Galatina, disegno colorato di Cavoti

 

Questo tempio, in stile romanico – gotico, è uno degli edifici che esprime la versatilità con cui l’arte è riuscita a conciliare esperienze artistiche diverse. Il carattere composito dell’architettura in cui si associano, con felice ibridismo, motivi orientali ed occidentali, si sintetizza sulle pagine murarie esterne ed interne, sui nodi strutturali, sulle pareti che, come schermi, rendono immagini coinvolgenti il fruitore nella dimensione spazio – temporale della visione storico – biblico – teologica rappresentata. Per la religiosità dell’impianto, movente principale del ritmo delle membrature architettoniche, dei significativi complementi plastico – figurativi e della palpitante decorazione interna, la sacra costruzione è una forma di verità che arricchisce lo spirito della collettività galatinese identificantesi in essa.

Il conte Raimondello non si contentò di costruire la chiesa dedicandola alla Vergine sinaitica perché “all’incontro vi erano non pochi altri latini, che la greca lingua ignoravano” ma, la dotò, si presume, anche di parte dell’odierno arredo sacro e di reliquie di martiri e santi.  Dei sacri resti che Raimondello portò dall’Oriente parlano ripetutamente i documenti e la letteratura locale ma, è indiscutibile, che le testimonianze soccorrono relativamente in tal senso mentre, gli scritti degli studiosi risultano più incentrati sulla descrizione delle vicende storiche, politiche, sociali ed estetiche della basilica cateriniana che sulla valenza storico – religiosa ed artistica del suo tesoro.

Da quanto è dato intendere la testimonianza più completa rimane la  Nota delle Reliquie che, nel 1536, p. Pasquale da Presicce compilò; inventario che, dopo il 1597, fu ricopiato ed aggiornato dai Padri Riformati. La testimonianza di p. Pasquale da Presicce è fondamentale per comprendere che il tesoro della chiesa di S. Caterina era cospicuo; oggi, invece, è il ricordo del tesoro, più che il tesoro stesso, a sopravvivere. Infatti, perdite, ruberie, trafugamenti, manomissioni sembrano aver ridotto il tesoro basilicale ad un numero esiguo di manufatti. Il Superiore parroco p. Berardo Antico, dell’Ordine dei Frati Minori Francescani, compilò, nel 1982, l’inventario del tesoro cateriniano, descrivendo la consistenza anche relativamente ai sacri resti dei quali, a tutt’oggi, ventidue presentano il sigillo in ceralacca e sono corredati da lettera di autentica degli Arcivescovi di Otranto, Mons. Carmelo Patanè e Mons. Cornelio Sebastiano Cuccarollo, attestanti il tipo di reliquia e il materiale della teca che li custodisce; mentre, gli altri sono conservati in semplici teche, in due reliquiari d’argento ed in una croce reliquiario.

Nonostante la frammentarietà delle notizie e l’obiettiva difficoltà di cogliere un continum tra memorie passate ed annotazioni recenti, si vuole ribadire che, tutti i fatti occorsi nel Casalis sancti Petri in Galatina, tra Medioevo e Rinascimento, risalgono all’iniziativa della famiglia dei del Balzo Orsini, il cui programma foriero di interessi ed emulato dai successori, si completò anche con la donazione di argenti preziosi, di tavole finemente mosaicate e dipinte, di opere pregevoli[1].

Numerose reliquie, alcune icone e diversi oggetti d’arte, custoditi ancora oggi nel museo della basilica cateriniana costituiscono sicuramente “il nucleo, forse più antico” del tesoro della chiesa galatinese.

Prima di Raimondello del Balzo Orsini, non si hanno notizie del tesoro cateriniano; presumibilmente, quindi, chi provvide a dotare la chiesa di manufatti con i quali si magnificava il culto eucaristico rispecchiando lo sfarzo della corte regnante, fu l’Orsini, uomo di grande valore e mecenate di singolare intuito. Ai suoi talenti giovarono i legami con i papi Urbano VI Prignano e Bonifacio IX Tomacelli; con i re Luigi I e Luigi II d’Angiò e Ladislao di Durazzo, con il despota di Morea e con l’imperatore Paleologo. Da questi ultimi, Raimondello ricevette in dono numerose reliquie che si preoccupò di custodire  in preziosi reliquiari per donarli, come donò, al votivo monumento da lui edificato.

tesoro della chiesa di S. Caterina in Galatina (ph O. Ferriero)

 

La relatio tra donazione delle  reliquie e committenza dei reliquiari induce ad ulteriori precisazioni: diversi reliquiari furono portati direttamente dall’Oriente, poichè l’asporto di reliquie dai Luoghi Santi, complete di custodie, fu carattere distintivo del Medioevo. Si annoverano tra queste ultime la Croce reliquiario, non tanto per la valenza artistica, quanto per quella religiosa e sociale perché, come riportato dal compilatore della Nota delle Reliquie essa era “piena di reliquie di tutti i luoghi di Gerusalemme” ed il Cofanetto, che custodiva, in origine, diversi sacri resti di martiri e santi, simile per sagoma a quello, in avorio e bronzo, del tesoro della cattedrale di Troia ed a quello della chiesa conventuale di S. Maria di Zara, in Dalmazia.

E’ da aggiungere che risulta estremamente difficile, se non impossibile, per mancanza di documentazione storica probante, individuare, in maniera semiologica, tutte le peculiarità del tesoro cateriniano; tuttavia, connotazioni specifiche presenti su alcuni manufatti inducono ad ipotizzare che i magistri operarono in stretto rapporto con i committenti anche perché l’attività orafa della cerchia del principe, in genere, è da inquadrarsi nel vasto repertorio della committenza cortese.

Il tesoro, un tempo custodito nella lipsanoteca della basilica, allogata in sagrestia, dal 22 dicembre 2003,  è stato esposto nell’ex – refettorio del convento trecentesco, l’unico ambiente preservato dalla distruzione dai frati Riformati (1597) quando, nel 1657, questi decisero di abbattere la deteriorata casa religiosa propter sui vetustatem, proximamque ruinam minantem, per costruire una dimora più grande.

In questa grande aula rettangolare, caratterizzata dall’affresco dell’Ultima Cena, dipinto sulla porta d’ingresso al salone e da quello delle Nozze di Cana che lo fronteggia, dalla volta decorata con motivi geometrici, in nero su bianco, e dal fregio pittorico con motivi antropomorfi, zoomorfi e fitomorfi, sono stati esposti i numerosi manufatti, in appositi contenitori.

Realizzati in materiali preziosi oro, argento, argento dorato, pietre preziose, oppure semplicemente ricavati da materiali poveri come il legno, questi prodotti sapientemente sbalzati, cesellati, incisi, rappresentano la fede di coloro che, operando in tal senso, contribuirono alla formazione delle coscienze religiose.

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°3.

[13] Nel tesoro di S. Caterina in Galatina si annoverano i seguenti reliquiari: del dito di S. Caterina, della mammella di S. Agata, del braccio di S. Petronilla, della costola di S. Biagio, delle dita di San Giovanni Crisostomo, del dito di San Pantaleone, della pelle di San Bartolomeo, di un osso di San Bonaventura, di un osso di San Cristoforo, del dente di Sant’Apollonia, dei denti di San Donato e S. Lucia e dei resti di San Lorenzo, S. Stefano, San Lino, S. Onorato, S. Cecilia, S. Onorato, di S. Anfrea e  di un frammento della colonna della flagellazione di Gesù Cristo, di una spina della corona di Gesù Cristo e di altri martiri. Inoltre sono custoditi: il micromosaico del Cristo Pantocratore, il rilievo della Vergine col Bambino, l’icona della Vergine Gljkophilousa, il calice e la pace donati anche da Raimondello e l’ostensorio del XV secolo donato da Giovanni Antonio del Balzo Orsini, la croce reliquiario ed il cofanetto. Per una descrizione dei reliquiari e delle opere si veda: D. Specchia, Il tesoro. Problematiche storiche religiose artistiche, Galatina 2001.

La chiesa dei Battenti in Galatina

di Domenica Specchia  – foto di Oronzo Ferriero

Un recente restauro ha interessato la chiesetta dedicata alla Vergine della Misericordia di Galatina – comunemente nota come chiesa dei Battenti – poiché il tempo, gli agenti atmosferici e l’incuria dell’uomo l’avevano destinata, ingiustamente, all’oblio. Ubicata nella circoscrizione territoriale della Parrocchia di S. Caterina d’Alessandria dell’Archidiocesi di Otranto, tale struttura religiosa che, nei secoli, ha subito ampliamenti e rimaneggiamenti, fu sede del Pio Sodalizio dei Battenti come attestato nelle Visite Pastorali.

Tuttavia, risalire alla data precisa che vide operante questa confraternita sul feudo del casale di S. Pietro in Galatina risulta impervio poiché i primi documenti disponibili di questa “scuola” risalgono al Cinquecento e, peraltro, non consentono di definire l’anno della sua nascita. Di contro, possono essere di ausilio gli affreschi della monumentale chiesa di S. Caterina d’Alessandria.

Leggendo questo compendio da biblia pauperum si è catturati dalle diverse figure le quali, come acquisito da autorevoli studiosi, possono rappresentare, nello scenario, i possibili committenti dei cicli pittorici e gli autorevoli personaggi della vita sociale e religiosa galatinese del Quattrocento. Tra questi si osservano anche i seguaci dei Flagellanti, cioè coloro che tormentavano il proprio corpo, a sangue, con i battenti e che furono in loco i rappresentanti della relativa Confraternita.

Considerando ancora che gli affreschi della chiesa dedicata alla santa sinaitica furono eseguiti, come asserito dalla studiosa Matteucci, tra il 1419 ed il 1435, si presume che già a tale data la confraternita dei Battenti svolgesse, a livello locale, la sua missione, attestata poi dal 1567, nella chiesa dedicata alla Vergine della Misericordia.

Le due epigrafi:

Ianua constructa est christicolorum suffragiis prioratum gerente Francisco Imbino et Michino Papadia Pompeio Stasi oeconomi coeteris 9 Piis confratribus e Frater qui adiuvatur a fratre quasi civitas et uidicia quasi vectes confraternitatum 1579, incise sull’architrave dell’unico portale di accesso alla chiesa – acquisite ormai alla memoria storica della città – rivelano che questo tempietto della SS. Trinità o della Misericordia fu la sede del pio sodalizio laicale dei Battenti che, con le altre confraternite del tempo – Annunziata e S. Giovanni – arruolò la popolazione del Casale di S. Pietro in Galatina in spiritualibus.

Entrambe le epigrafi però tacciono il nome dell’artefice di questa piccola costruzione occupante il lato sinistro della viuzza Marcantonio Zimara che sbocca sull’attuale piazzetta Carlo Galluccio alla quale, la modesta struttura ecclesiale offre la glabra pagina muraria della fiancata destra, frammentata, nella monotona vista dell’intonaco, dall’unica sobria monofora.

L’asimmetrica architettura rimane caratterizzata, sul lato nord, da alcuni ambienti, a pian terreno, adibiti a sagrestia, voltati nella copertura, semplici e severi nell’essenzialità delle forme celate dallo stretto vicoletto, dove restano rinserrati ed occultati alla vista del comune passante. La facciata monofastigiata, prospiciente la strada, offre al visitatore, nella condizionata veduta laterale, membrature architettoniche sapientemente lavorate nella fulva e lionata pietra leccese. Sulla piatta e limpida cortina muraria risaltano le semplici e squadrate finestre gemelle dell’ordine superiore e le centinate nicchie di quello inferiore simmetriche, peraltro, nell’armoniosa epidermide compatta, rispetto al portale della chiesa sul cui asse, l’architrave della finestra centrale ostenta l’iscrizione: «Lodato sempre sia il nome di Gesu’ (sic) e di Maria (1601)» (?).

La concisa essenzialità ornamentale definisce lo pseudo protiro, qualificandolo, nei delfini – simbolo  di Terra d’Otranto – scolpiti sugli alti plinti. Su questi,  le due pseudocolonne corinzie si ergono con il fusto decorato, in basso, con motivi floreali al di là dei quali le scanalature confluiscono nelle foglie di acanto dei capitelli ornati da mascheroni antropomorfi, costituenti la base di dadi di tipologia brunelleschiana. Al centro dell’alta trabeazione, tra foglie intrecciate, Giona profeta, simbolo della morte e resurrezione di Cristo, domina lo spazio scultoreo che rimane chiuso, da una centina – ponderatamente ornata da teste di cherubini – entro la quale la figura centrale della Vergine della Misericordia accoglie benevolmente, nel suo manto aperto, dai lembi ricurvi  sostenuti da due putti, i confratelli sodali inginocchiati dinanzi a Lei.

Risalire al nome dell’artefice di questa apollinea pannellatura plastica è difficile; tuttavia, in difetto di documentazione probante e, confortati nell’analisi comparativa  dalla presenza di altra analoghe ornamentazioni come quelle del Duomo in Minervino (1573), del portale di S. Giovanni Elemosiniere a Morciano, di S. Domenico di Nardò, del chiostro del convento dei domenicani a Muro Leccese (1583), del portale di S. Chiara a Copertino (1585),  della Immacolata in Nardò (1580 o 1590), dell’Incoronata in Nardò (1599), del campanile di Copertino (1588-1603), della chiesa della Rosa in Nardò, della parrocchiale di Leverano (1603), di S. Angelo in Tricase, di S. Caterina Novella (oggi S. Biagio) in Galatina, possiamo avanzare l’ipotesi  di vedere riflesso, in questo artifizio plastico, la maniera neretina di Giovan Maria Tarantino, operoso tra il 1576 ed il 1624.

Galatina, chiesa dei Battenti, particolare (ph O. Ferriero)

Nella lunga elencazione delle opere da lui realizzate, probabilmente, può annoverarsi anche la facciata della chiesa galatinese che, a nostro avviso, potrebbe essere stata realizzata dopo la chiesa di S. Giovanni Elemosiniere a Morciano e prima delle chiese dell’Immacolata e di S. Domenico a Nardò.

La trentennale attività svolta dal Tarantino nel basso Salento per la committenza religiosa, pubblica e privata è fondamentale al fine di comprendere il suo modus operandi che, peraltro, risulterebbe vicino a quello dell’architetto leccese Gabriele Riccardi.

Il ritmo plastico-geometrico delle strutture progettate da questi protagonisti dell’arte salentina  locale costituisce il comune denominatore riscontrabile nelle absidi di alcuni edifici religiosi e rimane un gioco architettonico di superfici curve e rette qualificante le diverse soluzioni progettuali riscontrate in non poche chiese a firma dell’uno o dell’altro architetto in discorso.

La fierezza del prospetto prosegue, senza scarti, all’interno dove, la grande aula, consta di due spazi: uno, riservato ai fedeli e l’altro, destinato al clero. Una ringhiera in ghisa segna il limite tra le due zone, sottolineate, peraltro, dai differenti livelli del piano pavimentale. Lo spazio, dove i fedeli si raccolgono in preghiera, rimane caratterizzato, sulla parete sinistra, dall’ambone, in asse con una delle due finestre che illuminano il vano trapezoidale trasformato poi in rettangolare, per la costruzione della cantoria, in corrispondenza della controffacciata dove, peraltro, rimane allogato l’organo. Le nude pareti segnate, nella parte alta, a circa 240 cm dal pavimento, da una cornice di stucco, che corre  lungo tutto il perimetro della chiesa fino al presbiterio, risultano impreziosite da tele incorniciate entro modanature dalle sinuose forme protobarocche. La zona absidale, semi esagonale, rimaneggiata nel XVII secolo – come documentano le Sante Visite – rimane definita da un grandioso arco a tutto sesto decorato con motivi floreali, con angeli dorati, razionalmente disposti e qualificata dall’epigrafe: Pura pudica pia miseris miserere Maria.

Galatina, particolare della chiesa dei Battenti (ph O. Ferriero)

Anche in questa chiesa galatinese è evidente la lezione riccardesca che il Tarantino probabilmente ricevette dall’anziano architetto leccese durante la messa in opera del Duomo di Minervino, nel 1573. D’altronde, il repertorio dell’architetto neretino fu il risultato di una ricerca continua nell’humus della ricca e peculiare tradizione artistica salentina. Al centro della zona absidale, al di sopra dell’altare maggiore, un tempietto, in stile classico, destinato a contenere la statua lignea della Vergine in preghiera, rimane definito da più piani aggettanti e da due colonnine corinzie in asse con le quali, al secondo piano, due lesene lignee dorate, dello stesso ordine e con motivi floreali, inquadrano una tela, in asse con la sottostante statua della Vergine della Misericordia.

Altri due altari, antistanti la zona presbiteriale, completano questo piccolo spazio religioso: a sinistra, quello della SS. Trinità con la relativa tela, d’impostazione masaccesca, presenta in basso, ad ulteriore conferma del significato iconologico che nell’insieme comunica, un triangolo equilatero alludente a Dio, Uno e Trino, ed alla perfezione assoluta.

Questo altare, donato dai Confratres D. aem ae Miser. Un iubileum 1633, officiato dagli affiliati all’omonimo pio sodalizio laicale, fu restaurato sotto il priorato di Didaco Tanza. A destra la tela, che correda la mensa dedicata al SS. Crocifisso, rappresenta Maria e S. Giovanni, in piedi; ai  lati della croce, in basso, i simboli della passione di Gesù; in alto, angeli che completano la struttura compositiva dell’opera le cui linee – forza, verticali, accompagnano l’occhio del fruitore verso l’alto, inducendolo ad estraniarsi momentaneamente dalla realtà ed a proiettarsi lentamente in una dimensione soprannaturale. In questo sacro vano le quattro grandi tele della Natività, Adorazione dei Magi, Purificazione di Maria con la presentazione di Gesù al tempio, Disputa tra i dottori e quelle relative alla vita mariana Presentazione di Maria, Lo sposalizio della Vergine, Presentazione di Gesù, Assunzione in cielo, Annunciazione, Immacolata, che arricchiscono le pareti laterali, invitano il fedele al raccoglimento e alla preghiera.

La trascendenza dalla realtà si concretizza quando l’occhio del fruitore si ferma a contemplare il dipinto del contro soffitto che, in un grande ovale, presenta La Vergine in gloria e Santi, virtuosismo pittorico del famoso decoratore latianese, Agesilao Flora (1863-1952) realizzato nel 1897. Nello spazio aperto del cielo le numerose figure di serafini si muovono intorno alla Vergine seduta su un ammasso di nuvole mentre un angelo incensa il singolare evento. L’ardito scorcio prospettico della balaustra a giorno, dove Santi inneggiano lodi alla Vergine, contribuisce al prolungamento dello spazio fisico. Le architetture ed i corpi si rarefanno progressivamente assumendo via via una consistenza materica non dissimile da quella delle nuvole. La luce assoluta e radiante determina un effetto suggestivo che sollecita l’ammirazione del fedele  verso la volontà divina che compie il miracolo.

Nella trepida attesa della riapertura ufficiale alla collettività forsan et haec meminisse juvabit poiché la chiesa dei Battenti rimane, per la città di Galatina, una delle opere più interessanti tra quelle protobarocche presenti sul territorio salentino fondamentale per ricostruire la trama della sua storia nella quale i cittadini, a tutt’oggi, si riconoscono e si identificano.

 

pubblicato integralmente su Spicilegia Sallentina n°5.

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